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Strumenti di misura dello stress in ambito organizzativo

Strumenti di misura dello stress in ambito organizzativo

Ogni individuo gestirà la situazione stressante tramite i propri tratti di personalità e le diverse strategie di risposta apprese. Dipenderà proprio da tali strategie (stili di coping) e da tali tratti di personalità, la misura in cui gli effetti psichici e somatici dello stress si manifesteranno in una “malattia da stress” (Nardella e colleghi, 2007).

Il modello elaborato da Karasek (1979) asserisce che la relazione tra elevata domanda lavorativa (job demand) e bassa libertà decisionale (decision latitude) possa contribuire all’emergere di una condizione di “job strain” o “perceived job stress” (stress lavorativo percepito). Il modello demand-control postula che le due principali variabili, domanda e controllo, siano tra loro indipendenti (Magnavita, 2008). Mediante un sistema di assi cartesiani i risultati del questionario consentono di suddividere la popolazione in quattro quadranti: lavoratori con alto strain lavorativo percepito (alto punteggio di demand, basso di control); attivi (alta domanda, ma alto controllo); passivi (bassa domanda,basso controllo); lavoratori con basso strain (bassa domanda, alto controllo); solo il primo gruppo di lavoratori è potenzialmente stressato (Magnavita, 2008). Le domande del Job Content Questionnaire (JCQ) prevedono una risposta graduata secondo una scala Likert a quattro gradi; la scala “demand” si riferisce all’impegno lavorativo richiesto: i ritmi, il carico di lavoro, la coerenza delle richieste (Magnavita, 2008). In un articolo di Magnavita (2008) pubblicato sul giornale Italiano di medicina del lavoro ed ergonomia viene riportato che la scala “control”, secondo le linee guida di Karasek, può essere distinta in due costrutti fondamentali: la skill discretion e la decision authority. Il primo concetto si riferisce alla professionalità; il secondo alla capacità di programmare e organizzare il lavoro (Magnavita, 2008). Il modello si è arricchito in seguito alla constatazione che il sostegno sociale sul luogo di lavoro è un potente fattore moderatore dello stress; è stata quindi aggiunta una terza variabile, il sostegno sociale (Magnavita, 2008). Il questionario di Karasek esiste in formulazioni originali di diversa lunghezza (Magnavita, 2008). In Italia le diverse traduzioni della versione estesa formata da 49 domande, sono state utilizzate da diversi ricercatori, tra cui Baldasseroni e colleghi (1998), Cesana e collaboratori (1996), Ferrario et al. (2003; 1993), Camerino et al. (1999), sono state unificate nell’ambito di un progetto dell’Ispesl (Magnavita, 2008). Nella letteratura internazionale sono state utilizzate estensioni ridotte della forma originale del questionario; un esempio potrebbe essere una versione in 22 item, con 5 Demand, 6 Control e 11 Social Support, che è stata usata in una indagine sui medici cinesi (Magnavita, 2008).   

Ritornando al Job Content Questionnaire (JCQ) (Karasek, 1985), quest’ultimo prende in esame il controllo, cioè la libertà decisionale che a sua volta è divisa in skill discretion (relativa alle caratteristiche della mansione), decision authority (il potere decisionale) ed in work place social support o social network, ovvero il supporto sociale da parte dei colleghi; la richiesta lavorativa in relazione ai ritmi di lavoro, al carico di lavoro, alla coerenza delle richieste. Il JCQ presenta varie versioni tradotte in diverse lingue (Magnavita, 2008). Per quanto riguarda il contesto italiano si propone la versione tradotta e adattata nel 2001 dall’ISPESL (Deitinger e colleghi, 2009; Baldasseroni e colleghi, 2001). La validazione è stata fatta su 2174 lavoratori provenienti da 30 aziende di industria e del settore terziario; gli item totali dello strumento sono 49; il tempo di somministrazione è di circa venti minuti (Deitinger e colleghi, 2009; Baldasseroni e colleghi, 2001).

Un altro strumento di misura dello stress che si basa sul modello teorico dello stesso autore, è formato da tre scale psicometriche: l’effort o impiego lavorativo, le reward o ricompense, l’overcommitment o eccessivo impegno. La versione breve di tale strumento consta di 23 item: 6 per la prima scala, 11 per la seconda ed infine 6 per la terza (Siegrist, 1996). Questo strumento utilizza la scala Likert (Siegrist,1996). Sono state diverse le traduzioni in altre lingue, come vari sono stati i tentativi di combinarlo con lo strumento di Karasek mediante analisi fattoriale e regressione logistica; tuttavia, tale tentativo non ha portato i risultati sperati (Magnavita, 2008). Per quanto riguarda la versione italiana si presenta una validazione compiuta su 531 soggetti del settore sanitario. Di questo adattamento esiste una versione breve di 23 item ed una lunga di 46 ed il tempo di somministrazione è, all’incirca, di 20 minuti (Deitinger e colleghi, 2009).

Numerosi studi hanno indagato le relazioni tra soddisfazione professionale e stato di salute, confermando l’esistenza di una stretta relazione. Una recente meta-analisi di 485 studi con una popolazione combinata di oltre 250.000 soggetti ha dimostrato che la soddisfazione è significativamente associata, in modo inverso, con il burnout, ma anche con la perdita di autostima, con la depressione e l’ansia;minore risulta l’associazione con i sintomi fisici (Faragher et al., 2005). La soddisfazione dunque esplica un effetto mediatore dello stress professionale sulla salute (Magnavita, 2008). La soddisfazione professionale è stata indagata dagli psicologi clinici fin dagli anni ’30 con diversi metodi, basati su una singola domanda, ma spesso più su un aggregato di più domande (Magnavita, 2008). Magnavita (2008) nel suo articolo asserisce che i numerosi questionari proposti negli anni tendevano a contenere domande ridondanti e parzialmente sovrapponibili, erano spesso lunghi e complessi, tendevano a confondere giudizi descrittivi e valutativi (Warr e Wall, 1979); per ovviare a tali carenze il gruppo di Warr ha elaborato il JSS, che si è rapidamente imposto come lo strumento più affidabile per misurare la soddisfazione da lavoro. Si tratta di una scala composta da 15 domande, più una complessiva che tiene conto di tutti i fattori citati precedentemente (Magnavita, 2008). A ciascuna domanda si risponde tramite una scala Likert in 7 punti, da “estremamente insoddisfatto” (=1) ad “estremamente soddisfatto” (=7). La soddisfazione viene misurata da un’unica scala, costituita dalla somma dei punteggi delle domande (Magnavita, 2008). Mediante analisi fattoriale è stato dimostrato che la scala è sufficientemente omogenea, anche se è possibile riconoscere due sub-scale corrispondenti, rispettivamente: la soddisfazione professionale intrinseca è data dalla somma delle domande pari, la soddisfazione estrinseca corrisponde alla somma delle domande dispari (Magnavita, 2008). È possibile raggruppare le risposte anche secondo altri cluster (Warr e Wall, 1979). La versione italiana della Job Satisfaction Scale (JSS) conferma la struttura unitaria della versione originale inglese e la possibilità di suddividere i punteggi in diverse subscale (Magnavita et al., 2007). Nelle ricerche condotte su lavoratori autonomi il questionario è stato impiegato in una forma abbreviata in 10 domande, escludendo i quesiti riguardanti la soddisfazione nei rapporti con i superiori o il management (Chambers et al., 1996; Cooper et al., 1989; Dowell et al., 2001; Grant et al.,2004; Ulmer et al.,2002.). Il punteggio ricavato dalla somma delle domande del JSS viene generalmente usato come una variabile continua, oppure dicotomizzato alla mediana (Magnavita, 2008). La domanda finale riassuntiva è stata talora impiegata da sola, come espressione della globale soddisfazione tratta dal lavoro (Magnavita, 2008). Questa domanda consente di dividere i lavoratori in due gruppi: quelli soddisfatti del lavoro (risposte da “moderatamente soddisfatto” a “estremamente soddisfatto”) e quelli insoddisfatti (risposte da “estremamente insoddisfatto” a “moderatamente insoddisfatto”) (Magnavita, 2008). Tra i numerosi strumenti impiegati per misurare la soddisfazione professionale in specifiche categorie di lavoratori, ricordiamo l’Indice di Soddisfazione di Stamps (Stamps, 1997), una scala composta da 44 domande nel cui ambito è possibile riconoscere diverse subscale (Magnavita, 2008). Il questionario è stato recentemente tradotto da Cortese (2007) ed applicato nello studio del personale infermieristico. Rispetto al JSS questo strumento è dotato di maggiore specificità, anche se è certamente più indaginoso (Magnavita, 2008). Un altro strumento per la valutazione della soddisfazione, in lingua italiana, composto da 22 domande, è stato elaborato da Gigantesco et al. (2003) e applicato con modificazioni da Tabolli et al. (2006).

Generalmente a questi strumenti si affiancano altri dispositivi di valutazione inerenti all’analisi del contesto organizzativo.


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Le considerazioni della letteratura sulle misure del burnout

Le considerazioni della letteratura sulle misure del burnout

 

Rassegna metodologica sugli strumenti di previsione e valutazione del burnout

“Uno dei principali obiettivi di ricerca è stato quello di mettere a punto uno strumento standardizzato, specificatamente indirizzato all’identificazione del burnout.” (Stefanile,1998)

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Le considerazioni della letteratura sulle misure del burnout

Prima di iniziare il paragrafo, è bene premettere che parallelamente all’argomentazione letteraria sui modelli di ricerca per la valutazione del burnout, è stato ritenuto opportuno rivisitare brevemente i diversi modi di rilevazione dei dati in psicologia. Nella valutazione del rischio stress lavoro correlato, come in altri tipi di valutazione, si possono utilizzare due tipi di misura: la misura oggettiva e la misura soggettiva. Le misure oggettive racchiudono tutti quegli strumenti che vanno ad investigare aspetti del contenuto e del contesto del lavoro attraverso dati di archivio, check-list o qualsiasi altro strumento che non utilizzi la percezione soggettiva come veicolo informativo rispetto l’indagine. Mentre, le misure soggettive utilizzano il coinvolgimento diretto o indiretto dei lavoratori nell’esprimere una valutazione sulla qualità della loro situazione lavorativa (CNOP, 2013). Oggi nella letteratura internazionale, la valutazione di questo costrutto avviene attraverso un approccio multi-metodo dove vengono presi in considerazione entrambi i tipi di misura oggettivo e soggettivo (Cox e colleghi, 2000; CNOP, 2013).

In questo processo di valutazione vengono utilizzati principalmente strumenti come i metodi osservativi e le check-list, le interviste, i focus group e i questionari (CNOP,2013).

I metodi osservativi permettono di osservare, registrare, descrivere, trascrivere e codificare il comportamento umano o l’interazione sociale che si realizza tra le persone (Pedon e Gnisci,2004). L’osservazione può essere messa in atto nel momento in cui si realizza il comportamento osservato (live) oppure in un momento diverso grazie ai sistemi di audio o video-registrazione, analogici e digitali, che la tecnologia mette a disposizione (osservazione differita) (Pedon e Gnisci,2004). L’osservazione è un metodo di conoscenza della realtà esterna all’individuo che può acquisire un carattere scientifico a condizione che chi osserva non influenzi troppo l’oggetto da descrivere e che si creino le condizioni affinché le caratteristiche dei fenomeni siano rappresentabili allo stesso modo da più osservatori (CNOP, 2013). Ad essa si collegano le check-list ossia sono degli strumenti che forniscono delle linee guida concrete su cosa osservare e registrare nel contesto lavorativo (CNOP, 2013). Questo strumento si può suddividere in check-list di controllo o check-list comportamentali: le prime fanno riferimento ad un elenco dettagliato ed esauriente di cose che i lavoratori devono fare o eseguire per svolgere una determinata attività o compito; la seconda è un elenco di comportamenti pre-selezionati di cui si vuole verificare la presenza o misurare la frequenza o la durata (CNOP, 2013).

Un esempio di metodologia osservativa, che analizza lo stress lavoro correlato tramite l’osservazione, è la RHIA/VERA (Leitner e Resch, 2005). Essa descrive e valuta i fattori di stress che incidono sulla salute, considerando: le barriere nel lavoro, le condizioni di lavoro monotono, la pressione temporale, i fattori ambientali negativi, i limiti temporali e i limiti delle necessità fisiche (Leitner e Resch, 2005). 

Un altro esempio di check-list relativa allo stress nell’organizzazione, è la SUVAPRO di Delaunois, Malchaire e Piette del 2002, basata sull’analisi degli stressors, delle procedure volte a combatterlo e dei sintomi ad esso associati. È formata da tre documenti: un documento per i dirigenti con domande su incidenti, assenze, sicurezza sul lavoro; un documento per i gruppi di lavoro in cui si richiede l’identificazione dello stress, le misure per la sua prevenzione e il miglioramento delle condizioni lavorative; un documento per gli individui dove vengono illustrati 5 casi in tema, ricerca di indici di stress e possibili interventi preventivi (Delaunois et al.,2002). 

Un ulteriore esempio di check-list di controllo è quella presentata nel manuale INAIL per valutare in modo preliminare il rischio stress lavoro-correlato. Questa check-list presenta una lista di eventi sentinella, una del contenuto del lavoro ed un’altra del contesto del lavoro. Ad ogni indicatore è associato un punteggio che concorre al punteggio complessivo della lista. I punteggi delle tre liste vengono sommati, tale somma permette d’identificare il posizionamento dell’azienda in una tabella dei livelli di rischio (INAIL, 2011).

L’intervista invece è una tecnica di raccolta dei dati psicologici costituita da un’interazione verbale col soggetto, in cui l’aspetto fondamentale sono le domande che l’intervistatore fa e le risposte che ottiene (Pedon e Gnisci,2004). Si parla di intervista non strutturata o qualitativa quando il ricercatore non ha predeterminato ciò che dell’intervista deve essere codificato; solitamente le interviste che si fanno in studi esplorativi, le interviste pilota e quelle post-sperimentali sono di tipo qualitativo e hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo delle teorie e nella generazione delle ipotesi (Pedon e Gnisci,2004).  L’intervista strutturata prevede che il ricercatore ponga una serie di domande predisposte sia nel contenuto sia nell’ordine in maniera tale che la stessa forma venga ripetuta in modo pressoché identico per ciascun soggetto intervistato. Spesso anche le modalità di risposta sono predeterminate (Pedon e Gnisci,2004). Anche nell’intervista semi-strutturata la forma generale si ripete, ciò che può variare sono le domande, nel senso che il ricercatore ha la flessibilità di continuare a richiedere e a confermare le informazioni che si prefigge di ottenere e seguire il flusso della conversazione lasciando l’intervistato più libero. Esse quindi giacciono su un continuum che va dalla minima alla massima strutturazione delle domande.

Nello specifico, l’intervista, raccogliendo l’esperienza di un lavoratore alla volta, permette di avere chiare le circostanze organizzative dei fattori di rischio tramite domande create ad hoc per lo specifico contesto organizzativo (Conway et al., 2010). 

Relativamente al focus group, si ha a che fare con un’intervista collettiva, condotta da un moderatore al fine di raccogliere l’esperienza di più lavoratori (da i 6 ai 13) alla volta. Un aspetto interessante di questo strumento è l’effettivo carattere esplorativo e di approfondimento che affiora dalla comunicazione, ma anche il confronto tra gruppi di lavoratori (CNOP, 2013). Inoltre, agevola allo stesso tempo la partecipazione attiva nel percorso di valutazione e gestione del rischio occupazionale e, mediante il suo ripetersi, permette di valutare l’efficacia di eventuali iniziative poste in itinere per modificare i fattori di rischio (Argentero e Candura 2009; Romano et al., 2009).

Tra le misure di valutazione figura anche il questionario, uno strumento di raccolta dati che consiste in una serie di domande relative a informazioni oggettive (età, sesso, lavoro etc.) e a questioni riguardanti la personalità, gli atteggiamenti, le opinioni del rispondente (Pedon e Gnisci,2004). Possono essere composti da domande aperte, nelle quali il rispondente può fornire la risposta che vuole con le sue parole o domande chiuse in cui il rispondente deve scegliere una risposta tra un set di alternative offerte dal ricercatore, come nelle domande a risposta multipla (Pedon e Gnisci,2004). Le domande chiuse vengono dette dicotomiche quando prevedono due possibili risposte, tricotomiche quando prevedono tre possibili risposte (come il 16 PF di Cattell), a 5 punti o passi (o a 7 o a 11 e così via) se le risposte possibili sono 5. (Pedon e Gnisci,2004). A questo proposito la scala Likert è la scala più utilizzata in psicologia sia per la sua semplicità di costruzione sia per la possibilità di individuare attendibilità e validità come per tutti gli altri test (Pedon e Gnisci,2004). Si tratta di una serie di item in cui il rispondente deve dichiararsi d’accordo o in disaccordo, solitamente su una scala a 5 o a 7 punti. In aggiunta, si dovrebbe prestare attenzione al periodo di validazione del questionario, perché strumenti troppo datati non potrebbero tener conto dei cambiamenti, come nel caso nella sfera lavorativa, perdendo così le informazioni di possibili importanti variabili (Deitinger e colleghi, 2009). Infine, la traduzione per il contesto italiano di questionari stranieri, può portare all’esistenza di differenti versioni del medesimo strumento con conseguenti ripercussioni sulla confrontabilità dei risultati (Magnavita, 2008). 

Nell’ambito del burnout, Maslach insieme ai suoi colleghi (1996) ha ideato il Maslach Burnout Inventory, un questionario grazie al quale è stato possibile evidenziare che elevati punteggi di esaurimento emotivo, elevati punteggi di depersonalizzazione e bassi punteggi di realizzazione personale siano indicativi di rischio di burnout in campo professionale. Il Maslach Burnout Inventory è un questionario di 22 item, ognuno con 6 gradi di risposta su scala Likert in base al quale il soggetto deve valutare la frequenza e l’intensità con cui sperimenta sintomi, effetti, stati emotivi connessi con il suo lavoro. (Maslach e Jackson, 1981). Nel 1983 la Maslach fornì ad alcuni studiosi italiani una versione della scala. Per quanto riguarda tale versione italiana del MBI, Pedrabissi e Santinello (1988) hanno somministrato la scala a 119 infermieri. I dati sono stati sottoposti ad analisi fattoriale con rotazione ortogonale (Varimax). Quando per la scelta del numero dei fattori è stato usato il criterio degli autovalori maggiori di 1, sono stati ottenuti sei fattori per le risposte di frequenza (varianza spiegata: 61 %) e cinque fattori per le risposte di intensità (varianza spiegata: 58%). La difficile interpretabilità dei fattori estratti ha suggerito agli Autori (Pedrabissi e Santinello, 1988) di utilizzare il criterio dello scree test per la determinazione del numero (Sirigatti et al., 1988). Sono cosi risultati tre fattori per la frequenza (varianza spiegata: 44%) e tre fattori per l’intensità (varianza spiegata: 47%), che hanno permesso il confronto con i dati della Maslach (Sirigatti et al., 1988). Si sono, tuttavia, osservate alcune migrazioni di item, particolarmente tra «Esaurimento emotivo» e «Depersonalizzazione» (Sirigatti et al., 1988).

Anche Taddei (1988), in una ricerca con insegnanti di scuola elementare, ha ottenuto una struttura fattoriale molto dispersa (Sirigatti et al., 1988). I risultati sono apparsi scarsamente soddisfacenti, sia per la confrontabilità con quelli della Maslach, sia per la varianza spiegata piuttosto modesta (Sirigatti et al., 1988). Sulla base della versione preliminare italiana del MBI, fornita direttamente dalla Maslach, è stato dato inizio ad alcune indagini esplorative, volte in primo luogo a saggiare la validità di costrutto dello strumento (Sirigatti et al., 1988). 

Un ulteriore contributo allo studio di questo fenomeno è stato prodotto da Cherniss (1980), il quale ha definito il burnout come la reazione ad uno stato di insoddisfazione e tensione che ha inizio quando il soggetto crede che lo stress che sta sperimentando non possa essere ridotto mediante una soluzione attiva; questa convinzione genera la fuga psicologica dalla situazione stressante e l’allontanamento di ulteriori tensioni e disagi attraverso atteggiamenti di distacco e comportamenti di evitamento (Licciardello et al, 2004).

Nel panorama delle scienze sociali, la ricerca scientifica riporta interessanti dati raccolti su campioni di soggetti impiegati nelle professioni d’aiuto, relativi alla crescente relazione di tale sindrome con la “qualità percepita del clima relazionale” e la “rappresentazione del Sé lavorativo” (Licciardello et al, 2004).

In tal senso, appare importante anche il legame tra questi aspetti, considerati possibili predittori di burnout, ed il costrutto dell’adattamento interpersonale (Clarck e Toward,1990). Secondo quanto rilevato negli studi citati, l’individuo scarsamente ‘adattato’ presenta alti livelli di non-affermatività (dimensione tipica di soggetti socialmente incompetenti, aggressivi ed impulsivi nelle relazioni interpersonali) (De Caroli e Sagone, 2008). Prendendo in esame la recente riflessione di Borgogni e Consiglio (2005), il burnout presenta tali aspetti:

  • maggiore importanza agli aspetti emotivi rispetto a quelli fisici;
  • situazione cronicizzata nel tempo;
  • logoramento delle relazioni interpersonali come sintomo;
  • notevole peso delle aspettative e delle motivazioni elevate che caratterizzano le prime fasi della carriera lavorativa.

Nella scelta dello strumento da somministrare in sospetti di burnout, è opportuno pertanto tenere in considerazione questi importanti aspetti. Infatti, quando si intende indagare le cause che generano lo stress all’interno di un’organizzazione, una delle maggiori difficoltà consiste nell’avere a disposizione metodologie e strumentazioni attendibili ed efficaci. 

Dalla pubblicazione di Nardella e colleghi (2007), si evince che la letteratura sull’argomento sembra raggrupparsi in tre aree che possono essere riassunte come segue: 

  • Sviluppo di strumenti di misura dello stress individuale accreditati da modelli scientifici
  • Individuazione delle cause dello stress lavorativo/organizzativo con una metodologia d’indagine specifica
  • Sviluppo di un approccio multidimensionale per l’analisi del contesto organizzativo, che consente di individuare e definire lo stato di benessere dell’organizzazione: ne derivano strumenti il cui oggetto è l’individuazione di un ampio raggio di dimensioni lavorative e di fonti di pericolo per la salute dei lavoratori.

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Burnout: Variabili individuali fattori di rischio e di protezione

Variabili individuali: fattori di rischio e fattori di protezione

Solo negli ultimi anni, si è fatto strada l’interesse per le connessioni tra burnout e caratteristiche di personalità. Dai dati emersi e rapportati con la letteratura allo stato dell’arte, si può supporre che certe caratteristiche di personalità, come l’estroversione e il nevroticismo per Parkes (1986), o l’ansietà studiata da Richardsen et al (1992), costituiscano disposizioni abbastanza stabili in un individuo e, quindi, solo parzialmente influenzabili da esperienze specifiche della vita lavorativa. Si può altresì supporre che, almeno in una certa misura, il disagio psicofisico, la motivazione pro-sociale e l’ostilità presentino il tipo di stabilità ora descritto. In tal caso apparirebbe plausibile pensare che le caratteristiche di personalità ricordate – alle quali potrebbero esserne aggiunte altre come il Locus of Control o il Type A Pattern of Behavior – svolgano un ruolo significativo nel modulare le risposte emozionali e cognitive agli stress lavorativi. Lo squilibrio tra richieste e risorse risulterebbe esacerbato quando la motivazione pro-sociale è debole, la tensione e l’ansietà sono elevate, l’insicurezza è diffusa, la risposta depressiva è pronta (Sirigatti e Stefanile, 1993).

Pertanto variabili individuali caratterizzate da una bassa motivazione pro-sociale, elevati livelli di tensione ed ansietà, accompagnati da insicurezza potrebbero, in certe condizioni, creare un terreno fertile per l’instaurarsi dei sintomi tipici del burnout, proprio in virtù di inadeguate o assenti risorse interne, ed eventualmente esterne. Potrebbero così rappresentare dei fattori di rischio. Al contrario invece un’alta motivazione al lavoro induce nel lavoratore comportamenti desiderabili, quali efficienza, efficacia, puntualità, disponibilità verso i colleghi (Ferrari, 2014). Nell’articolo di Ferrari (2014) appare utile distinguere la motivazione che genericamente è il livello di impegno che una persona mette in ciò che fa: è quindi una spinta, una forza verso il proprio compito e/o verso la propria organizzazione. La motivazione si traduce in un comportamento manifesto: l’impegno nel proprio lavoro (lavorare di più, lavorare meglio). La soddisfazione è invece il livello a cui ad una persona piace il proprio lavoro (Spector, 1997), trattandosi pertanto di una reazione valutativa (positiva o negativa) verso un oggetto (in questo caso, il proprio lavoro) basata su sentimenti, comportamenti, cognizioni (Myers, 2009).

Dagli anni ’70 fino ad oggi, in merito alla motivazione sul lavoro, ha assunto sempre maggiore interesse un diverso approccio al tema della motivazione (Ferrari, 2014). La spinta motivazionale non deriverebbe da una carenza o da un desiderio, ma dalla necessità-volontà di raggiungere un risultato atteso, facendo così riferimento alla “tecnica del goal setting” (letteralmente“definizione degli obiettivi”), che riprende interamente il concetto di livello di aspirazione (Lewin, 1948) e lo fonde con alcuni elementi tayloristici (il sistema di premi e obiettivi), superandone però l’eccessiva frammentazione e favorendo l’iniziativa e l’autonomia dei singoli (Ferrari, 2014). Un goal o obiettivo, aggiunge Ferrari (2014) nel suo articolo, è ciò che un individuo sta cercando di raggiungere; esso presenta due attributi: contenuto e intensità; il contenuto è l’oggetto o il risultato che deve essere raggiunto, mentre l’intensità è legata all’importanza del goal, al grado di sforzo richiesto, al contesto nel quale viene assegnato.

La soddisfazione è un tema che ha catturato molto l’attenzione dei ricercatori, tanto da essere conosciuto come il “Sacro Graal” della ricerca scientifica sul management, tanto indagato quanto sfuggente nelle sue implicazioni (Wright, 2006). Per Locke (1975) la soddisfazione era “uno stato emotivo piacevole che deriva dal giudizio sul proprio lavoro o esperienza lavorativa”. Brief (1998) affermò che la soddisfazione fosse l’atteggiamento verso il proprio lavoro. Alla luce di ciò, Weiss (2002) propone un’ampia riflessione teorica con l’obiettivo di dimostrare come sia concettualmente corretto distinguere, in merito alla soddisfazione, tra valutazione del lavoro, credenze riguardo a esso ed esperienze emotive relative al lavoro stesso, tre costrutti distinti ma correlati con la soddisfazione. Per Brief (1998) gli antecedenti della soddisfazione lavorativa sono l’umore della persona oppure la caratteristica di personalità definita affettività negativa. Quest’ultima caratterizza le persone che più facilmente sperimentano insoddisfazione e stress negativo (distress), le persone introverse e che tendenzialmente si attribuiscono le cause dei loro insuccessi ed errori (Watson et al., 1986). In alternativa allo studio delle caratteristiche di personalità, si prendono in considerazione le caratteristiche del lavoro in sé come la possibilità di carriera, la retribuzione, la formazione e la coerenza tra competenze possedute e richieste dalla mansione (Ferrari, 2014). Un numero rilevante di ricerche (Herzberg, 1959; Argyle, 1987) da tempo ha indagato l’effetto delle caratteristiche del lavoro sulla soddisfazione, sebbene tale effetto sia mediato dalle caratteristiche personali del lavoratore e da aspetti istituzionali o sociali (Sousa-Poza e Sousa-Poza, 2002): in ogni caso, l’assunto fondamentale è che gli individui formulano un giudizio globale rispetto al lavoro nel suo complesso (Ferrari,2014).

Prendendo in esame altre variabili individuali inerenti al contesto lavorativo, Karasek (1979), nel suo modello, sostiene che la relazione tra elevata domanda lavorativa (job demand), bassa libertà decisionale (decision latitude) e inadeguato sostegno sociale sul luogo di lavoro (isolamento sociale) possa determinare una condizione di “job strain” (stress lavorativo percepito). 

Una variabile che potrebbe rivelarsi nociva o paradossalmente incentivante è costituita dal ruolo assunto all’interno del contesto lavorativo. La definizione di ruolo come viene definito da Galimberti (2002) è l’insieme delle norme e delle aspettative che convergono su un individuo in quanto occupa una determinata posizione in un sistema sociale. Il ruolo, per ciascun attore sociale, implica una serie di azioni specifiche e identificative: l’attività svolta (che cosa fare), la motivazione (perché, a quale fine), come l’attività viene svolta (metodi, strumenti, procedure) e con chi viene esercitata l’azione (colleghi, risorse umane). I ruoli che ciascun attore si trova ad agire in un contesto organizzativo si suddividono in ruoli prescritti e ruoli discrezionali. I primi si contraddistinguono nell’essere dettagliati e rigidi contribuendo al risultato organizzativo attraverso una sequenza di attività (o mansioni) prevedibili e ripetitive. Il risultato del ruolo prescritto è garantito dall’esecuzione delle attività, all’interno degli standard quantitativi e qualitativi definiti e dipende da sequenze precise di attività. I ruoli discrezionali invece richiedono flessibilità operativa per il perseguimento dei risultati, quindi si esprimono attraverso attività non rigidamente definibili e non ripetitive. Non sono definibili in termini di sequenze di attività, in quanto l’esecuzione delle stesse non garantisce da sola il conseguimento dei risultati attesi, anzi le stesse attività possono portare a esiti diversi o possono essere orientate in modo diverso in base agli obiettivi perseguiti. Il risultato dei ruoli discrezionali pertanto si misura nel raggiungimento di percorsi possibili di azione. È facile intuire come entrambe le tipologie di ruolo sottendono punti di forza e di debolezza per l’attore che li agisce. In particolare un ruolo prescritto può incorrere nel rischio di essere vissuto con ansia persecutoria, comportando una perdita di motivazione nel tempo a causa della rigidità e della ripetitività delle azioni che definiscono il ruolo stesso. Al contrario il rischio di un ruolo discrezionale è quello di essere vissuto con ansia abbandonica, generando un elevato stress dovuto al peso di responsabilità che esso comporta (Scotta, 2015).

Recentemente alcuni studiosi hanno collocato l’assertività tra i fattori personali facilitanti il work engagement (Schaufeli et al, 2012). L’assertività sembra contribuire all’accrescimento delle risorse personali e, insieme ad esse ed alle risorse lavorative appare in grado di prevenire forme di disagio, tra le quali rientra il burnout. Secondo questa formulazione la sindrome del burnout si colloca al polo opposto rispetto alla condizione di engagement lavorativo. Malgrado la considerazione di burnout e work engagement sia assimilabile, secondo alcuni teorici, ad opposti di uno stesso continuum, sembra esistere un importante legame tra essi che va tenuto in considerazione quando si studiano le variabili di tipo relazionale e comunicativo come l’assertività che possono produrre o prevenire disagio in ambito lavorativo (Cuccu et al, 2016).


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Stress

Burnout variabili contestuali: fattori di rischio e fattori di protezione

Variabili contestuali: fattori di rischio e fattori di protezione del burnout

Il burnout è stato associato ad alcuni aspetti dell’ambiente di lavoro: il sovraccarico lavorativo, il ruolo nella rete delle comunicazioni, la percentuale di tempo lavorativo dedicato all’utente, la complessità dei problemi affrontati, il conflitto di ruolo, la pressione esercitata dal lavoro, il sostegno da parte dei colleghi, nonché le possibilità di carriera.

Può essere utile, in termini di minacce al benessere organizzativo come il burnout, concentrarsi sullo studio delle varie forme di interazione tra i lavoratori e l’ambiente circostante. Si tratta di un’analisi sociale dello spazio, che parte dall’ipotesi che la rete lavorativa si rimette nella distribuzione dello spazio nel quale gli individui sono parti di un sistema in cui tutti i comportamenti dipendono dall’ambiente in cui hanno luogo (Maslach e Jackson, 1986).

Questo modello identifica due livelli di ambiente collegati ai comportamenti spaziali individuali: l’ambiente materiale (forma geometrica, definita in maniera obiettiva) e l’ambiente psicologico (senso di appropriazione, definito dalle proprietà qualitative) (Ricci, 2015).Gli studiosi che applicano questo approccio concepiscono lo spazio come un contesto oggettivo pre-percettivo che modella le attività, i comportamenti, che in esso si compiono. In sintesi, l’ambiente fornisce i fattori che stimolano o impediscono specifici comportamenti (Ricci, 2007).

Per tale ragione è auspicabile operare cambiamenti sull’ambiente lavorativo che comportino il benessere dei lavoratori, ma allo stesso tempo è necessario indagare anche le variabili individuali di ciascuna risorsa, variabili che potrebbero essere convergenti o al contrario divergenti con il focus aziendale e dunque controproducente per entrambi i versanti.

A tal riguardo è importante tirare in ballo il clima organizzativo che si instaura nel contesto lavorativo, in quanto potrebbe diventare un fattore di rischio, per certi versi, o un fattore di protezione per altri, tra i quali proprio il burnout.

Una recente rassegna quantitativa (Parker et al., 2003) ha considerato i risultati di 121 studi, rispetto a cui ne è stato evidenziato il ruolo predittivo significativo della percezione di clima organizzativo nella spiegazione di variabili come la motivazione, i livelli di performance ed il benessere psicologico.

La rassegna sottolinea l’esigenza di considerare in studi futuri il ruolo di variabili organizzative e individuali in grado di modulare la relazione tra il clima organizzativo e gli effetti lavorativi (Pisanti et al., 2006). Il clima organizzativo ha ricevuto una grande attenzione nella letteratura relativa alla psicologia delle organizzazioni. In uno dei primi testi classici della psicologia sociale organizzativa (Katz et al., 1966) vi era un riferimento al clima sociale dell’ambiente di lavoro, come ad esempio la percezione condivisa di specifiche dimensioni organizzative da parte del gruppo di lavoro, che veniva trasmessa ai nuovi membri tramite specifici processi di socializzazione lavorativa, ulteriormente corroborata dall’interazione tra il gruppo lavorativo e l’ambiente fisico e psicosociale (Pisanti et. al., 2006).

Il clima organizzativo è individuabile nell’insieme delle percezioni condivise dai lavoratori delle principali caratteristiche del posto di lavoro, come l’autonomia, il sostegno sociale, le caratteristiche dei compiti, etc. (James, 1982).

Queste percezioni rappresentano una mappa cognitiva dell’organizzazione con degli evidenti risvolti sul versante comportamentale ed emotivo (Schneider,1985; Schneider,1987). Argyris (1958) ne sviluppò anche un modello. In esso trovano spazio tre gruppi di variabili organizzative:

  • le politiche, le procedure e le posizioni formali nell’organizzazione;
  • i fattori personali che includono bisogni, valori e capacità individuali;
  • l’insieme delle variabili associate con gli sforzi degli individui per conciliare i propri fini con quelli dell’organizzazione.

Queste variabili nel loro complesso permettono di definire il comportamento organizzativo complessivo ovvero quel “livello di analisi discreto, risultante dall’interazione dei livelli di analisi individuale, formale, informale e culturale” (Argyris,1958). Il clima visto come un processo dinamico è un elemento di regolazione del sistema organizzativo.

Inoltre si distingue il clima in: psicologico e organizzativo. Il clima psicologico fa sostanzialmente riferimento ad una serie di percezioni che possono rappresentare una sorta di mappa cognitiva individuale del funzionamento di un’organizzazione, in grado quindi di guidare il comportamento degli individui in relazione alla situazione stessa. Il clima servirebbe ad adattare il comportamento dell’individuo alle richieste ambientali e alle esigenze organizzativo (Koys et al, 1991). In altre parole, Il clima organizzativo si riferisce a caratteristiche organizzative e ai loro effetti principali, o stimoli, mentre il clima psicologico si riferisce ad attributi individuali, per mezzo dei quali l’individuo trasforma l’interazione tra attributi percepiti e caratteristiche individuali in una serie di aspettative, atteggiamenti, comportamenti (James e Jones,1974).

Molta letteratura di psicologia organizzativa, per esempio, sottolinea l’importanza del clima in azienda per il suo impatto sulla socializzazione e sulle relazioni umane nell’ambiente di lavoro e sulla soddisfazione che i dipendenti traggono dal lavoro stesso e dalle proprie condizioni.

Il clima è in pratica anche la qualità della rete di tensione collettiva che lega o non lega gli uomini e le donne dell’organizzazione, è lo stare insieme, il lavorare insieme, il piacere di ritrovarsi oppure no, l’eccessiva freddezza che circola nelle relazioni interpersonali, la distanza, oppure anche l’eccessiva informalità etc.

(Quaglino, 1987). Tenendo in considerazione dunque l’influenza sul comportamento dei lavoratori e sulla performance organizzativa, può essere determinante per un’organizzazione conoscere, in determinati momenti, il clima esistente al proprio interno. Il clima è anche uno strumento di consapevolezza e di diagnosi organizzativa e quindi uno strumento di progettazione di cambiamento (De Vito Piscicelli et al, 1984). Per tutte queste ragioni si fa determinante la necessità di poter eseguire un check-up organizzativo che permetta di conoscere il clima psicologico e la cultura aziendale di una organizzazione.

L’analisi del clima organizzativo può essere utile nell’ottica della politica della prevenzione ad evidenziare eventuali situazioni critiche di particolare disagio causate, per esempio, dallo stress lavorativo (le cui cause legate alla struttura dell’organizzazione e al clima sono fondamentali e possono essere per esempio: una partecipazione scarsa o nulla a prendere decisioni, alcune restrizioni sul comportamento, l’accortezza nell’impegno e la mancanza di effettiva consultazione, ecc.); o ancora da percezioni, motivazioni, vissuti, conflitti, dinamiche comunicative, stili di leadership, collaborazione, autonomia, sicurezza, ecc. che potrebbero incidere sulla performance degli operatori.

Questo approccio favorisce inoltre, accanto ad una visione della salute lavorativa prevalentemente legata alla dimensione individuale, all’intervento sullo stress ed il disagio del singolo lavoratore, a “valle” del processo, una logica che progetta la promozione della salute, favorendo ambienti, situazioni e relazioni “salutari”, dove l’adattamento è fisiologico e non patogeno.

Maslach (1982) asserì che il sostegno emozionale tra colleghi costituisce una risorsa che può aiutare ad affrontare lo stress sia con un’azione diretta nei confronti della fonte (accogliere lo sfogo, dare suggerimenti, ecc.), sia indiretta (anche solo all’idea di poter condividere le difficoltà). Il buon clima interpersonale può essere alimentato dall’organizzazione, per esempio agevolando gli incontri tra le persone e sostenendo la cultura della cooperazione (Maslach, 1982). Quando le organizzazioni stimolano invece un clima conflittuale e competitivo è probabile che si manifestino sia sentimenti di gelosia e di rivalità, sia comportamenti aggressivi e marginalizzanti; in quest’ottica il clima relazionale finisce per rappresentare non un fattore di protezione ma un antecedente del burnout (Converso e Falcetta, 2007). Il rapporto con i colleghi è dunque al centro del social support che rappresenta, quando presente, una fonte di sostegno per il benessere organizzativo e, quando assente, una fonte per il burnout (Ferrari, 2014).


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La sindrome di Burnout: teorie

La sindrome di Burnout

“Il burnout è una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e di ridotta realizzazione personale.” (Maslach et Jackson, 1986)

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Teorie sul Burnout 

Una o più condizioni stressogene protratte nel tempo o particolarmente intense, possono indurre alla sindrome nata nel precedente secolo, ossia la sindrome del burnout

(Maslach et Jackson, 1986), un’espressione metaforica (approssimativamente in Italiano, “bruciato”) per indicare un set di atteggiamenti, emozioni e comportamenti negativi derivanti da una cronica difficoltà nel controllare lo stress tipico (Cherniss,1980; Maslach et al., 1996). Proprio per questo il burnout si differenzia dallo stress: in primo luogo non presenta un quadro psico-fisico, ma dimensioni psicologiche ed emotive; in secondo luogo, non si manifesta in una reazione momentanea, ma in un processo a lungo termine (Borgogni e Consiglio, 2005). Il termine nella sua accezione attuale, fu introdotto dallo psichiatra Herbert Freudenberg nel 1974 per descrivere una particolare sindrome che caratterizzava i membri di uno staff che lavoravano in istituzioni sociosanitarie (helping professions). Seguendo la tradizione medica, con il termine sindrome si intende un insieme definito di sintomi caratterizzante la patologia presa in considerazione. Freudenberg (1974), per esempio, nel suo lavoro si soffermò sulla descrizione della sintomatologia fisica (un esempio sono le emicranie), su quella comportamentale (come ad esempio il consumo di droghe), ancora su quella emotiva (come ad esempio l’umore depresso), cognitiva (ad esempio il cinismo) ed infine motivazionale. In rassegna, l’approccio clinico enfatizza l’importanza dei fattori individuali sottostanti alla sindrome del burnout.

Contrariamente all’approccio clinico, la ricerca psicosociale focalizzava la propria attenzione sulla natura interpersonale del burnout. Maslach (1982) scrisse infatti che “rispetto agli effetti nocivi di altre reazioni allo stress, la caratteristica principale del burnout è il fatto che questi è il prodotto finale di un’interazione sociale prolungata tra il professionista (helper) e l’utente (client).” Contemporaneamente altri ricercatori (Golembiewski et al.,1986) sottolinearono l’importanza dell’ambiente organizzativo nello sviluppo della sindrome del burnout, suscitando l’interesse dei manager, dei policy makers, e dei consulenti d’azienda.

Nella maggior parte degli studi il Burnout viene definito come un elenco di sintomi tendono ad ignorare l’aspetto dinamico della sindrome, per questo motivo è importante incentrare la propria attenzione anche sulle principali definizioni di processo. Entrambe le definizioni sono complementari, ma nello specifico, la definizione del burnout come stato è propria dello stadio finale del processo.

La sindrome del burnout è solitamente caratterizzata da particolari stati d’animo (quali ansia, irritabilità, esaurimento fisico, panico, agitazione, senso di colpa, negativismo, ridotta autostima, empatia e capacità d’ascolto etc.), somatizzazioni (quali emicrania, sudorazioni, insonnia, disturbi gastrointestinali, parestesie etc.), reazioni comportamentali (assenze o ritardi frequenti sul posto di lavoro, chiusura difensiva al dialogo, distacco emotivo dall’interlocutore, etc.) (Fontana eal, 1993). Maslach e Jackson (1982), in relazione al burnout, ne evidenziarono tre componenti:

l’esaurimento emotivo, ossia la percezione di “prosciugamento” delle risorse emotive personali e la sensazione che non si abbia più niente da offrire a livello psicologico (esempio: mi sento emotivamente distrutto dal mio lavoro);

la depersonalizzazione, che si riferisce allo sviluppo di atteggiamenti di distacco, atteggiamenti negativi, a volte di cinismo verso l’utenza (“non mi importa nulla di ciò che succede agli utenti ”;

la ridotta realizzazione riguarda invece la percezione della propria inadeguatezza sul posto di lavoro, con l’attenuazione del desiderio di successo ed una caduta della stima.

Sebbene le tre componenti sembrino essere interrelate, esse sono concettualmente diverse e correlate distintamente ad altre variabili come la soddisfazione lavorativa, gli stressor lavorativi, il desiderio di cambiare lavoro e la percezione di sintomi psicosomatici (Cordes e Dougherty, 1993).

Maslach (1997) insieme ai suoi colleghi catalogarono le cause oggettive del burnout in sei classi relative a: autonomia decisionale, carico di lavoro, equità, valori, gratificazioni, senso di appartenenza. Nel medesimo lavoro l’autrice perviene alla conclusione che il burnout è dovuto principalmente ai fattori oggettivi dello stress professionale, ponendo così in secondo piano le cause soggettive.

Edelwich e Brodsky (1980) hanno identificato quattro stadi progressivi che caratterizzano l’evoluzione del burnout:

Stadio dell’entusiasmo: gli operatori sono motivati all’esercizio della propria professione, scelta per ragioni differenti. I soggetti percepiscono ed esaltano esclusivamente i lati positivi della professione, diventando totalmente dipendenti dal lavoro e ignari delle difficoltà.

Stadio della stagnazione: in questo stadio si approda alla scoperta per la quale i risultati del proprio impegno lavorativo sono incerti, aleatori e difficili da cogliere, porta a uno smorzamento dell’entusiasmo e a sentimenti di stallo e di noia, oltre che a preoccupazioni per la propria carriera.

Stadio della frustrazione: emergono rabbia e delusione per l’eccessivo scarto tra le aspettative e la realtà, insieme alla triste consapevolezza che i propri ideali poco hanno a che vedere con i reali bisogni di coloro a cui è rivolto il servizio. Ne consegue un senso di inutilità e di vuoto, insieme a una percezione crescente di impotenza.

Stadio dell’apatia: si sviluppa disimpegno emotivo-affettivo nei confronti della propria condizione professionale frustrante. È questo lo stadio del burnout vero e proprio.

L’atteggiamento di fondo è rassegnato e infelice, le aspettative si abbassano ulteriormente.

Si giunge all’apatia con generalizzazione anche alla sfera privata.

Oltre alla teorizzazione di Maslach, in letteratura si rintracciano altri modelli relativi al burnout, tra cui il modello proposto da Pines e Aronson (1988) ed il modello di Cherniss (1986). Pines e Aronson (1988) spiegarono la sindrome del burnout come uno stato di esaurimento emozionale, che fa seguito a un processo graduale di disillusione, la cui causa dovrebbe essere ricercata in un coinvolgimento personale profondo da parte dei professionisti, identificandosi con il proprio lavoro in maniera eccessiva. Gli autori asserirono che gli individui fortemente motivati intraprendessero carriere volte al raggiungimento di obiettivi specifici, il cui insuccesso genererebbe la sindrome. Nello specifico è rilevante la percezione di inadeguatezza e di inutilità che lo accompagna, portando a una condizione considerata ma comunque modificabile (Pines e Aronson,1988).

Nella teorizzazione di Cherniss (1986), il burnout è un “processo transazionale” tra abilità generali e cause organizzative, in cui la motivazione ricopre un ruolo importante.

Riprendendo la teoria della “Sindrome generale di adattamento” proposta da Seyle (1956), Cherniss (1983) individuò tre fasi:

  1. Fase dello stress, caratterizzato da un disequilibrio (in eccesso o in difetto) delle risorse disponibili e le richieste provenienti dall’esterno oppure dall’interno, come i propri bisogni, valori, obiettivi; in questa fase il soggetto tenta di adattarsi alla situazione attraverso un uso molto intenso delle sue risorse psicofisiche, provocando un progressivo esaurimento emotivo e, di conseguenza, anche una demotivazione rispetto al proprio ruolo professionale;
  2. Fase della crisi interiore o tensione emotiva (strain), come reazione a questo squilibrio, caratterizzata da ansia, nervosismo, affaticamento ed esaurimento;queste sensazioni si manifestano nel tentativo, da parte dell’operatore, di difendersi dalla situazione negativa creatasi;
  3. Fase della difesa, che consiste nella conseguente modificazione del comportamento e degli atteggiamenti, come la tendenza a trattare gli altri in modo meccanico e distaccato o con una preoccupazione cinica circa la gratificazione dei propri bisogni; tali cambiamenti nell’atteggiamento e nel comportamento generano, infatti, una fuga psicologica del soggetto coinvolto, come tentativo di limitare il livello di stress generatore del fenomeno.

Questo meccanismo può innescare una demotivazione che si autoalimenta mediante un circolo vizioso: all’atteggiamento di evitamento dell’ambiente stressante, si associa una diminuita efficacia prestazionale, perché l’ottimismo, l’entusiasmo ed il coinvolgimento personale sono spesso necessari al successo; il fallimento, a sua volta, ha come conseguenza un incremento della frustrazione che, ciclicamente, comporta un ulteriore insuccesso. Il burnout secondo l’Autore (Cherniss,1983) può manifestarsi in vari modi: sintomi fisici, (come disturbi gastrointestinali, alterazioni del sonno), sintomi psicologici (come pessimismo, demoralizzazione, etc.), reazioni comportamentali sul lavoro (come ritardi frequenti, cinismo, assenteismo, cambiamenti dell’atteggiamento nei confronti degli utenti quali freddezza, distacco). Pertanto, il suddetto fenomeno va ad urtare anche la qualità della vita del soggetto ed il suo benessere fisico, non solo psichico (Shirom, 2005).

Secondo alcuni autorisono più esposte al burnout le persone che possiedono una ridottaresistenza individuale agli stimoli.Mentre la personalità hardy possiede tre caratteristiche: è consapevole del proprio ruolo nella società e del significato (senso) attribuito alla propria esistenza; percepisce le novità come stimolo anziché come insidia sente di poter controllare gli eventi senza esserne sopraffatto (Mark et al, 1990).Inoltre si definiscono negative le reazioni di adattamento come assumere psicofarmaci, fumare, bere, atti a negare, minimizzare, nascondere o evitare gli eventi stressogeni.In virtù di quanto riportato precedentemente, il burnout può essere definito come un fenomeno psicosociale più complesso dello stress, nel quale interagiscono sia fattori socio-ambientali e lavorativi sia caratteristiche individuali e personologiche (Murdaca et al, 2014). Nonostante la sua struttura multi-componenziale,le ricerche condotte sul burnout hanno riguardato inizialmente il solo ruolo svolto dai fattori ambientali.

Prendendo in esame una recente rassegna di Converso e colleghi (2009) lo studio della sindrome del burnout ha seguito diversi percorsi, che dagli anni ’70 in poi hanno di volta in volta privilegiato ed evidenziato antecedenti di diversa origine:

Individuale: relativa alle caratteristiche socio-demografiche, al sistema della personalità e/o alle motivazioni dei soggetti colpiti dalla sindrome.

Interpersonale: riguarda in primis il rapporto con l’utenza, aspetto che costituisce la peculiarità del burnout (Mancini & Magnani, 2008). La dimensione interpersonale include però anche il clima relazionale con i colleghi e il gruppo di lavoro: si tratta di un livello interpretativo intermedio, che può essere ricondotto in parte alle origini interpersonali della sindrome, in parte a quelle organizzative (Demerouti et al,2001; Maslach & Leiter, 1997/2000).

Organizzativa: questa dimensione ha assunto un progressivo rilievo tanto da portare ad affermare che, contrariamente ai fattori personali e alle caratteristiche dell’utenza, i fattori organizzativi siano predittivi del burnout (Schaufeli & Enzmann, 1998). Per Maslach e Leiter (1997; 2000) il disadattamento tra la persona e il lavoro che genera job burnout si produce nel disequilibrio relativo a sei aree della vita lavorativa: sovraccarico di lavoro, mancanza di controllo, gratificazione insufficiente, crollo del senso d’appartenenza comunitaria, assenza di equità e contrasto di valori.

Attualmente è condivisa una concezione multidimensionale: l’eziopatogenesi del burnout sembrerebbe da attribuire all’articolazione di fattori individuali, relazionali, lavorativi, organizzativi e persino storico-culturali. Nessuno di essi isolatamente può condurre al burnout, ma la loro contemporanea presenza sembra  determinarlo.(Schaufeli&Enzmann,1998).


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Conseguenze dello stress 

Conseguenze dello stress 

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Condizioni di stress psicosociale di diversa origine si esprimono con una gamma sintomatica che tocca tutti i sistemi funzionali dell’organismo, dal Sistema Nervoso Centrale (SNC) al Neurovegetativo, Cardiovascolare, Endocrino, Immunologico, Gastro Intestinale (GI),etc. Data questa diffusione e gli effetti biologici della risposta di stress, non sorprende che l’impatto della condizione di stress sulla salute sia rilevante. Molto calzante, a tal proposito, è la circonlocuzione usata dagli autori anglosassoni per esprimere tale condizione: “inability to cope”, cioè “incapacità a farcela”, tendente proprio a sottolineare questa situazione dell’individuo che, indipendentemente da ogni variabile (come la sua personalità, il supporto sociale, il modo di affrontare le vicissitudini della vita) si sente intrappolato, schiacciato in una morsa dalla quale non riesce a liberarsi (Sibilia, 2010).

Le conseguenze dello stress variano da persona a persona e possono presentarsi in vario modo. A tal riguardo Anchisi e Dessy (2008) scrissero in un articolo che gli studi sugli effetti negativi dello stress andrebbero adeguatamente vagliati perché parte sono studi sugli effetti negativi di alcuni sentimenti, parte sono invece studi sulle conseguenze degli stati perduranti di attivazione propri della sindrome ansiosa o del PTSD. La distinzione ha un’importanza pratica rilevante, perché consente di intervenire in modo mirato sui fattori di stress. In effetti, mentre taluni eventi esterni risultano statisticamente stressogeni, come ad esempio un lutto o la perdita del lavoro, altri causano stress solo a coloro che li affrontano con un punto di vista inadeguato e con idee pregiudiziali. Nel primo caso si tratta di riconoscere il potere stressogeno di tali eventi, per essere preparati ad affrontarli più efficacemente. Nel secondo caso si tratta di modificare idee e punti di vista disfunzionali, che, a parità di condizioni ambientali esterne, determinano ansia e stress solo in alcuni soggetti, mentre altri ne sono esenti (Anchisi e Dessy, 2008).

Le manifestazioni patologiche dello stress sono di tre tipi: psicologiche, fisiologiche e comportamentali. Le reazioni psicologiche riguardano l’incidenza che le cause esterne dello stress sull’umore del soggetto: si tratta di reazioni emotive eccessive. Il soggetto, anziché sfruttare la particolare attivazione provocata dallo stress per affrontare gli eventi, reagisce in modo esplosivo o, al contrario, rimane inibito e “implode” su se stesso, risultando in ogni caso sconvolto. L’irritazione si trasforma in un atteggiamento di abituale ostilità e rancore; mentre l’inibizione dà luogo a frustrazione, ad ansia cronica e anche a forme gravi di depressione. I segni iniziali dello stress patologico sono ad esempio: irritabilità e affaticabilità, senso di inefficacia, perdita di motivazione, difficoltà a concentrarsi, diminuzione della memoria e della creatività, aumento del numero degli errori commessi. Le reazioni fisiologiche allo stress sono reazioni a spirale, in un processo in cui ciascun fattore si connette strettamente agli altri, che influenza e da cui è influenzato (Anchisi e Dessy, 2008).

Gli ormoni dello stress sono, in prima battuta, adrenalina e noradrenalina, la cui azione è di rendere più pronta ed energica la reazione difensiva nei confronti degli stressor esterni. In seconda battuta entrano in circolo gli ormoni cortico-surrenali, che aumentano la resistenza nel tempo e rendono più duratura la risposta alle sollecitazioni ambientali. Il soggetto avverte dalla facile affaticabilità, alla tensione muscolare; dai disturbi del sonno, alle palpitazioni, alla dispnea, alla colite (colon irritabile). Ma anche vere e proprie malattie a base organica possono essere innescate o aggravate dallo stress, come molte allergie e malattie della pelle, l’ipertensione essenziale, la retto-colite emorragica. E vi è ormai anche un certo grado di evidenza che vi sia una partecipazione dei fattori psicologici nell’insorgere o nell’aggravarsi delle malattie coronariche e tumorali (Anchisi e Dessy, 2008).

Le reazioni comportamentali sono facilmente individuabili e rappresentano il primo fattore diagnostico per identificare i soggetti sotto stress: sono persone sempre di fretta, precipitose, impazienti, irritabili. Alla luce di ciò Rosenman e Friedman (1974) hanno definito il Tipo A per designare quel tipo di persone che, trovandosi abitualmente sotto stress, hanno una maggiore possibilità di sviluppare i disturbi e le malattie precedentemente elencate con maggiore probabilità rispetto alle altre persone.

Ponendo attenzione alle ricerche presenti in letteratura in merito alle conseguenze dello stress, secondo Compare e colleghi (2007) si può considerare la relazione tra stress psicologico e malattia cardiaca. I pazienti cardiopatici presentano spesso un considerevole disagio emozionale, in termini di rabbia, ansia, paura e depressione. Per queste ragioni, in anni recenti, la comunità medica ha sempre più riconosciuto il bisogno di interventi efficaci per la riduzione dello stress in modo da migliorare la salute emotiva e la riabilitazione fisiologica nei pazienti con cardiopatia e per facilitare la prevenzione della malattia in soggetti a rischio (Compare et al., 2007). Una dimostrazione su scala mondiale dell’interazione tra stress e infarto cardiaco è stata fornita dal cosiddetto Studio INTERHEART, in cui sono stati interrogati 30.000 tra pazienti che avevano subito un infarto e controlli sani in 52 paesi. Lo studio nasce dalla constatazione che, sebbene oltre l’80% del peso globale delle malattie cardiovascolari ricada sui paesi più poveri, la conoscenza dei fattori di rischio viene in gran parte dai paesi più sviluppati. Succede così che l’effetto degli stessi fattori di rischio sulle malattie coronariche in molte regioni del mondo sia pressoché misterioso. La presenza di stress psicologico è associata ad un incremento del rischio del 40%  (Yusuf et al., 2006).

Diversi studi hanno invece indagato lo stress come fattore di alcuni casi di alopecia areata. Infatti prima dell’insorgenza della caduta dei capelli in alcuni casi sono emersi dei traumi acuti, un significativo numero di eventi stressanti e patologie psichiatriche diagnosticate e particolari condizioni psicologiche e familiari. Mentre altri lavori evidenziano come gli stress emozionali non giochino alcun ruolo nella patogenesi dell’alopecia areata (Madani et Shapiro,2000). Alla luce di ciò sarebbe opportuno avviare ulteriori ricerche per una maggiore chiarificazione.

Inoltre, negli ultimi anni, sempre più ricerche hanno tentato di far luce sui disturbi somatici derivati da stress psicologico tramite studi di neuroimaging. Per esempio Atmaca e collaboratori (2011) hanno cercato di indagare il ruolo svolto dal complesso amigdala ippocampo nella genesi del disturbo di somatizzazione. Attraverso la MRI (risonanza magnetica strutturale) un gruppo di ricercatori ha rilevato che i pazienti con disturbi di somatizzazione avevano i volumi dell’amigdala destra e sinistra significativamente inferiori rispetto al gruppo di controllo, mentre nello stesso studio non è stata riscontrata alcuna differenza nell’ippocampo, nel volume totale del cervello e nel volume della sostanza grigia e bianca (Atmaca et al, 2011). Altri studi di neuroimaging hanno invece evidenziato una disfunzione dell’ippocampo nella fibromialgia e ridotte dimensioni del lobo parietale nei soggetti affetti da disturbi dissociativi (Compare e Grossi, 2012).È bene aggiungere che a seguito delle scoperte sulla plasticità neuronale alcuni ricercatori hanno reso noto il ruolo chiave svolto dallo lo stress e dagli ormoni legati allo stress (come i glucocorticoidi e mineralcorticoidi) nel rimodellamento delle connessioni neuronali nell’ippocampo, nella corteccia prefrontale e nell’amigdala (Mcewen e Gianaros, 2011). Il risultato è stato un’architettura dinamica del cervello che può essere modificata dall’esperienza (Mcewen, 2011).

Pertanto di fronte a un evento stressante, l’organismo utilizza le proprie capacità difensive fisiche, modulate dai fattori psichici, per mettere in atto una risposta. Le principali fonti di stress, sia positivo che negativo si riscontrano soprattutto nell’ambito del lavoro in cui, secondo quanto si evince dagli studi presenti in letteratura, prevale una visione nociva dello stress (Bolognini et al., 1994). Beeher e Newman (1978) lo descrivono come una condizione nella quale i fattori legati al lavoro interagiscono con il lavoratore e ne alterano gli equilibri psicosomatici. Non a caso spesso, nei contesti organizzativi si parla di stress lavoro-correlato. Peruzzi (2011), in un suo articolo, riporta che il rapporto di ricerca “Work-related Stress” pubblicato dall’Osha nel 2000 distingue tre principali approcci alla definizione e studio dello “stress lavoro-correlato”: l’approccio “tecnico” (Cox, 1978), “fisiologico” (Selye,1950) e “psicologico” (Cooper, Marshall, 1976; Osha 2000). L’approccio “tecnico” concepisce lo stress lavorativo come una caratteristica propria dell’ambiente di lavoro, misurabile, quindi, sulla base di parametristrettamente oggettivi. Come precisa Symonds (1947), “lo stress è ciò che accade all’uomo, non ciò che accade nell’uomo; è un insieme di cause, non un insieme di sintomi” (Osha, 2000).

L’approccio “fisiologico”, al contrario, definisce lo stress lavorativo come l’attività umana individuale di adattamento ai cambiamenti avversi e nocivi del contesto esterno ed interno, articolata nelle tre fasi dell’allarme, resistenza ed esaurimento (Osha, 2000). Infine l’Autore (Peruzzi, 2011) continua scrivendo che l’approccio psicologico definisce invece lo stress lavorativo come uno stato psicologico parte di un più ampio processo di interazione dinamica tra il lavoratore e il suo ambiente di lavoro. Particolarmente utile per comprendere l’articolazione di tale processo è il modello costruito da Cooper e Marshall

(1976). Quest’ultimi identificarono le fonti di stress che circondano l’individuo nel luogo di lavoro (ad esempio, modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, ruolo nell’organizzazione), i sintomi dello stress, siano essi individuali (pressione alta, depressione, alcolismo, irritabilità etc.) o collettivi/organizzativi (elevato assenteismo, elevato ricambio della forza lavoro, relazioni industriali difficili, scarso controllo della qualità), e le patologie che a tali sintomi possono conseguire (cardiopatia coronarica, malattia psichica, infortuni gravi e frequenti, apatia) (Cooper e Marshall,1976; Osha, 2000). In ultima rassegna Peruzzi (2011) asserisce che ad una definizione più precisa e funzionale di stress lavoro-correlato si perviene, tuttavia, se si integra il sistema descrittivo di Cooper con l’ulteriore prospettiva d’analisi elaborata da Cox, Griffiths e Rial-Gonzales all’interno del rapporto Osha del 2000 e costituita dal cd. modello “dual pathway hazardharm” sul rapporto tra fattori di rischio e danno alla salute (Osha, 2000).

La conseguenza cardine dello stress in ambito lavorativo è rappresentata dalla sindrome da Burnout.


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Teorie sullo stress

Teorie sullo stress

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A partire dalle ricerche di Selye, Rees (1976) individuò una distinzione tra stress, distress e disagio. Definì lo stress come modificazione dell’ambiente interno o esterno di una durata ed intensità tale da raggiungere i limiti della capacità di adattamento dell’organismo. Lo stress, per Rees, era costituito da sintomi fisici o cambiamenti inerenti la sfera psicologica e sociale. Il termine distress, invece, denotava un’esperienza emotiva spiacevole che poteva derivare dai succitati cambiamenti dell’ambiente interno o esterno, oppure come reazione al disagio. Il termine disagio denotava invece disfunzioni mentali o corporee che comportano delle difficoltà nello svolgimento delle attività quotidiane, interferendo con il benessere del soggetto. Rees elaborò un modello psicosomatico che spiegò il modo in cui i fattori psicologici e sociali abbiano un ruolo causale nei cambiamenti fisiologici. Il modello era formato da fattori stressanti, da caratteristiche individuali e dai conseguenti processi fisiologici. Per quanto riguarda i fattori stressanti, Rees affermò che tra i principali fattori associati all’insorgenza di malattie psicosomatiche vi fossero ad esempio: il lutto, i problemi di salute della persona amata, i conflitti sessuali, le esperienze traumatiche, i problemi lavorativi e finanziari. In tutto ciò, un ruolo centrale era svolto dalle caratteristiche di ciascun individuo che determinavano il tipo di risposta al fattore stressante, sottolineando l’importanza sia di fattori genetici sia di caratteristiche di personalità. In particolare, tra i più comuni tratti di personalità riscontrati in persone affette da malattie psicosomatiche vi erano: instabilità, timidezza, mancanza di autoaffermazione, marcata sensibilità, propensione all’ansia, tratti ossessivi. Allo stesso modo, sosteneva che un insieme di tratti di personalità non fosse specifico di un particolare disturbo. Infatti secondo tale modello, l’eziologia dei disturbi psicosomatici poteva essere spiegata come un’interazione dinamica tra fattori intrinseci ed estrinseci. Questa interazione determinava poi il tipo di risposta allo stress (Rees, 1976).

Si approda al concetto di stress psicologico grazie a Lazarus (1966). Per il teorico la reazione di stress dipendeva sia dai diversi fattori di personalità sia dalla valutazione cognitiva in grado di attribuire significato allo stimolo. Alla luce di ciò: se l’individuo riteneva lo stimolo come rilevante, si produceva un’attivazione emozionale con conseguenti rispostesomatiche, viscerali e psichiche. Lazarus propose un approccio relazionale per comprendere la relazione stressante individuo-ambiente: essa è data dal relativo equilibrio di forze tra le richieste ambientali e le risorse possedute dalla persona. L’Autore aveva postulato che: se le risorse della persona e le richieste ambientali si bilanciano non si ha alcuna situazione stressante; invece nel caso in cui quest’ultime fossero eccedenti le risorse dell’individuo, si instaurava una relazione stressante individuoambiente. Questo equilibrio era mediato dal significato relazionale, ossia dalla considerazione soggettiva (danno, minaccia o sfida) che l’individuo attribuiva alla relazione persona-ambiente. Il teorico asserì che lo stress non fosse dettato da una relazione di stimolo-risposta ma da un sistema caratterizzato da: antecedenti causali, che fanno riferimento a variabili situazionali e personali; processi di mediazione; effetti sulla sfera sociale, psicologica e fisica. Gli antecedenti causali rappresentavano le caratteristiche dell’ambiente e dell’individuo, tra le quali esisteva un’interazione dinamica o transazione. Le variabili situazionali facevano riferimento non solo agli aspetti legati all’ambiente sociale e relazionale ma anche alle proprietà delle situazioni che le rendevano potenzialmente pericolose, minacciose o stimolanti. Per esempio tra le variabili situazionali citate vi erano: le prescrizioni sociali, che definivano ciò che l’individuo non dovrebbe fare, infatti se violate comportavano punizioni; l’ambiguità dell’evento, ossia la mancanza di chiarezza connessa all’evento stesso, che portava il soggetto a valutare l’evento in base alle sue caratteristiche personali. Nelle variabili disposizionali si avevano: gli obiettivi, ossia ciò che era importante conseguire per l’individuo, senza i quali non ci sarebbero neanche fonti di stress; le convinzioni personali ed esistenziali che riguardavano il modo in cui si concepiva se stessi e il proprio posto nel mondo; ed infine le risorse personali (intelligenza, competenze sociali, livello di istruzione etc.). I processi di mediazione avevano la funzione di mediare la relazione tra le caratteristiche situazionali e le caratteristiche disposizionali. Per processi di mediazione il teorico intendeva sia la valutazione cognitiva della situazione sia le strategie di coping per fronteggiarla. Per quanto riguarda la valutazione cognitiva della situazione, l’autore distingueva due tipi di valutazione: la valutazione primaria e la valutazione secondaria. La valutazione primaria era rivolta all’evento e al significato che il soggetto gli attribuiva rispetto al proprio benessere. Ad essa si aggiungeva la valutazione dei benefici derivanti dalla situazione stessa. Per valutazione secondaria, invece si intendeva la considerazione delle risorse e opzioni disponibili per gestire il danno. Il coping era considerato uno sforzo cognitivo e comportamentale che l’individuo compieva per far fronte a un evento stressante. Esso svolgeva due funzioni: cambiare la difficile relazione con l’ambiente e modificare lo stato emozionale del soggetto. Il fronteggiamento di un evento stressante comportava degli effetti sulla sfera sociale, psicologica e somatica. Per quanto riguarda la sfera sociale, Lazarus ha affermato che percepire una situazione come una minaccia può portare le persone al ritiro sociale o ad assumere comportamenti antisociali. Viceversa, il saper cogliere la sfida incoraggiava l’iniziativa, aumentando gli scambi comunicativi con gli altri.Per quanto riguarda la sfera psicologica, il teorico ha sottolineato l’impatto che l’affrontare degli eventi stressanti può esercitare sui vissuti emotivi: l’impatto emotivo che, a lungo andare, influenzava lo stesso benessere psicologico (Lazarus, 1966).

A partire da tale lavoro, Endler e Parker (1990) hanno asserito l’esistenza di tre diverse tipologie di coping:

  • coping centrato sul compito (task coping), facendo riferimento alla tendenza ad affrontare il problema direttamente fronteggiando la crisi;
  • coping centrato sulle emozioni (emotion coping), il quale allude al controllo delle proprie emozioni o abbandono ad esse in una situazione di disagio;
  • coping centrato sull’evitamento (avoidance coping), in cui emerge il tentativo di evitare la minaccia impegnandosi in altre attività o ricercando supporto sociale.

Pertanto si verrebbero a costituire dei veri e propri stili di coping, attuati dagli individui a seconda delle situazioni che si presentano e che rappresentano atteggiamenti, tipici del soggetto, di adattamento agli eventi potenzialmente stressanti. A questo punto, emerge l’importanza della percezione soggettiva dello stress e della sensazione, altrettanto soggettiva, di fronteggiarlo: infatti, man mano si è andata consolidando l’idea che la risposta allo stress fosse fortemente dipendente sia dalla valutazione attuata dall’individuo sia dall’evento, sia dalle proprie capacità di affrontarlo (Compare e Grossi, 2012).


© Il Burnout negli insegnanti – Federica Sapienza


Cos’è lo stress

Lo stress

“L’eliminazione dello stress sarebbe equivalente alla morte.”(Selye,1936)

Cos’è lo stress 

Il termine “stress” deriva dal latino “stringere” (legare strettamente, spremere con forza), dalla stessa radice viene anche la parola “strain” più usata nel senso di sforzo doloroso, peso, affanno, lotta. In ingegneria, i due termini hanno conservato il loro rapporto semantico di causa, noto anche come stress, ed effetto, noto come strain. In psicofisiologia invece, si distinguono anzitutto due diverse forme dello stress biopsicosociale: lo stress positivo o eustress, nonché una reazione fisiologica di adattamento a condizioni o eventi ambientali, e lo stress negativo o distress, cioè quella condizione di squilibrio (reale o percepito) tra pressioni o richieste ambientali e le capacità e risorse individuali a farvi fronte. In entrambi i casi, lo stress comprende una risposta ad esigenze poste all’organismo: tali esigenze possono superare i limiti di ciò che l’individuo può affrontare oppure restare in tali limiti. Nel secondo caso, la mobilizzazione e l’uso di risorse personali può aumentare le capacità adattative dell’individuo (Sibilia, 2010).

Da un punto di vista teorico il meccanismo alla base dello stress e le relative conseguenze sull’organismo risalgono a Darwin (1872) che descrisse le manifestazioni somatiche degli stati di attivazione emozionale e comportamentale tra cui: la tachicardia, la sudorazione, la dilatazione pupillare etc. (Prunetti, 2010).

I successivi pionieri degli studi sullo stress furono Cannon (1915) e successivamente Selye (1936). Cannon (1915) iniziò le sue ricerche servendosi dei raggi X per osservare il processo di digestione negli animali. Durante gli esperimenti in un animale sottoposto a stress il processo digestivo si interruppe; ciò gli suggerì alcune ipotesi sulle risposte con cui l’organismo reagisce a situazioni come il pericolo, la paura ed il dolore. Da qui introdusse la teoria del “fight or flight response” per la quale l’uomo risponde alla percezione di una minaccia con una attivazione rapida del sistema nervoso autonomo e dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Il sistema nervoso autonomo è costituito da una componente detta simpatica, che entra in azione quando c’è necessità di mobilitare le risorse dell’organismo, e da una componente chiamata parasimpatica che invece ha il compito di ripristinare le risorse spese durante l’azione. Ipotalamo, ipofisi e surrene sono parte del sistema endocrino che hanno la funzione di rilasciare ormoni che alterano il metabolismo durante l’attivazione simpatica. Il risultato finale di entrambe le vie è il rilascio di ulteriori ormoni che inducono, nella maggior parte dei casi, un’azione motoria che può essere la fuga (flight) o l’attacco (fight) (Cannon, 1915).

Selye (1936) riprese gli studi di Cannon, introducendo per la prima volta in ambito psicofisiologico il termine “stress”, tanto da essere noto in America come “Dottor Stress”. Dai suoi esperimenti con i topolini emerse che, indipendentemente dal tipo di sostanza somministrata (batterio o tossina) o di procedura nociva (eccesso di caldo o di freddo) applicata al topolino, era possibile identificare tre fasi della risposta (allarme, resistenza, esaurimento): ciò diede origine alla “sindrome generale di adattamento” (General Adaptation Syndrome, GAS), caratterizzata da precise modificazioni a carico degli organi dell’animale. Il dato più interessante fu che anche uno stress psicologico (la visione di un predatore o l’immobilizzazione in una gabbia stretta) poteva causare la medesima sindrome (Selye, 1936). 

La successiva ricerca di Selye (1946) si concentrò sullo studio dell’adattamento dell’organismo animale e umano ai diversi tipi di agenti stressanti (tossici, fisici e psichici). Lo stress poteva così essere prodotto da un’ampia ampia di stimoli denominati “stressor”, i quali producevano essenzialmente la medesima risposta biologica. La sindrome generale di adattamento prevedeva così tre fasi: 

  • Fase di allarme: in cu si hanno reazione di allarme sostenute da attivazioni neurovegetative con il rilascio di adrenalina e noradrenalina, permettendo così una rapida reazione del sistema nervoso autonomo che innesca un insieme di cambiamenti fisiologici che hanno come scopo l’autoconservazione. Negli animali questo è il momento del pericolo e dell’attacco.
  • Fase di resistenza: l’iperproduzione di cortisolo continua, mentre l’organismo è impegnato nel fronteggiare lo stressor. In questa fase si assiste ad un progressivo adattamento dell’organismo ed un progressivo recupero dell’omeostasi.
  • Fase di esaurimento: questa fase prende piede quando l’esposizione all’agente stressante si protrae eccessivamente. La corteccia surrenale entra in uno stato di esaurimento funzionale. I cambiamenti psicofisici che si producono nell’organismo durante questa fase, danno origine a modificazioni patologiche.

È opportuno aggiungere che in relazione a come gli stressor vengono percepiti, può subentrare la mobilitazione globale delle risorse energetiche dell’organismo, in cui gli eventi che minacciano la sopravvivenza stessa dell’individuo richiedono una risposta immediata e potente; oppure può sopraggiungere l’ansia, quando la minaccia non è immediata e oggettiva, ma è una aspettativa di minaccia. Lo stress del primo tipo di per sé non è dannoso, anzi: di fronte a un reale pericolo immediato può salvare la vita, innescando risposte altrettanto immediate ed energiche: risposte di attacco o di fuga (in inglese: fight or flight). Ma nel caso in cui la minaccia sia di tale entità da provocare uno shock emotivo (come quando l’individuo si trova coinvolto in una situazione disastrosa o catastrofica), il risultato può essere quello del Disturbo Post-Traumatico da Stress.Lo stress disadattivo più frequentemente si verifica quando la situazione stressogena diventa abitudine, subentrando così una tendenza alla preoccupazione, uno stato d’ansia perdurante. Viene definito sindrome di attivazione perché una costante attivazione delle risorse dell’organismo è logorante e, alla lunga, produce danni: i cosiddetti disturbi da stress (Anchisi e Dessy, 2008).

Per Selye (1976) lo stress è “l’essenza della vita”, non è un fenomeno legato all’emergenza: ci può essere una buona o una cattiva gestione dello stress (rispettivamente, eustress e distress). Nel caso del distress, ciò che è negativo non è la risposta allo stimolo, ma i sentimenti negativi che l’accompagnano. Sono i sentimenti negativi che di per sé procurano danno (Anchisi e Dessy, 2008). Il concetto strettamente connesso a questa visione è quello di “adattamento”, il quale presuppone modificazioni fisiologiche o patologiche (malattie da disadattamento). Per designare questo processo dinamico, Selye coniò il termine eterostasi (Bottaccioli,2006). 


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Il burnout negli insegnanti

Introduzione

Quando le richieste provenienti dall’ambiente esterno spingono costantemente l’individuo a fornire prestazioni superiori al normale, è possibile che si venga a creareuno squilibrio che può essere definito “stress”. Selye (1936), uno dei più grandi studiosi dello stress, lo definì come “una condizione aspecifica in cui si trova l’organismo quando deve adattarsi alle esigenze imposte dall’ambiente”, ossia una reazione che ognuno di noi ha di fronte a diverse richieste, difficoltà o prove.

Esso è parte del nostro vivere; ha valenza positiva (eustress) quando è caratterizzatoda una durata breve, mentre diventa nocivo (distress) nel momento in cui si protrae per lunghi periodi di tempo.

A tal proposito,una o più condizioni stressogene, se particolarmente intense o protratte nel tempo, possono indurre l’ormai nota sindrome del burnout (Maslach, 1982). Questo fenomeno avviene quando si creano due forti discrepanze tra alte richieste del lavoro e la persona che lo svolge, creando così alti livelli di stress cognitivo, emotivo e sociale, vissuti come ingestibili (Rossati & Magro, 1999).

Secondo un primo modello del burnout di Maslach (1982), la sindrome è caratterizzata da esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale.

I sintomi dell’esaurimento psicofisico riconducibili al burnout sono dati da: insonnia e disturbi da somatizzazione (ad es. cefalea, disturbi gastrointestinali); un rilevante senso di affaticamento dopo il lavoro ed alta incapacità di concentrazione. La depersonalizzazione si manifesta invece con: atteggiamenti colpevolizzanti nei confronti degli utenti; cinismo; perdita di sentimenti positivi verso gli utenti (ad es: respingere le telefonate); assenteismo e resistenza a recarsi a lavoro. La ridotta realizzazione professionale si associa al disinvestimento, al senso di fallimento personale e professionale.  

Secondo alcuni autori sembrano essere più esposti al burnout coloro che possiedono una ridotta resistenza individuale agli stimoli (nota come hardiness), la quale permette di reagire alle sollecitazioni con tenacia (Marck, 1990). La personalità hardy possiede tre caratteristiche:  •è consapevole del proprio ruolo nella società e del significato attribuito alla propria esistenza

  • percepisce le novità come stimolo anziché come insidia
  • sente di poter controllare gli eventi senza esserne sopraffatto.

Il burnout degli insegnanti è stato ampiamente discusso a livello internazionale. Fino ad oggi sono stati ottenuti dei risultati sovrapponibili riguardo al burnout degli insegnanti appartenenti a Paesi diversi (Chan, 1995; Manthei, 1988); dai essi è possibile dedurre che il burnout si classifica come un fenomeno psicosociale molto complesso, in cui entrano in gioco fattori di rischio personali, relazionali e ambientali.


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Utilizzo di Internet: introduzione

Abstract

L’utilizzo di Internet è in grado di influenzare la vita degli utenti condizionandone abitudini e comportamenti. La seguente ricerca indaga quei fattori come supporto sociale, autostima, mindfulness ecc. in grado di indirizzare l’utente verso un suo uso funzionale o problematico della Rete.

All’indagine hanno partecipato 807 emerging adults, individui che si trovano in una fase della vita di grande instabilità dovuta all’uscita dal periodo adolescenziale per affacciarsi nella prima età adulta. Questo comporta la costruzione di nuovi legami e l’assunzione di nuove responsabilità. A riguardo è stata valutata l’influenza dei Social Network Sites (SNS) nel fornire un utile supporto per affrontare queste delicate transizioni di vita. La ricerca si focalizza anche sulla sfera negativa dell’utilizzo di Internet distinguendo tra uso problematico e dipendenza, facendo luce sui fattori di rischio. I partecipanti allo studio hanno risposto ad un questionario online in italiano, diffuso attraverso i Social Network Sites (SNS) con la collaborazione dell’Università di Bologna. I risultati dimostrano come gli individui che godono di un basso supporto sociale nella vita reale per colmare questa lacuna lo ricercano online. Questo aspetto a sua volta predice la possibilità di incorrere in un uso problematico di Internet (PIU). In questa situazioni l’individuo può arrivare a preferire le interazioni sociali online piuttosto che quelle faccia a faccia. Parallelamente è stato dimostrato come un basso livello di mindfulness sia correlato all’uso problematico di Internet (PIU). Tra gli strumenti della Rete, i Social network Sites (SNS) sono ampiamenti diffusi tra gli emerging adults ed è emerso come un uso frequente di Facebook sia correlato ad una bassa autostima. Allo stesso tempo, però, l’uso di Facebook predice lo sviluppo di capitale sociale, importante risorsa in grado di aiutare gli emerging adults durante le transizioni tipiche di questa età.

Introduzione

 Il lavoro prende spunto da alcuni studi sul rapporto tra vita reale (offline) e vita in rete (online) delle persone. Il tema è molto attuale e riveste una grande rilevanza sociale considerando l’uso diffuso di Internet ai giorni nostri, sia per motivi lavorativi o di studio, sia per semplice piacere personale. Per questa ragione risulta interessante comprendere l’influenza che può avere l’utilizzo della Rete sulla vita delle persone analizzando le connessioni che scaturiscono tra la vita offline e quella online. Il tema riveste anche una buona rilevanza scientifica, come dimostra il grande numero di studi effettuati negli ultimi dieci-quindici anni. Queste ricerche hanno potuto individuare, tra le altre cose, i fattori che conducono gli individui a fare un uso problematico di Internet (PIU) trascurando le sue risorse positive. Il seguente lavoro si focalizza principalmente sugli aspetti negativi legati all’utilizzo della Rete i quali possono scaturire, nei casi più estremi, nello sviluppo di una vera e propria dipendenza comportamentale di carattere patologico. Lo studio è rivolto ad una circoscritta fascia d’età, quella degli emerging adults, che si snoda tra i 18 e i 30 anni di vita. Questa delicata fase di sviluppo, come dimostrato dalla letteratura, è caratterizzata da varie transizioni di vita per le quali l’utilizzo di Internet e dei Social Network Sites in particolare, può fornire delle utili risorse in grado di aiutare gli individui ad affrontare delicate sfide di sviluppo. Lo studio si pone l’obbiettivo di dimostrare che determinati fattori personali generano specifiche situazioni che mediano l’utilizzo funzionale o disfunzionale di Internet da parte dell’utente. Nel primo capitolo si descrivono inizialmente le caratteristiche del periodo di sviluppo. In seguito si analizza il ruolo che svolge Internet ed in particolare i Social Network Sites (SNS) nel fornire possibilità di aiuto per superare le numerose sfide che costellano l’emerging adulthood. Nel secondo capitolo si analizzano quei fattori che hanno un effetto diretto sull’approccio degli utenti verso gli strumenti della Rete. In base a certe caratteristiche l’individuo è portato ad utilizzare Internet funzionalmente ai proprio scopi o in maniera disfunzionale. Nell’ultimo capitolo ci si focalizza sulle parte negativa dell’utilizzo della Rete distinguendo tra utilizzo problematico (PIU) e dipendenza da Internet.


© Emerging adults ed utilizzo di Internet: organo funzionale o strumentalità inversa? – Andrea Pivetti