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Formazione delle meta attribuzioni in contesti intragruppo e intergruppi

Formazione delle meta-attribuzioni in contesti intragruppo e intergruppi

 

La salienza o meno dell’appartenenza di gruppo fa sì che le persone pensino di essere percepite in termini di gruppo o in termini di individuo, e ciò influenza fortemente le strategie che vengono utilizzate per la formazione della meta-attribuzioni.

Diverse teorie della psicologia sociale hanno dimostrato che le persone tendono a vedere in maniera maggiormente positiva il proprio ingroup, e a credere che anche l’ingroup lo veda positivamente, mentre tendono a non fidarsi dei membri dell’outgroup, aspettandosi di essere valutati negativamente o che questi abbiano intenzioni negative nei suoi confronti.

Inoltre, è stato dimostrato, sia per gruppi creati artificialmente sia per gruppi minimali, che si tende a credere che i membri del proprio gruppo siano più simili a sé e abbiano opinioni e convinzioni simili alle proprie; viceversa, i membri dell’outgroup sono visti come maggiormente diversi e si crede che lo siano anche le loro opinioni. Ciò può portare anche ad aspettarsi che le proprie caratteristiche reali siano meno trasparenti per i membri dell’outgroup rispetto a quanto lo sono per quelli dell’ingroup. Secondo Ames (2004) ciò coinvolge la formazione delle meta-attribuzioni, che sono maggiormente basate sulla proiezione quando ci si sente simili all’osservatore, mentre sono maggiormente basate sugli stereotipi quando ci si sente diversi. Frey e Tropp (2004) descrivono strategie di formazione delle meta-attribuzioni differenti per i contesti intragruppo e per quelli intergruppi.

Nei contesti intragruppo le persone si sentono solitamente più a proprio agio, assumendo che gli altri membri dell’ingroup abbiano dei punti di vista simili ai propri: in queste situazioni la proiezione degli stati mentali sui membri dell’ingroup è più robusta. È da evidenziare come in questi casi l’immagine di sé che proiettano sia quella di un membro di un gruppo, in particolare se l’appartenenza di gruppo è saliente (per cui ci si aspetta di essere percepiti come tali). Questo processo è coerente con gli studi sull’auto-stereotipizzazione, per cui se l’appartenenza è saliente le persone tendono a vedersi mediante le caratteristiche positive che distinguono il proprio gruppo; inoltre, si accentua la similarità percepita e l’attrazione verso altri membri che mostrano le stesse caratteristiche prototipiche. In questo caso, le persone proiettano una visione positiva di se stesse in quanto membri dell’ingroup con le caratteristiche positive prototipiche. In base al grado in cui le persone si ritengono rappresentative delle caratteristiche del proprio ingroup, può variare l’immagine che hanno di se stesse e che può essere proiettata sugli altri: in sostanza, anche se membri con bassa prototipicità possono aspettarsi di essere percepiti come membri del gruppo, essi possono anche provare un senso di emarginazione se si aspettano di essere percepiti in modo diverso dalle caratteristiche che definiscono l’ingroup.

Relativamente ai contesti intergruppi, le ricerche sull’identità sociale suggeriscono che quando l’appartenenza di gruppo è saliente si tende anche ad accentuare le differenze tra il proprio gruppo e gli altri (Hogg, 2003). In questi casi le persone, nella loro meta-attribuzione (ovvero nella lettura delle menti altrui), si appoggiano maggiormente alla stereotipizzazione. Ames (2004) dimostra che proiezione e stereotipizzazione sono correlate negativamente, ed in caso di alta dissimilarità percepita, le persone utilizzano principalmente quest’ultima per determinare cosa i membri dell’outgroup pensino di loro. Gli stereotipi possono agire in due modi nella meta-attribuzione. Nei contesti intergruppi, i membri di gruppi differenti hanno una comprensione consensuale delle caratteristiche comunemente associate al proprio gruppo e agli altri: quindi, se da una parte ci si basa sugli stereotipi sull’outgroup per tentare di capire cosa essi pensino di noi (come se questi pensassero a degli oggetti), dall’altro gli stereotipi sul proprio ingroup diventano rilevanti per prevedere qual è l’immagine che si mostra ad essi. Inoltre, visto che generalmente le relazioni intergruppi sono costruite in termini di sfiducia, le persone si aspettano di essere valutate negativamente dall’outgroup, che l’outgroup le percepisca secondo gli stereotipi negativi che caratterizzano l’ingroup (Vorauer & Kumhyr, 2001) e che i membri dell’outgroup le considerino maggiormente stereotipiche del proprio ingroup di quanto le persone ritengano (Frey & Tropp, 2004).

Quindi, mentre nelle meta-attribuzioni intragruppo ci si focalizza sugli stereotipi positivi sull’ingroup, in quella intergruppi si dà più rilevanza agli stereotipi negativi dell’ingroup: ciò dipende anche dalla misura in cui questi stereotipi negativi si ritenga caratterizzino anche il sé. Frey e Tropp (2004) suppongono che, quando non ci si percepisce in base agli stereotipi negativi del proprio gruppo, ci si aspetti in maniera minore di essere percepiti in questo modo e ci si senta in qualche modo maggiormente simili all’outgroup, particolarmente nel caso in cui questi stereotipi sono legati al pregiudizio (Vorauer & Kumhyr, 2001). In sintesi, sebbene le strategie di formazione della meta-attribuzione siano sempre le stesse, i processi di formazione cambiano in diversi modi prevalentemente in base al tipo di contesto: in base alla similarità percepita, se questa è alta (contesto intragruppo) si tende a usare la proiezione anziché la stereotipizzazione; varia anche la valenza della meta-attribuzione, che si basa sulle caratteristiche positive che definiscono l’ingroup nei contesti intragruppo, mentre è basata sulle sue caratteristiche negative nei contesti intergruppi; infine, in base a quanto le persone si sentono membri prototipici del proprio gruppo, varia la percezione che queste caratteristiche (positive o negative) influiscano sull’opinione che gli altri membri dell’ingroup o dell’outgroup si formano di loro.

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

Definizione caratteristiche fattori delle meta-attribuzioni

Definizione, caratteristiche e fattori delle meta-attribuzioni

L’essere umano, oltre a percepire gli altri, ha la marcata tendenza ad elaborare le informazioni sulla percezione che gli altri hanno di lui: questo fenomeno, chiamato “meta-attribuzione”, consiste appunto nel pensare a come gli altri osservatori ci percepiscono.

La ricerca ha analizzato prevalentemente la meta-attribuzione che si forma in un contesto interpersonale, anche se negli ultimi anni è stata approfondita questa teoria estendendola ai contesti intergruppi. Ames (2004) ha elaborato un modello generale della formazione delle meta-attribuzioni nelle relazioni interpersonali, proponendo una serie di strumenti che le persone utilizzano nel provare a leggere le menti altrui (il “mind reader’s tool kit”). In particolare, l’autore suggerisce che la meta-attribuzione si basa sull’osservazione dei comportamenti verbali e non verbali degli altri, nella proiezione del proprio punto di vista in quello altrui e nella stereotipizzazione. Frey e Tropp (2004) aggiungono a questi tre processi di formazione della meta-attribuzione, il tentativo di assumere la prospettiva altrui.

Una delle strategie che le persone usano per capire come gli altri le percepiscono è, come accennato, l’osservazione dei comportamenti altrui; questa, pur essendo spesso l’unica strategia disponibile, porta a conclusioni sbagliate.

Infatti, generalmente si tende a pensare che differenti tipi di osservatori ci vedano in maniera analoga e che i feedback forniti siano esaurienti nel formare le proprie meta-attribuzioni (Kenny & DePaulo 1993). In realtà, è stato dimostrato che le persone non forniscono solitamente dei feedback totalmente onesti e diretti (neanche in caso di amicizia stretta) e quindi essi non sono sufficienti e determinare realmente la percezione che gli altri hanno di noi. Questi feedback sono esaurienti soltanto in alcuni casi particolari, in cui essi non dipendono neanche dalla valutazione positiva o negativa che gli altri formano nella loro mente: ciò è stato dimostrato per bambini in tenera età che esprimono liberamente ed esplicitamente la propria opinione sugli altri (Felson, 1980).

Il secondo strumento utilizzato per la formazione delle meta-attribuzioni coinvolge la tendenza a pensare che gli altri ci vedano come noi stessi ci vediamo, mediante la proiezione della propria visione di se stessi. Le persone che si vedono in maniera positiva pensano generalmente che gli altri li vedano in maniera positiva (accade il viceversa se si ha un opinione negativa di sé).

Anche chi si giudica diversamente in base all’interazione con partner diversi pensa che questi partner li percepiscano diversamente. Infine, le persone credono che i membri dei vari gruppi sociali ai quali appartengono li percepiscano in maniera simile, anche se ciò non corrisponde al vero. Queste tendenze sono dovute a due bias diversi: il primo, chiamato falso consenso fa sì che si sovrastimi il grado con cui gli altri pensano e agiscano in modo simile a se stessi, assumendo che ci sia una corrispondenza tra la propria percezione e quella degli altri; il secondo, chiamato sovrastima della trasparenza fa sì che, all’aumentare dell’autoconsapevolezza della persona, essa tenda a credere che i proprio pensieri e le proprie emozioni siano egualmente chiari e accessibili anche agli altri (Frey & Tropp, 2004).
Quando si tenta di prevedere pensieri e opinioni degli altri (come avviene nella meta-attribuzione), spesso ci si basa sugli stereotipi, in particolare in contesti intergruppi: ciò perché i membri dei gruppi spesso sono consapevoli degli stereotipi che gli altri hanno sul proprio gruppo, e quindi sono influenzati da questa consapevolezza nella formazione delle proprie meta-attribuzioni; ciò accade particolarmente se essi immaginano preventivamente di dover essere percepiti dai membri dell’outgroup.
L’ultimo processo coinvolge il tentativo di assumere la prospettiva degli altri, nel cercare di determinare come essi ci percepiscono. La ricerca sulla presa di prospettiva indica che quando si tenta di assumere la prospettiva altrui le persone attuano un processo reiterato che parte dalla propria prospettiva e si modifica progressivamente, sino a quando si crede di aver raggiunto una stima plausibile della prospettiva altrui (Epley & Gilovich, 2004). In realtà, questi aggiustamenti alla propria prospettiva sono raramente sufficienti, e non si riesce a comprendere pienamente la prospettiva altrui: in questo contesto, ciò suggerisce che è probabile che le persone si aspettino di essere percepite in maniera simile a come si percepiscono, e quindi le meta-attribuzioni che si formano non sono molto differenti da quelle che si svilupperebbero proiettando semplicemente il proprio punto di vista sugli altri.
Frey e Tropp (2004) sottolineano come le persone possano essere viste dagli altri in termini individuali o di appartenenza ad un gruppo, per cui è possibile che si basino su strategie di comprensione della mente altrui differenti se si aspettano di essere viste in un modo o in un altro. La teoria dell’identità sociale infatti distingue due livelli di identità differenti: quella personale, basata sulle proprie caratteristiche individuali, e quella sociale basata sulla propria appartenenza ad un gruppo (Hogg, 2003). La teoria della categorizzazione di sé inoltre espande questo concetto affermando che in base alla situazioni sociali possono emergere diversi livelli di categorizzazione di sé: in particolare alcuni concetti di sé possono attivarsi dipendentemente dal contesto sociale, ed esiste un antagonismo funzionale tra la salienza dell’autocategorizzazione individuale e quella di gruppo (Turner, Hogg, Oakes, Reicher & Wetherell, 1987). Nello specifico, quando l’appartenenza di gruppo è saliente le persone tendono a pensare a se stesse come membri di un gruppo, mentre se ciò non avviene esse considerano maggiormente se stesse come individui. Queste due teorie sono di notevole importanza per stabilire se le meta-attribuzioni che si formano sono di tipo interpersonale o di tipo intergruppi, ed esistono diversi fattori situazionali o individuali che incidono su come la persona si aspetta di essere vista dagli altri (ovvero come singola persona o come membro di un gruppo).
I fattori situazionali che influiscono sulla salienza dell’appartenenza di gruppo sono il conflitto intergruppi, la semplice presenza di un membro di un gruppo, la numerosità relativa dei gruppi e la stigmatizzazione. La presenza di conflitti di gruppo (di tipo materiale o solamente psicologico) ha una notevole influenza nel determinare quanto fortemente le persone siano percepite come membri del rispettivo gruppo. All’intensificarsi di questi conflitti, è più probabile che le persone si percepiscano maggiormente sulla base del proprio gruppo di appartenenza piuttosto che sulle proprie caratteristiche individuali, ed aumenta anche la tendenza a percepire gli altri in base alla loro appartenenza di gruppo. Relativamente alla meta-attribuzione, ciò aumenta la tendenza ad aspettarsi che gli altri ci percepiscano come membri di un gruppo anziché come individui.
Anche in assenza di conflitti intergruppi, la semplice presenza di un membro dell’outgroup promuove il confronto tra gruppi, e il fatto che si percepiscano simultaneamente una somiglianza maggiore con i membri del proprio gruppo e delle differenze più grandi rispetto all’altro provoca la tendenza a percepire sé e gli altri in termini di appartenenza al gruppo. Anche questo fattore porta quindi ad immaginare che gli altri percepiscano noi stessi principalmente come membri di un gruppo.
Analogamente, l’appartenenza ad un gruppo minoritario fa aumentare la salienza dell’appartenenza di gruppo, perché ci si sente maggiormente consapevoli della propria appartenenza e rappresentativi del proprio gruppo.
Infine, l’essere membro di un gruppo stigmatizzato porta ad una maggiore attenzione sulla percezione degli altri verso il proprio gruppo nel tentativo di prevedere come si verrà trattati e di evitare di essere stereotipizzati (come avviene per le donne nel campo della matematica). Anche ciò porta ad aspettarsi percezioni altrui basate sull’appartenenza di gruppo.
I fattori individuali che influiscono sulla salienza dell’appartenenza al gruppo sono invece l’identificazione con l’ingroup, la consapevolezza di appartenervi e la sensibilità ad essere respinti per la propria appartenenza. Gli individui che si identificano fortemente con il proprio gruppo mostrano una maggiore probabilità di considerarsi membri dell’ingroup, di sentirsi simili ai suoi membri, e di essere attratti da essi (in particolare se essi rispecchiano fortemente i valori del gruppo): ciò può portare ad aspettarsi di essere visti in termini di gruppo piuttosto che individuali. Vi sono casi in cui, anche se non vi è una forte identificazione con l’ingroup, la mera consapevolezza di essere membro di un gruppo può aumentare la salienza di appartenenza percepita (Tropp & Wright, 2001): in questo caso, anche se si resiste alla categorizzazione di sé di come membro di un gruppo, distanziandosi da esso, si può ugualmente percepire che gli altri ci vedono come appartenente ad esso (Branscombe & Ellemers, 1998). Inoltre, chi ha questa percezione può interpretare situazioni ambigue in termini di appartenenza al gruppo, aspettandosi di essere respinto dall’outgroup solo in quanto membro dell’ingroup (Mendoza-Denton, Downey, Purdie, Davis & Pietrzak, 2002).

 

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

 

Le conseguenze per il percipiente

Le conseguenze per il percipiente

 

Il percepire degli stati mentali (percezione della mente) in un’altra entità intensifica l’esperienza psicologica degli eventi, anche casuali, da parte del percipiente, in quanto gli eventi intenzionali (che possono essere ricorrenti e richiedere una reazione) vengono vissuti in maniera più intensa rispetto a quelli accidentali, e possono indurre a una maggiore elaborazione cognitiva e razionalizzazione. Per esempio, è stato dimostrato che uno shock elettrico risulta più doloroso se somministrato intenzionalmente, e che le persone giudicano le aggressioni intenzionali come più crudeli di quelle accidentali (Cushman, 2008). Inoltre, visto che chi percepisce vuole essere valutato positivamente dagli altri, se si percepisce che le altre entità abbiano una mente si possono intensificare i comportamenti pro sociali. Il credere che esistano delle menti che ci sorveglino è adattivo e solitamente incrementa i comportamenti pro sociali di cui beneficia il proprio ingroup (Graham & Haidt, 2010) e riduce quelli antisociali che possono portare a delle punizioni. Ad esempio, la convinzione che dei e spiriti possano osservare il nostro comportamento porta ad essere meno disonesti o a fare donazioni economiche più generose; anche il semplice evocare le caratteristiche esteriori di una mente (come due occhi che ci osservano) ci spinge a seguire un codice morale punendo chi agisce in maniera sbagliata. In alcuni casi, questo fenomeno può portare a conseguenze personali negative: è il caso degli schizofrenici paranoici, la cui percezione della mente iperattiva gli fa credere di essere costantemente sorvegliati (Crespi & Badcock, 2008). Inoltre, il percepire una mente in un contesto morale può portare a credere che ce ne sia anche una seconda poiché lo schema psicologico per gli eventi morali coinvolge almeno due menti: un agente morale compie l’atto ed un paziente morale che lo subisce. Quindi, se delle persone sono danneggiate o vittimizzate esse cercano un responsabile che può essere un’altra persona, un animale o Dio; viceversa, quando vedono un comportamento moralmente sbagliato immaginano la presenza di una vittima che lo subisca.

I percipienti tendono anche a caratterizzare agenti e pazienti morali secondo il loro aspetto mentale prevalente mediante il fenomeno definito “moral type-casting”, ignorando l’experience degli agenti e l’agency dei pazienti: ciò spiega la riluttanza a criticare le vittime o come compiere atti morali incrementi l’agency della persona. L’attribuzione di minori capacità mentali ad un’entità riduce anche il suo stato morale, portando a giustificare le proprie responsabilità dopo aver aggredito qualcuno, percependo quest’ultimo come mancante di capacità mentali. In definitiva, la percezione della mente è legata in modo inscindibile alla moralità anche perché gli eventi morali (punizioni o ricompense) sono principalmente eventi sociali.

 

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

I mediatori dell’amicizia cross-group estesa

I mediatori dell’amicizia cross-group estesa

 

Wright et al. (1997), propongono quattro meccanismi mediante cui l’amicizia cross-group estesa può ridurre il pregiudizio migliorando l’atteggiamento verso l’outgroup: la riduzione dell’ansia intergruppi, le norme dell’ingroup, le norme dell’outgroup e l’inclusione dell’outgroup nel sé.

La riduzione dell’ansia intergruppi

Come per le amicizie di tipo diretto, anche osservando una relazione positiva tra i membri dell’ingroup e dell’outgroup si possono ridurre le aspettative negative circa le interazioni future con questi. Inoltre, rispetto all’amicizia crossgroup diretta, l’amicizia cross-group estesa non porta ad interazioni concrete, per cui i partecipanti non risentono dell’ansia iniziale legata all’incontro con l’altro gruppo.

Le norme dell’ingroup

In questo caso, la riduzione del pregiudizio è collegata alla percezione di norme dell’ingroup positive verso l’outgroup, in quanto coinvolge l’osservazione di comportamenti positivi di un membro dell’ingroup che interagisce con un membro dell’outgroup.  Whight et al. (1997) notano inoltre come l’appartenenza al rispettivo gruppo è più saliente per chi osserva il contatto rispetto a chi è direttamente coinvolto nell’interazione, e ciò porta alla categorizzazione di sè come un membro intercambiabile del gruppo, altamente influenzato dai suoi principi e atteggiamenti (Spears, Doosje & Ellemers, 1999). In queste circostanze, gli altri membri del gruppo sono visti come una fonte importante di informazioni riguardanti le opinioni condivise dal gruppo. In conclusione, osservare un membro dell’ingroup comportarsi positivamente verso l’outgroup porta alla percezione che vi siano dei principi generalmente positivi dell’intero ingroup verso l’outgroup.

Le norme dell’outgroup 

In maniera analoga, l’amicizia cross-group estesa sviluppa la percezione che anche l’outgroup abbia delle norme positive riguardo alle interazioni con l’ingroup. Infatti, vedere un membro dell’outgroup comportarsi in maniera amichevole verso l’ingroup genera l’informazione che l’outgroup è interessato a relazioni intergruppi positive. Come si è detto, inoltre, l’appartenenza al gruppo è particolarmente saliente nell’amicizia cross-group estesa, e ciò incrementa la probabilità che la persona coinvolta venga vista come rappresentativa dell’intero gruppo e che le sue azioni e i suoi atteggiamenti riflettano i principi generali dell’outgroup (Brown & Hewstone, 2005). In accordo al principio di reciprocità, vi è la tendenza a farsi piacere le persone a cui si percepisce di piacere e, quindi, se la persona vede un membro dell’outgroup interessato ad una relazione positiva con lei è probabile che si reagisca in maniera analoga.

L’inclusione dell’outgroup in se stessi (IOS)

Da diversi studi è emerso che, quando avviene la categorizzazione di sé come membro di un gruppo l’ingroup viene incluso in se stessi, ovvero si crede che le caratteristiche dell’ingroup rappresentino anche le proprie (Tropp & Wright, 2001). Inoltre, vi è la tendenza a raggruppare le persone che si percepisce essere amici trattandoli come una singola unità cognitiva. Quando avvengono contemporaneamente questi due fenomeni, il membro dell’outgroup è percepito sovrapposto cognitivamente al membro dell’ingroup, diventando dunque parte anche di se stessi. Infine, per lo stesso processo è probabile che il membro dell’outgroup includa il proprio gruppo in se stesso, e quindi per l’osservatore cresce anche la misura in cui l’outgroup viene incluso in se stessi (Turner et. al., 2007). In definitiva, tramite una amicizia cross-group estesa è maggiormente probabile che l’outgroup venga trattato come se stessi (e quindi positivamente) condividendo risorse, sentendosi orgogliosi dei successi dell’altro e triste per i suoi insuccessi (Aron, Aron, Tudor & Nelson, 1991).

Tutti e quattro i meccanismi sono stati testati simultaneamente mediante due studi (Turner et al., 2007): il primo su 142 studenti bianchi delle scuole medie, il secondo su 120 studenti bianchi delle scuole superiori. In entrambi, sono stati esaminate le amicizie cross-group estese e gli atteggiamenti verso individui del sud-est asiatico. Sono stati misurati tramite diversi item l’ansia intergruppi (chiedendo ad esempio quanto si sentissero a proprio agio durante l’interazione con i membri dell’outgroup),le norme dell’ingroup (chiedendo ad esempio ai partecipanti quanto essi pensino che siano amichevoli i loro compagni bianchi con l’outgroup), le norme dell’outgroup (chiedendo ad esempio quanto pensano che ai membri dell’outgroup piacciano gli individui bianchi) e l’inclusione dell’outgroup in se stessi. Quest’ultima è stata misurato mediante la scala di inclusione (IOS) proposta da Aron et al. (1991), che utilizza una serie di coppie di cerchi che si sovrappongono in maniera crescente tra di loro. In questa scala, il primo cerchio rappresenta se stessi ed il secondo rappresenta i membri dell’outgroup: più i cerchi si sovrappongono e maggiore è l’inclusione dell’outgroup nel sé. In questi studi si è ipotizzato che alti livelli di vicinanza con l’amico dell’outgroup più stretto predicano atteggiamenti maggiormente positivi verso l’intero outgroup; inoltre, si è analizzato se i quattro processi medino la relazione tra amicizie cross-group estese e atteggiamento verso l’outgroup, e se ognuno di questi fattori abbia un ruolo di mediatore indipendente quando vengono controllate le altre tre variabili. Dai risultati è emerso che le amicizie cross-group di tipo esteso sono associate ad una minore ansia intergruppi, alla percezione di norme più positive sia riguardo all’ingroup che riguardo all’outgroup e ad una maggior inclusione dell’outgroup nel sé. A sua volta, questi quattro fattori sono associati ad un atteggiamento maggiormente positivo verso l’outgroup. Anche se non si può stabilire con certezza la direzione causale, gli autori presumono che siano le amicizie estese a ridurre il pregiudizio piuttosto che il contrario. Infine, viene evidenziato il ruolo di altri processi nella relazione tra contatto esteso e pregiudizio e viene sottolineato come, mentre l’amicizia cross-group diretta è fortemente legata all’opportunità di contatto tra i due gruppi, l’amicizia estesa non lo è. Riguardo agli altri processi di mediazione in relazione al contatto esteso, ne vengono esaminati in particolare due (Tam, Hewstone, Kenworthy & Cairns, 2009): la fiducia intergruppi e la rivelazione di sé all’altro. In questa ricerca, si evidenzia come sia il contatto a predire la fiducia piuttosto che il viceversa; inoltre, secondo quanto descritto in precedenza e in accordo con la teoria dell’apprendimento sociale, anche la rivelazione di sé all’altro media la relazione tra amicizia cross-group estea e atteggiamento verso l’outgroup.

Riguardo i fattori mediatori nelle amicizie cross-group, sono da citare due lavori condotti in contesti italiani considerando diversi rapporti intergruppi: quello tra eterosessuali e omosessuali (Capozza, Falvo, Trifiletti & Pagani, 2014) è quello tra italiani Settentrionali e italiani Meridionali (Capozza, Falvo, Favara & Trifiletti, 2013).

Nello studio di Capozza et al. (2014) si è testato se le amicizie cross-group dirette ed estese siano collegate ad una riduzione dell’infraumanizzazione e ad una umanizzazione dell’outgroup. Gli autori evidenziano come nello studio di questo fenomeno si considerino generalmente come proprietà unicamente umane le emozioni secondarie (cognitivamente complesse) e tratti umani come razionalità e consapevolezza. Si sono ipotizzati tre processi di mediazione primaria (IOS, norme di ingroup e outgroup) e tre mediatori secondari (ansia intergruppi, fiducia ed empatia verso l’outgroup). Essi sottolineano come l’inclusione dell’outgroup nel sé, nel caso di amicizia cross-group estesa, prenda la forma di un’inclusione transitiva: da un’iniziale sovrapposizione tra sé e il membro dell’ingroup, a una successiva sovrapposizione tra questi ed il suo partner nel contatto, e infine a un’incorporazione finale di quest’ultimo con l’intero outgroup. L’ipotesi è che l’IOS riduca l’infraumanizzazione dell’outgroup sia direttamente sia attraverso i mediatori secondari. Anche le norme dell’outgroup possono essere efficaci nella misura in cui i membri dell’outgroup sono percepiti come prototipici; gli effetti di tali norme dovrebbero essere mediati, nella relazione con l’infraumanizzazione, da empatia, fiducia e ansia intergruppi. Le norme dell’ingroup, nelle amicizie dirette, agiscono tramite il processo di “selfanchoring”, mentre in quelle vicarie possono portare alla conclusione che l’ingroup abbia delle norme favorevoli verso l’outgroup.

I partecipanti erano studenti universitari eterosessuali. Sono state misurate tramite diversi item: l’amicizia cross-group diretta ed estesa; i mediatori di primo livello (per l’IOS è stato utilizzato l’item grafico della scala d’inclusione dell’altro nel sé di Aron, Aron & Smollan,1992); i mediatori di secondo livello; le attribuzioni di umanità tramite quattro tratti unicamente umani (es. moralità) e quattro non unicamente umani (comune anche agli animali, es. istinto) in modo da analizzare diverse componenti del concetto di umanità. Le misure sull’umanità sono state sintetizzate in due indici, uno di infraumanizzazione (differenza tra ingroup e outgroup sui tratti unicamente umani) ed un altro di umanizzazione

(attribuzione di tratti unicamente umani all’outgroup). I dati hanno mostrano che avviene infraumanizzazione ma non deumanizzazione (ovvero i due gruppi risultano differenti solo per quanto riguarda i tratti unicamente umani). Solo il contatto esteso è associato ad una riduzione dell’infraumanizzazione attraverso la mediazione dell’IOS, il quale assieme alle norme dell’outgroup, costituisce un mediatore anche per l’umanizzazione dell’outgroup. I risultati mostrano quindi che il contatto esteso può essere collegato a minor infraumanizzazione tramite l’IOS, che riduce la distanza tra i due gruppi riguardo all’umanità percepita. Se si considera l’umanizazione, l’IOS, legata al contatto esteso, agisce tramite la riduzione dell’ansia, facendo percepire un minor bisogno di atteggiamenti aggressivi o difensivi verso l’outgroup. Per quanto riguarda l’amicizia cross-group diretta, essa è collegata solamente ad un incremento dell’empatia verso l’outgroup; si suppone che ciò sia dovuto al contesto dell’analisi (eterosessuali/omosessuali), in cui l’IOS è di difficile realizzazione nel contatto diretto.

Nel secondo studio (Capozza et al., 2013) viene analizzato l’effetto dell’amicizia cross-group, sia diretta che estesa, sull’umanizzazione dell’outgroup, considerando gli stessi mediatori di primo livello (norme ingroup, norme outgroup, IOS) e di secondo livello (ansia, empatia e fiducia) in un contesto notevolmente diverso, ovvero quello tra italiani Settentrionali e  Meridionali; vengono inoltre testati alcuni modelli alternativi. Capozza et. al. (2013) evidenziano che oltre ad attribuire più emozioni secondarie all’ingroup rispetto all’outgroup, può anche avvenire deumanizzazione di tipo animalistico o meccanicistico, assimilando l’outgroup ad animali o oggetti inanimati. Ansia, fiducia ed empatia dovrebbero essere mediatori emozionali secondari tra le amicizie (sia dirette che estese) ed un aumento dell’umanizzazione dell’outgroup.

Gli autori considerano l’ansia un mediatore secondario proprio perché di tipo emozionale, e quindi un antecedente più diretto di atteggiamenti, percezioni e comportamenti. I partecipanti erano, anche in questo caso, studenti universitari settentrionali, con genitori settentrionali, nati e residenti nel Nord Italia. Si sono usate le stesse misure dello studio precedente, con la differenza che l’IOS è stato rilevato anche attraverso un item costituito da una domanda sull’inclusione nella propria identità di quella meridionale. I risultati mostrano che l’IOS è generalmente moderato, e che mentre vengono attribuiti più tratti unicamente umani all’ingroup, quelli non unicamente umani vengono attribuiti in misura maggiore all’outgroup. Le analisi hanno mostrato che l’amicizia diretta predice l’IOS, che a sua volta predice l’umanizzazione tramite la mediazione di tutte e tre le emozioni ipotizzate. Invece, per l’amicizia estesa, i mediatori di primo livello sono solamente le norme dell’ingroup. Vengono inoltre testati due modelli alternativi: nel primo vengono invertiti i mediatori di primo e di secondo livello, mentre nel secondo si testa il modello originale di Wright et al. (1997) in cui la relazione tra contatto esteso e umanizzazione è mediata da ansia, IOS, norme ingroup e norme outgrop. Entrambi questi modelli, comunque, forniscono dei risultati peggiori. Gli autori concludono che l’amicizia cross-group diretta ed estesa è collegata ad una maggiore attribuzione di tratti unicamente umani all’outgroup e quindi ad una maggiore umanizzazione. Inoltre, solo l’IOS è un mediatore di primo livello significativo nel contatto diretto e solo le norme ingroup lo sono nel contatto esteso (gli autori ipotizzano che il membro dell’outgroup abbia un ruolo periferico e quindi venga limitato l’IOS). L’effetto trascurabile del contatto esteso sulle norme ingroup potrebbe dipendere dal contesto analizzato in cui i settentrionali sono consapevoli della loro presunta superiorità socioeconomica e si curano poco dell’atteggiamento dei Meridionali verso di loro. Viene confermato il ruolo dell’ansia come mediatore di secondo livello, che agisce tramite un incremento dell’IOS nel caso di amicizie dirette e mediante la percezione di norme ingroup favorevoli nelle esperienze vicarie. In particolare, ciò dimostra che in questa relazione i fattori cognitivi e quelli affettivi operano seguendo un ordine sequenziale. Infine, gli autori suggeriscono che in altri contesti intergruppi (con outgroup etnici, religiosi, razziali o stigmatizzati) i mediatori possano agire in maniera differente. In particolare, per gruppi stigmatizzati come obesi e disabili, l’IOS può essere un mediatore nel contatto esteso, ma non in quello diretto, come dimostrato nello studio precedente sulla relazione con gli omosessuali.

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

Amicizia cross-group diretta ed estesa

Amicizia cross-group diretta ed estesa

 

Vengono ora analizzate due particolari forme di contatto che mostrano effetti notevoli nella riduzione del pregiudizio: l’amicizia cross-group diretta, che si sviluppa tramite contatto diretto tra i membri dei due gruppi antagonisti, e l’amicizia cross- group estesa, esperienza vicaria che consiste invece nella sola conoscenza che un altro membro dell’ingroup ha un’amicizia con un membro dell’outgroup. Pettrigrew (1997) riformula l’ipotesi del contatto di Allport (1954), affermando che la ricerca sul contatto intergruppi doveva focalizzarsi, piuttosto che su contatti di breve durata, sull’efficacia delle relazioni strette a lungo termine nella riduzione del pregiudizio (Turner, Hewstone, Voci, Paolini & Christ, 2007).

L’autore aggiunge alle quattro condizioni di Allport una quinta condizione, ovvero che la situazione di contatto fornisca l’opportunità di un’amicizia tra i membri dei due gruppi. Questa condizione si basa sull’assunzione che l’amicizia può risultare particolarmente efficace per due motivi: i fattori associati al contatto intergruppi ottimale sono simili a quelli che favoriscono la nascita di un’amicizia interpersonale, e l’attrazione interpersonale è favorita da cooperazione, un fine comune, l’interdipendenza e uno status uguale. Di conseguenza, in un contesto intergruppi, l’amicizia può portare all’attrazione intergruppi. In secondo luogo, un contatto di alta qualità come l’amicizia, piacevole e confortevole, è associato ad una maggiore positività negli atteggiamenti verso l’outgroup (Voci & Hewstone, 2003). L’amicizia (Pettigrew & Tropp, 2006) risulta essere la condizione più forte, poiché nessuna delle quattro condizioni stabilite da Allport risultano essere essenziali (sono invece facilitanti) e poiché la sensazione di vicinanza interpersonale, che è la determinante primaria per un contatto cross-group efficace, è più probabile sotto le condizioni che determinano il sussistere dell’amicizia stessa. In realtà, erano già presenti nell’ipotesi del contatto di Allport (1954) e Amir (1969) alcuni riferimenti impliciti all’amicizia cross-group: gli autori avevano notato come contatti più intimi avessero un miglior impatto sul pregiudizio rispetto a quelli casuali e superficiali.

Ma perché l’amicizia è così efficace? Essa è un elemento molto importante nella vita sociale umana in quanto attiva funzioni personali e sociali critiche, e perciò quasi tutti sono motivati ad iniziare e far crescere questo tipo di relazioni.

In confronto alla semplice conoscenza, l’amicizia include una maggior percezione di coesione tra i partner, comportando maggiore apertura, fiducia, condivisione di segreti, promesse, commenti positivi, supporto e reciprocità (Davies, Wright, Aron & Comeau, 2013). Già Duck, nel 1983, aveva sottolineato diversi benefici dell’amicizia: il senso di appartenenza, l’integrità e la stabilità emotiva, l’opportunità di parlare di se stessi, l’assistenza e il supporto, la sicurezza di crescere, l’opportunità di aiutare e sentirsi utili ed il supporto alla personalità: l’amicizia infatti, ha un effetto potente sullo sviluppo di un senso di sé pieno, coerente e soddisfacente e ci permette di testare gli elementi della nostra identità, proprio perché gli amici sono a proprio agio nell’essere onesti a vicenda rispondendo ai nostri sforzi auto-presentativi e dandoci informazioni utili su chi siamo. Inoltre, essa ci aiuta a raggiungere i nostri obiettivi e a seguire le aspirazioni personali, per cui si tenderebbe a diventare amici di persone che possano aiutarci a diventare la persona che vorremmo essere. Essa ci dà quindi l’opportunità di crescere come individui e di avere vite più piene e soddisfacenti. Tutto ciò suggerisce che, quando l’amicizia si forma superando i confini di gruppo, essa risulta particolarmente efficace nell’alterare la comprensione individuale del proprio mondo sociale e personale; alcune ricerche recenti evidenziano come l’amicizia sia particolarmente efficace nel cambiare positivamente l’atteggiamento intergruppi.

Pettrigrew (1997) analizzò 3.800 partecipanti di gruppi maggioritari (provenienti da Francia, Inghilterra, Germania Ovest, Olanda), i quali riportavano il loro atteggiamento verso gruppi minoritari della propria nazione, e l’esistenza o meno di amicizie con individui di altre nazionalità, razze, culture, religioni o classi sociale. In tutti i casi, i partecipanti che avevano delle amicizie con membri dell’outgroup mostravano punteggi più bassi su cinque diverse misure di pregiudizio. L’effetto più rilevante delle amicizie con l’outgroup era sul pregiudizio affettivo (che misura quanto spesso si prova simpatia e ammirazione per l’outgroup), mentre i contatti di vicinanza o tra colleghi mostravano invece un impatto relativamente basso sul pregiudizio. Questo studio dimostra che vi è un legame tra amicizie intergruppi e riduzione del pregiudizio, anche se trattandosi di uno studio correlazionale non è chiaro se sia l’amicizia a ridurre il pregiudizio o il viceversa. Alcune analisi successive hanno però dimostrato che la relazione causale da amicizia cross-group a riduzione del pregiudizio è più forte rispetto alla relazione inversa. Pettigrew (1997) osservò, inoltre, che gli effetti dell’amicizia cross-group potevano essere generalizzati anche verso gruppi non coinvolti direttamente nel contatto (Van Laar, Levin, Sinclair & Sidanius, 2005).

Come evidenziato da Wright et al. (1997) nella loro ipotesi del contatto esteso, i benefici dell’amicizia cross-group possono essere estesi anche ad esperienze vicarie, ovvero alla conoscenza che un membro dell’ingroup ha degli amici appartenenti all’outgroup. Infatti, se questi ultimi vengono giudicati come amichevoli e favorevoli a rapporti con l’ingroup, le interazioni intergruppi possono essere maggiormente positive; inoltre, vedere un membro dell’ingroup mostrare tolleranza verso l’outgroup può influenzare gli atteggiamenti degli altri membri dell’ingroup verso l’outgroup, rendendoli più favorevoli. Sebbene la ricerca suggerisca che è necessario conoscere un membro dell’ingroup che ha un amico nell’outgroup, gli effetti positivi vanno oltre l’amicizia cross-group estesa, estendendosi ad altre forme di esperienze vicarie come, ad esempio, la conoscenza di membri dell’ingroup che hanno colleghi o conoscenti nell’outgroup, oppure l’esistenza di amicizie con membri non appartenenti all’ingroup che a loro volta hanno degli amici nell’outgroup di interesse. Quest’affermazione èconfermata dallo studio di Turner, Crisp e Lambert (2007), che mostra come anche il solo immaginare di avere un contatto amichevole con un membro dell’outgroup sia sufficiente a ridurre il pregiudizio (Crisp & Turner, 2012).

Alla base dell’ipotesi dell’amicizia cross-group estesa vi è un parallelismo con due teorie psicologiche molto diffuse. La prima è la teoria dell’apprendimento sociale (Bandura, 1977), secondo cui il comportamento umano è appreso prevalentemente mediante l’osservazione dei comportamenti altrui: l’amicizia cross-group estesa è infatti una forma di apprendimento per osservazione dove, osservando comportamenti appropriati verso un membro dell’outgroup, si pongono le basi per una successiva amicizia cross-group diretta. La seconda teoria a cui si fa riferimento nell’ipotesi dell’amiciza cross-group estesa è la teoria dell’equilibrio di Heider (1959), dove le varie relazioni tra entità diverse devono combinarsi armoniosamente in modo da trovare un equilibrio ben bilanciato. Lo squilibrio infatti produce tensioni negative e porta ad azioni per tentare di ristabilire l’equilibrio. Nel caso dell’amicizia cross-group estesa, lo stato sbilanciato sussiste se un individuo che ha una relazione positiva con l’ingroup e negativa con l’outgroup osserva un altro membro dell’ingroup avere un’amicizia stretta con un membro dell’outgroup (Figura 2). Così c’è una relazione positiva tra l’osservatore ed il membro dell’ingroup, un’altra relazione positiva tra il membro dell’ingroup e il membro dell’outgroup, ma una relazione negativa tra l’osservatore e l’outgroup generando, quindi, uno squilibrio. In accordo con Heider, tra le varie strategie per ristabilire l’equilibrio, è inclusa la rivalutazione da parte dell’osservatore del proprio atteggiamento verso i membri dell’outgroup. Sviluppando un atteggiamento positivo verso l’outgroup si ripristina, infatti, l’equilibrio naturale, e tutte e tre le relazioni diventano positive.

Figura 2 – Applicazione della teoria dell’equilibrio di Heider all’amicizia crossgroup estesa (da Turner et al., 2007)

Grazie a queste due teorie è possibile dunque comprendere gli aspetti psicologici specifici e l’efficacia potenziale dell’amicizia cross-group estesa nella riduzione del pregiudizio.

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

Deumanizzazione: Strategie di riduzione

Deumanizzazione: Strategie di riduzione

Haslam e Loughnan (2014) evidenziano come combattere la deumanizzazione può non essere semplice, poiché molte delle sue manifestazioni sono legate a stereotipi e conflitti intergruppi di lunga data, possono essere inconscie e automatiche, e sono spesso rafforzate da motivazioni e bias difficili da sradicare,  come a proteggere l’identità dell’ingroup; spesso infine, sono rivolte verso “bersagli mobili”, in quanto la tendenza a giudicare umana qualsiasi caratteristica che distingua il proprio ingroup può portare alla deumanizzazione di tutti gli altri outgroup.

Nonostante queste difficoltà, vengono individuate due diverse strategie di riduzione della deumanizzazione: l’umanizzazione dei target sociali e la categorizzazione sovraordinata. Riguardo alla prima, viene sottolineata l’efficacia potenziale del contatto intergruppi: un contatto di alta qualità è stato associato a minori percezioni di deumanizzazione di minoranze nord Irlandesi (Tam et al., 2007), maniaci sessuali in un centro di riabilitazione (Viki, Fullerton, Raggett, Tait & Wiltshire, 2012) e immigrati ed Italiani Meridionali (Capozza, Trifiletti, Vezzali & Favara, 2013). Anche il contatto immaginario riduce la deumanizzazione in bambini italiani verso gli immigrati (Vezzali et al., 2012). La seconda strategia è quella di promuovere un’identità comune o sovraordinata, enfatizzando le similitudini e la presenza di un destino comune tra i gruppi e tralasciando i confini che li separano. In uno studio (Capozza et al., 2012) si mostra come l’effetto umanizzante del contatto è parzialmente mediato, facendo condividere ad Italiani e immigrati una singola identità di cittadini, e ad Italiani Settentrionali e Meridionali, una comune identità nazionale. Haslam e Loughnan (2014) suggeriscono però di utilizzare con cautela questa strategia, perché rendere saliente l’identità umana comune nei contesti intergruppi potrebbe, in alcuni casi, deviare la responsabilità collettiva o ridurre l’empatia verso i gruppi-vittima. Inoltre, rendere la categoria umana saliente potrebbe essere controproducente se questa viene etichettata in senso negativo, poiché ciò aumenterebbe il supporto a torture ed uso della forza riducendo simultaneamente i sensi di colpa. Infine Haslam e Loughnan (2014) individuano altri due metodi con potenziale efficacia nel ridurre la deumanizzazione: quello di enfatizzare le somiglianze tra esseri umani e animali, e la categorizzazione multipla in cui si forniscono informazioni più dettagliate riguardo alle differenze individuali all’interno dello stesso outgroup.

Nel caso dell’infraumanizzazione Leyens et al. (2007) effettuano una trattazione più completa delle strategie di riduzione, descrivendone quattro: contrasto delle tendenze essensialiste, affievolimento dei confini tra ingroup e outgroup, rafforzamento dei simboli comuni e contatti deprovincializzati. Riguardo all’essenzialismo, essi sostengono che le persone, sebbene in genere siano in difficoltà nello specificare l’essenza del proprio gruppo o siano addirittura inconsapevoli delle loro convinzioni sull’essenza dell’ingroup, spesso pensano e agiscono come se le differenze tra i gruppi costituissero dei muri invalicabili che prevengono la loro mescolanza. In base a questa affermazione, si suggerisce di enfatizzare in alcuni casi l’importanza della cultura e, in altri, di focalizzarsi invece sulla natura umana, nella descrizione dei diversi gruppi: questo contrasterebbe l’essenzialismo, porterebbe ad una riduzione degli effetti dell’infraumanizzazione e, nel lungo termine, potrebbe condurre a risultati ancora più ambiziosi come la fine delle giustificazioni per il razzismo. In accordo con quanto detto sulla deumanizzazione, si evidenzia inoltre come invece di enfatizzare le differenze e le dissimilarità tra gruppi si dovrebbe insistere sulla complementarietà e sull’universalismo, enfatizzando la comprensione, l’accettazione e l’interesse per il benessere di tutti gli esseri umani anche quelli con un modo di vivere diverso dal nostro. Per superare i confini intergruppi e ridurre i conflitti, può risultare importante anche promuovere un’identità trascendente comune, come evidenziato da Kelman (1999) nel conflitto tra Israeliani e Palestinesi: secondo l’autore, per riuscire a raggiungere la pace, questa identità trascendente non deve rimpiazzare l’identità tipica di ogni gruppo, ma si deve sviluppare parallelamente. Il mantenere la propria identità è importante per il bisogno della distintività psicologica postulata dalla teoria dell’identità sociale e dal modello della distintività ottimale. Anche Gaunt (2009) esamina la prospettiva di ricategategorizzazione partendo dal modello dell’identità comune dell’ingroup, che rende l’essenza dei gruppi quasi insignificante: egli sottolinea che, quando è possibile instaurare un’identità comune reale e quando ciò non costituisce una semplice coalizione contro un terzo gruppo, questo risulti particolarmente valido nel ridurre l’essenzialismo. Quindi, da un lato l’universalismo può impedire una visione erronea e razzista delle differenze tra gruppi, e dall’altro bisogna facilitare la flessibilità nell’appartenenza agli stessi, rendendo la differenziazione ingroup/ outgroup meno rigida: la cooperazione e l’identità comune possono essere usate entrambe per ridurre l’infraumanizzazione.

Riguardo ai simboli comuni, come già trattato, le emozioni secondarie rivestono per i membri dell’ingroup il ruolo di simbolo; l’interagire con un outgroup che esprime emozioni secondarie, e che tenta quindi di convincere l’ingroup di poter condividere gli stessi simboli può risultare controproducente, aumentandone il rifiuto. Tutto ciò è stato dimostrato sperimentalmente da Vaes, Paladino, Castelli, Leyens e Giovanazzi (2003) e può apparire come un paradosso, in quanto molte ricerchesull’acculturamento hanno mostrato che le società ospitanti preferiscono l’assimilazione dei nuovi membri, a patto che questi ultimi adottino valori e stili di vita dell’ingroup. Di conseguenza, non ci sarebbe un muro di differenze tra i gruppi, ma solo uno standard che appartiene all’ingroup e che deve essere rispettato. Il paradosso sta proprio nel fatto che esprimere queste somiglianze facilita l’accettazione e l’assimilazione, ma il possedere emozioni secondarie è invece un simbolo la cui unicità non può essere condivisa. Questa netta distinzione tra assimilazione ed unicità umana incondivisibile porta a pensare che è inutile combattere le convinzioni irrazionali come la piena umanità dell’ingroup cominciando da subito ad assumere la stessa prospettiva; i simboli non possono essere conquistati ma possono essere “donati”, e l’universalismo rende quelli irrazionali superflui. Per Leyens et al. (2007) quindi ci sono valori e simboli utili in quanto servono a distinguere il proprio ingroup, ma per abbattere i muri delle differenze tra i gruppi bisogna “sgonfiare” i credo essenzialistici ed i simboli irrazionali tramite strategie come l’universalismo ed i valori egalitari. Ovviamente non è facile questa condivisione dei simboli, e le somiglianze momentanee anche se rafforzate da valori egalitari possono non essere sufficienti a diffondere un’identità condivisa di tipo trascendente (Kelman, 1999).

Per quanto riguarda i contatti deprovincializzati, anche nel caso dell’infraumanizzazione, il contatto intergruppi risulta essere il miglior predittore di relazioni armoniose, specialmente quando è promosso dai gruppi dominanti e quando le condizioni sono quelle ottimali stabilite da Allport (1954): contatto informale, senza membri stereotipici degli outgroup, assenza di competizione e gerarchia, presenza di un supporto istituzionale. Pettigrew (1997) raccomanda anche un contatto deprovincializzato, in cui si riconosca il punto di vista dell’altro, che decentri la visione etnocentrica delle persone per accettare le specificità degli altri. La conoscenza, l’amicizia e la familiarità predicono l’umanizzazione dell’outgroup, e quindi il contatto intergruppi specialmente se deprovincializzato può combattere l’infraumanizzazione. Leyens et al. (2007) sottolineano che non è importante il contatto di per sé, ma la sua qualità: la sola conoscenza non è sufficiente a ridurre l’infraumanizzazione, ma deve essere accompagnata necessariamente da amicizia e similarità. Il contatto deve quindi rispettare i valori egalitari, altrimenti porta ad antagonismo, sfiducia, antipatia ed evitamento, che sono tutti potenziali fattori che promuovono l’infraumanizzazione. Una politica di successo basata su contatto ed amicizia intergruppi è rappresentata dal programma Erasmus, finalizzato alla diffusione di conoscenza e all’accettazione delle culture straniere: il progetto, inizialmente ristretto a studenti universitari che vivevano (per sei mesi o un anno) in un’università straniera, oggi coinvolge anche insegnanti e persone al di fuori dell’università ed è stato adottato da altre nazioni escluse dalla CE (come Svizzera e Stati Uniti).

In questo paragrafo sono state descritte diverse strategie di riduzione della deumanizzazione e dell’infraumanizzazione; vi è comunque una forte necessità di sperimentare anche altre strategie, stabilendo dei percorsi di umanizzazione diversi in base al target, alle caratteristichedi chi deumanizza, ai contesti dove ciò avviene e alle conseguenze che comporta (Haslam & Loughnan, 2014).

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

 

 

Le conseguenze di deumanizzazione e infraumanizzazione

Le conseguenze di deumanizzazione e infraumanizzazione

Secondo Haslam e Loughnan (2014), le conseguenze della deumanizzazione possono essere suddivise in quattro gruppi:

• la riduzione dei comportamenti pro sociali;

• l’incremento dei comportamenti antisociali;

• gli effetti sul giudizio morale;

• gli aspetti funzionali.

Per quanto concerne la riduzione dei comportamenti prosociali, essa può avvenire sia a livello individuale che collettivo. Vaes et al. (2002) hanno mostrato che le persone rispondono in maniera prosociale a coloro che si descrivono in termini di emozioni secondarie, poiché essi vengono percepiti come “più umani”.

In contrasto, i membri dell’ingroup tendono a discriminare i membri dell’outgroup (non fornendo loro alcun tipo di aiuto) perché li vedono come mancanti di emozioni unicamente umane. A livello collettivo ciò si manifesta con una minore propensione all’aiuto verso coloro che hanno subito atrocità, in quanto la percezione dell’outgroup come meno umano porta ad una minor empatia verso di esso e consente una maggior giustificazione per le loro sofferenze (Zebel, Zimmermann, Viki & Doosje, 2008). Inoltre, sia la deumanizzazione sia l’infraumanizzazione possono agire riducendo il perdono intergruppi: ciò è stato dimostrato in contesti come quello Nord Irlandese (Tam, Hewstone, Cairns, Tausch, Maio & Kenworthy, 2007), dove, in caso di infraumanizzazione, c’è una minore propensione al perdono dell’altro gruppo e, in particolare, eventuali scuse da parte dell’outgroup non vengono accolte se espresse in termini di emozioni secondarie (Haslam & Loughnan, 2014).

Gli effetti più evidenti della deumanizzazione sono sicuramente l’incremento degli atti antisociali, che riguardano soprattutto azioni violente ed aggressive. Ad esempio, ciò è stato rilevato nel bullismo nei bambini, che deumanizzando la propria vittima provano sia meno sensi di colpa precedenti sia meno rimorsi successivi ad un’eventuale aggressione. Anche percepire nemici e criminali come meno umani porta ad altre conseguenze negative, che possono andare da un maggior supporto ad azioni violente, ad una maggiore propensione alla tortura e ad azioni maggiormente punitive: ad esempio, la deumanizzazione dei criminali porta a sentenze dure e punitive indipendentemente dalla gravità del crimine commesso (Bastian, Jetten, Chen, Radke, Harding & Fasoli, 2013).

Come verrà trattato nel dettaglio nel capitolo 3, la deumanizzazione comporta effetti anche sul giudizio morale: in particolare, persone che sono percepite con un basso livello di agency (ovvero la capacità di autocontrollo e pianificazione) vengono giudicate mancanti di responsabilità morale, mentre a quelle con un basso livello di experience (ovvero la capacità di percepire e provare emozioni) vengono negati alcuni diritti umani come quello di essere protetti dalle aggressioni. Come evidenziato da Bastian e Haslam (2011), ciò dipende dalla percezione di umanità: le persone a cui mancano i tratti unicamente umani vengono viste come non giustificabili e meritevoli di punizione, mentre le persone a cui viene negata la natura umana vengono giudicate come meno degne di protezione e capaci di riabilitazione.

Le conseguenze viste finora sono tutte di natura negativa, ma ci sono casi in cui la deumanizzazione può anche risultare “vantaggiosa”, come è stato evidenziato da due studi in ambito medico. Il primo (Lammers & Stapel, 2011) fa riferimento a trattamenti più dolorosi ma più efficaci verso alcuni pazienti cui viene negata la natura umana; il secondo (Vaes & Muratore, 2013), basato anch’esso su pazienti fittizi, si riferisce, invece, ad una riduzione dei sintomi di burnout che sperimentano gli operatori sanitari che umanizzano in minor misura le sofferenze di un malato terminale. Ovviamente, queste affermazioni vanno prese con la dovuta cautela, poiché l’empatia e l’umanizzazione hanno effetti positivi e predominanti sul trattamento dei pazienti.

Anche Leyens et al. (2007) analizzano le conseguenze dell’infraumanizzazione: essa, soprattutto se associata ad elevata identificazione con il proprio gruppo, ha come conseguenza la riluttanza/negazione ad accettare i misfatti passati commessi dal proprio ingroup, perpetuando il rancore intergruppi ed interferendo sulla piena riconciliazione di gruppi precedentemente in conflitto.

L’outgroup viene infraumanizzato dall’ingroup solo se quest’ultimo è ritenuto responsabile delle sue sventure (Castano & Giner-Sorolla, 2006), portando quindi ad una giustificazione del triste destino delle altre nazioni. Inoltre l’infraumanizzazione, come si è detto, predice una minore propensione al perdono intergruppi, fattore cruciale per l’armonia. Il contatto intergruppi frequente e di buona qualità comunque, costituisce un fattore che può incidere positivamente su questo processo, in quanto più si entra in relazioni armoniose con l’outgroup, maggiore sarà la propensione a considerarlo come umano e quindi a perdonare i suoi membri.

Viene evidenziato anche come il legame tra l’infraumanizzazione e la moralità possa essere cruciale nel mantenere la discordia tra i gruppi: il fatto che le emozioni secondarie (positive e negative) vengano considerate proprie dell’ingroup fa sì che le persone possano considerare come simbolo di piena umanità anche quelle prettamente negative ed immorali (come odio e mancato rispetto), e quindi accettarle come caratteristiche dell’ingroup. Inoltre, diverse ricerche effettuate su Arabi, Israeliani ed Ebrei hanno suggerito che i membri dei gruppi dominanti hanno più difficoltà ad abbandonare l’infraumanizzazione rispetto a quelli di basso status. Ciò è importante perché, mentre la teoria di giustificazione del sistema (Jost & Banaji, 1994) postula che i gruppi di basso status accettano la loro posizione ed i valori del gruppo dominante, la teoria dell’identità sociale (Tajfel, 1981) propone alcune variabili che spiegano come e quando gli individui dei gruppi di basso status tentano di innalzare la propria posizione sociale. Tra queste variabili si distinguono strategie oggettive (quindi atti tangibili di cambiamento sociale come le rivolte) e strategie simboliche (cioè cambiamenti di mentalità con la potenzialità di generare azioni tangibili): ad esempio, membri di gruppi stigmatizzati possono cambiare il valore attribuito ad una dimensione. Tra le soluzioni simboliche di innalzamento del valore dell’ingroup gli autori includono, il fenomeno dell’infraumanizzazione, in quanto pensare che gli altri siano meno umani può condurre ad una identità sociale positiva. Per i gruppi di basso status l’infraumanizzazione può avere una serie di conseguenze reali (Leyens et al., 2007): credere in una superiorità fondata su un’unica essenza umana rafforza la coesione del gruppo, che si percepisce come più forte e capace di fronteggiare le minacce esterne, e incrementa l’identificazione, rendendo i membri più leali verso l’ingroup e meno propensi all’adozione di strategie personali come la mobilitazione individuale. Inoltre, secondo Leyens et al.(2007), può facilitare alcune condizioni che nel lungo termine possono portare ad azioni collettive. Così come le conseguenze dell’infraumanizzazione possono portare dei benefici a lungo termine sui gruppi di basso status, bisogna considerare il possibile effetto opposto sui gruppi ad alto status. La storia ci porta esempi di regni (come l’impero Romano, così convinto della propria essenza superiore da negare il potere emergente di gruppi opposti) che sono miseramente crollati proprio per aver considerato se stessi come gli unici detentori dell’essenza umana.

Infine Leyens et al. (2007) discutono del ruolo dei media, che spesso riportano le notizie in maniera infraumanizzante. Ciò porta naturalmente ad un circolo vizioso che conduce ad un incremento dell’infraumanizzazione, in particolare verso alcuni gruppi etnico/sociali o verso categorie di persone che hanno un particolare impatto mediatico, come i criminali.

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

 

 

 

 

Quando le persone deumanizzano?

Quando le persone deumanizzano?

Questo aspetto, già trattato in questo capitolo per quanto riguarda l’infraumanizzazione, viene analizzato separatamente per il caso della deumanizzazione da Haslam e Loughnan (2014). Secondo tali autori le condizioni in cui si verifica la deumanizzazione sono molteplici, ma i fattori principali includono stati emozionali, motivazionali, cognitivi, e aspetti situazionali, sociali e strutturali.

Relativamente agli stati emozionali, la propensione al disgusto è associata alla tendenza alla deumanizzazione: gruppi che inducono disgusto sono più soggetti ad essere deumanizzati. Buckels e Trapnell (2013) evidenziano come un disgusto indotto sperimentalmente produca un’associazione implicita maggiore tra l’outgroup e gli animali, più di quanto possa indurre la tristezza o un umore neutro.

Per quanto riguarda gli stati motivazionali, quelli analizzati da Haslam e colleghi (2014) sono principalmente quattro: la connessione sociale, le motivazioni sessuali, il desiderio di equità morale ed i processi di protezione dell’ingroup. Lo studio della connessione sociale mostra che così come un bisogno sociale insoddisfatto porta all’attribuzione di mente ad entità non umane, persone con connessioni sociali numerose e soddisfacenti sono più soggette a deumanizzare outgroup distanti. Il ruolo delle motivazioni sessuali è studiato mediante la percezione che gli uomini hanno delle donne oggettivate, mostrando che le donne sessualizzate vengono più facilmente associate ad animali.

Relativamente al desiderio di equità morale, è stato dimostrato che c’è una tendenza maggiore alla deumanizzazione di outgroup che hanno una storia sofferta nel caso in cui al proprio ingroup siano state assegnate delle responsabilità: in questo caso, il negare umanità o moralità alle proprie vittime storiche evita il senso di colpa collettivo ed una percezione negativa dell’immagine del proprio ingroup. I processi di protezione dell’ingroup, infine, fanno sì che le persone tendano a giudicare anche gli attributi negativi del proprio ingroup come maggiormente umani, indipendentemente dal favoritismo verso l’ingroup; ciò rende il proprio gruppo maggiormente giustificabile (in quanto “umano”), e quest’effetto si intensifica se l’identità di gruppo è minacciata.

Riguardo ai fattori cognitivi, sono stati analizzati in particolare l’egocentrismo e “l’abstract construal” (come gli individui percepiscono, interpretano e comprendono il mondo attorno a loro) come moderatori dell’effetto interpersonale di auto-umanizzazione, nel quale gli altri sono visti meno umani di se stessi (Haslam & Bain, 2007). Gli aspetti situazionali fanno invece riferimento alla percezione di minaccia, che porta ad una tendenza maggiore alla deumanizzazione. Inoltre, la percezione di minaccia può moderare gli effetti della deumanizzazione e la conseguente tendenza all’aggressività. Ad esempio, nello studio di Viki, Osgood e Phillips (2013), i partecipanti che percepivano una maggiore minaccia nei Musulmani, e che quindi li deumanizzavano maggiormente, mostravano anche una maggiore tendenza alla tortura dei prigionieri di guerra. Anche la minaccia esistenziale della morte è coinvolta nell’infraumanizzazione, in quanto l’attribuzione preferenziale di attributi unicamente umani a sé e all’ingroup è un modo, secondo la teoria di gestione del terrore (Greenberg, Solomon & Pyszczynski, 1997), per combatterne la paura.

Infine, l’unico fattore sociale e strutturale che è stato analizzato è quello del potere, che è riscontrabile in vari ambiti tra cui quello medico (Lammers & Stapel, 2011): i medici che sperimentano una situazione di potere hanno infatti maggiore tendenza a deumanizzare pazienti, provando su di loro trattamenti più dolorosi, anche se più efficaci. Un altro esempio è nell’ambito scolastico, dove è stato osservato che studenti a cui sono stati assegnati ruoli di potere valutano i loro compagni come mancanti di tratti unicamente umani. E’ interessante notare come questo effetto non dipenda né dalla presenza di un rapporto gerarchico né dal tipo di attività (cooperativa o competitiva).

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

 

 

La tendenza e deumanizzare e infraumanizzare gli altri

La tendenza e deumanizzare e infraumanizzare gli altri

Anche se la capacità di vedere gli altri come meno umani può essere universale ed è riscontrabile anche nei bambini (Costello & Hodson, 2013; Vezzali, Capozza, Stathi & Giovanni, 2012), ci sono varie differenze di personalità, credo, ideologie e atteggiamenti che rendono alcune persone più soggette a deumanizzare. Secondo Haslam e Loughnan (2014) uno dei più importanti predittori di tipo ideologico è quello dell’orientamento alla dominanza sociale (SDO, Hodson & Costello 2007). Come evidenziato dagli autori, l’SDO è un importante predittore della deumanizzazione verso gli immigrati, mentre altri studi hanno dimostrato il suo legame con la deumanizzazione verso rifugiati e vittime di guerra. In questi studi, l’SDO è associato alla deumanizzazione più di quanto lo sia l’autoritarismo di destra, in quanto dipende più dalla dominanza sociale che dalla conformità sociale e dalla percezione di minaccia. Ad esempio, i livelli di SDO dei genitori bianchi predicono le tendenze dei loro figli a deumanizzare i bambini neri (Costello & Hodson, 2013). Haslam e colleghi (2014) hanno analizzato anche il ruolo delle credenze, dimostrando che le persone che percepiscono una divisione maggiore tra uomini e animali sono più soggette alla deumanizzazione razziale. Nella fattispecie, questa convinzione promuove la visione che gli esseri umani “inferiori” siano in qualche modo bestiali, giustificandone la discriminazione.

L’ultimo set di variabili riconducibili alla tendenza alla deumanizzazione è rappresentato dagli atteggiamenti, che sono stati analizzati solo in relazione alla percezione delle donne. È stato dimostrato che il sessismo ostile predice la negazione di umanità ai target femminili (Viki & Abrams, 2003), e più nello specifico si negano loro le emozioni positive unicamente umane; per i sessisti benevoli avviene esattamente il contrario. A conferma di ciò vi sono due studi: il primo evidenzia come a livello neurale i sessisti ostili abbiano un’attivazione minore delle regioni dell’attribuzione di stato mentale quando vedono donne sessualizzate (Cikara, Eberhardt & Fiske, 2011); il secondo, invece, dimostra come il sessismo ostile non sia correlato con l’associazione implicita con animali o oggetti nel caso di donne non sessualizzate (Rudman & Mescher, 2012). In definitiva, la deumanizzazione è collegata a quattro aspetti diversi delle differenze individuali (Haslam & Loughnan, 2014):

    • caratteristiche ostili e sgradevoli, inclusi tratti di psicopatia, narcisismo, credo nazionalistico e atteggiamenti ostili;
    • avversione emotiva verso persone non familiari;
    • posizioni ideologiche e gerarchiche dell’SDO e alle convinzioni di dominio umano sugli animali;
    • disconnessione sociale o carenza empatica, visto anche il legame con i tratti autistici.

Anche Leyens e colleghi, nella teoria dell’infraumanizzazione, analizzano le caratteristiche individuali o collettive che incidono sulla propensione ad infraumanizzare, citando in particolare in nazionalismo (Leyens et al., 2007), distinguendolo dal patriottismo, in quanto non consiste solamente nell’orgoglio percepito per il proprio ingroup (legato comunque ad una forte identificazione), ma anche nella denigrazione degli outgroup. Inoltre, evidenziano come un’alta identificazione con l’ingroup sia necessaria perché si sviluppi l’infraumanizzazione: chi non presenta un forte legame affettivo o cognitivo con l’ingroup meno probabilmente percepisce che il confine arbitrario tra ingroup e outgroup comporti una minor essenza umana di quest’ultimo. In tutti gli studi analizzati (tra cui Viki & Calitri, 2008), viene evidenziato come chi ha un elevato grado di identificazione con il proprio gruppo presenta maggiore possibilità di infraumanizzare.

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa