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La comunicazione efficace

La Comunicazione Efficace

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“Il modo in cui comunichiamo con gli altri e con noi stessi determina la qualità della nostra vita”. Anthony Robbins

Saper comunicare è necessario per trasmettere pensieri, idee e visioni. Siamo animali sociali progettati per interagire con le altre persone, e la comunicazione è il mezzo che utilizziamo per fare questo. Uno stile di comunicazione errato può dare origine ad incomprensioni, problemi e discussioni; è facile urtare i sentimenti di qualcuno perché non si è riusciti a comunicare nel modo giusto.

La strada per migliorare la qualità delle nostre relazioni passa necessariamente attraverso la comunicazione. Non solo: la nostra felicità è strettamente interconnessa alle nostre capacità comunicative. Decenni di ricerche hanno infatti indicato la qualità delle nostre relazioni come l’elemento più importante al raggiungimento della felicità, più del successo e del denaro.

La comunicazione efficace è stata la chiave del successo dei grandi leader della storia. Infatti, ciò che ha fatto la differenza tra i grandi uomini della storia e le persone comuni non erano soltanto le loro idee, ma anche e soprattutto il modo in cui sapevano comunicarle e trasmetterle agli altri, usando il linguaggio delle emozioni e dei desideri delle persone. I leader sapevano che, se il loro messaggio non fosse stato compreso e sentito come proprio, non sarebbe mai stato sostenuto e condiviso.

Il manager, oggi più che mai leader, deve allineare la funzione Risorse Umane con gli obiettivi strategici dell’organizzazione al fine di migliorare le performance. Le strutture e i sistemi del personale e dell’organizzazione devono essere progettati per supportare la strategia dell’organizzazione, e lo staff deve essere gestito e trattato in maniera tale che sia impegnato nell’organizzazione e nel perseguimento dei suoi obiettivi.

A tal fine è imprescindibile avere come base una corretta comunicazione interna, che rappresenta uno scambio finalizzato a stabilire e migliorare i principi di efficienza del proprio lavoro. In particolare, sono due i tipi di comunicazione su cui va posta attenzione:

  • La comunicazione top-down, ossia quella dall’alto (organi dirigenziali) verso il basso (impiegati, dipendenti). Per attuare questo tipo di comunicazione interna aziendale si possono utilizzare diversi strumenti pratici come una rete intranet che sfrutti l’organizzazione di un software gestionale, l’uso di messaggistica interna tramite mail e/o circolari, e l’organizzazione periodica di riunioni con i dipendenti per spiegare e condividere informazioni ed obiettivi.
  • La comunicazione bottom-up, ovvero il flusso di informazioni dal basso verso l’alto. Questo genere di comunicazione si realizza attraverso riunioni, colloqui individuali, procedure interne quali la compilazione di report periodici delle proprie attività, e l’inserimento di appuntamenti/attività in un calendario intranet condiviso.

In un’impresa moderna la gestione della comunicazione interna è una funzione fondamentale. Per ottimizzare questo processo il manager deve avere come obiettivo principale quello di sensibilizzare le persone a leggere e ad ascoltare, di creare il clima e gli strumenti per la libera circolazione delle informazioni e delle idee, di far sì che la politica aziendale sia recepita da tutti in modo chiaro, di favorire i contatti diretti tra imprenditore e dipendenti.

Quando si parla di impresa moderna va sottolineato, infatti, il valore della responsabilizzazione dei dipendenti in modo che essi, superato il ruolo della semplice dipendenza, si sentano portati a giocare quello della partnership. Gli obiettivi di profitto dell’impresa vengono conseguiti grazie a professionalità diverse e complementari: una rete di competenze in cui il singolo vive in relazione con i colleghi e l’organizzazione, cresce e si sviluppa grazie ai rapporti di fiducia che si instaurano tra le persone.

Alcuni economisti affermano che è proprio la fiducia l’elemento che sta alla base del sistema economico. Se non ci si fida dei colleghi, dei dipendenti, dei superiori, del partner commerciale, i rapporti non si sviluppano e non si raggiungono i risultati attesi. Questo vale anche dal punto di vista del dipendente: se non ha fiducia nell’impresa in cui lavora i risultati saranno decisamente inferiori alle attese.

Dare fiducia alle proprie risorse umane per una azienda significa adottare la mentalità che tutti debbano poter recuperare le informazioni necessarie per proseguire nelle normali attività. Una rete comunicativa in cui informazioni importanti o necessarie sono difficilmente accessibili impoverisce tutta la strategia di gestione delle risorse umane, arrivando anche a vanificarne il successo. È dunque fondamentale che il circuito comunicativo non si interrompa mai e sia gestito con continuità, interesse e soprattutto fiducia.

I processi di gestione della comunicazione verso e per le risorse umane vanno favoriti e resi efficienti tramite l’automazione delle attività, la sincronizzazione dei dati e l’evoluzione tecnologica e di business. In questo modo si riducono anche tempi, costi e margini di errore. A tale scopo è inevitabile avere come base una corretta comunicazione interna, strumento che nessuna attività lavorativa può ignorare in quanto rappresenta uno scambio finalizzato a stabilire e migliorare i principi di efficienza del proprio lavoro. Ad esempio, un manager che non risponde ad un suo diretto sottoposto o ne ignora le richieste dimostrando disinteresse contribuisce in maniera determinante alla creazione di un clima organizzativo di sfiducia, in cui gli organi dirigenziali sono visti come lontani e disinteressati, e a lungo andare demoliscono il senso di orientamento comune al raggiungimento degli obiettivi aziendali.

Ovviamente sono molti i fattori di ostacolo alla comunicazione: le differenti esperienze del personale, i diversi gradi di cultura e preparazione, le diverse abitudini, una sottostima dell’importanza della funzione, la gelosia, la mancanza di tempo. Esistono anche ostacoli di tipo diverso, in qualche modo cercati: sono tutte quelle circostanze in cui si tende ad omettere di comunicare delle informazioni per figurare in un certo modo nei confronti dei propri dipendenti o del proprio superiore.

 

 

© Chiedimi se sono felice:Analisi del Clima Organizzativo e del suo effetto sulle risorse umane – Dott.ssa Sonia Barbieri

 

 

La Leadership al Femminile ostacolo o risorsa

La Leadership al Femminile: ostacolo o risorsa?

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Per entrare nello specifico della figura di leader al femminile ho estrapolato un articolo di Rossella Sobrero dal titolo:

“L’importanza delle risorse umane: focus sul welfare aziendale”[1].

“Il mondo del lavoro è ancora oggi di impronta maschile e per le donne non è semplice arrivare alle posizioni di potere. La leadership femminile è ostacolata da un’immagine stereotipata della donna che dequalifica le sue specificità. In realtà, uno stile empatico viene premiato dagli esperti e dalle ricerche più recenti.

Nel mondo, in Europa e anche in Italia, esiste ancora una grave disparità di genere nel lavoro e il gap aumenta se si pensano alle posizioni manageriali. La leadership al femminile non è valutata positivamente, cioè le doti o qualità che sono associate all’immagine stereotipata delle donne non vengono considerate utili o desiderabili.

Ciò significa eliminare dal mondo del lavoro delle competenze che possono essere comunque utili e dall’altra parte significa costringere le donne ad assumere comportamenti maschili per poi rimproverarle di essere poco femminili.

Le competenze chiave della leadership: c’è qualcosa di femminile?

Cosa manca alle donne per essere delle buone leader? Secondo Cristina Bombelli lo stereotipo femminile esclude competenze desiderabili al lavoro, come assertività, capacità di negoziare, la volontà e il comando. La leadership delle donne d’altro canto viene ostacolata da caratteristiche (in parte culturalmente trasmesse) che non rientrano nell’immagine del “buon capo“. Anche in questo caso l’ostacolo maggiore è lo stereotipo che abbiamo in mente, perché di per sé queste competenze potrebbero costituire anche delle ottime qualità, vediamone alcune:

  • empatia che porta le donne a non mettere sempre davanti le loro priorità
  • eccessiva solidarietà e considerazione dei rapporti umani
  • incapacità di mettere al di sopra di tutto gli aspetti economici-finanziari e la tendenza a sottovalutarsi.

Le qualità femminili da sfruttare al lavoro

Franco Gnocchi, HR consultant, in un’intervista fa un’analisi accurata della leadership al femminile e di come si possa inserire nella vita aziendale. Secondo Gnocchi una delle chiavi di maggior successo è l’intelligenza emotiva, che combina competenze individuali e sociali che migliorano le performance lavorative, come l’orientamento ai risultati e le competenze comunicative.

L’empatia è secondo Gnocchi l’elemento chiave di una gestione femminile, perché consente di evitare un approccio troppo freddo e quantitativo.

La leadership empatica mette il riconoscimento dei bisogni dell’altro al centro; in un’azienda ciò significa riconoscere i bisogni specifici dei dipendenti e dei gruppi di lavoro e attivare di conseguenza le giuste leve motivazionali.

L’apporto della ricerca sulla leadership

La ricerca sulla leadership si è interessata delle differenze di genere, ma i risultati non trovano un riscontro nella realtà, nonostante sia ampiamente dimostrato che un buon leader (maschile o femminile) aumenta l’impegno e la soddisfazione lavorativa.

Un esempio interessante è la meta-analisi condotta su 45 studi sugli stili di leadership (Eagly, Johannesen-Schmidt e Van Engen, 2003) che ha evidenziato che la leadership femminile è di stile più trasformazionale e che le donne sono più propense ad offrire ricompense.

Nonostante le differenze non siano enormi, un dato resta comunque evidente: le dimensioni in cui prevalgono le donne sono quelle a più alto impatto positivo sul lavoro, mentre quelle maschili non hanno forti relazioni con la buona leadership”.

 

Fig. 9 – Gli stili di leadership 

http://www.colonese.it/Immagini/Leadership.jpg

 

 

 

© Chiedimi se sono felice:Analisi del Clima Organizzativo e del suo effetto sulle risorse umane – Dott.ssa Sonia Barbieri

 

 

[1] SOBRERO R., L’importanza delle risorse umane: focus sul welfare aziendale, CSRPiemonte, Regione Piemonte ed Unioncamere Piemonte, 2012

La Leadership

LA LEADERSHIP

La parola “Leadership” deriva dal verbo inglese “To Lead”, che significa dirigere, pertanto questo termine fa riferimento alla capacità di un individuo di saper guidare un gruppo di persone. Il leader è colui che guida il gruppo al successo, che ottiene che altre persone facciano determinate cose non perché si sentono obbligate, ma perché lo vogliono. Nel fare ciò, egli combina l’abilità di comprendere quali sono gli obiettivi raggiungibili con la capacità di motivare gli altri.

Gli studi iniziali sulla leadership hanno analizzato il fenomeno a livello individuale. Era importante capire quali tratti della personalità contraddistinguevano i grandi leader, ed in che modo essi riuscivano ad attirare a sé e ad influenzare gruppi di seguaci.

Negli anni ’60 lo psicometro americano Rancis Likert ha individuato quattro stili di leadership: l’autoritario minaccioso, che prende tutte le decisioni autonomamente circa scopi, modalità d’attuazione e tempi, per poi comunicarle al gruppo; l’autoritario benevolente, che incoraggia il gruppo attraverso delle ricompense e lo coinvolge nel processo decisionale, sebbene spetti a lui l’ultima parola; il consultativo, che aumenta la partecipazione del gruppo grazie ad una comunicazione bidirezionale; il partecipativo, che si avvale di una rete di comunicazione efficace basata sulla collaborazione e sulla presa democratica delle decisioni.

In seguito si è fatta avanti una nuova psicologia della leadership, secondo la quale la leadership efficace è un prodotto che deriva da come il leader riesce a far sentire i suoi seguaci parte di un gruppo o di una squadra, e che ha quindi poco a che vedere con l’individualità e le caratteristiche “speciali” del leader. Ciò che consente ai leader di fare i leader e ai seguaci di diventare seguaci è l’identità sociale: le persone coinvolte nel processo di leadership hanno un senso di comune appartenenza ad un gruppo (ingroup) e, di conseguenza, stabiliscono dei legami che li rendono diversi da altri gruppi (outgroup).

Vi sono 4 principi che caratterizzano il nuovo leader: egli deve apparire come “uno di noi”, deve rappresentare al meglio ciò che distingue il proprio ingroup dagli altri gruppi, esserne cioè il prototipo; deve apparire come “uno che lo fa per noi”, che agisce nell’interesse dell’ingroup e non per finalità personali; deve “costruire un senso del noi”, dare cioè forma ad un’identità di gruppo, con propri valori e caratteristiche unici; deve “farci contare nella realtà”, cioè calare nella realtà le idee e i principi del gruppo, metterli in pratica per realizzarne gli obiettivi.

Fig. 8 – Le caratteristiche di un buon leader – www.qualitiamo.com/articoli/Caratteristiche leader.html

 

 

 

© Chiedimi se sono felice:Analisi del Clima Organizzativo e del suo effetto sulle risorse umane – Dott.ssa Sonia Barbieri

 

Identità personale e identità sociale: il concetto del Sé nella Rete

Identità personale e identità sociale: il concetto del Sé nella Rete

Identità personale e identità sociale interagiscono tra loro: possiamo immaginarci il nostro Sé come una struttura, una rappresentazione mentale in cui le informazioni individuali concorrono alla formazione della nostra rappresentazione, mentre le informazioni di carattere sociale e culturale ne costituiscono gli aspetti più esterni. Ma esiste anche una rappresentazione di noi stessi che proponiamo, o meglio recitiamo agli altri, come una rappresentazione teatrale. Tale concetto fu proposto originariamente dal sociologo canadese Erving Goffman:

“La società non è una creatura omogenea, ma un insieme di palcoscenici in cui rappresentiamo noi stessi in modo diverso.”[1]

Goffmann parlava di una molteplicità del sé: l’individuo riesce a gestire e a cambiare una pluralità di self multipli e fluttuanti in quanto prodotti non da una qualche attività psichica, ma dagli eventi e dagli scenari sociali nei quali agisce.

Sia online che offline possiamo immaginare due estremi di un continuum lungo il quale l’individuo sente la propria identità: ad un estremo il sentimento di identità è fortemente influenzato dalla consapevolezza che l’individuo ha di appartenere ad un determinato gruppo, l’identità sociale; all’altro i sentimenti di identità appaiono in rapporto ad un’esperienza profonda di riflessione su di sé, sulla propria storia, sulle proprie speranze e progetti a cui si associano linee d’azione fondate su esigenze di coerenza personale, l’identità personale.

Ma identità personale non significa una rappresentazione elaborata al di fuori del rapporto sociale o un’identità privata, non tangibile agli altri: se il soggetto vuole la può esprimere, per cui anche di essa si può studiarne la struttura. Le forme di riconoscimento sociale consentono la formazione dell’identità personale dell’individuo sul piano cognitivo, l’individuo interiorizza l’immagine che gli viene rimandata dagli altri, la interpreta, la accetta, la modifica o la rinnega, elaborando attivamente un’autodefinizione.

L’identità sociale e quella personale sono due concetti non totalmente distinti del Sé, che  lavorano insieme per dare significato all’identità: l’appartenenza a categorie sociali o l’inserimento in ruoli sociali comporta un significato personale e tali appartenenze entrano nella concezione di Sé.

Dunque il web, con l’avvento dei social media, non è più il luogo dell’anonimato e della libertà assoluta, che porta a nascondere l’identità, ma il luogo della responsabilizzazione etica sul Sé, dove di fronte a tutti, i soggetti si prendono in prima persona la responsabilità di quello che sono e che vorrebbero essere. Basti pensare a Facebook, la piattaforma nella quale l’utente si deve registrare con il proprio nome e cognome e non con alias o nickname astratti che non lo identificano.

Prima di Goffmann[2] gli interazionisti simbolici avevano parlato di soggettività in quanto fenomeno sociale che si sviluppa attraverso una relazione nell’ambiente sociale di riferimento. Herbert Mead[3] parlava non tanto del soggetto in sé, ma del suo essere in relazione con gli altri: l’agire sociale è un problema di comunicazione ed il Sé emerge come autocoscienza nei termini dei rapporti con gli altri e degli altrui atteggiamenti valutativi. Il soggetto adotta comportamenti in base a quelle che sono le aspettative del contesto in cui è inserito, assolvendo un ruolo nell’interazione con gli altri.

Una rete sociale è costituita da un qualsiasi gruppo di persone collegate tra loro da legami sociali, di diversa entità, dalla conoscenza occasionale, ai rapporti di lavoro, ai vincoli familiari e parentali. Pertanto, in base ai teorici delle reti sociali la società è vista e studiata come rete di relazioni, più o meno estese e strutturate, che così ne costituiscono la trama sociale. Il soggetto nei social network è un attore sociale che non può non comunicare e non interagire con gli altri. Proprio dall’ipotesi interazionista deriva che la stessa identità e il comportamento di ciascun soggetto sono la risultante dell’interazione con gli altri, e vale a dire delle azioni e dalle reazioni (feedback) poste in essere dai soggetti comunicanti.

La struttura delle reti sociali non è immutabile: i legami tra i diversi attori possono cambiare nel tempo e questa evoluzione si può modellare e spiegare come funzione di effetti strutturali e delle caratteristiche degli attori: i primi sono meccanismi endogeni e quindi interni dei social network (ad esempio le regole implicite, non scritte dei diversi social media), le seconde forze esterne dipendenti dalle caratteristiche specifiche degli attori coinvolti.

Gli esseri umani sono creature uniche a causa della loro abilità di usare simboli, diventano specificatamente umani attraverso l’interazione e la società pertanto consiste nell’insieme di persone che sono impegnate in interazioni simboliche, le emozioni sono centrali rispetto ai significati, al self e alla condotta e l’azione sociale deve essere considerata l’unità fondamentale dell’analisi sociale.

Una rete sociale è sempre in stato di dinamica tensione per via del cambiamento dei significati. I membri della rete possono avere una concezione diversa della struttura e del loro network: la rete è una risorsa cognitiva e negoziata, è influenzata ed influenza la condotta della persona.

L’interazione interpersonale, come quella faccia a faccia, nei social media avviene a diversi livelli sulla base delle diverse situazioni in cui ci troviamo, vi sono quindi tante cornici interattive in ognuna delle quali rappresentiamo diverse sfaccettature del nostro Sé. Nel concetto del Sé sono infatti comprese anche immagini ipotetiche di noi stessi, che si desidera realizzare o evitare in base a quello che vogliamo presentare di noi: su LinkedIn ad esempio presenteremo l’aspetto più professionale e serioso di noi, mentre su Facebook o Instagram quello più libero e spontaneo.

Nelle varie piattaforme sociali i soggetti mostrano la sfera più esterna del proprio Sé, molte volte quella più superficiale e meno personale. Per dare una buona impressione di sé, le persone controllano il proprio comportamento in modo che sia appropriato al contesto e conforme alle norme situazionali implicite. Ma quello che emerge nella presentazione del Sé in Rete, che ci fa differenziare e rendere unici nei social network, è quella parte del sé che ci distingue l’uno dall’altro, possiamo chiamarlo il “fattore X”. Si tratta di quel quid in più che aiuta a definire una strategia di Personal Branding online. Il self individuale emerge dai modi in cui il soggetto si immagina che gli altri lo percepiscano e lo giudicano. In tal modo il soggetto esercita su di sé anche una specie di controllo sociale poiché deve valutare ininterrottamente la portata dei giudizi e delle reazioni altrui ai propri atti.

Quello che oggi sembra accadere è che le interazioni sui social network sostituiscono le interazioni faccia a faccia. Infatti la maggior parte delle persone utilizza questi mezzi per mantenere relazioni sociali già esistenti e solo in minima parte per crearne di nuovi. In questo senso, l’utilizzo dei Social Network ha più che altro la funzione di integrazione e non di rimpiazzo.

L’avere un profilo sui social network è regolato e motivato dalla ricerca di consensi, che danno l’opportunità di definire sé stessi e modulare la propria autostima che si definisce come rapporto, ossia come distanza tra sé percepito e sé ideale. Più si riesce a livellare e quindi a far diminuire questa distanza, più il nostro senso di autostima sarà integrato e meno bisognoso di consensi.

All’interno di Facebook è possibile trovare molto spesso persone che tendono a dare un’immagine idealizzata di sé o a costruire un vero e proprio falso sé cibernetico, ovvero un modo di essere e di rappresentare se stessi in maniera molto diversa dalla vita reale. Si parla di una rappresentazione di sé fittizia che va per così dire a coprire il vero sé, quegli aspetti di personalità più autentici e spontanei dell’individuo. Una sorta di maschera, come direbbe Goffman[4], un far finta che potrebbe essere tipico degli attori quando recitano una parte, oppure di quei soggetti che cercano di impersonare atteggiamenti e comportamenti di un tipico ideale estetico.

Tutto questo può avvenire nella vita reale, ma è assolutamente più semplice in quella virtuale, dove l’interfaccia del monitor crea una struttura difensiva naturale per nascondere la propria immagine corporea. Quando l’immagine corporea emerge nella rete è molto spesso distorta o selezionata con solo alcune informazioni personali, foto e video, proprio per assecondare un personale ideale estetico. Questa tendenza è tanto più vera quanto più ampia è la discrepanza tra ciò che si è nella vita reale e ciò che viene rappresentato nella realtà virtuale.

Concludendo, in linea con il pensiero interazionista simbolico di Mead[5], il soggetto appare come riflesso della sua immagine negli altri: centomila relazioni che producono centomila personalità in Rete all’interno dei diversi social media, come nelle diverse dinamiche quotidiane. Siamo obbligati ad esibire un self non perché realmente lo possediamo, ma perché obbligati dalla società a comportarci come se l’avessimo. I ruoli sociali, le rappresentazioni, i luoghi culturali, sono funzionali a trasmettere l’impressione che vi sia un’immagine ultima e definitiva che gestisce tutto: l’identità. Secondo Goffman[6], che estremizza il pensiero di Mead[7], il Sé non è il risultato di un processo esclusivamente interno all’individuo, ma scaturisce dalla scena della sua azione. Il Sé viene costruito all’interno di cornici (frames) meta-comunicative, è un effetto drammaturgico della rappresentazione teatrale della vita.

La pervasività delle nuove tecnologie nelle quali l’uomo del XXI secolo è ormai immerso, hanno modificato la percezione non solo della realtà in cui egli vive, ma anche l’essenza della sua unicità: la sua identità. Quest’ultima è stata plasmata a misura d’uomo virtuale, adattata alla fenomenologia della Rete e riscritta sullo schermo di un computer, perdendo la propria fissità e fisicità per esprimere, libera dai vincoli del corpo, i suoi molteplici Sé.

L’ipotesi generale vede Facebook come un contesto non anonimo, che presenta forti livelli di ancoraggio con la realtà offline, in cui gli utenti adottano comportamenti comunicativi riflessivamente orientati alla presentazione di sé e alla gestione delle proprie reti sociali in termini di pubblico/audience. Con vissuto intendiamo il frame che incornicia l’esperienza e la rende comunicabile e condivisibile con gli altri. La self presentation rappresenta una componente essenziale del vissuto comunicativo[8] in un social network come Facebook. Basti pensare al fatto che una volta iscritti, la prima operazione consiste nel costruirsi un profilo e questo richiede innanzitutto un dire di sé che passa attraverso i contenuti base di descrizione del soggetto e si estende ai post condivisi e alla propria rete relazionale.

Facebook si è radicato profondamente nell’esperienza quotidiana, familiarizzandoci a una presentazione di sé rivolta a un’audience, quindi non abbiamo a che fare con una condizione di rappresentazione senza pubblico e senza attenzione, non siamo in una condizione in cui la rappresentazione non comporta né responsabilità, né coinvolgimento, ovvero non diciamo al mondo chi siamo senza doverne in qualche modo  rendere conto. I sé di Facebook sembrano essere identità desiderabili socialmente che gli individui aspirano ad avere anche offline, ma che non sono ancora stati in grado di interiorizzare per un motivo o per un altro.

Non si tratta quindi di concentrarci sull’autenticità o meno del sé, ma sul fatto che con Facebook abbiamo a che fare con un ambiente che rende possibile trattare le possibilità diverse del Sé, attraverso strategie differenti di gestione dell’identità. Ed in questo senso diventa chiaro quanto sia importante questa gestione nel tempo a partire dalle possibilità offerte dalla piattaforma nella sua evoluzione e, contemporaneamente, dall’evoluzione delle biografie dei singoli individui.

Le relazioni che si instaurano attraverso le attività comunicative nei diversi social network, servono ad autenticare l’identità e a portare il soggetto a raccordare la presentazione di sé alle proprie cerchie sociali, sia dal punto di vista della gestione dei contatti, sia dal punto di vista del tipo di contenuti da condividere o non condividere. In tal senso, l’investimento dell’utente sui suoi legami sociali sulle diverse piattaforme dipende dalla gestione dei contenuti.

I social network non sono quindi dei luoghi di simulazione anonima totalmente sganciati dalla realtà quotidiana.

 

 

© Il personal Branding – Marika Fantato

 

 

[1] Goffman E.,  The Presentation of self in everyday life. La vita quotidiana come rappresentazione teatrale,1959.

[2] Goffman E.,  The Presentation of self in everyday life. La vita quotidiana come rappresentazione teatrale,1959.

[3]  Mead, G. H., Mind Self and Society from the Standpoint of a Social Behaviorist, Edited by Charles W. Morris, Chicago: University of Chicago, 1934.

[4] Goffman E.,  The Presentation of self in everyday life. La vita quotidiana come rappresentazione teatrale,1959.

[5]   Mead, G. H., Mind Self and Society from the Standpoint of a Social Behaviorist, Edited by Charles W. Morris, Chicago: University of Chicago, 1934.

[6] Goffman E.,  The Presentation of self in everyday life. La vita quotidiana come rappresentazione teatrale,1959.

[7]   Mead, G. H., Mind Self and Society from the Standpoint of a Social Behaviorist, Edited by Charles W. Morris, Chicago: University of Chicago, 1934.

[8]    Boccia Artieri, Gemini 2004