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burnout e insegnamento

Burnout ed insegnamento

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“Gli insegnanti in burnout possono manifestare verso i propri allievi atteggiamenti di indifferenza e cinismo, che possono palesarsi con l’uso di etichette offensive, atteggiamenti freddi e distaccati, distanza fisica e psicologica dagli allievi, disagio psicologico.” (Maslach, 1982)

Burnout e patologia psichiatrica negli insegnanti

I dati raccolti in Italia dal Distretto Sanitario di Milano dal gennaio del 1992 al dicembre del 2003, in relazione alla valutazione dell’idoneità al lavoro di molteplici dipendenti pubblici (operai, operatori sanitari, insegnanti e impiegati), hanno riportato che il rischio da parte degli insegnanti di andare incontro a disturbi psichiatrici è da 2 a 3 volte superiore a quello di operatori sanitari, impiegati e cosiddetti colletti blu (Lodolo D’Oria et al.,2004). Da una rivisitazione della letteratura sono stati riconosciuti oramai almeno 40 fattori legati al burnout (Nagy et al., 1992). Secondo Marck (1990) gli stessi sono riconducibili a tre categorie: 

  • fattori sociali e personali del soggetto: includono le caratteristiche individuali (età, sesso, personalità, stile cognitivo, religione, tolleranza, aspettative professionali, suscettibilità, background culturale, tempra, tenacia, arrendevolezza, resistenza, livello socio-economico, stile di vita, situazione familiare, eventi luttuosi etc.)
  • fattori relazionali: relativi ai rapporti interpersonali con studenti e loro familiari, affollamento delle classi, direzione scolastica, competitività coi colleghi
  • fattori oggettivi professionali: riguardano l’organizzazione scolastica e le condizioni di lavoro (carico di lavoro, precariato, riforme scolastiche, carico di lavoro, attrezzature, ubicazione della scuola in zona urbana o rurale, risorse didattiche, attrezzature, programma da svolgere, organizzazione degli orari di lezione, funzioni obiettivo, chiarezza dei regolamenti di funzionamento, flussi di comunicazione interna, frequenza delle riunioni, percorso di carriera, reporting/feedback inefficace etc.).

A ciò si aggiungono: l’avvento dell’era informatica e di una società multiculturale e multietnica, l’inserimento dei portatori handicap nelle classi, la delega dei genitori all’educazione dei figli, l’introduzione della valutazione dei docenti d parte di genitori e studenti,la maggior intransigenza dell’utenza, la svalutazione sociale del lavoro in se stesso a favore del successo e del guadagno economico (notoriamente bassi per gli insegnanti), l’abolizione delle cosiddette baby-pensioni (Cherniss, 1980). I risultati ottenuti in diversi paesi sugli insegnanti, come quelli ottenuti dalla ricerca di Chan (1995)  e dalla ricerca di Manthei (1988) e in altre helping professions  permettono di riferire che il burnout, a differenza dello stress che riguarda la sfera individuale, è un fenomeno fondamentalmente psicosociale di portata internazionale, per il quale sono stati riconosciuti fattori di rischio personali, relazionali e ambientali sui cui intervenire (Boccalon, 2001). Si tratta di una sindrome complessa, multidimensionale che merita di essere attentamente considerata per la rilevanza sociale, in quanto implica dei costi elevati per tutti i soggetti coinvolti nella gestione, erogazione e fruizione dei servizi (operatori che pagano in termini di salute e qualità di vita, utenti che trovano un servizio qualitativamente insoddisfacente, comunità che vede lievitare i costi in termini di assenza dal lavoro e assistenza sociosanitaria). Sono auspicabili iniziative di supporto per lo sviluppo di interventi correttivi in fase di prevenzione primaria, secondaria e per attività curativa, agendo sulle dimensioni personale, interpersonale, organizzativa, socio-politica e micro ambientale (Cox e Parson 1994).

Un’ultima considerazione tira in ballo il ruolo dei sindacati presenti in uno studio inglese condotto su 4.072 insegnanti; essi possono e devono giocare un importante ruolo in merito all’integrità psicofisica del lavoratore (Brown, 1992).

Il burnout degli insegnanti è comunque un tema di significato internazionale da almeno vent’anni come dimostrano gli studi avviati in Gran Bretagna da Capel e collaboratori (1987), ad Hong Kong da parte del gruppo di ricerca di Chan (1995), in Canada da St-Arnaud e colleghi (2000), in Norvegia da Mykletun insieme al suo gruppo di ricerca (1999), a Malta da Borg e collaboratori (1993) ed in Australia da Mark (1990). Sul tema sono stati anche condotti studi comparativi tra sistemi scolastici di differenti paesi come Italia e Francia (Predabissi et al., 1991), Zelanda e Australia (Manthei, 1988). 

Rimane però ancora l’esplorazione di un approccio standardizzato al trattamento terapeutico. A questo proposito Farber (2000) ha individuato: 

  • i livelli di condizionamento dell’individuo (personale, professionale/ organizzativo e ambientale)
  • le maggiori fonti di stress per gli insegnanti (es: classi numerose, indisciplina degli studenti, eccessivo carico di lavoro, disorganizzazione)
  • il profilo personale del professionista più a rischio di burnout (età sotto i 40 anni, suscettibile ai condizionamenti esterni, idealista, introverso, docente di medie o superiori, con ridotta hardiness, Type A behaviour)
  • l’humus più favorevole all’attecchimento del burnout (aree urbane, zone disagiate con scarsi servizi sociali, classi numerose, strutture fatiscenti, attrezzature insufficienti/inadeguate, gestione burocratica anziché manageriale).

Sempre Farber (2000) propone ai fini di un approccio al trattamento terapeutico individualizzato una differenziazione del burnout in tre sottocategorie: 

  • burnout classico (o frenetico), che si verifica quando il soggetto di fronte allo stress reagisce accrescendo a dismisura la propria attività lavorativa fino all’esaurimento psicofisico;
  • burnout da sottostimolazione, dovuto alla insoddisfazione per la monotonia e la ripetitività del lavoro, non più ritenuto dall’individuo all’altezza di offrire stimoli e motivazioni sufficienti;
  • burnout da scarsa gratificazione, che scaturisce da un lavoro ritenuto troppo stressante rispetto al riconoscimento sociale che comporta. La differenza col burnout classico risiede nella reazione dell’individuo che riduce il proprio ritmo lavorativo col preciso fine di prevenire il sopraggiungere dell’esaurimento (Farber, 2000).

In attesa di un intervento socio-istituzionale sull’ambiente di lavoro e sull’organizzazione, l’Autore (Faber, 2000) asserisce che il progetto terapeutico sull’insegnante debba essere rigorosamente personalizzato (tailored ossia “cucito addosso” come se fosse un vestito), prevedendo un intervento psicoterapeutico, differenziato a seconda del sottotipo di burnout per perseguire quattro obiettivi:

  • mettere in evidenza gli aspetti positivi del lavoro e non concentrarsi solo su quelli negativi;
  • coltivare interessi al di fuori dal lavoro;
  • non centrare l’attenzione solo sui problemi professionali;
  • diminuire la componente onirico-idealista rispetto al proprio lavoro, ridimensionando le proprie aspettative e riconducendole a un piano più attinente alla realtà (Farber, 2000).

Lodolo D’Oria e collaboratori (2014) pongono una riflessione sui fattori personali. Il loro articolo (Lodolo D’Oria et al., 2014) asserisce così: «[…] occorre fare una riflessione sui cosiddetti “fattori personali” che, per la loro importanza, hanno sicuramente contribuito, in maggiore o minor misura, a determinare la patologia. […] La situazione rilevata dallo studio Getsemani, in decisa controtendenza rispetto ai luoghi comuni sugli insegnanti, assai diffusi tra l’opinione pubblica (lavorano solo mezza giornata, dispongono di lunghissimi periodi di vacanza e si lamentano senza motivo), nonché ai dati proposti nel 2001 dalla Commissione Europea Occupazione e Affari Sociali (la professione docente è quella a minor rischio di stress), vede la categoria dei docenti particolarmente esposta al rischio di sviluppare patologie psichiatriche, nonostante il CCNL, a scopo cautelativo, preveda nell’ambito dell’orario di lavoro “un massimo di 18 ore settimanali d’insegnamento per la scuola secondaria, 22 per quella elementare, 25 per quella materna, tutte comunque distribuite in non meno di cinque giornate settimanali”. Ai fattori usuranti intrinseci dell’insegnamento, si aggiungono quelli socio-culturali già enunciati nell’analisi introduttiva: l’avvento di una società multiculturale e multietnica, la delega dei genitori lavoratori per l’educazione dei figli, l’inserimento dei portatori di handicap nelle classi, la maggior intransigenza dell’utenza, il misbehaviour di alcuni studenti (il termine anglosassone appare meno offensivo rispetto alla traduzione italiana “maleducazione”, “diseducazione”, “cattivo contegno”, “mal comportamento”), l’introduzione della valutazione dei docenti da parte di genitori e studenti, la diminuzione delle risorse istituzionali, la svalutazione sociale del lavoro in se stesso a favore del successo e del guadagno economico (notoriamente bassi per gli insegnanti), l’abolizione delle cosiddette baby-pensioni, l’avvento dell’era informatica, la gestione manageriale del lavoro, il passaggio dall’insegnamento individuale a quello in équipe, la protratta situazione di precariato, la competitività tra colleghi, la mobilità, le continue riforme scolastiche (annunciate o realizzate). Di fronte a questo scenario il supporto dato ai docenti è praticamente immutato negli anni, se si escludono i rari corsi di aggiornamento professionale e talune situazioni in ambienti protetti. Ma se una volta era possibile ritirarsi precocemente dal servizio, oggi l’unica via di fuga dalla sindrome del burnout risiede nel trattamento di inabilità per motivi di salute. Su questo punto potrebbero essere eccepite alcune questioni, sostenendo che l’esorbitante numero di domande di accertamenti di inabilità al lavoro presentate dalla categoria degli insegnanti rispetto agli altri dipendenti pubblici, sia dovuto al fatto che questa prassi rappresenti la “soluzione burocratica” a una situazione altrimenti senza sbocchi. L’obiezione non trova però riscontro nei giudizi formulati dal Collegio Medico competente, che solo in pochi casi ha constatato l’inconsistenza del quadro clinico dell’interessato decretando l’idoneità al lavoro a conclusione dell’accertamento medico. Più in generale si potrebbe invero affermare che i casi psichiatrici (ma ciò vale per tutte le categorie professionali analizzate) sono verosimilmente sottostimati, in quanto la negazione/vergogna della patologia da parte del soggetto gioca un inequivocabile ruolo. Numerosi sono infatti i casi di pazienti per i quali il Collegio medico ha richiesto un approfondimento diagnostico in ambito psichiatrico. Ma proprio a fronte del sospetto diagnostico sulla sussistenza di un’infermità di natura psichica, l’interessato in alcuni casi ha rifiutato di sottoporsi a visita, non ripresentandosi poi alla visita collegiale conclusiva. Il Collegio Medico in questi casi ha potuto di conseguenza unicamente procedere all’archiviazione della pratica per decorrenza dei termini, senza poter assumere un provvedimento finale. Con riferimento alle richieste di accertamento d’idoneità al lavoro effettuate dalla scuola di appartenenza a carico di docenti, per i quali sussiste il sospetto diagnostico di infermità di natura psichica, vale la pena segnalare un’altra dinamica frequente. Le richieste di accertamento sono spesso avviate in seguito a segnalazioni/contestazioni da parte di studenti, loro genitori, colleghi oppure da indagini ispettive del Provveditorato agli Studi competente o addirittura da denunce/esposti all’autorità giudiziaria. Nella quasi totalità dei casi l’amministrazione e tutto l’ambiente scolastico (direzione, colleghi, studenti, famiglie) tendono a isolare il “diverso” in un processo che è tanto “fisiologico” (esattamente sovrapponibile a quello immunitario di rigetto di un corpo estraneo da parte dell’organismo) quanto perverso (in quanto tende a spingere la persona in uno stato d’isolamento che può determinare il viraggio da una situazione di burnout a una franca patologia psichiatrica). Questa sorta di “processo di allontanamento” assume l’aspetto di “mobbing atipico” con tre peculiarità:  il coinvolgimento di tutta la struttura nell’azione di attacco alla persona in difficoltà (quindi non solo il datore di lavoro),  una partecipazione dell’utenza esterna all’ azione di attacco  l’incisività dell’azione di attacco direttamente proporzionale alla gravità della patologia manifestata (che poi corrisponde al livello di disadattamento dell’individuo nel rapporto con l’ambiente circostante). Di converso vedremo più avanti come il rimedio a una siffatta situazione passi unicamente attraverso la consapevolezza di ciascun attore (direzione, colleghi, studenti, famiglie), di possedere un potenziale ruolo proattivo nel processo di terapia e guarigione del soggetto disadattato. Altra questione importante riguarda la prevalenza di soggetti di sesso femminile nel corpo docente (99.54 % di donne nella scuola materna, 95.18% nella elementare, 74.78% nella media inferiore, 58.59% nella media superiore secondo i dati del Ministero dell’Istruzione – Anno Scolastico 2001/02). La stessa non sembra influire sulla prevalenza delle patologie psichiatriche in quanto non si riscontrano differenze tra i sessi. Analogo discorso vale per le diverse appartenenze dei docenti alle classi d’insegnamento (materne, elementari, medie, superiori) per le quali si riscontrano dati sovrapponibili. L’età media degli insegnanti risulta di 49.4 anni mentre per quelli con problemi psichiatrici è di 48.6. Il dato assume particolare significato se letto alla luce delle recenti rilevazioni ministeriali (Ministero dell’Istruzione – Anno Scolastico 2001/02) che registrano un’età media di 47,13 anni per il corpo docente, con 49,31 anni per i docenti delle scuole medie inferiori, 47,83 per quelli delle medie superiori, 45,30 per quelli delle elementari e 45,99 per quelli delle materne. L’analisi effettuata dunque sembrerebbe escludere come elementi di confondimento sia l’età che il sesso, facendo ricadere per intero l’esito dei risultati dello studio sull’attività professionale di docente.

Che il numero di ore d’insegnamento (docenza frontale propriamente detta) possa essere tra i maggiori imputati del logoramento psicofisico del docente, è ipotizzabile anche partendo dalla considerazione che, nella casistica esaminata, sono pressoché assenti professori universitari affetti da patologie psichiatriche (si osserva un solo caso relativo a un ricercatore universitario), pur riconoscendo che l’INPDAP rappresenta la loro cassa pensioni solo a far capo dall’1.1.96. È infatti noto il basso numero di ore d’insegnamento al quale gli stessi sono tenuti a fronte del tempo da dedicare a ricerca, studio e attività collaterali all’insegnamento. Ma in stretta relazione col tempo trascorso a insegnare è indispensabile prendere in considerazione anche la qualità dello stesso. Infatti lo stesso numero di ore di lezione pesa sul docente in modo differente, a seconda dell’interesse/attenzione suscitati nel discente. Necessita dunque uno studio apposito per verificare la correlazione causale tra ore d’insegnamento, loro qualità e sindrome del burnout. Va infine ricordato che il livello culturale e la condizione socio-economica dei giovani che si iscrivono all’università tende a far calare drasticamente quei fenomeni di misbehaviour tipici dell’età nella scuola dell’obbligo. Sul fattore qualità incide certamente la carente preparazione socio-psico-pedagogica degli insegnanti a inizio carriera. […] Occupandosi di dipendenti dell’Amministrazione Pubblica, lo studio Getsemani non fornisce indicazioni sulla prevalenza delle patologie psichiatriche nei docenti delle scuole private. Tuttavia a fronte delle considerazioni sul numero di ore d’insegnamento effettuate, e per il fatto che molti insegnanti cominciano la carriera nella scuola privata, concludendola di fatto in quella pubblica (da molti considerata come punto d’arrivo), risulterebbe difficile oltreché improduttiva, una valutazione distinta a seconda del settore di provenienza dell’interessato. Conviene piuttosto intervenire a supporto del docente fin dall’inizio della sua carriera professionale, prescindendo dalla natura della scuola, in quanto il sistema privato costituisce un vero e proprio vivaio d’insegnanti dal quale attinge il sistema pubblico. Comportarsi diversamente equivarrebbe a negare l’attuale impostazione dell’ordinamento scolastico italiano che si avvale della complementarietà dei settori pubblico privato e dello scambio di personale. Una trattazione a parte merita il particolare rilievo sociale del problema. La portata internazionale della questione, come mostrato nell’introduzione, è inequivocabile e si estende anche agli aspetti socio-economici poiché la stessa, come abbiamo già detto, influisce su costi, produttività ed efficienza del sistema scolastico. La riforma delle pensioni, pur operando nel senso del risanamento economico, ha indubbiamente contribuito a slatentizzare una situazione sommersa sottraendo una via di fuga agli insegnanti oggi costretti a lavorare a oltranza fino ai 60 anni (donne) e 65 anni (uomini). Il ritiro anticipato dal lavoro su base spontanea ha verosimilmente contribuito, fino a pochi anni fa, a mantenere entro certi limiti l’alto tasso di incidenza di patologie psichiatriche, rendendo meno evidente la punta dell’iceberg che oggi rivela la situazione nella sua temibile essenza. È inoltre ragionevole prevedere, nel futuro, un aumento delle istanze di accertamento di inabilità derivante da causa di servizio al fine di ottenere il trattamento pensionistico privilegiato. Si considerino poi a parte le implicazioni di alcune recenti disposizioni, che pongono in capo all’amministrazione di appartenenza l’attivazione d’ufficio della pratica, qualora il dipendente riporti lesioni per certa o presunta ragione di servizio o abbia contratto infermità nell’esporsi per obbligo di servizio a cause morbigene e dette infermità siano tali da poter divenire causa d’invalidità o di altra menomazione dell’integrità fisica, psichica o sensoriale (art. 3 D.P.R. 29 ottobre 2001, n. 461). Per ciò che concerne la variabile relativa al numero degli anni d’insegnamento, non sono state effettuate rilevazioni. Nondimeno, un eventuale studio epidemiologico in tal senso potrebbe indagare questa variabile che oggi trova un indice “indiretto” nell’età media della popolazione oggetto di studio (49.4 anni per la popolazione insegnante in generale e 48.6 anni per gli insegnanti affetti da patologie di tipo psichiatrico). Il campione preso in esame proviene da quelle che sono denominate dagli anglosassoni “urban area”, mentre la situazione nelle “rural area” è, secondo alcuni autori tra cui Nagy (1992), meno a rischio. Anche in questo caso potrebbe essere opportuno un approfondimento che preveda anche l’ulteriore segmentazione tra scuole dell’area urbana. Infatti, il misbehaviour degli studenti è più frequente negli istituti della periferia, dove le condizioni socio-economiche sono più basse, rispetto a quelli che afferiscono alle aree del centro.» (Lodolo D’Oria et al., 2014) 

In seguito, nell’articolo (Lodolo D’Oria et al., 2014) vengono riportate anche delle prospettive e ipotesi d’intervento, sulla base dei risultati ottenuti. «A fronte della complessità del problema (che ad ogni buon conto ricordiamo essere internazionale) non è possibile sperare in un’unica, rapida e semplice soluzione. L’approccio alla questione, una volta riconosciutane pienamente la fondatezza e la rilevanza sociale (stupiscono, in proposito, le rare e deboli “reazioni” di fronte ai risultati degli studi internazionali menzionati nell’introduzione), non può che avvenire per gradi e con approccio multidimensionale (cioè politico, sociale, sanitario ed economico). Per gradi perché i risultati di questo studio richiedono un ampio dibattito, che veda la società nelle sue articolazioni (istituzioni, parti sociali, amministrazione scolastica, associazioni di categoria, di studenti, di famiglie, sanitarie etc.) adoperarsi per approfondire gli aspetti lasciati necessariamente inevasi. Multidimensionale perché, come vedremo più avanti, l’approccio a una sindrome complessa non può che prevedere interventi di diversa natura, su più fattori e a differenti livelli. Inoltre nessuna delle parti citate può cedere all’illusione di possedere formule o bacchette magiche pretendendo così di dare risposta a più incognite con una sola equazione. Di fronte ai numerosi lavori prodotti sulla materia, sia in Italia che all’estero, emerge prepotente il contrasto tra la serietà del problema e la totale assenza di una volontà propositiva mirante alla risoluzione dello stesso. Si ha l’impressione che sia preferibile ignorare il burnout degli insegnanti come una verità scomoda e destabilizzante (il che è facilmente comprensibile a tutti) ricorrendo al tipico comportamento dello struzzo.

[…] La situazione ha dunque permesso anche in Italia l’accrescimento silenzioso dell’iceberg, la cui punta, evidenziata dalla presente ricerca in modo del tutto occasionale (oggetto dello studio erano infatti tutti i dipendenti pubblici e non gli insegnanti solamente), è destinata ad aumentare di volume grazie al costante abbassamento della linea di galleggiamento dello stesso. L’analogia con l’iceberg appare particolarmente appropriata se azzardiamo l’ipotesi che la base dello stesso è costituita dai casi di burnout, mentre la parte emersa rappresenta le infermità psichiche conseguenti.» (Lodolo D’oria et al., 2014). Vengono di seguito ipotizzati alcuni punti d’intervento nei diversi settori offrendo elementi per un dibattito.


© Il Burnout negli insegnanti – Federica Sapienza


 

Fattori di rischio e di protezione sul burnout

Fattori di rischio e di protezione emergenti dalle ricerche sul burnout in diversi ambiti lavorativi

Ripartendo da quanto riportato all’inizio del precedente paragrafo, vale a dire la sindrome di burnout (Maslach, 1982) ed il quadro comportamentale “di Tipo A (Rosenman e Friedman, 1994), sembra che quest’ultimo si trovi più facilmente in ambienti di lavoro molto competitivi, mentre la sindrome di burnout sia più caratteristica delle “professioni di aiuto” (Sibilia, 2010). A tale riguardo, di seguito verranno proposte una serie di ricerche, presenti in letteratura, sul burnout nelle diverse professioni d’aiuto. 

Negli ultimi anni l’interesse scientifico per il fenomeno del burnout è considerevolmente cresciuto. Inizialmente questo fenomeno era stato indagato solo nelle professioni d’aiuto e attribuita quindi alle eccessive richieste associate allo svolgimento di attività che implicano un costante contatto con persone che soffrono (Argentero e Setti, 2008). Nonostante successivamente sia emersa la necessità, di considerarla una sindrome estensibile a qualsiasi tipo di professione, tuttavia la ricerca sul burnout è ancora oggi prevalentemente rivolta alle persone che svolgono professioni d’aiuto, per le quali il rischio oggettivo di sviluppare esiti psicologici negativi a causa del lavoro rimane più elevato (Argentero e Setti, 2008). Una tipologia lavorativa inclusa nelle helping professions è quella degli operatori addetti al soccorso nelle situazioni di emergenza (per esempio incidenti stradali) e di maxi-emergenza (per esempio terremoti e alluvioni) (Argentero e Setti, 2008). A questo proposito, Argentero e Setti (2008) in un loro articolo dichiarano che i poliziotti, i vigili del fuoco e gli operatori addetti al soccorso su ambulanza, appartengono alla categoria degli “highstress occupations” o professioni ad alto stress (Brough, 2004), perché sono testimoni diretti di situazioni inaspettate e altamente stressanti che inevitabilmente incidono sul loro benessere psicofisico (Hodgkinson e Stewart, 1991; Raphael, 1986). Nell’articolo (Argentero e Setti, 2008) si legge che, nello specifico, gli operatori dell’emergenza sono esposti a stressors sia acuti, ovvero eventi particolarmente traumatici quali la morte violenta di persone o la visione di corpi mutilati, sia cronici, ossia condizioni lavorative che sebbene meno violentemente stressanti rispetto alle prime, ripetute con frequenza quotidiana sono comunque in grado di produrre un importante grado di stress (Beaton e Murphy,1993; Brough, 2002; Brown, Fielding, Grover, 1999; Hart e Cotton, 2003).  Inoltre, Argentero e Setti (2008) ritenevano che l’esperienza di situazioni estremamente stressanti costituisca una condizione necessaria, ma non sufficiente, per lo sviluppo di esiti psicologici negativi, quale il burnout, per i quali gli stressors cronici, o organizzativi, risultano un’ulteriore componente fondamentale (McFarlane, 1988; Van der Ploeg, 2003). Per questa ragione, nel loro studio (Argentero e Setti, 2008) decisero di valutare variabili che si collocano all’opposto del burnout, ossia: l’energia, il coinvolgimento e l’efficacia professionale (riferibili rispettivamente alle tre dimensioni del burnout: esaurimento, cinismo ed inefficacia (Leiter e Maslach, 2000). Inoltre, in secondo luogo sono state misurate anche alcune variabili lavorative: Carico di lavoro, Controllo, Riconoscimento, Integrazione Sociale, Equità, Valori (Argentero e Setti, 2008). Il principio di base è quello secondo cui i soggetti che ottengono punteggi più elevati rispetto all’indagine di queste ultime caratteristiche sono anche quelli maggiormente integrati con l’organizzazione di appartenenza, quindi con un livello più elevato di benessere e un minor rischio di sviluppare condizioni patologiche, quale il burnout (Maslach e Leiter, 1997; Argentero e Setti, 2008).

Alla luce di ciò alla ricerca di Argentero e Setti (2008) presero parte da 298 operatori dell’emergenza impiegati nella Provincia di Pavia con ruoli professionali diversi: 83 Addetti al soccorso su Ambulanze, 42 Operatori del 118, 112 Vigili del Fuoco, 61 addetti alle Forze dell’Ordine (Argentero e Setti, 2008). Il campione era prevalentemente costituito da soggetti di genere maschile (86.6%), con età media pari a 38.5 anni e con un’anzianità di servizio tendenzialmente alta, infatti quasi la metà dei soggetti risulta impiegata nel settore dell’emergenza da oltre 13 anni (Argentero e Setti, 2008). La maggiore concentrazione di personale di genere maschile si riscontrava fra i Vigili del Fuoco (99.1%), mentre la più alta percentuale di donne (35.7%) si aveva fra gli Operatori del 118 (Argentero e Setti, 2008). In relazione all’età, i soggetti più giovani (con età pari o minore ai 30 anni) si concentravano soprattutto nella categoria del Personale addetto al soccorso su Ambulanze (26.3%), i soggetti con età intermedia (31-40 anni) si trovavano prevalentemente fra gli Operatori del 118 (66.7%), infine gli operatori con età maggiore (superiore ai 40 anni) erano soprattutto fra i Vigili del Fuoco (46.7%) (Argentero e Setti, 2008). Volendo effettuare lo stesso tipo di confronto fra le diverse categorie professionali in relazione all’anzianità lavorativa, le Forze dell’Ordine presentavano la più alta percentuale di soggetti impegnati nel settore da molti anni (57.6% da oltre 13 anni) (Argentero e Setti, 2008). Lo strumento utilizzato nella ricerca degli Autori (Argentero e Setti, 2008) è la versione italiana (Borgogni, 2005) dell’OCS che sta per Organizational Checkup System (Leiter; Maslach, 2000), nonché un questionario formato da quattro sezioni, ognuna formata da una serie di scale diverse, in particolar modo sono state prese in esame in questo studio la scala “Relazione con il lavoro” e l’“Area di vita lavorativa”. La prima ha permesso di valutare il benessere e la presenza di engagement nei soggetti appartenenti all’organizzazione (Argentero e Setti, 2008). L’area comprendeva complessivamente 16 items, valutati su una scala di risposta Likert a 7 passi (da 0 = mai a 6 = quotidianamente), attraverso i quali venivano indagate le tre specifiche dimensioni del benessere: Energia (5 items), Coinvolgimento (5 items), percezione di Efficacia professionale (6 items) (Argentero e Setti, 2008). Al crescere del punteggio ottenuto dal soggetto nelle tre scale corrisponde una condizione di maggiore benessere personale (al contrario, punteggi bassi sono indicatori della presenza di burnout) (Argentero e Setti, 2008). La seconda parte dell’OCS, ha permesso di indagare sei specifiche caratteristiche lavorative che la ricerca di Argentero e Setti (2008) ha dimostrato essere in grado di influire significativamente sullo stato di benessere individuale (Maslach e Leiter, 1997) in base al fatto che vi sia “armonia” (match) o mancanza di “armonia” (mismatch) fra le caratteristiche dell’individuo e gli aspetti organizzativi (Argentero e Setti, 2008). La seconda parte era formata da 29 items su scala Likert a 5 passi (da 1 = molto in disaccordo a 5 = molto d’accordo) ed indagava: il carico di lavoro (6 items); il controllo (3 items); il riconoscimento (4 items); l’ntegrazione sociale (5 items); l’equità (6 items); i valori (5 items) (Argentero e Setti, 2008).  Più il punteggio era alto migliore era l’integrazione del soggetto nei confronti della struttura di appartenenza, dunque un maggiore fit individuo organizzazione (Argentero e Setti, 2008). 

Per quanto concerne i risultati, i dati sono stati elaborati mediante il programma SPSS versione 13.0 per Windows. Per verificare eventuali differenze statisticamente significative tra le diverse professioni è stata utilizzata l’analisi della varianza univariata (ANOVA) e l’analisi post-hoc condotta con il metodo di Bonferroni.  Gli Autori volendo confrontare in primo luogo le diverse categorie di operatori dell’emergenza rispetto alle sezioni “Relazione con il Lavoro” e “Aree di Vita Lavorativa” dell’OCS, hanno utilizzato l’ANOVA che ha indicato la presenza di differenze statisticamente significative nelle variabili Energia e Coinvolgimento: le Forze dell’Ordine presentavano i punteggi medi più elevati in relazione sia all’energia impiegata sul lavoro  sia al coinvolgimento dimostrato nei confronti della struttura d’appartenenza. Ciò è stato confermato anche dall’analisi posthoc (metodo di Bonferroni), la quale ha messo anche in evidenza come la categoria professionale che si caratterizza, al contrario, per i più bassi livelli di Energia e di Coinvolgimento è quella degli Operatori del 118, per i quali sarebbe dunque più corretto parlare rispettivamente di esaurimento e cinismo, in quanto si è in presenza di una situazione di scarso benessere, dunque di possibile burnout. Dai risultati relativi alla sezione “Aree di Vita Lavorativa”, sono emerse differenze statisticamente significative per quattro variabili su sei. In particolare, l’ANOVA ha indicato la presenza di differenze statisticamente significative nelle variabili Controllo e Integrazione Sociale. L’analisi posthoc (metodo di Bonferroni) ha evidenziato che la categoria professionale con una maggiore percezione di controllo sulle attività svolte e di integrazione sociale nel team era quella dei Vigili del Fuoco, mentre gli Operatori del 118 manifestavano un più scarso controllo e gli addetti alle Forze dell’Ordine si sentivano meno integrati nel gruppo di lavoro (Argentero e Setti, 2008). L’ANOVA ha posto in evidenza una differenza significativa relativamente anche alla scala valori: l’analisi post-hoc ha rivelato un migliore allineamento fra valori individuali e organizzativi per il Personale delle ambulanze e per gli Operatori del 118, mentre il gruppo dei Vigili del Fuoco è quello che si dimostrava meno integrato nei valori della struttura di appartenenza (Argentero e Setti, 2008). Infine, anche rispetto alla variabile Equità, l’ANOVA indicava la presenza di una differenza statisticamente significativa che l’analisi post-hoc ha evidenziato essere a favore delle Forze dell’Ordine.

Secondariamente, in relazione invece al confronto tra le diverse categorie di operatori dell’emergenza rispetto alle variabili socio-anagrafiche, prendendo in esame la variabile genere, l’unica differenza statisticamente significativa posta in evidenza dall’ANOVA riguarda la scala Integrazione sociale, in particolare erano i soggetti di sesso maschile a sentirsi più integrati nel team di lavoro rispetto alle donne. Per la variabile età, il solo dato statisticamente significativo riguardava la dimensione del Controllo: il punteggio medio più elevato si registrava a favore delle persone con età superiore ai 40 anni. Tale risultato è stato ulteriormente confermato dall’ANOVA condotta sulla variabile anzianità lavorativa, per la quale sono i soggetti con una più lunga esperienza nel settore (superiore ai 20 anni) presentavano punteggi medi più alti nella dimensione Controllo. È stata interessante anche la variabile anzianità lavorativa perché, in relazione alla scala “Carico di lavoro” è emerso che: sono i soggetti con un’esperienza nel settore di medio lunga durata, ossia compresa fra i 6-12 anni e fra i 13-20 anni a percepire un minor carico di lavoro, dunque una minore pressione sul posto di lavoro. In conclusione, relativamente alla dimensione dell’Energia, l’ANOVA non ha posto in evidenza l’esistenza di una differenza significativa, tuttavia i dati relativi a tale variabile si distribuiscono secondo una precisa tendenza, simile a quella presentata dai dati relativi alla scala Carico di lavoro: in corrispondenza delle fasce d’anzianità lavorativa più bassa (inferiore a 5 anni) i punteggi medi tendono ad essere piuttosto scarsi, per poi salire sensibilmente e stabilizzarsi in corrispondenza di un’anzianità medio-alta (compresa cioè fra i 6-12 anni e fra i 13-20 anni), per poi abbassarsi nuovamente per i soggetti con una lunghissima esperienza nel settore (superiore ai 20 anni) .

Rapportando i risultati ottenuti ad altre ricerche presenti in letteratura (2008), i due Autori hanno posto in evidenza che il punto medio alto ottenuto dalle Forze dell’ordine nella variabile Energia, è confermato anche da altre ricerche (Kroes, 1988; Toch,2002; Violanti e Paton, 1999). Ancora, in merito alle Forze dell’Ordine, è emerso nella ricerca punteggio maggiore nel Coinvolgimento, sebbene però non sia confermato da altre ricerche, in cui invece si dimostrano generalmente meno coinvolte nel loro lavoro se confrontate con altri operatori impegnati nel settore dell’emergenza (Kop e Euwema, 2001). Si può dunque affermare che, in base ai dati qui presentati relativamente ai costrutti dell’Energia e del Coinvolgimento, le Forze dell’Ordine rappresentano il gruppo professionale esposto in minore misura al rischio di sviluppare burnout; in effetti, alcune altre ricerche confermano questa tendenza: uno studio condotto sulla polizia norvegese (Schaufeli e Buunk, 2002) riporta una frequenza di burnout pari soltanto all’1%, percentuale del tutto sovrapponibile a quella della popolazione generale. Tale dato è attribuibile alla presenza, sul luogo, di un’assistenza psicologica costante offerta agli operatori, aspetto invece ancora tendenzialmente carente nel nostro Paese. Probabilmente un’altra risorsa importante che essi hanno a disposizione è la consapevolezza dell’utilità sociale dell’attività svolta, nonostante le condizioni stressanti, e talora anche personalmente rischiose, che devono essere affrontate. È inoltre ipotizzabile che i soggetti destinati a entrare nelle Forze dell’Ordine, se considerati rispetto alle altre categorie di operatori dell’emergenza, vengano sottoposti a processi di selezione condotti in maniera approfondita, finalizzati cioè a identificare le persone maggiormente in grado di affrontare questo tipo di ruolo professionale, distinguendole da coloro che, per le proprie caratteristiche psicologiche, non riuscirebbero invece a fronteggiare i forti stressor che tale attività implica. 

Un altro aspetto particolarmente interessante emerso dalla ricerca riguarda la percezione di poter esercitare un controllo sulla propria attività e la sensazione di operare in un ambiente caratterizzato da una forte integrazione sociale; a questo proposito i Vigili del Fuoco hanno ottenuto punteggi medi significativamente superiori rispetto a quelli delle altre categorie professionali sia nella scala Controllo sia nella scala Integrazione Sociale. Precedenti ricerche hanno posto in evidenza come la possibilità di percepirsi integrati nel team di lavoro possa costituire un importante fattore protettivo nei confronti del rischio di sviluppare effetti psicologici negativi: è stato, a tale proposito, evidenziato che svolgere la propria attività in maniera operativa sul campo (è il caso dei Vigili del Fuoco inclusi in questo campione) anziché in un contesto d’ufficio, contribuisce ad incrementare la sensazione di appartenenza al gruppo, di integrazione sociale e di sostegno da parte dei colleghi, dunque in ultima istanza la capacità di coping nei confronti degli stressors lavorativi (Corneil et al, 1999). 

Per quanto riguarda il secondo obiettivo della ricerca, relativo al confronto fra i soggetti del campione in base alle variabili socio-anagrafiche (cioè senza riferimento alla categoria professionale d’appartenenza), volendo approfondire i dati dotati di significatività statistica, si è preso in esame il genere: sembra che siano i maschi a presentare una percezione di integrazione sociale superiore a quella delle femmine (tale dato va tuttavia recepito con attenzione in quanto i due gruppi sono numericamente molto diversi). Un ulteriore elemento da porre in evidenza concerne la percezione del controllo, rispetto alla quale si sono rilevate differenze significative sia per la variabile età sia per l’anzianità lavorativa: sono infatti i soggetti più anziani (età superiore ai 40 anni) e quelli con una più lunga esperienza nel settore (oltre 20 anni) ad avere una percezione di maggiore controllo sulle attività svolte. È sembrato dunque evidente che la sensazione di poter esercitare una forma di controllo sui compiti lavorativi quotidiani si sviluppi in seguito ad una lunga esperienza nel ruolo lavorativo, alla quale si accompagna evidentemente un’età anagrafica maggiore. La sensazione di non subire un eccessivo carico di lavoro sembra invece essere migliore per coloro che presentano un’anzianità di servizio di medio-lunga durata (ossia compresa fra 6 e 20 anni), mentre risultati medi significativamente inferiori si registrano per persone con un’anzianità molto breve o, al contrario, molto lunga. È presumibile che nelle fasi iniziali di un’attività particolarmente stressante gli operatori non abbiano ancora sviluppato le strategie di coping necessarie per riuscire a gestire in modo equilibrato i compiti assegnati, elemento che può condurre a percepire un pesante carico di lavoro; analogamente è possibile ipotizzare che, dopo molti anni di esperienza nel settore, e nonostante la presenza di condizioni lavorative sostanzialmente immutate, i professionisti tendano a percepire maggiore carico di lavoro, e di conseguenza a sperimentare un senso di stanchezza, in seguito alle pressioni altamente stressanti ricevute nel corso di un lungo periodo di attività.

In sintesi, il risultato più importante emerso riguarda il diverso livello di benessere presente nelle categorie professionali esaminate: nelle Forze dell’Ordine si sono riscontrati più elevati livelli di Coinvolgimento e di Energia mentre, al contrario, negli Operatori del 118 si è verificata una situazione personale più vicina al burnout. Concludendo, va sottolineato un limite del presente studio, derivante dalla disomogeneità numerica dei gruppi professionali coinvolti; la differente numerosità delle quattro categorie lavorative prese in considerazione può parzialmente limitare la generalizzabilità dei risultati ottenuti.” (Argentero e Setti, 2008).

Un interessante articolo in quest’ambito psicologico è quello di Pietrantoni e colleghi (2003). Gli Autori asserivano nel loro articolo (2003) che negli ultimi trent’anni siano stati realizzati numerosi studi sul burnout in gruppi lavorativi quali infermieri, medici, operatori sociali ed insegnanti, ma il gruppo di lavoro di polizia è stata indagato raramente, sebbene esso non essere semplicemente classificato come helping profession, perchè se gli operatori sociali e sanitari  centrano il loro focus di attenzione suoi vari bisogni dell’essere umano, il poliziotto  orienta il suo focus sulla lex e sul conseguente principio di autorità che ne discende (Pietrantoni e Prati, 2003); ciò rende la sua identità personale e sociale più complessa e articolata (Pietrantoni e Prati, 2003). Kop, Euwema e Schaufeli (1999) hanno fatto riferimento a ricerche dalle quali si deduce che l’esaurimento emozionale e la depersonalizzazione (dimensioni del burnout) siano fortemente correlati ad un diminuito benessere e ad un maggiore atteggiamento cinico nei confronti dei cittadini e della direzione. Dalla loro ricerca (Kop, Euwema e Schaufeli, 1999) emerse che i poliziotti con una certa esperienza di lavoro (16-25 anni di carriera) ottenevano alti punteggi nelle dimensioni presentate prima. Inoltre, non riscontrarono differenze significative fra il livello di burnout misurato negli agenti di Polizia e quello di altri lavoratori «a rischio» (infermieri, medici, operatori sociali, insegnanti) (Kop, Euwema e Schaufeli, 1999). Gli Autori, nel tentativo di spiegare questo fenomeno, diedero una triplice spiegazione (Pietrantoni e Prati,2003). La prima riguardava il fatto che il lavoro in Polizia non è così stressante come spesso viene ideato dall’opinione pubblica: gli agenti di Polizia hanno tempi maggiori per recuperare in seguito a eventi stressanti e il lavoro in Polizia comprende anche lavoro d’ufficio, quindi non c’è sempre un contatto diretto con le persone (Pietrantoni e Prati, 2003). La seconda si riferiva all’effetto selezione: i poliziotti vengono selezionati in base alla resistenza allo stress, quindi tra chi è più predisposto a gestire efficacemente le situazioni difficili (Pietrantoni e Prati, 2003). La terza riguarda la cultura in Polizia, spesso descritta attraverso norme che valorizzano la conformità al ruolo di genere maschile, e quindi incoraggia l’occultamento di problemi emozionali, quindi questa mancata differenza tra poliziotti e altre categorie lavorative sarebbe dovuta alle risposte falsate ai questionari date dai poliziotti che non vogliono ammettere i propri problemi emotivi (Pietrantoni e Prati, 2003). 

A questo proposito si tira in ballo uno studio sulla polizia penitenziaria condotto da Gabriele Prati e Sara Boldrin (2011).  Gli Autori (Prati e Boldrin, 2011) hanno riscontrato che nella letteratura scientifica sugli operatori penitenziari la maggioranza degli studi si è concentrata sugli aspetti organizzativi, ad esempio: rapporto con i superiori, carico del lavoro, conflitto di ruolo, conflitto casa-lavoro e percezione di sicurezza (Schaufeli e Peeters, 2000; Dowden e Tellier, 2004). Kommer (1990) ha riportato che circa il 70% degli operatori di Polizia Penitenziaria presentava un notevole affaticamento per via del sovraccarico di lavoro: dovevano svolgere molti incarichi in poco tempo, con periodi di riposo brevi e dovevano eseguire compiti differenti simultaneamente. Un altro fattore che può provocare un forte stress nei poliziotti penitenziari è l’ambiguità che caratterizza il loro ruolo: da un lato, infatti, devono sorvegliare, mentre dall’altro devono rieducare (Prati e Boldrin, 2011). Alcuni studi (Cheeck e Miller,1983; Tewksbury e Higgins, 2006) hanno messo in luce che il conflitto tra queste due funzioni è fortemente correlato con lo stress. Il contatto diretto con la popolazione reclusa è un altro fattore (Poole e Regoli,1981): esiste infatti una relazione positiva tra lo stress lavorativo e la percentuale di tempo passato a contatto diretto con i detenuti (Schaufeli e Peeters, 2000; Moon e Maxwell, 2004). Pertanto, il burnout è uno dei temi più investigati nel lavoro in polizia penitenziaria, assieme al benessere psicologico o di morbilità psichiatrica (Schaufeli e Peeters, 2000). Lo scopo della ricerca di Prati e Boldrin (2011) pertanto è stato quello di indagare i fattori di rischio per la salute psicologica e per il burnout nel lavoro in polizia penitenziaria. In particolare, le domande che gli Autori (Prati e Boldrin, 2011) si sono posti erano: 

  • “Quali sono i maggiori fattori di stress lavorativo che possono associarsi, negli operatori di polizia penitenziaria, a burnout e benessere psicologico?
  • Incidono in misura maggiore i fattori organizzativi o gli eventi critici di servizio?” (Prati e Boldrin, 2011).

 

Di seguito verrà riportata integralmente la redazione di ricerca di Prati e Boldrin (2011).

“La ricerca si è svolta in quattro carceri piemontesi (Torino, Novara, Biella e Verbania); si è scelto di utilizzare quale strumento di raccolta dati un questionario costruito appositamente mediante interviste riguardanti tematiche inerenti il lavoro di polizia penitenziaria. Per la somministrazione del questionario si è chiesta e ottenuta un’autorizzazione da parte del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte. Prima di ottenere questa autorizzazione il questionario è stato visionato, oltre che dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte, anche dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con sede a Roma, per controllare le tipologie di domande che vi erano state inserite. Ricevuta l’autorizzazione, si è proceduto a contattare telefonicamente i singoli istituti per prendere accordi sul giorno e sull’orario in cui si sarebbero potuti consegnare i questionari. La ricerca è avvenuta nel periodo tra gennaio e febbraio 2010. I questionari erano anonimi e, dopo la loro compilazione sono stati inseriti in una busta chiusa e sono stati consegnati direttamente a uno degli autori del presente studio. I questionari distribuiti nelle quattro carceri prese in esame sono stati 500; ne sono stati consegnati 50 alla Casa Circondariale di Verbania, 100 alla Casa Circondariale di Biella, 120 alla Casa Circondariale di Novara e 230 alla Casa Circondariale di Torino.

Il questionario utilizzato per la ricerca è suddiviso in tre sezioni. Le istruzioni necessarie per la compilazione, che si trovano nella prima facciata, sono seguite dalla sezione in cui si indagano gli stressor connessi al lavoro in un istituto penitenziario. Le affermazioni e le domande riguardano principalmente i possibili eventi stressanti relativi ad aspetti organizzativi ed eventi critici di servizio vissuti personalmente dai rispondenti negli ultimi sei mesi, quali ad esempio le offese, le minacce e le aggressioni fisiche da parte di un detenuto. Per rilevare gli stressor organizzativi, si sono create affermazioni alle quali i partecipanti potevano rispondere esprimendo il loro accordo, da -3 (totalmente in disaccordo) a +3 (totalmente d’accordo). Per rilevare il grado di esposizione a eventi critici di servizio si è posta agli operatori la seguente domanda “Negli ultimi sei mesi quante volte ha vissuto personalmente gli eventi seguenti”, presentando successivamente gli specifici eventi che potevano rispondere indicando la frequenza da “mai” a “ogni giorno”. La sezione successiva comprende la versione a 12 item del General Health Questionnaire (Piccinelli et al., 1993), in base al quale ad alti punteggi corrisponde un basso benessere.

Nell’ultima sezione si trova la versione italiana della scala a 16 item del Maslach Burnout Inventory-General Survey (Borgogni et al. ,2005), finalizzata proprio a indagare tale sindrome suddivisa in tre sottoscale: l’esaurimento emotivo, la realizzazione personale e la depersonalizzazione. Ad alti punteggi nelle tre sottoscale corrispondono elevato esaurimento emotivo, elevata realizzazione personale ed elevata depersonalizzazione.

Infine, nell’ultima parte del questionario, si sono raccolte le informazioni generali sull’operatore quali l’anno di nascita, il genere, la qualifica, etc. 

I partecipanti a questa ricerca sono stati 188. La maggioranza delle persone che hanno aderito a essa sono di sesso maschile, infatti hanno risposto al questionario 138 uomini e 33 donne. L’età media è di 38.6 anni. Riguardo al titolo di studio, 81 partecipanti sono in possesso del diploma di scuola media inferiore, altri 81 hanno il diploma di scuola media superiore, 7 sono laureati ed uno ha conseguito la scuola elementare. Si sono poi suddivise le diverse qualifiche ricoperte dagli operatori di Polizia Penitenziaria in quattro gruppi: il primo, che comprende agenti, agenti scelti, assistenti e assistenti capo è il più numeroso ed è composto da 153 rispondenti; il secondo, che include vice sovrintendenti, sovrintendenti e sovrintendenti capo è molto meno numeroso rispetto al precedente e include 12 persone; il terzo, composto da vice ispettori, ispettori, ispettori capo, ispettori superiori, comprende 8 partecipanti; infine, il quarto, composto da vice commissari, commissari, commissari capo e commissari coordinatori contiene 3 rispondenti. L’anzianità di servizio andava da un minimo di 4 mesi ad un massimo di 33 anni. Solitamente il lavoro in carcere è scandito da diversi turni, ma non tutti i rispondenti ne sono soggetti; 148 persone svolgono un lavoro che prevede prevalentemente turnazioni, ma altre 30 mantengono sempre lo stesso orario. Infine è stata indagata la percentuale di tempo passata a contatto diretto con i detenuti, durante il proprio turno di lavoro. La maggioranza, ovvero 75 persone ha risposto che la percentuale di tempo passata con la popolazione reclusa è del 100%.”  (Prati e Boldrin, 2011).

 

Di seguito vengono inserite le conclusioni dello studio di Prati e Boldrin (2011).

 

“Lo scopo del presente studio era quello di mettere in relazione fattori di stress organizzativi ed eventi critici di servizio con misure di benessere organizzativo tra operatori di Polizia Penitenziaria. Dai risultati emerge che i fattori che possono causare maggiormente la sindrome di burnout negli operatori di Polizia Penitenziaria sono legati all’organizzazione carceraria. I fattori individuali, invece, come ad esempio il genere, l’età e l’anzianità di servizio non hanno presentato correlazioni significative con tale sindrome, confermando così le ricerche di Hurst e Hurst (1997) e di Triplett e Mullings (1996). Diversamente da quanto emerge da studi internazionali (Pietrantoni et al., 2003; Moon e Maxwell, 2004), la sindrome di burnout non è correlata positivamente con l’elevata percentuale di tempo passato a contatto diretto con i detenuti. Questo conferma,invece, la ricerca di Petitta, Rinaldi e Manno (2009), in cui si nota che gli operatori che lavorano a stretto contatto con i reclusi e coloro che non si relazionano ad essi presentano statisticamente gli stessi livelli di burnout. È possibile, pertanto, che il livello di benessere organizzativo degli operatori di polizia penitenziaria dipenda quindi non dalla quantità di tempo passato con i detenuti ma da come e in quale contesto ci si relaziona con essi.

Ne deriva che una parte della spiegazione tra rapporto con i detenuti e benessere organizzativo dipenda dai fattori di stress lavorativo e dalla frequenza di eventi critici di servizio. In generale i risultati di questo studio hanno mostrato che fattori organizzativi ed esposizione a eventi critici di servizio possono avere relazioni di media o moderata entità con misure di benessere organizzativo. Le condizioni o gli stressor organizzativi che hanno presentato un’elevata correlazione con il burnout sono stati diversi. Gli stressor maggiormente riportati come presenti all’interno dei quattro contesti presi in esame, come ad esempio, il sovraffollamento, il rapporto con i detenuti stranieri e la carenza di personale, non sono gli stessi che hanno presentato un’elevata correlazione con le tre sottoscale del burnout e il GHQ. Il sovraffollamento, quindi, in questi contesti non è legato a tale sindrome, a conferma di quanto è emerso nella ricerca di Grasso e Clementi (2006).

L’esaurimento emotivo è legato soprattutto alle conseguenze negative che il proprio lavoro può provocare nei rapporti sociali, alla pesantezza emotiva delle situazioni che si incontrano in carcere, allo scarso sostegno e ai richiami considerati ingiusti da parte dei superiori; rispetto a ciò una testimonianza può far comprendere come può essere difficile lavorare in un istituto in cui esistono rapporti problematici tra superiori e sottoposti: “Mi accorgevo sempre di più di essere un numero, uno tra tanti, per niente considerato dai miei superiori che parevano non riconoscere la divisa dell’agente, le esigenze del singolo, in un’opera di massificazione ingiusta e dolorosa. (…) Non ho mai perso il controllo neanche quando incontravo superiori gerarchici rigidi e impietosi, che spesso infierivano sulle guardie, come sfogo emotivo” (Robuffo, 2009). Lo straordinario è un altro fattore organizzativo correlato all’esaurimento emotivo; tuttavia, tale fattore di stress non è particolarmente diffuso: tra coloro che hanno partecipato a questa ricerca, infatti, solamente una minoranza dei rispondenti ha riportato di fermarsi spesso oltre l’orario. La realizzazione personale, invece, è maggiormente legata alle eccessive richieste lavorative e all’elevato rischio di aggressione. Questi due risultati possono sembrare contro-intuitivi. In realtà la relazione positiva tra carico di lavoro e Realizzazione personale è stata riscontrata anche nello studio di Dignam, Barrera, West (1986). Secondo i ricercatori questo risultato può essere spiegato tenendo conto delle differenze tra lavoro in ambienti in cui la cura e l’assistenza sono gli obiettivi primari e altri in cui lo è la custodia. Un operatore di polizia penitenziaria sarebbe centrato meno sull’assistenza rispetto a un infermiere, per cui potrebbe riuscire a gestire un numero maggiore di persone traendo soddisfazione per gli aspetti più quantitativi (numero di persone) piuttosto che qualitativi (qualità della relazione) del suo lavoro. A nostro avviso, un’altra spiegazione potrebbe avere una sua validità. Questo risultato potrebbe essere spiegato, infatti, dalla teoria del flow (Csikszentmihaly, 1997), sostenendo che l’esperienza ottimale si ha nel momento in cui c’è una convergenza fra richieste dell’ambiente e capacità personali, le aumentate richieste lavorative possono risultare stimolanti per gli operatori che si sentono in grado di gestirle favorendo così l’esperienza ottimale o flow. Con tutte le dovute cautele, la teoria del flow potrebbe spiegare anche la relazione fra rischio di aggressione e realizzazione personale. Va sottolineato come non vi sia relazione tra tutte le altre misure di benessere organizzativo, quali esaurimento emotivo, depersonalizzazione e GHQ, e il rischio di aggressione, un indicatore del livello di sicurezza. Tale variabile risulta, invece, tra i maggiori predittori di stress lavorativo nella meta-analisi di Dowden e Tellier (2004). Un altro risultato contro-intuitivo ottenuto riguarda la relazione tra Depersonalizzazione e la presenza di personale sufficiente per gli impegni richiesti. È possibile che il senso di sfiducia nei confronti del significato e del valore del proprio lavoro possa portare gli operatori a percepire che le difficoltà incontrate siano intrinseche al tipo di professione e non tanto ad aspetti contingenti quali la carenza di personale. Sono necessari, tuttavia, ulteriori studi i quali potranno confermare o meno tale relazione ed eventualmente tale interpretazione.” (Prati e Boldrini, 2011).

Dopo aver esposto alcuni studi condotti in Italia sul Burnout, nel successivo capitolo verranno proposte delle ricerche sul burnout nelle professioni d’aiuto, nello specifico negli insegnanti, argomento portante della presente tesi. 


© Il Burnout negli insegnanti – Federica Sapienza


 

Ricerche inerenti il burnout

Rassegna letteraria sulle ricerche inerenti al Burnout

“Lo scienziato […] deve sentirsi impegnato a comprendere il mondo e ad estendere la portata e la precisione dell’ordine che gli è stato dato. Questo impegno lo deve, a sua volta, guidare a scrutare, da solo o con l’aiuto dei colleghi, alcuni aspetti della natura fin nei minimi dettagli empirici. E se tale esame svela sacche di apparente disordine, queste lo devono allo stimolare a raffinare ulteriormente le sue tecniche di osservazione o a dare maggiore articolazione alle sue teorie.” (Kuhn, 1970).

 

Come nasce l’interesse della ricerca

Nel lavoro si trovano alcune delle principali fonti di stress, sia positivo che negativo (Sibilia, 2010). Basti pensare che si spende per il lavoro più del 50% delle ore di veglia, se consideriamo il tempo di trasporto (Sibilia,2010). Un livello di stress da “alto” a “moderato” viene segnalato dal 50% di un campione di lavoratori americani (Sibilia,2010). Dal 60 al 80% degli incidenti sul lavoro sono attribuibili allo stress (Sibilia,2010). Il 54% delle assenze dal lavoro sono per cause di stress-lavoro correlato (Neunan e Hubbard, 1998). Nel Congresso del 25/11/02 dell’Agenzia Europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (OSHA-EU), lo stress lavorativo è stato riconosciuto come il secondo maggiore problema di salute e rischio per la sicurezza nella popolazione occupata in Europa: stime per difetto danno circa il 28% dei lavoratori europei sofferenti di problemi legati allo stress (Sibilia,2010). Vi sono infatti importanti motivi anche per le Aziende per occuparsi dello stress: nell’ambiente di lavoro, lo stress (negativo) riduce la prestazione, la produttività, il morale del lavoratore ed aumenta gli errori, le giornate di malattia, l’assenteismo e gli incidenti (Sibilia,2010). Si giunge così (8 ottobre 2004) ad un Accordo Quadro Europeo sullo Stress nei Luoghi di Lavoro, che prevede una serie di misure per “per prevenire, eliminare o ridurre i problemi di stress lavoro-correlato”: misure di gestione e comunicazione, formazione dei dirigenti e dei lavoratori per accrescere la loro consapevolezza e la loro conoscenza dello stress, nonché informazione e la consultazione dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti (Sibilia,2010). In Italia, il Testo Unico sulla Salute e Sicurezza nei luoghi di lavoro (D. lgs n. 81/2008) modifica la precedente legge n. 626/94, introducendo una rilevante novità: lo stress lavorativo viene inserito come fattore complesso che incide direttamente sulla qualità del lavoro e sul benessere delle organizzazioni lavorative (Sibilia,2010). Si recepisce così l’obbligo di individuare da parte del datore di lavoro quei fattori che incidono in modo determinante sullo stress lavorativo (Sibilia,2010). Anche nel nostro Paese, le aziende devono quindi redigere un Documento della Valutazione dei Rischi che includa anche “rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo del 8 ottobre 2004” (Sibilia,2010).

Ma tutto ciò ha posto subito alcuni interrogativi: Quali sono i fattori di stress sul lavoro? Come selezionarli? Come misurarli? Quali criteri per valutarli? Tali fattori sono stati oggetto di numerosissime ricerche, e tuttavia con modelli e strumenti molto diversi, che non ne rendono comparabili i risultati (Sibilia, 2010). Tra le fonti di stress relativi al lavoro, comunque, sono emerse alcune principali condizioni che possiamo brevemente enumerare così:

  • la mancanza di autonomia o ridotti margini di discrezionalità nello svolgimento del lavoro come la mancanza di controllo sulle modalità del lavoro o sulle scelte organizzative);
  • il sovraccarico di lavoro e di responsabilità lavorative;
  • i vincoli troppo restrittivi, o le risorse troppo scarse nel contesto di lavoro;
  • le ambiguità di richieste o di ruoli lavorativi;
  • la scarsità di contatti e di sostegno sociale da colleghi e superiori, oppure veri e propri assilli o soprusi (che vanno sotto il nome di mobbing);
  • le ricompense e i benefici troppo scarsi rispetto all’impegno nel lavoro (Sibilia, 2010).

Teorie diverse hanno variamente evidenziato l’importanza di fattori diversi. La ricerca sullo stress lavorativo è stata ostacolata fino alla scorsa decade dalla mancanza di strumenti di misura agevoli e standardizzati (Sibilia, 2010). Il questionario più utilizzato è l’OSI che sta per “Occupational Stress Indicator”; questo questionario è formato da 170 item e richiede un tempo di compilazione di 45 minuti circa (Williams e Cooper, 1998). Inoltre, le varie scale che lo compongono sono eterogenee dal punto di vista teorico (Sibilia, 2010). Soprattutto, questo ed altri analoghi strumenti coprono la valutazione delle condizioni organizzative ed ambientali dello stress lavorativo (fattori di contesto), oppure i fattori di stress intrinseci (specifici) delle mansioni svolte, ma non entrambe le classi di fattori (Sibilia, 2010). Inoltre, dall’articolo di Sibilia (2010) si evince che da recente si sia spostata l’attenzione sullo stress inquadrandolo come una carenza o riduzione della qualità della vita, parametro già studiato in medicina per la valutazione degli esiti di terapie croniche, ma che ha avuto recente risalto dagli sviluppi della psicologia positiva (Goldwurm, 2006; Sibilia, 2004). Pertanto, si è anche iniziato a misurare lo stress correlato al lavoro come una carenza di qualità della vita lavorativa, non solo del singolo, ma anche nel senso di scarsa salute dell’organizzazione stessa in cui si svolge il lavoro (Sibilia,2010). Indipendentemente dalle caratteristiche specifiche dei diversi profili professionali e mansioni lavorative, è stata identificata una carenza di “benessere” nel contesto di lavoro; questo “malessere” organizzativo si può esprimere attraverso vari parametri:

  • alto assenteismo;
  • elevato ricambio del personale;
  • conflitti interpersonali;
  • frequenti lamentele da parte dei lavoratori;
  • frequenti incidenti sul lavoro;
  • ridotta produttività;
  • casi di assilli, emarginazione, violenze (Sibilia,2010).

Sono state identificate da tempo alcune “sindromi” tipiche che rappresentano variabili “endogene” dello stress lavoro-correlato: la sindrome di burnout (ben approfondito nei precedenti capitoli), con variabili “endogene” legate alle caratteristiche professionali; il quadro comportamentale “di Tipo A” (Type A Behavior Pattern, TABP) descritto per la prima volta da Rosenman e M. Friedman (1994), risulta composto da tre principali aspetti o tendenze: la tendenza all’espressione aggressiva (il potenziale di ostilità), la competitività eccessiva (o ipercompetitività), ed il senso di impazienza e di mancanza di tempo (Sibilia,2010). Il Tipo A si trova più facilmente in ambienti di lavoro molto competitivi, mentre la sindrome di burnout è più caratteristica delle “professioni di aiuto” (Sibilia,2010).

Dall’articolo “Preventing Burnout in Mental Health Workers at Interpersonal

Level: an Italian Pilot Study” (versione in lingua italiana) di Scarnera e collaboratori (2008), si legge che la sindrome del Burnout nei Servizi di Salute Mentale è un fenomeno che è stato ampiamente studiato (Shirom 2003; Schaufeli 2003; Maslach et al., 2001; Salyers e Bond 2001). Scarnera (2008) asserisce che gli studi che sono stati realizzati fino ad ora descrivono la sindrome come “un processo, piuttosto che un evento”, e tendono ad associarla a condizioni di stress cronico giornaliero, piuttosto che con eventi eccezionali ed occasionali. Il lavoro insoddisfacente può condurre a un sentimento di esaurimento emozionale (EE), poi ad una reazione difensiva quale la depersonalizzazione (DP), ed infine ad una mancanza di coinvolgimento sul lavoro e bassa soddisfazione personale (PA) (Scarnera et al.,2008). Questo processo ha implicazioni negative per le prestazioni lavorative e per le relazioni sociali (Scarnera et al., 2008). In ogni caso, nell’articolo (Scarnera et al.,2008) l’EE è considerato comunemente come la dimensione centrale della sindrome (Moore, 2000; Koeske e Koeske,1989; Roelofs et al., 2005). D’altro lato, alti livelli di EE si incontrano anche in altre malattie mentali non necessariamente coinvolte con lo stress lavorativo, quali la depressione ed i disturbi d’ansia. Per tale motivo, l’emergenza di alti livelli di DP e PA sembra un criterio più adeguato per diagnosticare i disturbi collegati al Burnout (Brenninkmeijer e Van Yperen, 2003; Schaufeli et al., 2001; Schaufeli e Taris, 2005). Nonostante i sopramenzionati bisogni di riflessioni più approfondite sulle dimensioni del Burnout e sulle loro relazioni, il numero degli interventi sulla sindrome è cresciuto negli ultimi 20 anni (Scarnera et al., 2008). Schaufeli e Enzmann (1998) hanno proposto un’ampia classificazione degli interventi tra due assi: 

  • il focus (individuale; interfaccia individuo-organizzazione; organizzativo);
  • il proposito (identificazione, prevenzione primaria e secondaria, trattamento, riabilitazione) (Scarnera et al., 2008).

Frequentemente gli interventi sono strutturati come workshop che supportano la consapevolezza dei partecipanti sui loro problemi collegati al lavoro e migliorano la loro abilità nella gestione delle risorse attraverso formazione sulle competenze e/o fornitura ricerca di supporto sociale (Scarnera et al., 2008). Scarnera e collaboratori (2008) riportano che, in accordo con Schaufeli ed Enzmann (2003), l’approccio interpersonale al Burnout sembra supportato empiricamente. In particolare, tali autori (Schaufeli ed Enzmann,2003), ascrivono l’apparizione delle relazioni interpersonali stressanti sul lavoro alla mancanza di reciprocità (Scarnera et al., 2008). In altri termini, gli operatori sentono di consumare tempo e di entrare in relazioni molto costose, senza ricevere un beneficio comparabile (Scarnera et al.,2008). Così, considerati gli studi di diversi autori (Schaufeli 2003; Buunk et al. 2001; Bakker et al. 2000), Scarnera e colleghi (2008) ritengono che la mancanza di reciprocità nel gruppo degli operatori, come pure la comparazione sociale ed il contagio emotivo, giochino un ruolo importante nell’emergenza del Burnout. Sempre nella pubblicazione di Scarnera (2008), in relazione alla pianificazione di interventi di prevenzione del Burnout, tre argomenti sembrano i più ricorrenti tra gli operatori della salute mentale (Van der Klink et al. 2001; Murphy 1996; Scarnera 2003). Al primo posto si ha il bisogno di un migliore controllo delle emozioni emergenti dal coinvolgimento con la malattia degli altri, Mc Craty e collaboratori (1998) hanno riportato che i partecipanti ad un programma formativo di gestione delle emozioni negative hanno mostrato un significativo aumento degli affetti positivi ed un significativo decremento degli affetti negativi (Scarnera et al.,2008). Al secondo, Cummigans et al. (2005) affermano il bisogno di una grande diffusione di competenze specifiche nella guida e monitoraggio degli operatori e del coinvolgimento personale dei membri dello staff, mentre Gill e collaboratori (2006), esaminando gli effetti dei diversi stili di leadership sullo stress lavorativo e sul Burnout, hanno trovato che il livello di stress percepito è inversamente correlato al grado di supporto fornito dai manager (Scarnera et al.,2008). Infine, al terzo Lee e Crockett (1994) hanno proposto la promozione dell’assertività nella comunicazione tra membri del team (Scarnera et al., 2008). Esaminando l’efficacia del training sull’assertività nel ridurre i livelli di stress ed aumentare quelli di assertività nella comunicazione tra infermieri, essi hanno trovato che alla fine delle attività ed al follow-up, il gruppo sperimentale ha mostrato livelli più bassi di stress e più alti di assertività, rispetto al gruppo di controllo (Scarnera et al., 2008). Shimizu et al. (2003) hanno confermato i risultati precedenti, concernenti i benefici effetti dei training sull’assertività sui livelli percepiti di stress lavorativo (Scarnera et al., 2008). Presi insieme, questi risultati hanno implicazioni nella definizione dei training per manager. Infatti: 

  1. il controllo di pensieri ed emozioni negative specialmente tra impiegati;
  2. la promozione di uno stile supportivo di leadership tra manager;
  3. il miglioramento della comunicazione assertiva tra i membri dello staff dovrebbe rappresentare un set di competenze professionali che proteggono dall’emergenza del Burnout (Scarnera et al., 2008).

Alla luce di quanto detto, si riporta lo studio di Scarnera e collaboratori (2008) che hanno focalizzato la loro ricerca su un livello di intervento interpersonale, all’interno di una cornice teorica Cognitivo-Comportamentale. Questo perché una meta-analisi quantitativa indagante l’efficacia degli interventi sullo stress lavorativo condotta da Van der Klink et al. nel 2001, ha dimostrato che gli interventi sulla gestione dello stress sono efficaci. In particolare, gli interventi Cognitivo-Comportamentali sono apparsi più efficaci degli altri (Scarnera et al., 2008). Recentemente, in un’altra meta-analisi di Richardson e Rothstein (2008), sono stati largamente confermati questi risultati. Sorprendentemente, Richardson e Rothstein (2008) hanno suggerito che più componenti sono aggiunti ad un intervento Cognitivo-Comportamentale, meno efficace diventa (Scarnera et al., 2008). In linea con questa conclusione, la parte centrale dell’intervento di Scarnera ed il suo gruppo di ricerca (2008) è stato rappresentato da un training sull’assertività coinvolgente tutti i partecipanti, riguardo al loro specifico ruolo o funzione lavorativa, poiché è atteso che un training sull’assertività possa fornire l’opportunità di armonizzare finalità professionali e bisogni personali per manager ed impiegati (Scarnera et al., 2008).In uno dei più citati studi sul Burnout, Ramirez et al. (1996) affermava che il sentimento di operare malamente con i pazienti, con i loro parenti e con i membri dello staff, e di essere diretti malamente, era considerato come un’importante fonte di stress al lavoro (Scarnera et al., 2008). Nello stesso articolo, il Burnout risultava essere più prevalente tra i professionisti che si sentivano inadeguatamente formati in competenze comunicative e di gestione (Scarnera et al.,2008). A questo proposito, l’intervento è stato pensato specificatamente per fornire formazione su questi argomenti, e può essere considerato come uno dei primi studi promuoventi un intervento sul Burnout a livello interpersonale su di un campione di operatori della salute mentale Italiano (Scarnera et al., 2008). Lo studio è stato condotto su un campione di 25 soggetti (di cui 11 donne e 14 uomini) (Scarnera et al., 2008). I soggetti erano impiegati in due differenti ma interconnesse organizzazioni del Sud Italia: il Dipartimento di Salute mentale della ASL BA/3 di Altamura (BA) e la Cooperativa Sociale “Questa Città” di Gravina in Puglia (BA) (Scarnera et al.,2008). Mentre la prima forniva servizi psichiatrici ospedalieri ed ambulatoriali, la seconda forniva attività terapeutico/riabilitative in comunità residenziali e centri diurni (Scarnera et al.,2008). Benché il numero dei partecipanti fosse piccolo, esso comprendeva tutte le categorie di operatori impiegati nei servizi terapeutico/riabilitativi psichiatrici in Italia (Scarnera et al.,2008). Quattordici persone, cinque maschi e nove femmine, erano operatori direttamente impegnati nella cura ed assistenza dei pazienti e dei loro familiari (Gruppo 1) (Scarnera et al.,2008). Otto di loro avevano una qualifica professionale specifica per la loro professione: erano infermieri, educatori ed assistenti, con una età media di anni 40,7 (Scarnera et al.,2008). Undici persone, di cui nove maschi e due femmine, occupavano un ruolo manageriale (Gruppo 2); sette di loro avevano una qualifica professionale specifica per la loro occupazione: erano psicologi, psichiatri o manager di servizi riabilitativi, con una età media di 41,9 anni (Scarnera et al., 2008). La piccola dimensione del campione precludeva la possibilità di costituire un gruppo sperimentale ed uno di controllo, quindi l’intervento fu valutato solo nel corso del tempo, attraverso misure di pre, post e follow-up dell’intervento (Scarnera et al., 2008). 

Preliminarmente, fu chiesto ai partecipanti di completare il Maslach Burnout Inventory – MBI (Sirigatti e Stefanile 1993) e l’Occupational Stress Inventory – OSI di Cooper, Sloan e Williams (Sirigatti e Stefanile 2002). 

Successivamente alla prima valutazione, due consulenti formati supervisionarono una serie di 6 workshop mensili di 3-5 ore, in cui si promuoveva la comunicazione tra i membri dello staff, coinvolgendo tutti i partecipanti, a prescindere dal loro ruolo e qualifica (Scarnera et al., 2008). Furono realizzati anche altri due interventi in cui si elaboravano dei propri pensieri ed emozioni negative emergenti dalle relazioni con i pazienti ed i loro familiari (Scarnera et al., 2008). L’altro intervento fu pianificato per i manager, che furono formati per acquisire consapevolezza sia del proprio stile di leadership che dei bisogni di sostegno emergenti dai loro collaboratori (Scarnera et al., 2008). Questi due programmi avrebbero dovuto migliorare l’effetto del susseguente intervento principale, coinvolgente tutti i partecipanti (Scarnera et al., 2008). Il primo workshop fu realizzato separatamente per i due gruppi, sulla base delle specifiche problematiche di ogni gruppo (Scarnera et al., 2008). Sui membri del Gruppo 1 si intervenne per ottenere una ristrutturazione cognitiva delle relazioni interpersonali con persone affette da malattie mentali gravi (Scarnera et al., 2008). L’azione denominata “Strategie ottimali di pianificazione del lavoro e gestione delle relazioni interpersonali con i subordinati” (workshop 1), fu condotto con i membri del Gruppo 2 (Scarnera et al., 2008).

I rimanenti cinque workshop di Scarnera et al. (2008), di 3 ore ognuno, consistettero in azioni didattiche ed esperenziali sulla “Assertività” (Naimo 2003). Durante la parte didattica, furono affrontati i seguenti argomenti: “gestire differenti livelli di relazione interpersonale” (workshop 1); “asserire il proprio punto di vista preservano una relazione pulita” (workshop 2); “comunicare apprensione e pregiudizi” (workshop 3); “evitare rabbia dovuta a sentimenti di inferiorità e insoddisfazione improduttiva” (workshop 4); “promuovere relazioni professionali positive” (workshop 5) (Scarnera et al.,2008). Durante la parte esperienziale, i partecipanti presentavano e valutavano collettivamente strategie per affrontare gli stressor più importanti delle loro situazioni di lavoro. Il programma formativo di Scarnera et al. (2008) era ispirato dalle ricerche di Lee e Crokett (1994) e Shimizu et al. (2003).  Alla fine di ogni workshop, la soddisfazione dei partecipanti fu valutata attraverso un questionario contente domande sulla utilità, facilità di apprendimento, coinvolgimento personale e piacevolezza delle situazioni di apprendimento (Scarnera et al., 2008). Le risposte furono fornite su di una scala di tre gradi (“insoddisfatto”, “soddisfatto”, “molto soddisfatto”) (Scarnera et al., 2008). Alla fine dell’intervento (T1), fu chiesto ai partecipanti di compilare l’MBI di Sirigatti e Stefanile (1993) (Scarnera et al., 2008). Diciotto mesi dopo l’intervento, fu chiesto ai partecipanti di compilare di nuovo l’MBI (Sirigatti e Stefanile 1993) ed un questionario sviluppato appositamente per valutare l’efficacia delle competenze acquisite (Scarnera et al., 2008).

Per concludere in breve, l’analisi dell’EE non ha mostrato effetti dell’intervento (Scarnera et al., 2008). Questo risultato suggerisce che l’intervento basato sulla promozione dell’assertività nelle relazioni interpersonali non funzionava sul livello medio/basso esperito dai partecipanti a T0 (Scarnera et al., 2008). L’analisi sulla DP mostrò un significativo effetto principale del tempo, il quale dimostrava che la DP era incline ad abbassarsi linearmente dai livelli medio/alti a quelli medio bassi del Burnout dopo la formazione alla assertività, e di mantenere questo andamento dopo 18 mesi dall’intervento (analisi lineare dell’andamento (Scarnera et al., 2008).L’intervento sembra che abbia aumentato, paradossalmente, dal basso al medio/basso la mancanza di PA immediatamente dopo l’intervento (Scarnera et al., 2008).

La riduzione del DP è risultata associata con l’efficacia dell’intervento percepita al follow-up (Scarnera et al., 2008). In generale, l’intervento di Scarnera et al. (2008), è stato considerato dagli stessi come parzialmente efficace. Infatti, esso sembrerebbe funzionare bene sui livelli di Burnout che erano medio/alti prima dell’intervento (DP) ma gli effetti attesi su EE non sono apparsi (Scarnera et al., 2008). Seguendo Le Blanc et al. (2007), se i partecipanti sono caratterizzati, all’inizio dell’intervento, da un basso livello di Burnout su di un particolare indice, è meno plausibile che l’intervento possa avere un effetto ampio (Scarnera et al., 2008). Poiché l’intervento ha avuto un effetto riducente sulla DP, si possono supporre effetti positivi anche sulla PA e principalmente, sull’EE di partecipanti affetti da livelli severi di Burnout (Scarnera et al.,2008). Alla luce dei precedenti risultati, Scarnera ed il suo gruppo di ricerca (2008) concludevano che un programma di intervento finalizzato ad incoraggiare tutti gli operatori a promuovere la comunicazione assertiva, sentimenti positivi e accordo tra i colleghi potesse ridurre la loro inclinazione a depersonalizzare le relazioni con i clienti (Zellars et al. 2000). Dall’altro lato, gli stessi (Scarnera et al.,2008) sostenevano che l’accordo e l’armonia tra colleghi può aumentare la percezione di supporto sociale associata a bassi livelli di Burnout (Lee e Ashforth 1993).

Sono necessarie ulteriori ricerche per meglio distinguere le dinamiche interpersonali e le loro relazioni con l’emergere della Sindrome del Burnout (Scarnera et al., 2008). Prendendo in considerazione le limitazioni rappresentate dalle ridotte dimensioni del campione e dall’assenza di un gruppo di controllo, lo studio viene considerato come una iniziale linea guida per la disseminazione di buone pratiche all’interno delle Organizzazioni Italiane, pubbliche o private, che forniscono assistenza/riabilitazione alle persone affette da malattia mentale (Scarnera et al., 2008).


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Strumenti di valutazione del burnout

Strumenti di valutazione del burnout mediante un approccio multidisciplinare del contesto organizzativo

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Gli studi sullo stress occupazionale degli anni ’60 e’70 hanno portato all’identificazione di un gran numero di condizioni ambientali suscettibili di interferire con il benessere psicofisico dei lavoratori (Magnavita, 2008). In quegli anni è stato elaborato un discreto numero di questionari descrittivi finalizzati all’identificazione e alla quantificazione degli agenti di rischio (Magnavita, 2008).

Secondo il modello di Kalimo (1980), basato sugli di Cooper et al. (1976;1979), i fattori di stress occupazionale possono essere classificati in sei categorie: fattori legati al ruolo nell’organizzazione, fattori intrinseci al lavoro, rapporti con gli altri, clima e struttura organizzativa, carriera, interfaccia con l’esterno. I questionari ispirati a tale modello, tradotti in italiano e modificati, hanno dato luogo in Italia al Questionario sui fattori di stress da lavoro che è stato impiegato in diverse indagini (Magnavita 1986, Magnavita 1990, Magnavita 1990). Si tratta di uno strumento composto da 40 domande a ciascuna delle quali la risposta è fornita mediante una scala Likert (Magnavita, 2008). 

L’insieme dei fattori di stress presenti nei luoghi di lavoro può essere fatto risalire in gran parte all’organizzazione del lavoro. Da qui l’interesse di valutare appunto tale organizzazione (Magnavita, 2008). Il Questionario per la Valutazione dell’Organizzazione del Lavoro (WOAQ – Work Organisation Assessment Questionnaire) è uno strumento sviluppato dai ricercatori dell’Università di Nottingham (Griffiths et al., 2006) nel quadro di un progetto per la valutazione e la riduzione dei rischi da lavoro nell’industria. Il WOAQ consta di 28 domande relative ai possibili rischi inerenti al design e al management del lavoro, ciascuna associata a cinque risposte (Magnavita, 2008). I lavoratori sono invitati ad indicare, sulla base della propria esperienza e conoscenza, quanto sia problematico (o soddisfacente) ciascun aspetto del proprio lavoro, mediante una scala a cinque punti tipo Likert (Magnavita, 2008). La formulazione delle domande è di tipo situazionale più che psicologico. Ad esempio, si chiede “quanto pensa che questo aspetto del suo lavoro sia buono (o cattivo)?” piuttosto che “quanto è stressato da questo aspetto del suo lavoro?” (Magnavita, 2008). Inoltre si è avuto cura di variare la direzionalità delle scale al fine di ridurre la probabilità di risposte perseveranti (Magnavita, 2008). Nella versione originale inglese, l’esame della struttura fattoriale non ruotata ha indicato che una percentuale significativa della varianza del questionario è spiegata da un singolo fattore; viceversa, mediante rotazione Varimax sono stati identificati cinque fattori, relativi rispettivamente: alla qualità delle relazioni con il management; a ricompense e riconoscimenti; al carico di lavoro; alla qualità delle relazioni con i colleghi; alla qualità dell’ambiente fisico (Magnavita, 2008). La versione italiana del WOAQ (Magnavita et al., 2007) conserva le caratteristiche dell’originale e manifesta relazioni coerenti con variabili correlate all’organizzazione del lavoro, come il sostegno sociale (col quale si correla positivamente), lo stress da lavoro e il malessere psico-fisico dei lavoratori (con i quali si correla in senso negativo). Il WOAQ si conferma quindi uno strumento utile per la valutazione dell’organizzazione del lavoro. Le caratteristiche dell’organizzazione aziendale sono indagate anche mediante il M_DOQ10 (Majer_D’Amato Organizational Questionnaire_10), costituito da 70 domande raggruppabili in 10 fattori: comunicazione, autonomia, coerenza, chiarezza dei ruoli, coinvolgimento nel lavoro, equità, relazioni e comunicazioni con i superiori, innovatività, dinamismo. Il questionario viene elaborato per via informatica mediante un programma dedicato (Tangredi et al., 2007).

L’approccio multidimensionale per analizzare il contesto organizzativo consente di individuare lo stato di benessere di un’organizzazione, così da prendere in esame dimensioni lavorative e fonti di pericolo per la salute dei lavoratori. Lo strumento più validato nel contesto italiano è il questionario MOHQ, uno strumento multidimensionale della salute organizzativa redatto da Avallone e Paplomatas (2005). Nel MOHQ si tenta di eludere mediante l’analisi della relazione tra l’individuo ed il contesto, elementi di salute organizzativa, con cui si intende designare «l’insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che animano la convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando il benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative» (Avallone e Paplomatas, 2005). Il questionario è particolarmente adatto alle organizzazioni che intendono sviluppare e promuovere la salute e il benessere collettivo (Avallone, Papomatas, 2005).

Le evidenze teoriche e di ricerca sugli effetti negativi dello stress da lavoro per la salute e il benessere dei lavoratori sono molteplici (Ardito et al.,2014, Balducci 2015, Fraccaroli et al., 2011). Il quadro normativo internazionale, comunitario e nazionale negli ultimi anni ha sottolineato l’importanza del tema del benessere organizzativo, della salute e della qualità della vita negli ambienti di lavoro. Il decreto legislativo 81/2008 (Testo unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro) sancisce infatti per tutte le organizzazioni italiane sia pubbliche sia private l’obbligo di valutare e gestire il rischio da stress lavoro correlato (Emanuel et al., 2018). A questo proposito valutare lo stress permette alle organizzazioni di approfondire il benessere e della qualità di vita offerta nel contesto di lavoro, come mostrano studi e ricerche sul tema (Cortese et al., 2013;Emanuel et al.,2016; Magrini et al.,2015; Quaglino,2010). Nell’articolo di Emanuel e collaboratori (2018) viene presentata l’esperienza di valutazione soggettiva dello stress e del benessere organizzativo messa a punto in un ente pubblico. Nello specifico, l’azienda ha deciso di unificare i momenti di valutazione dello stress lavoro-correlato e del benessere organizzativo, secondo le indicazioni del D.lgs. 81/2008 e del D.lgs. 150/2009 (Emanuel et al., 2018).

Quest’ultimo decreto legislativo stabilisce che all’interno delle Pubbliche Amministrazioni siano svolte indagini rivolte a tutti i lavoratori con l’obiettivo di rilevare: il benessere organizzativo definito come “lo stato di salute di un’organizzazione in riferimento alla qualità della vita, al grado di benessere fisico, psicologico e sociale della comunità lavorativa, finalizzato al miglioramento qualitativo e quantitativo dei propri risultati” (ANAC, 2013), il grado di condivisione del sistema di valutazione della performance approvato ed implementato nella propria organizzazione di riferimento, la valutazione del superiore gerarchico. Le indicazioni di ANAC prevedono la possibilità di definire domande integrative in considerazione di alcune peculiarità o interessi dell’organizzazione (Emanuel et al.,2018). La ricerca riportata nell’articolo di Emanuel e collaboratori (2018) ha previsto la somministrazione di un questionario self-report proposto da ANAC (ANAC,2013), che ha permesso di rivelare tramite 6 item lo stress lavoro-correlato, su scala di risposta a 6 punti (1=per nulla d’accordo, 6=del tutto d’accordo); un esempio di item è “Avverto situazioni di malessere o disturbi legati allo svolgimento del mio lavoro quotidiano” (soluzione monofattoriale, 35.2% varianza spiegata; ? di Cronbach 0.75) (Emanuel e collaboratori, 2018). Ha permesso di evidenziare il supporto dei superiori attraverso 6 item su scala di risposta a 6 punti (1=per nulla d’accordo, 6=del tutto d’accordo); un esempio di item è “Riesce a motivarmi a dare il massimo nel mio lavoro”, con una soluzione monofattoriale, 73.7% varianza spiegata, ? di Cronbach 0.94 nella ricerca di Emanuel e colleghi (2018). Il supporto dei colleghi è stato rilevato attraverso 7 item tratti sempre dal Questionario ANAC su scala di risposta a 6 punti (1=per nulla d’accordo, 6=del tutto d’accordo); un esempio di item è “Sono stimato e trattato con rispetto dai colleghi”, soluzione monofattoriale, 53.9% varianza spiegata, ? di Cronbach 0.88 (Emanuel et al.,2018). L’autonomia lavorativa è stata rilevata attraverso 5 item tratti dal Questionario ANAC su scala di risposta a 6 punti (1=per nulla d’accordo, 6=del tutto d’accordo) (Emanuel et al.,2018). L’equità percepita nella propria amministrazione è stata rilevata attraverso 5 item tratti dal Questionario ANAC  su scala di risposta a 6 punti (1=per nulla d’accordo, 6=del tutto d’accordo); un esempio di item è “Ritengo che vi sia equità nell’assegnazione del carico di lavoro”, soluzione monofattoriale, 52.3% varianza spiegata, ? di Cronbach 0.84 (Emanuel et al.,2018). Le possibilità di carriera e sviluppo professionale percepite sono state rilevate attraverso 6 item dell’ANAC su scala di risposta a 6 punti (1=per nulla d’accordo, 6=del tutto d’accordo). Un esempio di item è “Nel mio ente il percorso di sviluppo professionale di ciascuno è ben delineato e chiaro”, soluzione monofattoriale, 45.5% varianza spiegata, ? di Cronbach 0.78 (Emanuel et al., 2018).  

Una volta citato brevemente lo studio condotto da Emanuel e collaboratori (2018), tramite il quale è stato messo in luce il questionario ANAC, si ritiene utile continuare sullo stesso sentiero, prendendo in considerazione alcuni lavori di ricerca sul burnout nelle diverse professioni presenti in letteratura.


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Strumenti di misura dello stress in ambito organizzativo

Strumenti di misura dello stress in ambito organizzativo

Ogni individuo gestirà la situazione stressante tramite i propri tratti di personalità e le diverse strategie di risposta apprese. Dipenderà proprio da tali strategie (stili di coping) e da tali tratti di personalità, la misura in cui gli effetti psichici e somatici dello stress si manifesteranno in una “malattia da stress” (Nardella e colleghi, 2007).

Il modello elaborato da Karasek (1979) asserisce che la relazione tra elevata domanda lavorativa (job demand) e bassa libertà decisionale (decision latitude) possa contribuire all’emergere di una condizione di “job strain” o “perceived job stress” (stress lavorativo percepito). Il modello demand-control postula che le due principali variabili, domanda e controllo, siano tra loro indipendenti (Magnavita, 2008). Mediante un sistema di assi cartesiani i risultati del questionario consentono di suddividere la popolazione in quattro quadranti: lavoratori con alto strain lavorativo percepito (alto punteggio di demand, basso di control); attivi (alta domanda, ma alto controllo); passivi (bassa domanda,basso controllo); lavoratori con basso strain (bassa domanda, alto controllo); solo il primo gruppo di lavoratori è potenzialmente stressato (Magnavita, 2008). Le domande del Job Content Questionnaire (JCQ) prevedono una risposta graduata secondo una scala Likert a quattro gradi; la scala “demand” si riferisce all’impegno lavorativo richiesto: i ritmi, il carico di lavoro, la coerenza delle richieste (Magnavita, 2008). In un articolo di Magnavita (2008) pubblicato sul giornale Italiano di medicina del lavoro ed ergonomia viene riportato che la scala “control”, secondo le linee guida di Karasek, può essere distinta in due costrutti fondamentali: la skill discretion e la decision authority. Il primo concetto si riferisce alla professionalità; il secondo alla capacità di programmare e organizzare il lavoro (Magnavita, 2008). Il modello si è arricchito in seguito alla constatazione che il sostegno sociale sul luogo di lavoro è un potente fattore moderatore dello stress; è stata quindi aggiunta una terza variabile, il sostegno sociale (Magnavita, 2008). Il questionario di Karasek esiste in formulazioni originali di diversa lunghezza (Magnavita, 2008). In Italia le diverse traduzioni della versione estesa formata da 49 domande, sono state utilizzate da diversi ricercatori, tra cui Baldasseroni e colleghi (1998), Cesana e collaboratori (1996), Ferrario et al. (2003; 1993), Camerino et al. (1999), sono state unificate nell’ambito di un progetto dell’Ispesl (Magnavita, 2008). Nella letteratura internazionale sono state utilizzate estensioni ridotte della forma originale del questionario; un esempio potrebbe essere una versione in 22 item, con 5 Demand, 6 Control e 11 Social Support, che è stata usata in una indagine sui medici cinesi (Magnavita, 2008).   

Ritornando al Job Content Questionnaire (JCQ) (Karasek, 1985), quest’ultimo prende in esame il controllo, cioè la libertà decisionale che a sua volta è divisa in skill discretion (relativa alle caratteristiche della mansione), decision authority (il potere decisionale) ed in work place social support o social network, ovvero il supporto sociale da parte dei colleghi; la richiesta lavorativa in relazione ai ritmi di lavoro, al carico di lavoro, alla coerenza delle richieste. Il JCQ presenta varie versioni tradotte in diverse lingue (Magnavita, 2008). Per quanto riguarda il contesto italiano si propone la versione tradotta e adattata nel 2001 dall’ISPESL (Deitinger e colleghi, 2009; Baldasseroni e colleghi, 2001). La validazione è stata fatta su 2174 lavoratori provenienti da 30 aziende di industria e del settore terziario; gli item totali dello strumento sono 49; il tempo di somministrazione è di circa venti minuti (Deitinger e colleghi, 2009; Baldasseroni e colleghi, 2001).

Un altro strumento di misura dello stress che si basa sul modello teorico dello stesso autore, è formato da tre scale psicometriche: l’effort o impiego lavorativo, le reward o ricompense, l’overcommitment o eccessivo impegno. La versione breve di tale strumento consta di 23 item: 6 per la prima scala, 11 per la seconda ed infine 6 per la terza (Siegrist, 1996). Questo strumento utilizza la scala Likert (Siegrist,1996). Sono state diverse le traduzioni in altre lingue, come vari sono stati i tentativi di combinarlo con lo strumento di Karasek mediante analisi fattoriale e regressione logistica; tuttavia, tale tentativo non ha portato i risultati sperati (Magnavita, 2008). Per quanto riguarda la versione italiana si presenta una validazione compiuta su 531 soggetti del settore sanitario. Di questo adattamento esiste una versione breve di 23 item ed una lunga di 46 ed il tempo di somministrazione è, all’incirca, di 20 minuti (Deitinger e colleghi, 2009).

Numerosi studi hanno indagato le relazioni tra soddisfazione professionale e stato di salute, confermando l’esistenza di una stretta relazione. Una recente meta-analisi di 485 studi con una popolazione combinata di oltre 250.000 soggetti ha dimostrato che la soddisfazione è significativamente associata, in modo inverso, con il burnout, ma anche con la perdita di autostima, con la depressione e l’ansia;minore risulta l’associazione con i sintomi fisici (Faragher et al., 2005). La soddisfazione dunque esplica un effetto mediatore dello stress professionale sulla salute (Magnavita, 2008). La soddisfazione professionale è stata indagata dagli psicologi clinici fin dagli anni ’30 con diversi metodi, basati su una singola domanda, ma spesso più su un aggregato di più domande (Magnavita, 2008). Magnavita (2008) nel suo articolo asserisce che i numerosi questionari proposti negli anni tendevano a contenere domande ridondanti e parzialmente sovrapponibili, erano spesso lunghi e complessi, tendevano a confondere giudizi descrittivi e valutativi (Warr e Wall, 1979); per ovviare a tali carenze il gruppo di Warr ha elaborato il JSS, che si è rapidamente imposto come lo strumento più affidabile per misurare la soddisfazione da lavoro. Si tratta di una scala composta da 15 domande, più una complessiva che tiene conto di tutti i fattori citati precedentemente (Magnavita, 2008). A ciascuna domanda si risponde tramite una scala Likert in 7 punti, da “estremamente insoddisfatto” (=1) ad “estremamente soddisfatto” (=7). La soddisfazione viene misurata da un’unica scala, costituita dalla somma dei punteggi delle domande (Magnavita, 2008). Mediante analisi fattoriale è stato dimostrato che la scala è sufficientemente omogenea, anche se è possibile riconoscere due sub-scale corrispondenti, rispettivamente: la soddisfazione professionale intrinseca è data dalla somma delle domande pari, la soddisfazione estrinseca corrisponde alla somma delle domande dispari (Magnavita, 2008). È possibile raggruppare le risposte anche secondo altri cluster (Warr e Wall, 1979). La versione italiana della Job Satisfaction Scale (JSS) conferma la struttura unitaria della versione originale inglese e la possibilità di suddividere i punteggi in diverse subscale (Magnavita et al., 2007). Nelle ricerche condotte su lavoratori autonomi il questionario è stato impiegato in una forma abbreviata in 10 domande, escludendo i quesiti riguardanti la soddisfazione nei rapporti con i superiori o il management (Chambers et al., 1996; Cooper et al., 1989; Dowell et al., 2001; Grant et al.,2004; Ulmer et al.,2002.). Il punteggio ricavato dalla somma delle domande del JSS viene generalmente usato come una variabile continua, oppure dicotomizzato alla mediana (Magnavita, 2008). La domanda finale riassuntiva è stata talora impiegata da sola, come espressione della globale soddisfazione tratta dal lavoro (Magnavita, 2008). Questa domanda consente di dividere i lavoratori in due gruppi: quelli soddisfatti del lavoro (risposte da “moderatamente soddisfatto” a “estremamente soddisfatto”) e quelli insoddisfatti (risposte da “estremamente insoddisfatto” a “moderatamente insoddisfatto”) (Magnavita, 2008). Tra i numerosi strumenti impiegati per misurare la soddisfazione professionale in specifiche categorie di lavoratori, ricordiamo l’Indice di Soddisfazione di Stamps (Stamps, 1997), una scala composta da 44 domande nel cui ambito è possibile riconoscere diverse subscale (Magnavita, 2008). Il questionario è stato recentemente tradotto da Cortese (2007) ed applicato nello studio del personale infermieristico. Rispetto al JSS questo strumento è dotato di maggiore specificità, anche se è certamente più indaginoso (Magnavita, 2008). Un altro strumento per la valutazione della soddisfazione, in lingua italiana, composto da 22 domande, è stato elaborato da Gigantesco et al. (2003) e applicato con modificazioni da Tabolli et al. (2006).

Generalmente a questi strumenti si affiancano altri dispositivi di valutazione inerenti all’analisi del contesto organizzativo.


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Le considerazioni della letteratura sulle misure del burnout

Le considerazioni della letteratura sulle misure del burnout

 

Rassegna metodologica sugli strumenti di previsione e valutazione del burnout

“Uno dei principali obiettivi di ricerca è stato quello di mettere a punto uno strumento standardizzato, specificatamente indirizzato all’identificazione del burnout.” (Stefanile,1998)

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Le considerazioni della letteratura sulle misure del burnout

Prima di iniziare il paragrafo, è bene premettere che parallelamente all’argomentazione letteraria sui modelli di ricerca per la valutazione del burnout, è stato ritenuto opportuno rivisitare brevemente i diversi modi di rilevazione dei dati in psicologia. Nella valutazione del rischio stress lavoro correlato, come in altri tipi di valutazione, si possono utilizzare due tipi di misura: la misura oggettiva e la misura soggettiva. Le misure oggettive racchiudono tutti quegli strumenti che vanno ad investigare aspetti del contenuto e del contesto del lavoro attraverso dati di archivio, check-list o qualsiasi altro strumento che non utilizzi la percezione soggettiva come veicolo informativo rispetto l’indagine. Mentre, le misure soggettive utilizzano il coinvolgimento diretto o indiretto dei lavoratori nell’esprimere una valutazione sulla qualità della loro situazione lavorativa (CNOP, 2013). Oggi nella letteratura internazionale, la valutazione di questo costrutto avviene attraverso un approccio multi-metodo dove vengono presi in considerazione entrambi i tipi di misura oggettivo e soggettivo (Cox e colleghi, 2000; CNOP, 2013).

In questo processo di valutazione vengono utilizzati principalmente strumenti come i metodi osservativi e le check-list, le interviste, i focus group e i questionari (CNOP,2013).

I metodi osservativi permettono di osservare, registrare, descrivere, trascrivere e codificare il comportamento umano o l’interazione sociale che si realizza tra le persone (Pedon e Gnisci,2004). L’osservazione può essere messa in atto nel momento in cui si realizza il comportamento osservato (live) oppure in un momento diverso grazie ai sistemi di audio o video-registrazione, analogici e digitali, che la tecnologia mette a disposizione (osservazione differita) (Pedon e Gnisci,2004). L’osservazione è un metodo di conoscenza della realtà esterna all’individuo che può acquisire un carattere scientifico a condizione che chi osserva non influenzi troppo l’oggetto da descrivere e che si creino le condizioni affinché le caratteristiche dei fenomeni siano rappresentabili allo stesso modo da più osservatori (CNOP, 2013). Ad essa si collegano le check-list ossia sono degli strumenti che forniscono delle linee guida concrete su cosa osservare e registrare nel contesto lavorativo (CNOP, 2013). Questo strumento si può suddividere in check-list di controllo o check-list comportamentali: le prime fanno riferimento ad un elenco dettagliato ed esauriente di cose che i lavoratori devono fare o eseguire per svolgere una determinata attività o compito; la seconda è un elenco di comportamenti pre-selezionati di cui si vuole verificare la presenza o misurare la frequenza o la durata (CNOP, 2013).

Un esempio di metodologia osservativa, che analizza lo stress lavoro correlato tramite l’osservazione, è la RHIA/VERA (Leitner e Resch, 2005). Essa descrive e valuta i fattori di stress che incidono sulla salute, considerando: le barriere nel lavoro, le condizioni di lavoro monotono, la pressione temporale, i fattori ambientali negativi, i limiti temporali e i limiti delle necessità fisiche (Leitner e Resch, 2005). 

Un altro esempio di check-list relativa allo stress nell’organizzazione, è la SUVAPRO di Delaunois, Malchaire e Piette del 2002, basata sull’analisi degli stressors, delle procedure volte a combatterlo e dei sintomi ad esso associati. È formata da tre documenti: un documento per i dirigenti con domande su incidenti, assenze, sicurezza sul lavoro; un documento per i gruppi di lavoro in cui si richiede l’identificazione dello stress, le misure per la sua prevenzione e il miglioramento delle condizioni lavorative; un documento per gli individui dove vengono illustrati 5 casi in tema, ricerca di indici di stress e possibili interventi preventivi (Delaunois et al.,2002). 

Un ulteriore esempio di check-list di controllo è quella presentata nel manuale INAIL per valutare in modo preliminare il rischio stress lavoro-correlato. Questa check-list presenta una lista di eventi sentinella, una del contenuto del lavoro ed un’altra del contesto del lavoro. Ad ogni indicatore è associato un punteggio che concorre al punteggio complessivo della lista. I punteggi delle tre liste vengono sommati, tale somma permette d’identificare il posizionamento dell’azienda in una tabella dei livelli di rischio (INAIL, 2011).

L’intervista invece è una tecnica di raccolta dei dati psicologici costituita da un’interazione verbale col soggetto, in cui l’aspetto fondamentale sono le domande che l’intervistatore fa e le risposte che ottiene (Pedon e Gnisci,2004). Si parla di intervista non strutturata o qualitativa quando il ricercatore non ha predeterminato ciò che dell’intervista deve essere codificato; solitamente le interviste che si fanno in studi esplorativi, le interviste pilota e quelle post-sperimentali sono di tipo qualitativo e hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo delle teorie e nella generazione delle ipotesi (Pedon e Gnisci,2004).  L’intervista strutturata prevede che il ricercatore ponga una serie di domande predisposte sia nel contenuto sia nell’ordine in maniera tale che la stessa forma venga ripetuta in modo pressoché identico per ciascun soggetto intervistato. Spesso anche le modalità di risposta sono predeterminate (Pedon e Gnisci,2004). Anche nell’intervista semi-strutturata la forma generale si ripete, ciò che può variare sono le domande, nel senso che il ricercatore ha la flessibilità di continuare a richiedere e a confermare le informazioni che si prefigge di ottenere e seguire il flusso della conversazione lasciando l’intervistato più libero. Esse quindi giacciono su un continuum che va dalla minima alla massima strutturazione delle domande.

Nello specifico, l’intervista, raccogliendo l’esperienza di un lavoratore alla volta, permette di avere chiare le circostanze organizzative dei fattori di rischio tramite domande create ad hoc per lo specifico contesto organizzativo (Conway et al., 2010). 

Relativamente al focus group, si ha a che fare con un’intervista collettiva, condotta da un moderatore al fine di raccogliere l’esperienza di più lavoratori (da i 6 ai 13) alla volta. Un aspetto interessante di questo strumento è l’effettivo carattere esplorativo e di approfondimento che affiora dalla comunicazione, ma anche il confronto tra gruppi di lavoratori (CNOP, 2013). Inoltre, agevola allo stesso tempo la partecipazione attiva nel percorso di valutazione e gestione del rischio occupazionale e, mediante il suo ripetersi, permette di valutare l’efficacia di eventuali iniziative poste in itinere per modificare i fattori di rischio (Argentero e Candura 2009; Romano et al., 2009).

Tra le misure di valutazione figura anche il questionario, uno strumento di raccolta dati che consiste in una serie di domande relative a informazioni oggettive (età, sesso, lavoro etc.) e a questioni riguardanti la personalità, gli atteggiamenti, le opinioni del rispondente (Pedon e Gnisci,2004). Possono essere composti da domande aperte, nelle quali il rispondente può fornire la risposta che vuole con le sue parole o domande chiuse in cui il rispondente deve scegliere una risposta tra un set di alternative offerte dal ricercatore, come nelle domande a risposta multipla (Pedon e Gnisci,2004). Le domande chiuse vengono dette dicotomiche quando prevedono due possibili risposte, tricotomiche quando prevedono tre possibili risposte (come il 16 PF di Cattell), a 5 punti o passi (o a 7 o a 11 e così via) se le risposte possibili sono 5. (Pedon e Gnisci,2004). A questo proposito la scala Likert è la scala più utilizzata in psicologia sia per la sua semplicità di costruzione sia per la possibilità di individuare attendibilità e validità come per tutti gli altri test (Pedon e Gnisci,2004). Si tratta di una serie di item in cui il rispondente deve dichiararsi d’accordo o in disaccordo, solitamente su una scala a 5 o a 7 punti. In aggiunta, si dovrebbe prestare attenzione al periodo di validazione del questionario, perché strumenti troppo datati non potrebbero tener conto dei cambiamenti, come nel caso nella sfera lavorativa, perdendo così le informazioni di possibili importanti variabili (Deitinger e colleghi, 2009). Infine, la traduzione per il contesto italiano di questionari stranieri, può portare all’esistenza di differenti versioni del medesimo strumento con conseguenti ripercussioni sulla confrontabilità dei risultati (Magnavita, 2008). 

Nell’ambito del burnout, Maslach insieme ai suoi colleghi (1996) ha ideato il Maslach Burnout Inventory, un questionario grazie al quale è stato possibile evidenziare che elevati punteggi di esaurimento emotivo, elevati punteggi di depersonalizzazione e bassi punteggi di realizzazione personale siano indicativi di rischio di burnout in campo professionale. Il Maslach Burnout Inventory è un questionario di 22 item, ognuno con 6 gradi di risposta su scala Likert in base al quale il soggetto deve valutare la frequenza e l’intensità con cui sperimenta sintomi, effetti, stati emotivi connessi con il suo lavoro. (Maslach e Jackson, 1981). Nel 1983 la Maslach fornì ad alcuni studiosi italiani una versione della scala. Per quanto riguarda tale versione italiana del MBI, Pedrabissi e Santinello (1988) hanno somministrato la scala a 119 infermieri. I dati sono stati sottoposti ad analisi fattoriale con rotazione ortogonale (Varimax). Quando per la scelta del numero dei fattori è stato usato il criterio degli autovalori maggiori di 1, sono stati ottenuti sei fattori per le risposte di frequenza (varianza spiegata: 61 %) e cinque fattori per le risposte di intensità (varianza spiegata: 58%). La difficile interpretabilità dei fattori estratti ha suggerito agli Autori (Pedrabissi e Santinello, 1988) di utilizzare il criterio dello scree test per la determinazione del numero (Sirigatti et al., 1988). Sono cosi risultati tre fattori per la frequenza (varianza spiegata: 44%) e tre fattori per l’intensità (varianza spiegata: 47%), che hanno permesso il confronto con i dati della Maslach (Sirigatti et al., 1988). Si sono, tuttavia, osservate alcune migrazioni di item, particolarmente tra «Esaurimento emotivo» e «Depersonalizzazione» (Sirigatti et al., 1988).

Anche Taddei (1988), in una ricerca con insegnanti di scuola elementare, ha ottenuto una struttura fattoriale molto dispersa (Sirigatti et al., 1988). I risultati sono apparsi scarsamente soddisfacenti, sia per la confrontabilità con quelli della Maslach, sia per la varianza spiegata piuttosto modesta (Sirigatti et al., 1988). Sulla base della versione preliminare italiana del MBI, fornita direttamente dalla Maslach, è stato dato inizio ad alcune indagini esplorative, volte in primo luogo a saggiare la validità di costrutto dello strumento (Sirigatti et al., 1988). 

Un ulteriore contributo allo studio di questo fenomeno è stato prodotto da Cherniss (1980), il quale ha definito il burnout come la reazione ad uno stato di insoddisfazione e tensione che ha inizio quando il soggetto crede che lo stress che sta sperimentando non possa essere ridotto mediante una soluzione attiva; questa convinzione genera la fuga psicologica dalla situazione stressante e l’allontanamento di ulteriori tensioni e disagi attraverso atteggiamenti di distacco e comportamenti di evitamento (Licciardello et al, 2004).

Nel panorama delle scienze sociali, la ricerca scientifica riporta interessanti dati raccolti su campioni di soggetti impiegati nelle professioni d’aiuto, relativi alla crescente relazione di tale sindrome con la “qualità percepita del clima relazionale” e la “rappresentazione del Sé lavorativo” (Licciardello et al, 2004).

In tal senso, appare importante anche il legame tra questi aspetti, considerati possibili predittori di burnout, ed il costrutto dell’adattamento interpersonale (Clarck e Toward,1990). Secondo quanto rilevato negli studi citati, l’individuo scarsamente ‘adattato’ presenta alti livelli di non-affermatività (dimensione tipica di soggetti socialmente incompetenti, aggressivi ed impulsivi nelle relazioni interpersonali) (De Caroli e Sagone, 2008). Prendendo in esame la recente riflessione di Borgogni e Consiglio (2005), il burnout presenta tali aspetti:

  • maggiore importanza agli aspetti emotivi rispetto a quelli fisici;
  • situazione cronicizzata nel tempo;
  • logoramento delle relazioni interpersonali come sintomo;
  • notevole peso delle aspettative e delle motivazioni elevate che caratterizzano le prime fasi della carriera lavorativa.

Nella scelta dello strumento da somministrare in sospetti di burnout, è opportuno pertanto tenere in considerazione questi importanti aspetti. Infatti, quando si intende indagare le cause che generano lo stress all’interno di un’organizzazione, una delle maggiori difficoltà consiste nell’avere a disposizione metodologie e strumentazioni attendibili ed efficaci. 

Dalla pubblicazione di Nardella e colleghi (2007), si evince che la letteratura sull’argomento sembra raggrupparsi in tre aree che possono essere riassunte come segue: 

  • Sviluppo di strumenti di misura dello stress individuale accreditati da modelli scientifici
  • Individuazione delle cause dello stress lavorativo/organizzativo con una metodologia d’indagine specifica
  • Sviluppo di un approccio multidimensionale per l’analisi del contesto organizzativo, che consente di individuare e definire lo stato di benessere dell’organizzazione: ne derivano strumenti il cui oggetto è l’individuazione di un ampio raggio di dimensioni lavorative e di fonti di pericolo per la salute dei lavoratori.

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Burnout: Variabili individuali fattori di rischio e di protezione

Variabili individuali: fattori di rischio e fattori di protezione

Solo negli ultimi anni, si è fatto strada l’interesse per le connessioni tra burnout e caratteristiche di personalità. Dai dati emersi e rapportati con la letteratura allo stato dell’arte, si può supporre che certe caratteristiche di personalità, come l’estroversione e il nevroticismo per Parkes (1986), o l’ansietà studiata da Richardsen et al (1992), costituiscano disposizioni abbastanza stabili in un individuo e, quindi, solo parzialmente influenzabili da esperienze specifiche della vita lavorativa. Si può altresì supporre che, almeno in una certa misura, il disagio psicofisico, la motivazione pro-sociale e l’ostilità presentino il tipo di stabilità ora descritto. In tal caso apparirebbe plausibile pensare che le caratteristiche di personalità ricordate – alle quali potrebbero esserne aggiunte altre come il Locus of Control o il Type A Pattern of Behavior – svolgano un ruolo significativo nel modulare le risposte emozionali e cognitive agli stress lavorativi. Lo squilibrio tra richieste e risorse risulterebbe esacerbato quando la motivazione pro-sociale è debole, la tensione e l’ansietà sono elevate, l’insicurezza è diffusa, la risposta depressiva è pronta (Sirigatti e Stefanile, 1993).

Pertanto variabili individuali caratterizzate da una bassa motivazione pro-sociale, elevati livelli di tensione ed ansietà, accompagnati da insicurezza potrebbero, in certe condizioni, creare un terreno fertile per l’instaurarsi dei sintomi tipici del burnout, proprio in virtù di inadeguate o assenti risorse interne, ed eventualmente esterne. Potrebbero così rappresentare dei fattori di rischio. Al contrario invece un’alta motivazione al lavoro induce nel lavoratore comportamenti desiderabili, quali efficienza, efficacia, puntualità, disponibilità verso i colleghi (Ferrari, 2014). Nell’articolo di Ferrari (2014) appare utile distinguere la motivazione che genericamente è il livello di impegno che una persona mette in ciò che fa: è quindi una spinta, una forza verso il proprio compito e/o verso la propria organizzazione. La motivazione si traduce in un comportamento manifesto: l’impegno nel proprio lavoro (lavorare di più, lavorare meglio). La soddisfazione è invece il livello a cui ad una persona piace il proprio lavoro (Spector, 1997), trattandosi pertanto di una reazione valutativa (positiva o negativa) verso un oggetto (in questo caso, il proprio lavoro) basata su sentimenti, comportamenti, cognizioni (Myers, 2009).

Dagli anni ’70 fino ad oggi, in merito alla motivazione sul lavoro, ha assunto sempre maggiore interesse un diverso approccio al tema della motivazione (Ferrari, 2014). La spinta motivazionale non deriverebbe da una carenza o da un desiderio, ma dalla necessità-volontà di raggiungere un risultato atteso, facendo così riferimento alla “tecnica del goal setting” (letteralmente“definizione degli obiettivi”), che riprende interamente il concetto di livello di aspirazione (Lewin, 1948) e lo fonde con alcuni elementi tayloristici (il sistema di premi e obiettivi), superandone però l’eccessiva frammentazione e favorendo l’iniziativa e l’autonomia dei singoli (Ferrari, 2014). Un goal o obiettivo, aggiunge Ferrari (2014) nel suo articolo, è ciò che un individuo sta cercando di raggiungere; esso presenta due attributi: contenuto e intensità; il contenuto è l’oggetto o il risultato che deve essere raggiunto, mentre l’intensità è legata all’importanza del goal, al grado di sforzo richiesto, al contesto nel quale viene assegnato.

La soddisfazione è un tema che ha catturato molto l’attenzione dei ricercatori, tanto da essere conosciuto come il “Sacro Graal” della ricerca scientifica sul management, tanto indagato quanto sfuggente nelle sue implicazioni (Wright, 2006). Per Locke (1975) la soddisfazione era “uno stato emotivo piacevole che deriva dal giudizio sul proprio lavoro o esperienza lavorativa”. Brief (1998) affermò che la soddisfazione fosse l’atteggiamento verso il proprio lavoro. Alla luce di ciò, Weiss (2002) propone un’ampia riflessione teorica con l’obiettivo di dimostrare come sia concettualmente corretto distinguere, in merito alla soddisfazione, tra valutazione del lavoro, credenze riguardo a esso ed esperienze emotive relative al lavoro stesso, tre costrutti distinti ma correlati con la soddisfazione. Per Brief (1998) gli antecedenti della soddisfazione lavorativa sono l’umore della persona oppure la caratteristica di personalità definita affettività negativa. Quest’ultima caratterizza le persone che più facilmente sperimentano insoddisfazione e stress negativo (distress), le persone introverse e che tendenzialmente si attribuiscono le cause dei loro insuccessi ed errori (Watson et al., 1986). In alternativa allo studio delle caratteristiche di personalità, si prendono in considerazione le caratteristiche del lavoro in sé come la possibilità di carriera, la retribuzione, la formazione e la coerenza tra competenze possedute e richieste dalla mansione (Ferrari, 2014). Un numero rilevante di ricerche (Herzberg, 1959; Argyle, 1987) da tempo ha indagato l’effetto delle caratteristiche del lavoro sulla soddisfazione, sebbene tale effetto sia mediato dalle caratteristiche personali del lavoratore e da aspetti istituzionali o sociali (Sousa-Poza e Sousa-Poza, 2002): in ogni caso, l’assunto fondamentale è che gli individui formulano un giudizio globale rispetto al lavoro nel suo complesso (Ferrari,2014).

Prendendo in esame altre variabili individuali inerenti al contesto lavorativo, Karasek (1979), nel suo modello, sostiene che la relazione tra elevata domanda lavorativa (job demand), bassa libertà decisionale (decision latitude) e inadeguato sostegno sociale sul luogo di lavoro (isolamento sociale) possa determinare una condizione di “job strain” (stress lavorativo percepito). 

Una variabile che potrebbe rivelarsi nociva o paradossalmente incentivante è costituita dal ruolo assunto all’interno del contesto lavorativo. La definizione di ruolo come viene definito da Galimberti (2002) è l’insieme delle norme e delle aspettative che convergono su un individuo in quanto occupa una determinata posizione in un sistema sociale. Il ruolo, per ciascun attore sociale, implica una serie di azioni specifiche e identificative: l’attività svolta (che cosa fare), la motivazione (perché, a quale fine), come l’attività viene svolta (metodi, strumenti, procedure) e con chi viene esercitata l’azione (colleghi, risorse umane). I ruoli che ciascun attore si trova ad agire in un contesto organizzativo si suddividono in ruoli prescritti e ruoli discrezionali. I primi si contraddistinguono nell’essere dettagliati e rigidi contribuendo al risultato organizzativo attraverso una sequenza di attività (o mansioni) prevedibili e ripetitive. Il risultato del ruolo prescritto è garantito dall’esecuzione delle attività, all’interno degli standard quantitativi e qualitativi definiti e dipende da sequenze precise di attività. I ruoli discrezionali invece richiedono flessibilità operativa per il perseguimento dei risultati, quindi si esprimono attraverso attività non rigidamente definibili e non ripetitive. Non sono definibili in termini di sequenze di attività, in quanto l’esecuzione delle stesse non garantisce da sola il conseguimento dei risultati attesi, anzi le stesse attività possono portare a esiti diversi o possono essere orientate in modo diverso in base agli obiettivi perseguiti. Il risultato dei ruoli discrezionali pertanto si misura nel raggiungimento di percorsi possibili di azione. È facile intuire come entrambe le tipologie di ruolo sottendono punti di forza e di debolezza per l’attore che li agisce. In particolare un ruolo prescritto può incorrere nel rischio di essere vissuto con ansia persecutoria, comportando una perdita di motivazione nel tempo a causa della rigidità e della ripetitività delle azioni che definiscono il ruolo stesso. Al contrario il rischio di un ruolo discrezionale è quello di essere vissuto con ansia abbandonica, generando un elevato stress dovuto al peso di responsabilità che esso comporta (Scotta, 2015).

Recentemente alcuni studiosi hanno collocato l’assertività tra i fattori personali facilitanti il work engagement (Schaufeli et al, 2012). L’assertività sembra contribuire all’accrescimento delle risorse personali e, insieme ad esse ed alle risorse lavorative appare in grado di prevenire forme di disagio, tra le quali rientra il burnout. Secondo questa formulazione la sindrome del burnout si colloca al polo opposto rispetto alla condizione di engagement lavorativo. Malgrado la considerazione di burnout e work engagement sia assimilabile, secondo alcuni teorici, ad opposti di uno stesso continuum, sembra esistere un importante legame tra essi che va tenuto in considerazione quando si studiano le variabili di tipo relazionale e comunicativo come l’assertività che possono produrre o prevenire disagio in ambito lavorativo (Cuccu et al, 2016).


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Stress

Burnout variabili contestuali: fattori di rischio e fattori di protezione

Variabili contestuali: fattori di rischio e fattori di protezione del burnout

Il burnout è stato associato ad alcuni aspetti dell’ambiente di lavoro: il sovraccarico lavorativo, il ruolo nella rete delle comunicazioni, la percentuale di tempo lavorativo dedicato all’utente, la complessità dei problemi affrontati, il conflitto di ruolo, la pressione esercitata dal lavoro, il sostegno da parte dei colleghi, nonché le possibilità di carriera.

Può essere utile, in termini di minacce al benessere organizzativo come il burnout, concentrarsi sullo studio delle varie forme di interazione tra i lavoratori e l’ambiente circostante. Si tratta di un’analisi sociale dello spazio, che parte dall’ipotesi che la rete lavorativa si rimette nella distribuzione dello spazio nel quale gli individui sono parti di un sistema in cui tutti i comportamenti dipendono dall’ambiente in cui hanno luogo (Maslach e Jackson, 1986).

Questo modello identifica due livelli di ambiente collegati ai comportamenti spaziali individuali: l’ambiente materiale (forma geometrica, definita in maniera obiettiva) e l’ambiente psicologico (senso di appropriazione, definito dalle proprietà qualitative) (Ricci, 2015).Gli studiosi che applicano questo approccio concepiscono lo spazio come un contesto oggettivo pre-percettivo che modella le attività, i comportamenti, che in esso si compiono. In sintesi, l’ambiente fornisce i fattori che stimolano o impediscono specifici comportamenti (Ricci, 2007).

Per tale ragione è auspicabile operare cambiamenti sull’ambiente lavorativo che comportino il benessere dei lavoratori, ma allo stesso tempo è necessario indagare anche le variabili individuali di ciascuna risorsa, variabili che potrebbero essere convergenti o al contrario divergenti con il focus aziendale e dunque controproducente per entrambi i versanti.

A tal riguardo è importante tirare in ballo il clima organizzativo che si instaura nel contesto lavorativo, in quanto potrebbe diventare un fattore di rischio, per certi versi, o un fattore di protezione per altri, tra i quali proprio il burnout.

Una recente rassegna quantitativa (Parker et al., 2003) ha considerato i risultati di 121 studi, rispetto a cui ne è stato evidenziato il ruolo predittivo significativo della percezione di clima organizzativo nella spiegazione di variabili come la motivazione, i livelli di performance ed il benessere psicologico.

La rassegna sottolinea l’esigenza di considerare in studi futuri il ruolo di variabili organizzative e individuali in grado di modulare la relazione tra il clima organizzativo e gli effetti lavorativi (Pisanti et al., 2006). Il clima organizzativo ha ricevuto una grande attenzione nella letteratura relativa alla psicologia delle organizzazioni. In uno dei primi testi classici della psicologia sociale organizzativa (Katz et al., 1966) vi era un riferimento al clima sociale dell’ambiente di lavoro, come ad esempio la percezione condivisa di specifiche dimensioni organizzative da parte del gruppo di lavoro, che veniva trasmessa ai nuovi membri tramite specifici processi di socializzazione lavorativa, ulteriormente corroborata dall’interazione tra il gruppo lavorativo e l’ambiente fisico e psicosociale (Pisanti et. al., 2006).

Il clima organizzativo è individuabile nell’insieme delle percezioni condivise dai lavoratori delle principali caratteristiche del posto di lavoro, come l’autonomia, il sostegno sociale, le caratteristiche dei compiti, etc. (James, 1982).

Queste percezioni rappresentano una mappa cognitiva dell’organizzazione con degli evidenti risvolti sul versante comportamentale ed emotivo (Schneider,1985; Schneider,1987). Argyris (1958) ne sviluppò anche un modello. In esso trovano spazio tre gruppi di variabili organizzative:

  • le politiche, le procedure e le posizioni formali nell’organizzazione;
  • i fattori personali che includono bisogni, valori e capacità individuali;
  • l’insieme delle variabili associate con gli sforzi degli individui per conciliare i propri fini con quelli dell’organizzazione.

Queste variabili nel loro complesso permettono di definire il comportamento organizzativo complessivo ovvero quel “livello di analisi discreto, risultante dall’interazione dei livelli di analisi individuale, formale, informale e culturale” (Argyris,1958). Il clima visto come un processo dinamico è un elemento di regolazione del sistema organizzativo.

Inoltre si distingue il clima in: psicologico e organizzativo. Il clima psicologico fa sostanzialmente riferimento ad una serie di percezioni che possono rappresentare una sorta di mappa cognitiva individuale del funzionamento di un’organizzazione, in grado quindi di guidare il comportamento degli individui in relazione alla situazione stessa. Il clima servirebbe ad adattare il comportamento dell’individuo alle richieste ambientali e alle esigenze organizzativo (Koys et al, 1991). In altre parole, Il clima organizzativo si riferisce a caratteristiche organizzative e ai loro effetti principali, o stimoli, mentre il clima psicologico si riferisce ad attributi individuali, per mezzo dei quali l’individuo trasforma l’interazione tra attributi percepiti e caratteristiche individuali in una serie di aspettative, atteggiamenti, comportamenti (James e Jones,1974).

Molta letteratura di psicologia organizzativa, per esempio, sottolinea l’importanza del clima in azienda per il suo impatto sulla socializzazione e sulle relazioni umane nell’ambiente di lavoro e sulla soddisfazione che i dipendenti traggono dal lavoro stesso e dalle proprie condizioni.

Il clima è in pratica anche la qualità della rete di tensione collettiva che lega o non lega gli uomini e le donne dell’organizzazione, è lo stare insieme, il lavorare insieme, il piacere di ritrovarsi oppure no, l’eccessiva freddezza che circola nelle relazioni interpersonali, la distanza, oppure anche l’eccessiva informalità etc.

(Quaglino, 1987). Tenendo in considerazione dunque l’influenza sul comportamento dei lavoratori e sulla performance organizzativa, può essere determinante per un’organizzazione conoscere, in determinati momenti, il clima esistente al proprio interno. Il clima è anche uno strumento di consapevolezza e di diagnosi organizzativa e quindi uno strumento di progettazione di cambiamento (De Vito Piscicelli et al, 1984). Per tutte queste ragioni si fa determinante la necessità di poter eseguire un check-up organizzativo che permetta di conoscere il clima psicologico e la cultura aziendale di una organizzazione.

L’analisi del clima organizzativo può essere utile nell’ottica della politica della prevenzione ad evidenziare eventuali situazioni critiche di particolare disagio causate, per esempio, dallo stress lavorativo (le cui cause legate alla struttura dell’organizzazione e al clima sono fondamentali e possono essere per esempio: una partecipazione scarsa o nulla a prendere decisioni, alcune restrizioni sul comportamento, l’accortezza nell’impegno e la mancanza di effettiva consultazione, ecc.); o ancora da percezioni, motivazioni, vissuti, conflitti, dinamiche comunicative, stili di leadership, collaborazione, autonomia, sicurezza, ecc. che potrebbero incidere sulla performance degli operatori.

Questo approccio favorisce inoltre, accanto ad una visione della salute lavorativa prevalentemente legata alla dimensione individuale, all’intervento sullo stress ed il disagio del singolo lavoratore, a “valle” del processo, una logica che progetta la promozione della salute, favorendo ambienti, situazioni e relazioni “salutari”, dove l’adattamento è fisiologico e non patogeno.

Maslach (1982) asserì che il sostegno emozionale tra colleghi costituisce una risorsa che può aiutare ad affrontare lo stress sia con un’azione diretta nei confronti della fonte (accogliere lo sfogo, dare suggerimenti, ecc.), sia indiretta (anche solo all’idea di poter condividere le difficoltà). Il buon clima interpersonale può essere alimentato dall’organizzazione, per esempio agevolando gli incontri tra le persone e sostenendo la cultura della cooperazione (Maslach, 1982). Quando le organizzazioni stimolano invece un clima conflittuale e competitivo è probabile che si manifestino sia sentimenti di gelosia e di rivalità, sia comportamenti aggressivi e marginalizzanti; in quest’ottica il clima relazionale finisce per rappresentare non un fattore di protezione ma un antecedente del burnout (Converso e Falcetta, 2007). Il rapporto con i colleghi è dunque al centro del social support che rappresenta, quando presente, una fonte di sostegno per il benessere organizzativo e, quando assente, una fonte per il burnout (Ferrari, 2014).


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La sindrome di Burnout: teorie

La sindrome di Burnout

“Il burnout è una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e di ridotta realizzazione personale.” (Maslach et Jackson, 1986)

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Teorie sul Burnout 

Una o più condizioni stressogene protratte nel tempo o particolarmente intense, possono indurre alla sindrome nata nel precedente secolo, ossia la sindrome del burnout

(Maslach et Jackson, 1986), un’espressione metaforica (approssimativamente in Italiano, “bruciato”) per indicare un set di atteggiamenti, emozioni e comportamenti negativi derivanti da una cronica difficoltà nel controllare lo stress tipico (Cherniss,1980; Maslach et al., 1996). Proprio per questo il burnout si differenzia dallo stress: in primo luogo non presenta un quadro psico-fisico, ma dimensioni psicologiche ed emotive; in secondo luogo, non si manifesta in una reazione momentanea, ma in un processo a lungo termine (Borgogni e Consiglio, 2005). Il termine nella sua accezione attuale, fu introdotto dallo psichiatra Herbert Freudenberg nel 1974 per descrivere una particolare sindrome che caratterizzava i membri di uno staff che lavoravano in istituzioni sociosanitarie (helping professions). Seguendo la tradizione medica, con il termine sindrome si intende un insieme definito di sintomi caratterizzante la patologia presa in considerazione. Freudenberg (1974), per esempio, nel suo lavoro si soffermò sulla descrizione della sintomatologia fisica (un esempio sono le emicranie), su quella comportamentale (come ad esempio il consumo di droghe), ancora su quella emotiva (come ad esempio l’umore depresso), cognitiva (ad esempio il cinismo) ed infine motivazionale. In rassegna, l’approccio clinico enfatizza l’importanza dei fattori individuali sottostanti alla sindrome del burnout.

Contrariamente all’approccio clinico, la ricerca psicosociale focalizzava la propria attenzione sulla natura interpersonale del burnout. Maslach (1982) scrisse infatti che “rispetto agli effetti nocivi di altre reazioni allo stress, la caratteristica principale del burnout è il fatto che questi è il prodotto finale di un’interazione sociale prolungata tra il professionista (helper) e l’utente (client).” Contemporaneamente altri ricercatori (Golembiewski et al.,1986) sottolinearono l’importanza dell’ambiente organizzativo nello sviluppo della sindrome del burnout, suscitando l’interesse dei manager, dei policy makers, e dei consulenti d’azienda.

Nella maggior parte degli studi il Burnout viene definito come un elenco di sintomi tendono ad ignorare l’aspetto dinamico della sindrome, per questo motivo è importante incentrare la propria attenzione anche sulle principali definizioni di processo. Entrambe le definizioni sono complementari, ma nello specifico, la definizione del burnout come stato è propria dello stadio finale del processo.

La sindrome del burnout è solitamente caratterizzata da particolari stati d’animo (quali ansia, irritabilità, esaurimento fisico, panico, agitazione, senso di colpa, negativismo, ridotta autostima, empatia e capacità d’ascolto etc.), somatizzazioni (quali emicrania, sudorazioni, insonnia, disturbi gastrointestinali, parestesie etc.), reazioni comportamentali (assenze o ritardi frequenti sul posto di lavoro, chiusura difensiva al dialogo, distacco emotivo dall’interlocutore, etc.) (Fontana eal, 1993). Maslach e Jackson (1982), in relazione al burnout, ne evidenziarono tre componenti:

l’esaurimento emotivo, ossia la percezione di “prosciugamento” delle risorse emotive personali e la sensazione che non si abbia più niente da offrire a livello psicologico (esempio: mi sento emotivamente distrutto dal mio lavoro);

la depersonalizzazione, che si riferisce allo sviluppo di atteggiamenti di distacco, atteggiamenti negativi, a volte di cinismo verso l’utenza (“non mi importa nulla di ciò che succede agli utenti ”;

la ridotta realizzazione riguarda invece la percezione della propria inadeguatezza sul posto di lavoro, con l’attenuazione del desiderio di successo ed una caduta della stima.

Sebbene le tre componenti sembrino essere interrelate, esse sono concettualmente diverse e correlate distintamente ad altre variabili come la soddisfazione lavorativa, gli stressor lavorativi, il desiderio di cambiare lavoro e la percezione di sintomi psicosomatici (Cordes e Dougherty, 1993).

Maslach (1997) insieme ai suoi colleghi catalogarono le cause oggettive del burnout in sei classi relative a: autonomia decisionale, carico di lavoro, equità, valori, gratificazioni, senso di appartenenza. Nel medesimo lavoro l’autrice perviene alla conclusione che il burnout è dovuto principalmente ai fattori oggettivi dello stress professionale, ponendo così in secondo piano le cause soggettive.

Edelwich e Brodsky (1980) hanno identificato quattro stadi progressivi che caratterizzano l’evoluzione del burnout:

Stadio dell’entusiasmo: gli operatori sono motivati all’esercizio della propria professione, scelta per ragioni differenti. I soggetti percepiscono ed esaltano esclusivamente i lati positivi della professione, diventando totalmente dipendenti dal lavoro e ignari delle difficoltà.

Stadio della stagnazione: in questo stadio si approda alla scoperta per la quale i risultati del proprio impegno lavorativo sono incerti, aleatori e difficili da cogliere, porta a uno smorzamento dell’entusiasmo e a sentimenti di stallo e di noia, oltre che a preoccupazioni per la propria carriera.

Stadio della frustrazione: emergono rabbia e delusione per l’eccessivo scarto tra le aspettative e la realtà, insieme alla triste consapevolezza che i propri ideali poco hanno a che vedere con i reali bisogni di coloro a cui è rivolto il servizio. Ne consegue un senso di inutilità e di vuoto, insieme a una percezione crescente di impotenza.

Stadio dell’apatia: si sviluppa disimpegno emotivo-affettivo nei confronti della propria condizione professionale frustrante. È questo lo stadio del burnout vero e proprio.

L’atteggiamento di fondo è rassegnato e infelice, le aspettative si abbassano ulteriormente.

Si giunge all’apatia con generalizzazione anche alla sfera privata.

Oltre alla teorizzazione di Maslach, in letteratura si rintracciano altri modelli relativi al burnout, tra cui il modello proposto da Pines e Aronson (1988) ed il modello di Cherniss (1986). Pines e Aronson (1988) spiegarono la sindrome del burnout come uno stato di esaurimento emozionale, che fa seguito a un processo graduale di disillusione, la cui causa dovrebbe essere ricercata in un coinvolgimento personale profondo da parte dei professionisti, identificandosi con il proprio lavoro in maniera eccessiva. Gli autori asserirono che gli individui fortemente motivati intraprendessero carriere volte al raggiungimento di obiettivi specifici, il cui insuccesso genererebbe la sindrome. Nello specifico è rilevante la percezione di inadeguatezza e di inutilità che lo accompagna, portando a una condizione considerata ma comunque modificabile (Pines e Aronson,1988).

Nella teorizzazione di Cherniss (1986), il burnout è un “processo transazionale” tra abilità generali e cause organizzative, in cui la motivazione ricopre un ruolo importante.

Riprendendo la teoria della “Sindrome generale di adattamento” proposta da Seyle (1956), Cherniss (1983) individuò tre fasi:

  1. Fase dello stress, caratterizzato da un disequilibrio (in eccesso o in difetto) delle risorse disponibili e le richieste provenienti dall’esterno oppure dall’interno, come i propri bisogni, valori, obiettivi; in questa fase il soggetto tenta di adattarsi alla situazione attraverso un uso molto intenso delle sue risorse psicofisiche, provocando un progressivo esaurimento emotivo e, di conseguenza, anche una demotivazione rispetto al proprio ruolo professionale;
  2. Fase della crisi interiore o tensione emotiva (strain), come reazione a questo squilibrio, caratterizzata da ansia, nervosismo, affaticamento ed esaurimento;queste sensazioni si manifestano nel tentativo, da parte dell’operatore, di difendersi dalla situazione negativa creatasi;
  3. Fase della difesa, che consiste nella conseguente modificazione del comportamento e degli atteggiamenti, come la tendenza a trattare gli altri in modo meccanico e distaccato o con una preoccupazione cinica circa la gratificazione dei propri bisogni; tali cambiamenti nell’atteggiamento e nel comportamento generano, infatti, una fuga psicologica del soggetto coinvolto, come tentativo di limitare il livello di stress generatore del fenomeno.

Questo meccanismo può innescare una demotivazione che si autoalimenta mediante un circolo vizioso: all’atteggiamento di evitamento dell’ambiente stressante, si associa una diminuita efficacia prestazionale, perché l’ottimismo, l’entusiasmo ed il coinvolgimento personale sono spesso necessari al successo; il fallimento, a sua volta, ha come conseguenza un incremento della frustrazione che, ciclicamente, comporta un ulteriore insuccesso. Il burnout secondo l’Autore (Cherniss,1983) può manifestarsi in vari modi: sintomi fisici, (come disturbi gastrointestinali, alterazioni del sonno), sintomi psicologici (come pessimismo, demoralizzazione, etc.), reazioni comportamentali sul lavoro (come ritardi frequenti, cinismo, assenteismo, cambiamenti dell’atteggiamento nei confronti degli utenti quali freddezza, distacco). Pertanto, il suddetto fenomeno va ad urtare anche la qualità della vita del soggetto ed il suo benessere fisico, non solo psichico (Shirom, 2005).

Secondo alcuni autorisono più esposte al burnout le persone che possiedono una ridottaresistenza individuale agli stimoli.Mentre la personalità hardy possiede tre caratteristiche: è consapevole del proprio ruolo nella società e del significato (senso) attribuito alla propria esistenza; percepisce le novità come stimolo anziché come insidia sente di poter controllare gli eventi senza esserne sopraffatto (Mark et al, 1990).Inoltre si definiscono negative le reazioni di adattamento come assumere psicofarmaci, fumare, bere, atti a negare, minimizzare, nascondere o evitare gli eventi stressogeni.In virtù di quanto riportato precedentemente, il burnout può essere definito come un fenomeno psicosociale più complesso dello stress, nel quale interagiscono sia fattori socio-ambientali e lavorativi sia caratteristiche individuali e personologiche (Murdaca et al, 2014). Nonostante la sua struttura multi-componenziale,le ricerche condotte sul burnout hanno riguardato inizialmente il solo ruolo svolto dai fattori ambientali.

Prendendo in esame una recente rassegna di Converso e colleghi (2009) lo studio della sindrome del burnout ha seguito diversi percorsi, che dagli anni ’70 in poi hanno di volta in volta privilegiato ed evidenziato antecedenti di diversa origine:

Individuale: relativa alle caratteristiche socio-demografiche, al sistema della personalità e/o alle motivazioni dei soggetti colpiti dalla sindrome.

Interpersonale: riguarda in primis il rapporto con l’utenza, aspetto che costituisce la peculiarità del burnout (Mancini & Magnani, 2008). La dimensione interpersonale include però anche il clima relazionale con i colleghi e il gruppo di lavoro: si tratta di un livello interpretativo intermedio, che può essere ricondotto in parte alle origini interpersonali della sindrome, in parte a quelle organizzative (Demerouti et al,2001; Maslach & Leiter, 1997/2000).

Organizzativa: questa dimensione ha assunto un progressivo rilievo tanto da portare ad affermare che, contrariamente ai fattori personali e alle caratteristiche dell’utenza, i fattori organizzativi siano predittivi del burnout (Schaufeli & Enzmann, 1998). Per Maslach e Leiter (1997; 2000) il disadattamento tra la persona e il lavoro che genera job burnout si produce nel disequilibrio relativo a sei aree della vita lavorativa: sovraccarico di lavoro, mancanza di controllo, gratificazione insufficiente, crollo del senso d’appartenenza comunitaria, assenza di equità e contrasto di valori.

Attualmente è condivisa una concezione multidimensionale: l’eziopatogenesi del burnout sembrerebbe da attribuire all’articolazione di fattori individuali, relazionali, lavorativi, organizzativi e persino storico-culturali. Nessuno di essi isolatamente può condurre al burnout, ma la loro contemporanea presenza sembra  determinarlo.(Schaufeli&Enzmann,1998).


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Conseguenze dello stress 

Conseguenze dello stress 

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Condizioni di stress psicosociale di diversa origine si esprimono con una gamma sintomatica che tocca tutti i sistemi funzionali dell’organismo, dal Sistema Nervoso Centrale (SNC) al Neurovegetativo, Cardiovascolare, Endocrino, Immunologico, Gastro Intestinale (GI),etc. Data questa diffusione e gli effetti biologici della risposta di stress, non sorprende che l’impatto della condizione di stress sulla salute sia rilevante. Molto calzante, a tal proposito, è la circonlocuzione usata dagli autori anglosassoni per esprimere tale condizione: “inability to cope”, cioè “incapacità a farcela”, tendente proprio a sottolineare questa situazione dell’individuo che, indipendentemente da ogni variabile (come la sua personalità, il supporto sociale, il modo di affrontare le vicissitudini della vita) si sente intrappolato, schiacciato in una morsa dalla quale non riesce a liberarsi (Sibilia, 2010).

Le conseguenze dello stress variano da persona a persona e possono presentarsi in vario modo. A tal riguardo Anchisi e Dessy (2008) scrissero in un articolo che gli studi sugli effetti negativi dello stress andrebbero adeguatamente vagliati perché parte sono studi sugli effetti negativi di alcuni sentimenti, parte sono invece studi sulle conseguenze degli stati perduranti di attivazione propri della sindrome ansiosa o del PTSD. La distinzione ha un’importanza pratica rilevante, perché consente di intervenire in modo mirato sui fattori di stress. In effetti, mentre taluni eventi esterni risultano statisticamente stressogeni, come ad esempio un lutto o la perdita del lavoro, altri causano stress solo a coloro che li affrontano con un punto di vista inadeguato e con idee pregiudiziali. Nel primo caso si tratta di riconoscere il potere stressogeno di tali eventi, per essere preparati ad affrontarli più efficacemente. Nel secondo caso si tratta di modificare idee e punti di vista disfunzionali, che, a parità di condizioni ambientali esterne, determinano ansia e stress solo in alcuni soggetti, mentre altri ne sono esenti (Anchisi e Dessy, 2008).

Le manifestazioni patologiche dello stress sono di tre tipi: psicologiche, fisiologiche e comportamentali. Le reazioni psicologiche riguardano l’incidenza che le cause esterne dello stress sull’umore del soggetto: si tratta di reazioni emotive eccessive. Il soggetto, anziché sfruttare la particolare attivazione provocata dallo stress per affrontare gli eventi, reagisce in modo esplosivo o, al contrario, rimane inibito e “implode” su se stesso, risultando in ogni caso sconvolto. L’irritazione si trasforma in un atteggiamento di abituale ostilità e rancore; mentre l’inibizione dà luogo a frustrazione, ad ansia cronica e anche a forme gravi di depressione. I segni iniziali dello stress patologico sono ad esempio: irritabilità e affaticabilità, senso di inefficacia, perdita di motivazione, difficoltà a concentrarsi, diminuzione della memoria e della creatività, aumento del numero degli errori commessi. Le reazioni fisiologiche allo stress sono reazioni a spirale, in un processo in cui ciascun fattore si connette strettamente agli altri, che influenza e da cui è influenzato (Anchisi e Dessy, 2008).

Gli ormoni dello stress sono, in prima battuta, adrenalina e noradrenalina, la cui azione è di rendere più pronta ed energica la reazione difensiva nei confronti degli stressor esterni. In seconda battuta entrano in circolo gli ormoni cortico-surrenali, che aumentano la resistenza nel tempo e rendono più duratura la risposta alle sollecitazioni ambientali. Il soggetto avverte dalla facile affaticabilità, alla tensione muscolare; dai disturbi del sonno, alle palpitazioni, alla dispnea, alla colite (colon irritabile). Ma anche vere e proprie malattie a base organica possono essere innescate o aggravate dallo stress, come molte allergie e malattie della pelle, l’ipertensione essenziale, la retto-colite emorragica. E vi è ormai anche un certo grado di evidenza che vi sia una partecipazione dei fattori psicologici nell’insorgere o nell’aggravarsi delle malattie coronariche e tumorali (Anchisi e Dessy, 2008).

Le reazioni comportamentali sono facilmente individuabili e rappresentano il primo fattore diagnostico per identificare i soggetti sotto stress: sono persone sempre di fretta, precipitose, impazienti, irritabili. Alla luce di ciò Rosenman e Friedman (1974) hanno definito il Tipo A per designare quel tipo di persone che, trovandosi abitualmente sotto stress, hanno una maggiore possibilità di sviluppare i disturbi e le malattie precedentemente elencate con maggiore probabilità rispetto alle altre persone.

Ponendo attenzione alle ricerche presenti in letteratura in merito alle conseguenze dello stress, secondo Compare e colleghi (2007) si può considerare la relazione tra stress psicologico e malattia cardiaca. I pazienti cardiopatici presentano spesso un considerevole disagio emozionale, in termini di rabbia, ansia, paura e depressione. Per queste ragioni, in anni recenti, la comunità medica ha sempre più riconosciuto il bisogno di interventi efficaci per la riduzione dello stress in modo da migliorare la salute emotiva e la riabilitazione fisiologica nei pazienti con cardiopatia e per facilitare la prevenzione della malattia in soggetti a rischio (Compare et al., 2007). Una dimostrazione su scala mondiale dell’interazione tra stress e infarto cardiaco è stata fornita dal cosiddetto Studio INTERHEART, in cui sono stati interrogati 30.000 tra pazienti che avevano subito un infarto e controlli sani in 52 paesi. Lo studio nasce dalla constatazione che, sebbene oltre l’80% del peso globale delle malattie cardiovascolari ricada sui paesi più poveri, la conoscenza dei fattori di rischio viene in gran parte dai paesi più sviluppati. Succede così che l’effetto degli stessi fattori di rischio sulle malattie coronariche in molte regioni del mondo sia pressoché misterioso. La presenza di stress psicologico è associata ad un incremento del rischio del 40%  (Yusuf et al., 2006).

Diversi studi hanno invece indagato lo stress come fattore di alcuni casi di alopecia areata. Infatti prima dell’insorgenza della caduta dei capelli in alcuni casi sono emersi dei traumi acuti, un significativo numero di eventi stressanti e patologie psichiatriche diagnosticate e particolari condizioni psicologiche e familiari. Mentre altri lavori evidenziano come gli stress emozionali non giochino alcun ruolo nella patogenesi dell’alopecia areata (Madani et Shapiro,2000). Alla luce di ciò sarebbe opportuno avviare ulteriori ricerche per una maggiore chiarificazione.

Inoltre, negli ultimi anni, sempre più ricerche hanno tentato di far luce sui disturbi somatici derivati da stress psicologico tramite studi di neuroimaging. Per esempio Atmaca e collaboratori (2011) hanno cercato di indagare il ruolo svolto dal complesso amigdala ippocampo nella genesi del disturbo di somatizzazione. Attraverso la MRI (risonanza magnetica strutturale) un gruppo di ricercatori ha rilevato che i pazienti con disturbi di somatizzazione avevano i volumi dell’amigdala destra e sinistra significativamente inferiori rispetto al gruppo di controllo, mentre nello stesso studio non è stata riscontrata alcuna differenza nell’ippocampo, nel volume totale del cervello e nel volume della sostanza grigia e bianca (Atmaca et al, 2011). Altri studi di neuroimaging hanno invece evidenziato una disfunzione dell’ippocampo nella fibromialgia e ridotte dimensioni del lobo parietale nei soggetti affetti da disturbi dissociativi (Compare e Grossi, 2012).È bene aggiungere che a seguito delle scoperte sulla plasticità neuronale alcuni ricercatori hanno reso noto il ruolo chiave svolto dallo lo stress e dagli ormoni legati allo stress (come i glucocorticoidi e mineralcorticoidi) nel rimodellamento delle connessioni neuronali nell’ippocampo, nella corteccia prefrontale e nell’amigdala (Mcewen e Gianaros, 2011). Il risultato è stato un’architettura dinamica del cervello che può essere modificata dall’esperienza (Mcewen, 2011).

Pertanto di fronte a un evento stressante, l’organismo utilizza le proprie capacità difensive fisiche, modulate dai fattori psichici, per mettere in atto una risposta. Le principali fonti di stress, sia positivo che negativo si riscontrano soprattutto nell’ambito del lavoro in cui, secondo quanto si evince dagli studi presenti in letteratura, prevale una visione nociva dello stress (Bolognini et al., 1994). Beeher e Newman (1978) lo descrivono come una condizione nella quale i fattori legati al lavoro interagiscono con il lavoratore e ne alterano gli equilibri psicosomatici. Non a caso spesso, nei contesti organizzativi si parla di stress lavoro-correlato. Peruzzi (2011), in un suo articolo, riporta che il rapporto di ricerca “Work-related Stress” pubblicato dall’Osha nel 2000 distingue tre principali approcci alla definizione e studio dello “stress lavoro-correlato”: l’approccio “tecnico” (Cox, 1978), “fisiologico” (Selye,1950) e “psicologico” (Cooper, Marshall, 1976; Osha 2000). L’approccio “tecnico” concepisce lo stress lavorativo come una caratteristica propria dell’ambiente di lavoro, misurabile, quindi, sulla base di parametristrettamente oggettivi. Come precisa Symonds (1947), “lo stress è ciò che accade all’uomo, non ciò che accade nell’uomo; è un insieme di cause, non un insieme di sintomi” (Osha, 2000).

L’approccio “fisiologico”, al contrario, definisce lo stress lavorativo come l’attività umana individuale di adattamento ai cambiamenti avversi e nocivi del contesto esterno ed interno, articolata nelle tre fasi dell’allarme, resistenza ed esaurimento (Osha, 2000). Infine l’Autore (Peruzzi, 2011) continua scrivendo che l’approccio psicologico definisce invece lo stress lavorativo come uno stato psicologico parte di un più ampio processo di interazione dinamica tra il lavoratore e il suo ambiente di lavoro. Particolarmente utile per comprendere l’articolazione di tale processo è il modello costruito da Cooper e Marshall

(1976). Quest’ultimi identificarono le fonti di stress che circondano l’individuo nel luogo di lavoro (ad esempio, modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, ruolo nell’organizzazione), i sintomi dello stress, siano essi individuali (pressione alta, depressione, alcolismo, irritabilità etc.) o collettivi/organizzativi (elevato assenteismo, elevato ricambio della forza lavoro, relazioni industriali difficili, scarso controllo della qualità), e le patologie che a tali sintomi possono conseguire (cardiopatia coronarica, malattia psichica, infortuni gravi e frequenti, apatia) (Cooper e Marshall,1976; Osha, 2000). In ultima rassegna Peruzzi (2011) asserisce che ad una definizione più precisa e funzionale di stress lavoro-correlato si perviene, tuttavia, se si integra il sistema descrittivo di Cooper con l’ulteriore prospettiva d’analisi elaborata da Cox, Griffiths e Rial-Gonzales all’interno del rapporto Osha del 2000 e costituita dal cd. modello “dual pathway hazardharm” sul rapporto tra fattori di rischio e danno alla salute (Osha, 2000).

La conseguenza cardine dello stress in ambito lavorativo è rappresentata dalla sindrome da Burnout.


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