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Commitment e identificazione con l’organizzazione

Commitment e identificazione con l’organizzazione

 

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Per indagare il commitment organizzativo, come già precisato, non abbiamo tenuto conto della distinzione delle tre componenti individuate da Meyer e Allen (1991), ci siamo invece ispirati agli item utilizzati da Raffaello eMaass (2002) per valutare l’attaccamento all’organizzazione (“Company Attachment”) e a quelli dello strumento sviluppato da Rogg e colleghi (2001) utilizzato da McGuire e McLaren (2009) per misurare l’ “Employee Commitment” nella loro ricerca sugli impiegati dei call centres. In entrambi i casi è stata utilizzata una scala Likert a 5 punti, e lo stesso nel nostro caso (da 1 “fortemente in disaccordo” a 5 “assolutamente d’accordo”). Gli item sono: “se dovessi dare un consiglio raccomanderei ad altri la mia organizzazione come un buon posto di lavoro”, “ho un’immagine positiva dell’azienda per cui lavoro”, “lavorare per questa organizzazione è una scelta e non solo una necessità”, “se necessario per la sopravvivenza dell’azienda sarei disposto\a a sacrificare il mio tempo”, “in un certo senso mi sento affezionato\a a questa azienda”, “sono fiero\a di lavorare per questa organizzazione”, “sento che la mia azienda dà valore al mio lavoro ed alle mie capacità”.

Poiché si è detto che la qualità dell’ambiente fisico sarebbe in grado di influenzare anche il tempo di permanenza dei lavoratori all’interno dell’organizzazione (Chandrasekar, 2011), allora abbiamo voluto inserire altri 4 item, focalizzati essenzialmente su quella che potremmo definire la prospettiva futura dei lavoratori rispetto alla loro volontà di rimanere all’interno dell’organizzazione: “resto in questa organizzazione perché non ho altra scelta”, “se penso al mio futuro lo vedo all’interno di questa azienda”, “desidero continuare a lavorare per questa organizzazione”, “se mi capitasse una buona occasione non esiterei a lasciare l’azienda per cui sto attualmente lavorando”. Gli item fanno riferimento sia ad una componente più “affettiva” relativa al desiderio di rimanervi, sia ad una componente più “razionale” circa i propri progetti per il futuro.

Infine, per misurare il grado di identificazione dei partecipanti con la propria organizzazione, costrutto anch’esso strettamente collegato al concetto di commitment organizzativo, abbiamo utilizzato la versione italiana del “Six items measure of organizational identification” di Mael e Ashforth (1992). In questo caso, la scala Likert è comunque di 5 punti ma, a differenza degli altri item del nostro questionario, 1 corrisponde a “molto d’accordo” e 5 a “molto in disaccordo”. La scala è composta da 6 item: “quando qualcuno muove delle critiche all’organizzazione per la quale lavoro, mi sento insultato sul piano personale”, “sono molto interessato a ciò che gli altri pensano dell’organizzazione per la quale lavoro”, “quando parlo dell’organizzazione per la quale lavoro generalmente dico «noi» piuttosto che «loro»”, “i successi dell’organizzazione per la quale lavoro sono i miei successi”, “quando qualcuno elogia l’organizzazione per la quale lavoro, mi sento come se facessero un complimento a me”, “se i mass media dovessero criticare l’organizzazione per la quale lavoro mi sentirei in imbarazzo”.

 


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli


 

La personalizzazione dello spazio:gli item

La personalizzazione dello spazio: gli item

 

Per quanto riguarda la personalizzazione dello spazio, abbiamo utilizzato diversi item. Prima di tutto ci siamo ispirati alle ricerche di  Noorian (2009), Wells (2000) e Wells e Thelen (2007) ed abbiamo quindi proposto un elenco di possibili elementi da utilizzare per personalizzare il proprio spazio, oltre a quelli presenti per motivi pratici. Abbiamo chiesto perciò di indicare, tra quelli in elenco, quali oggetti erano presenti nello spazio di lavoro di ciascuno dei partecipanti. L’elenco include: foto di familiari e amici, foto di colleghi, quadro\i, poster, souvenir, cartoline, telefono fisso, orologio\i, scaffale\i, libreria, libri professionali, libri di lettura, radio, cuffiette per ascoltare la musica, materiale di cancelleria, piante artificiali, piante naturali, macchinetta per tè\caffè, caramelle\cioccolatini, certificati e qualifiche, premi e riconoscimenti, materiali associati ad hobby personali, pc, stampante e\o scanner, fotocopiatrice ed altri eventuali oggetti da indicare.

Per approfondire il grado di controllo dei partecipanti sull’ambiente ci siamo ispirati invece agli item utilizzati da Lee e Brand (2010) per misurare il controllo sullo spazio di lavoro. Anche in questo caso abbiamo presentato un elenco di azioni con possibilità di scegliere più opzioni di risposta. Le azioni elencate sono: aprire/chiudere la finestra, regolare la temperatura, regolare la seduta, cambiare sedia, regolare l’illuminazione della stanza e/o del piano di lavoro, distribuire il materiale di lavoro come desidero.

Inoltre, abbiamo voluto arricchire il nostro questionario sviluppando degli item che misurassero il grado in cui i partecipanti percepiscono di aver personalizzato il proprio spazio di lavoro e quanto è importante per loro sia avere la possibilità di personalizzarlo che avere controllo su di esso. In questo caso abbiamo formulato 6 item sotto forma di scala Likert a 5 punti (da 1 “fortemente in disaccordo” a 5 “assolutamente d’accordo”). Nella figura 7 riportiamo un esempio di item, a seguire l’elenco completo: “sento mia la postazione in cui lavoro”, “ho organizzato la postazione in cui lavoro in modo che mi rappresenti”, “lo spazio in cui lavoro risulta piuttosto anonimo”, “ho modificato la postazione in cui lavoro per renderla più adatta a me”, “è importante per il miglior svolgimento del mio lavoro la possibilità di aprire la finestra per cambiare aria, di regolare la temperatura e l’illuminazione della stanza”, “la possibilità di portare oggetti personali come foto, gadget o piante nel luogo in cui lavoro mi fa sentire più a mio agio durante lo svolgimento delle attività lavorative”.

 

Figura 7. Esempio di item sul grado di personalizzazione

 

Infine, abbiamo voluto indagare le motivazioni che hanno spinto il nostro campione a personalizzare il proprio spazio, per fare ciò ci siamo ispirati agli item utilizzati da Noorian (2009) e da Wells (2000). Nel nostro caso, abbiamo scelto di nuovo una scala Likert a 5 punti  (da 1 “fortemente in disaccordo” a 5 “assolutamente d’accordo”): mentre in Noorian (2009) i partecipanti potevano selezionare le opzioni che si addicevano più a loro, noi abbiamo preferito che quantificassero il loro grado di accordo con ciascuna affermazione. Rispetto alle motivazioni proposte dalle autrici ne abbiamo aggiunta una in più riguardante l’atmosfera familiare. Di seguito i 7 item: “per comunicare agli altri la mia identità ed individualità”, “per mostrare che quella postazione appartiene a me”, “per comunicare il mio status all’interno dell’organizzazione”, “per motivi estetici”, “per regolare le interazioni con gli altri”, “per ricreare un’atmosfera familiare”, “per rispondere a necessità pratiche di lavoro”.

 


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli


 

La qualità dell’ambiente di lavoro

La qualità dell’ambiente di lavoro

 

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Per esaminare la qualità dell’ambiente di lavoro abbiamo formulato 11 item con scala Likert da 1 (“fortemente in disaccordo”) a 5 (“assolutamente d’accordo”) riguardanti i vari aspetti che sono emersi in letteratura come maggiormente in grado di influenzare la soddisfazione per l’ambiente di lavoro dal punto di vista fisico, come temperatura, illuminazione, ventilazione, rumorosità (Baroni, 2012; Kamarulzaman et al., 2011; Raffaello e Maass, 2002; Samani, 2015). Gli item sono: “trovo confortevole la postazione in cui lavoro”, “lo spazio in cui lavoro è pulito”, “gli strumenti con cui lavoro (es. pc, mouse, software etc,) sono efficienti”, “lo spazio a mia disposizione è sufficiente a disporre il materiale di lavoro in maniera ordinata”, “la mia sedia è ergonomica”, “tra me e i miei colleghi c’è uno spazio adeguato”, “lo spazio in cui lavoro è ben illuminato”, “nel luogo in cui lavoro mi capita spesso durante l’anno di sentire o troppo caldo o troppo freddo”, “l’ambiente in cui lavoro è spesso caotico e rumoroso”, “nel luogo in cui lavoro spesso si respira aria viziata”, “l’ambiente in cui lavoro è solitamente silenzioso e favorisce la concentrazione”. Per gli item riguardanti la pulizia, l’efficienza degli strumenti, lo spazio a disposizione, l’ergonomia della sedia e lo spazio tra i colleghi ci siamo ispirati alla “The Physical Working Environment Measures” sviluppata da Sprigg e colleghi (2003) ed utilizzata nella ricerca di McGuire e McLaren (2009) per misurare la qualità dell’ambiente fisico di lavoro.

Per approfondire questo aspetto abbiamo utilizzato anche altri 6 item nella forma del differenziale semantico a 5 punti (Figura 5), chiedendo di indicare per ciascuna coppia di aggettivi il più adeguato a descrivere il proprio ambiente di lavoro. Le coppie di aggettivi sono: freddo/caldo, cattivo/buono, stressante/rilassante, inospitale/accogliente, scomodo/comodo, disagevole/confortevole.

 

 

Figura 5. Esempio di item tratto dal differenziale semantico sull’ambiente di lavoro

Infine, abbiamo chiesto ai partecipanti di indicare eventuali fastidi associati allo svolgimento delle attività lavorative (Figura 6). In questo caso potevano indicare più di una risposta.

 

 

Figura 6. Item sulla percezione di fastidi durante il lavoro

 

 


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli


 

Personalizzare lo spazio lavorativo: lo strumento

Personalizzare lo spazio lavorativo: lo strumento

 

 

Nella prima parte del questionario, per avere una visione più ampia possibile dell’ambiente lavorativo dei nostri partecipanti, abbiamo cercato di indagare diversi aspetti relativi alla posizione del luogo di lavoro: quanto tempo impiegano per andare al lavoro, con quale mezzo si recano al lavoro, in quale area urbana è collocato il luogo di lavoro, cosa vedono fuori dalla finestra, il tipo di ufficio in cui lavorano, la presenza o meno di luce naturale, la presenza di macchinette per cibo e bevande ed infine la presenza di spazi verdi.

Le domande riguardanti la luce naturale, il paesaggio su cui si affacciano le finestre e la presenza di spazi verdi sono motivate dai risultati ottenuti dalle ricerche prima esaminate, in cui è stata ribadita l’importanza di tali elementi (An et al., 2016; Baroni, 2012; Boubekri et al., 2014; Kaplan, 1995; Largo-Wight et al., 2011).

Lo stesso vale per la domanda circa il tipo di ufficio, abbiamo infatti visto che negli open office vengono riscontrati aspetti positivi relativi alle opportunità di fare amicizia, ma anche negativi per quanto riguarda la privacy e la rumorosità; avere un proprio ufficio sembra invece essere associato ad una maggiore tendenza a personalizzare, perciò ci interessava capire come si distribuisce il nostro campione al riguardo (Kamarulzaman et al., 2011; Noorian, 2009; Oldham e Rotchford, 1983; Samani, 2015). Nella figura 4 riportiamo un esempio di item – a scelta multipla – tratto direttamente dal questionario.

 

                                            Figura 4. Esempio di item del questionario

 

 

Dopodiché abbiamo formulato degli item specifici per l’area urbana utilizzando la scala Likert da 1 (“fortemente in disaccordo”) a 5 (“assolutamente d’accordo”). Gli item sono: “l’area urbana in cui è situata l’azienda in cui lavoro è spesso caotica e rumorosa”; “l’area urbana in cui lavoro è piuttosto degradata”; “l’area urbana in cui si trova l’azienda per cui lavoro è tranquilla ed in buone condizioni”.

 

 


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli


 

Personalizzare lo spazio lavorativo: il metodo

Personalizzare lo spazio lavorativo: il metodo

 

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Per raccogliere i dati abbiamo costruito un questionario che andasse ad indagare tutti gli aspetti di nostro interesse, per fare ciò ci siamo ispirati ai vari strumenti utilizzati dai ricercatori negli studi che abbiamo esaminato, cercando poi di adattarli alle nostre esigenze così da sviluppare uno questionario “nuovo” ma che fosse comunque ancorato alla ricerca finora svolta.

Solo nel caso dell’identificazione con l’organizzazione è stato utilizzato un questionario già esistente, più esattamente la versione italiana del “Six items measure of organizational identification” di Mael e Ashfort (1992).

Il questionario è stato costruito utilizzando Google Moduli ed è stato somministrato online, garantendo l’anonimato di ciascun partecipante.

Nella maggior parte dei casi il questionario è stato inviato tramite  e-mail. Siccome inizialmente ci sarebbe piaciuto poter analizzare le differenze rispetto alla cultura, è stato predisposto un questionario in lingua inglese, perfettamente identico alla versione italiana, anche nell’ordine degli item; purtroppo però il numero dei partecipanti di cultura diversa da quella italiana è risultato troppo ristretto per poter operare un confronto significativo.

A seguire illustriamo il questionario nel dettaglio.

 

 


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli


 

Personalizzare lo spazio lavorativo: la nostra ricerca

Personalizzare lo spazio lavorativo: la nostra ricerca

 

Nel nostro percorso di analisi della letteratura abbiamo cercato di fornire una visione completa di quelli che sono gli studi riguardanti la psicologia ambientale applicata all’ambiente lavorativo, dedicando particolare interesse all’aspetto della personalizzazione del proprio spazio di lavoro.

Nella nostra ricerca abbiamo cercato, allo stesso modo, di analizzare le condizioni di lavoro del campione che abbiamo raccolto relativamente all’ambiente fisico, andando ad osservare diversi aspetti che ci sono sembrati interessanti da approfondire alla luce dei risultati finora ottenuti dalla ricerca scientifica.

Abbiamo percio? cercato di ottenere una fotografia quanto piu? completa possibile dell’ambiente di lavoro dei nostri partecipanti, per fare cio? abbiamo considerato sia la posizione geografica del luogo di lavoro sia la qualita? dello spazio interno, abbiamo poi indagato la tendenza alla personalizzazione dello spazio e le varie motivazioni riportate, il commitment organizzativo e la prospettiva futura circa la permanenza nell’organizzazione, le relazioni interpersonali, l’autonomia ed il carico di lavoro, l’identificazione con l’organizzazione e la soddisfazione rispetto all’ambiente fisico, al lavoro ed alla vita in generale.

Nei prossimi articoli affronteremo piu? nello specifico ciascuno degli aspetti appena citati. Non siamo partiti dalla formulazione di ipotesi specifiche ma abbiamo preferito fornire una descrizione di questi fenomeni confrontando i risultati ottenuti nel nostro campione con i dati finora emersi nella ricerca.

L’obiettivo e? dunque quello di verificare quanto i dati emersi dal nostro campione siano in linea con i risultati finora ottenuti nella letteratura presentata, nella speranza di rafforzare l’idea che la possibilita? di personalizzare il proprio spazio di lavoro porti vantaggi significativi a livello di benessere e soddisfazione dei lavoratori.

Percio? ci aspettiamo ad esempio che la personalizzazione dello spazio di lavoro sia positivamente correlata con il commitment organizzativo, con la volonta? di rimanere all’interno dell’organizzazione, con le relazioni interpersonali, con l’identificazione con l’organizzazione e con la soddisfazione vita-lavoro; lo stesso dicasi per la qualita? dell’ambiente di lavoro, anche in questo caso ci aspettiamo relazioni positive con le altre variabili considerate. Sulla base dei risultati di Noorian (2009) e Wells (2000) ci aspettiamo inoltre che vi siano delle differenze di genere rispetto alla personalizzazione dello spazio.

 


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli


 

Soddisfazione lavorativa: quanto sei soddisfatto

Quanto sei soddisfatto?

 

 

Vi sono diverse definizioni che riguardano la soddisfazione lavorativa, secondo Locke essa sarebbe il risultato della percezione dell’utilità del lavoro per la realizzazione dei propri valori, secondo Schneider invece sarebbe un atteggiamento nei confronti di particolari risultati e situazioni riguardanti il lavoro (in De Carlo et al., 2013). Riguardo i suoi antecedenti ci sono diverse teorie: le teorie situazionali ritengono che derivi essenzialmente da elementi propri del contesto di lavoro e del lavoro stesso; quelle disposizionali  ne attribuiscono l’origine alle caratteristiche di personalità;  le teorie interazionali infine – le più accreditate – ritengono che derivi dall’interazione tra stimoli ambientali e disposizioni personali.

Tipicamente, la soddisfazione lavorativa si considera composta da cinque dimensioni: la retribuzione, la possibilità di fare carriera, le relazioni con i colleghi,  la supervisione dei superiori e i contenuti della mansione.

In effetti, anche nello studio di Lee e Brand (2005) – che già abbiamo incontrato – i dati erano a supporto di una relazione positiva tra la percezione di coesione di gruppo e la soddisfazione lavorativa. Alle dimensioni sopra citate Locke aggiunge: i riconoscimenti, le condizioni di lavoro ed il management (in De Carlo et al., 2013).

Negli studi presentati finora abbiamo visto quanto questo costrutto sia influenzato sia dalla qualità dell’ambiente fisico di lavoro sia dalla percezione di controllo su di esso e della possibilità di personalizzarlo, abbiamo inoltre visto una relazione diretta tra la soddisfazione per l’ambiente fisico di lavoro e la soddisfazione lavorativa (Kamarulzaman et al., 2011; Samani, 2015; Wells, 2000).

Come riportato da Samani (2015), con soddisfazione per l’ambiente fisico di lavoro si fa riferimento al livello di soddisfazione o felicità degli utenti per il luogo di lavoro dal punto di vista fisico. Come già abbiamo visto, tra gli elementi in grado di influenzarla vi sono: l’illuminazione, il livello di privacy, la rumorosità, la temperatura, la qualità dell’aria, la percezione di controllo sullo spazio e la possibilità di personalizzarlo (Baroni, 2012; Lee e Brand, 2005, Noorian, 2009).

Ovvio poi che ciascun individuo possa avere delle preferenze personali al riguardo, che possono dipendere anche dal tipo di lavoro svolto, ad esempio sembra che i manager abbiano bisogno di maggiore privacy, ed anche i ricercatori sembra che preferiscano lavorare in luoghi più silenziosi rispetto a lavoratori abituati a lavorare in team (Noorian, 2009).

In effetti l’ambiente fisico è uno dei principali aspetti a cui dovrebbe porre attenzione un’organizzazione che miri all’aumento dell’efficacia dei propri impiegati. Questo tipo di soddisfazione  sembra infatti essere associata a migliori performance e risultati lavorativi, minore turnover e umore più positivo (Kamarulzaman et al., 2011; Lee & Brand, 2005; Samani, 2015).

Un aspetto interessante riguardo l’umore è emerso dalla ricerca di An e colleghi (2016), dove si è visto che la relazione tra l’esposizione ad elementi naturali e la soddisfazione lavorativa è mediata dall’umore depresso; altri studi supportano l’ipotesi secondo cui sarebbe l’insoddisfazione lavorativa a favorire lo sviluppo di umore depresso (in An et al., 2016). In ogni caso ci sembra chiaro che la soddisfazione lavorativa giochi un ruolo importante per il nostro benessere. Anche nella letteratura analizzata da Wells (2000) viene ribadito infatti che la soddisfazione lavorativa è negativamente correlata con depressione, ansia e sentimenti di inadeguatezza e positivamente correlata con la salute fisica, tanto da essere, come già evidenziato, il principale indicatore dell’aspettativa di vita.

Vi sono a tale proposito diversi studi che hanno indagato la relazione tra la soddisfazione lavorativa e la soddisfazione per la propria vita più in generale, tra questi vi è la ricerca di Judge e Watanabe (1993) da cui è emersa una relazione significativa e reciproca tra i due costrutti, stesso risultato è stato ottenuto anche da Adams, King e King (1996). Un ruolo importante in questa relazione sembra essere ricoperto dalle cosiddette “core evaluations”, ovvero quelle conclusioni fondamentali e subconscie a cui gli individui giungono su se stessi, gli altri e il mondo. Più esattamente, gli autori si sono concentrati nell’analisi delle “core self-evaluations”, un concetto che comprende l’autostima, la percezione di self-efficacy, il locus of control ed il nonneuroticism (il neuroticism rappresenta il polo opposto dell’autostima e si caratterizza per la tendenza ad essere timidi, insicuri, colpevoli); esse risultano essere direttamente collegate sia alla soddisfazione lavorativa che alla soddisfazione per la vita in generale.

Ciò significa che il modo in cui le persone vedono  se stesse e il mondo che le circonda influenza il loro modo di fare esperienza sia del lavoro che della vita; le core self-evaluations sono la base per le valutazioni specifiche che si realizzano nelle varie situazioni, di conseguenza più positive sono queste  valutazioni tanto più gli individui risultano soddisfatti del proprio lavoro e della propria vita. Questo meccanismo si spiega anche con il fatto che le autovalutazioni di base (core self-evaluations) influenzano anche il modo in cui gli individui percepiscono gli attributi del loro lavoro (e.g. autonomia, significato del compito etc), attributi che, a loro volta, influenzano come essi valutano il lavoro. Ciò suggerisce che, quando le persone giudicano gli attributi del lavoro che svolgono, la loro prospettiva non è solamente esterna, ma anche, come minimo implicitamente, interna (Judge, Locke, Durham, e Kluger, 1998).

 


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli


 

Relazioni interpersonali in ufficio

Relazioni interpersonali in ufficio

 

 

Come abbiamo visto precedentemente, uno degli aspetti positivi degli uffici open-plan è proprio quello di accrescere le opportunità di fare amicizia con i colleghi e di avere maggiori feedback dai superiori, anche se, dall’altro lato, vi è il rischio di percepire un senso di invasione del proprio spazio e perdita del senso di privacy, con ripercussioni negative sulla soddisfazione per l’ambiente fisico di lavoro. Avere delle relazioni positive con colleghi e superiori è infatti un aspetto molto importante per il benessere e la soddisfazione dei lavoratori. Cattive relazione interpersonali hanno un’ influenza negativa sulla soddisfazione lavorativa ed anche sulla valutazione dell’ufficio in cui queste relazioni vengono intrattenute, la soddisfazione lavorativa e per l’ambiente sociale risentono infatti della presenza di conflitti interpersonali, delle opportunità di fare amicizia e di ricevere feedback dai superiori (Oldham & Rotchford, 1983). L’ambiente fisico d’altronde è in grado di influenzare le relazioni interpersonali in vari modi, per esempio controllando l’accessibilità all’interazione sia visiva che uditiva tramite la distanza che si frappone tra gli individui, oppure attraverso la presenza o meno di barriere; il design dell’ufficio permetterebbe così di regolare il livello di privacy fornendo la possibilità di definire i confini individuali e di personalizzare il proprio spazio (Noorian, 2009). Ci chiediamo allora che relazione vi può essere tra la personalizzazione e il controllo sul proprio spazio e le relazione interpersonali. Dagli studi sulla territorialità, ad esempio, è emerso come quest’ultima favorisca il senso di coesione e riduca il desiderio di ritirarsi dalla comunità. Per approfondire il discorso è bene sottolineare di nuovo la distinzione tra il senso di proprietà psicologica ed i comportamenti territoriali, mentre il primo è intrinseco e quindi non evidente agli altri, i comportamenti territoriali potrebbero infastidire le altre persone, che potrebbero pensare che questi comportamenti siano motivati dal desiderio di avere controllo sulle risorse (Brown & Zhu, 2016). In effetti, la ricerca di Brown e Zhu ha rivelato un’associazione negativa tra i comportamenti territoriali e le percezioni dei colleghi circa la performance dell’individuo in questione, lo stesso vale per i comportamenti di difesa anticipatoria (anticipatory defending) – chiudere la porta, utilizzare chiavi e password per impedire l’accesso ad altri al proprio spazio – in quanto verrebbero percepiti dai colleghi come modalità di controllo derivate dalla mancanza di potere all’interno dell’organizzazione. La stessa associazione non si realizza invece per la percezione di proprietà individuale, essa infatti non sembra indurre percezioni negative nei confronti del soggetto da parte degli altri lavoratori, proprio perché si tratta di un’esperienza intima.

Risultati diversi erano stati invece trovati, qualche anno prima, da Oldham e Rotchford (1983), sebbene i dati riguardanti le esperienze ambientali e l’uso di marcatori spaziali non fossero troppo chiari, era emersa una relazione positiva tra le esperienze interpersonali (feedback dei supervisori e opportunità di fare amicizia) e la tendenza a marcare il proprio spazio ed a trascorrere la pausa all’interno dell’ufficio. In linea con questi risultati, Lee e Brand (2005) hanno dimostrato la presenza di una relazione positiva tra la percezione di controllo sullo spazio fisico di lavoro e la percezione di coesione di gruppo, a sua volta positivamente correlata con la soddisfazione lavorativa.

Questi dati supportano dunque l’idea secondo cui un uso flessibile dello spazio possa favorire la comunicazione, e suggeriscono inoltre che fornire ai lavoratori controllo sul proprio spazio di lavoro permetta di rispondere ai bisogni di flessibilità, sia a livello individuale che di gruppo, contribuendo così alla coesione di gruppo. Anche i risultati ottenuti da Berndt (2000) sono in linea con questa teoria, mostrano infatti come, dopo aver seguito un programma di formazione sull’ergonomia, i lavoratori percepiscano di avere maggiore controllo sull’ambiente, che a sua volta supporterebbe meglio gli scambi comunicativi.

Il fatto che vi siano risultati controversi in letteratura potrebbe essere dovuto, tra le altre cose, al fatto che ogni studio ha seguito un focus diverso e perciò non in tutte le ricerche si è tenuto conto della distinzione tra percezione individuale di proprietà e comportamenti territoriali come è stato fatto nella recente ricerca di Brown e Zhu (2016). Nel loro studio gli autori si sono infatti concentrati sui concetti di territorialità e proprietà, mentre nella ricerca di Lee e Brand (2005) si parla piuttosto di percezioni di controllo sullo spazio, inteso come sensazioni di poter intervenire e modificare l’ambiente fisico, ma non si fa riferimento né al concetto di territorialità né alla distinzione affrontata da Brown e Zhu.

 Vogliamo inoltre approfondire il discorso considerando un’altra variabile influente la percezione dello spazio, ovvero la cultura. Secondo Hall (1966), a livello microculturale, l’organizzazione dello spazio nelle attività individuali e di gruppo ha tre dimensioni fondamentali:

  1. fixed-featured space”: lo spazio è organizzato secondo il piano della cultura, un buon esempio che illustra questo tipo di organizzazione è nel layout delle città e nella progettazione degli edifici, ma si riflette anche sullo spazio interno.
  2. “Semi-fixed feature space”: è il modo di arrangiare lo spazio in base allo scopo e alle esigenze degli utenti, può influenzare le comunicazioni e può aiutare a mantenere le persone separate l’una dall’altra (“sociofugal”) o oppure ad unirle (“sociopetal”). In questo modo, divisori come mobili, schermi e partizioni fisse possono essere utilizzate come elementi per dividere spazio.
  3. Informal space”: è la distanza di conservazione tra le persone.

L’entità di tale distanza dipende dal livello di confidenza tra gli individui e dai sentimenti provati nei confronti dell’altra persona al momento della comunicazione. Le distanze utilizzate sono influenzate dal background culturale e dalle emozioni.

Questa distinzione ci suggerisce che il discorso riguardo la percezione dello spazio e le relazioni interpersonali non dovrebbe tralasciare di considerare le differenze culturali, è noto infatti che culture come quelle giapponese e tedesca preferiscano mantenere una maggiore distanza  tra gli individui rispetto ad altre culture, come quella araba per esempio. Come abbiamo già visto, percepire che un individuo si trova eccessivamente vicino a noi può portare a sensazioni di disagio che potrebbero scoraggiare un’interazione positiva.

Per concludere il discorso sulle relazioni interpersonali vogliamo introdurre il costrutto della cultura organizzativa, in quanto essa gioca un ruolo importante nell’influenzare la qualità di tali relazioni. Come sostengono De Carlo e colleghi (2013) si tratta di un costrutto piuttosto recente, su cui ci si è concentrati dopo il cambiamento di prospettiva dei manager aziendali, i quali si sono recentemente resi conto che essa rappresenta un fattore decisivo per l’efficacia organizzativa.

La cultura organizzativa può essere considerata come l’insieme dei modelli di comportamento e degli schemi di significato che tengono unita l’organizzazione, definendo le modalità con cui si comunica, ci si relaziona, si lavora. Rappresenta dunque un insieme di valori, norme e significati condivisi che caratterizzano l’organizzazione stessa, sembra agire come una forma di controllo sociale operante a livello emotivo, per questo influenza molto l’esperienza lavorativa dell’individuo; favorisce inoltre l’identificazione con l’organizzazione e l’impegno organizzativo attraverso il senso di appartenenza al gruppo.

L’importante ruolo giocato da questo costrutto si ripercuote anche a livello della personalizzazione dello spazio, nello studio di  Wells e colleghi (2007) risulta infatti che la cultura organizzativa è in grado di predire la politica e le norme sulla personalizzazione, ad esempio le organizzazioni con clan cultures permettevano più personalizzazione rispetto alle organizzazioni con nonclan cultures. Le clan cultures si caratterizzano per il clima familiare che si respira nel luogo di lavoro, i rapporti sono amichevoli, improntati alla fedeltà e all’impegno, i leader sono come genitori e tutta l’organizzazione è come una grande famiglia. Altri tipi di culture – secondo il modello di Cameron e Quinn – sono ad esempio: adhocracy culture, dove l’organizzazione è percepita come un’entità dinamica, creativa e imprenditoriale, orientata all’innovazione; hierarchy culture, in questo caso l’organizzazione è molto strutturata e formalizzata, basata sul rispetto delle procedure e delle regole; e market culture, caratterizzata da orientamento al successo ed al risultato (in De Carlo et al., 2013). Altro fenomeno osservato nella ricerca di Wells e colleghi è che, nelle compagnie più permissive rispetto alla personalizzazione, il lavoratori effettivamente personalizzavano di più il loro spazio rispetto ad aziende meno permissive, questo ci suggerisce che, potendo scegliere, i lavoratori preferiscono lavorare in uno spazio cucito su di loro piuttosto che standardizzato. Come era stato previsto dagli autori, la ricerca ha confermato una relazione indiretta tra cultura organizzativa e personalizzazione: la cultura organizzativa sarebbe in grado di predire le politiche e le norme di personalizzazione, che, a loro volta, predirebbero quanto effettivamente gli impiegati hanno personalizzato il proprio spazio.

 

 


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli


 

Ricerca Utilizzo di Internet: Conclusioni

Limiti

Foto di 377053 da Pixabay

Nonostante il seguente lavoro di ricerca sia piuttosto eterogeneo considerato che tratta aspetti diversificati dell’utilizzo di Internet, dall’ambivalenza uso funzionale-disfunzionale, passando per i fattori personali che mediano l’approccio con gli strumenti della Rete per concludere con la definizione della differenza tra uno problematico e dipendenza presenta lo stesso dei limiti. Il più evidente è senza dubbio l’impossibilità di analizzare la dipendenza da Internet nel campione di ricerca in conseguenza della mancanza di una scala ad hoc nello strumento di misura. Gli item del questionario, secondo la scala di misura di Caplan (2010), sono costruiti per rivelare l’uso problematico e nel software SPSS con cui si sono svolte le analisi statistiche è assente la variabile “Dipendenza da Internet”. Parallelamente a ciò è assente anche una scala di misura ad hoc per valutare il capitale sociale, uno dei costrutti più interessanti dell’intero studio. Abbiamo ovviato analizzando la variabile supporto sociale online, considerato che il capitale sociale permette di ricevere sostegno sociale sia riguardo alla raccolta di informazione che alla percezione di supporto emotivo. Un ultimo limite può essere quello di non aver valutato statisticamente quanto e in che modo l’utilizzo di Internet condiziona la performance lavorativa o didattica fornendo magari anche dati quantitativi in merito. Questo sarebbe stato un aspetto concreto molto interessante da valutare considerata l’importanza che ricoprono il percorso universitario e quello lavorativo durante l’emerging adulthood.

 

Conclusioni

Lo studio di ricerca si è focalizzato su una precisa fascia d’età, l’emerging adulthood in cui gli individui devono affrontare continue sfide di sviluppo per giungere alla costruzione di una nuova identità. In questo senso Internet può costituire un utile organo funzionale o essere sfruttato in maniera disfunzionale conducendo l’utente verso un PIU o in casi estremi ad una vera e propria dipendenza da Internet. La ricerca ha individuato alcuni fattori che mediano l’utilizzo di Internet da parte degli emerging adults. La disposizione delle ipotesi ha seguito un ordine logico per delineare gradualmente il processo che porta le persone a fare un uso problematico della Rete. I risultati dimostrano che un basso supporto sociale sperimentato nella vita offline porta gli individui a cercare di colmare questa mancanza attraverso il supporto sociale online. Questo aspetto produce benessere per l’utente il quale però deve fare attenzione ai rischi che comporta. E’ stato, infatti, dimostrato che il supporto sociale online predice positivamente lo sviluppo di PIU. Parallelamente la ricerca conferma la correlazione dell’uso problematico di Internet con altri due fattori, quali il preferire interazioni online piuttosto che quelle faccia a faccia e la mindfulness. L’individuo ricevendo online il supporto sociale di cui ha bisogno attraverso i SNS, Facebook nello specifico, può aumentare progressivamente l’utilizzo di Internet arrivando al punto di preferire gli scambi conversazionali online. Questo avviene quando il l’utente è in possesso di un basso livello di mindfulness, in base al quale non riesce a regolare adeguatamente il proprio comportamento online sviluppando un uso problematico di Internet. Allo stesso tempo è stata rilevata una correlazione positiva tra frequente utilizzo di Facebook e bassa autostima. Gli individui cercano di compensare online una povera immagine sciale offline. Il disegno di ricerca non si è focalizzato interamente sulla sfera negativa dell’Utilizzo di Internet ma si è cercato di dimostrare che l’utilizzo dei SNS, Facebook nello specifico, predice direttamente lo sviluppo del capitale sociale e i risultati hanno confermato l’ipotesi. In questo senso l’individuo attraverso le piattaforme di Social Networking riesce sia a raccogliere informazioni importanti per risolvere situazioni critiche che a ricevere supporto emotivo. Vieni, quindi, posta attenzione all’ambivalenza degli strumenti della Rete che se utilizzati in modo funzionale possono offrire risorse importanti per aiutare gli emerging adults nel loro percorso di ricerca di identità. Questo studio deve fornire uno stimolo a riporre sempre maggiore attenzione ad una fascia d’età che presenta grandi difficoltà al suo interno. Secondariamente riguardo alla parte disfunzionale dell’utilizzo di Internet bisognerà costruire una scala ad hoc e validata in diversi paesi per valutare la dipendenza da Internet e i suoi effetti sulla vita delle persone sempre ben consapevoli della differenza rispetto all’uso problematico (PIU).

         

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© Emerging adults ed utilizzo di Internet: organo funzionale o strumentalità inversa? – Andrea Pivetti

 


Ricerca Utilizzo di Internet: Discussione

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Con il presente lavoro di ricerca analizziamo il ruolo che può avere Internet, artefatto culturale della nostra generazione, durante l’emerging adulthood. Internet è davvero in grado di aiutare le persone ad affrontare le delicate e numerose sfide caratteristiche di questo importante periodo di sviluppo? Quali sono i fattori che mediano un utilizzo funzionale o disfunzionale degli strumenti della Rete? Nell’ultimo periodo sulla carta stampata, nei dibattiti televisivi, ma anche nelle opinioni del senso comune, le critiche al Web sono sempre più marcate. I bersagli più colpiti sono i Social Network Sites e i giochi online reputati dalle masse come causa di alienazione personale e impoverimento dei rapporti interpersonali. Attraverso la ricerca cerchiamo di fare chiarezza sulla situazione esplicitando che Internet nasce come uno strumento con lo scopo di facilitare la vita delle persone e in grado di fornire supporto durante un periodo critico come l’emerging adulthood. L’utente consapevole delle proprie azioni avrebbe il dovere di farne un uso funzionale in ragione dei propri scopi anche se questo non sempre si verifica. Lo studio di ricerca analizza quali sono quei fattori che portano l’individuo a fare un utilizzo funzionale o disfunzionale degli strumenti digitali per portare a termine i propri obbiettivi personali. Le ipotesi di ricerca si focalizzano maggiormente sulla sfera negativa dell’utilizzo di Internet coerentemente con l’impronta del lavoro maggiormente spostata sulla parte disfunzionale, per culminare con l’analisi del lato patologico del problema. Le ipotesi sono disposte in sequenza secondo una logica precisa con il fine di trattare l’intero processo dalle origini, analizzando i fattori che regolano l’interazione con la Rete, fino alle manifestazioni comportamentali. Si parte dalle variabili personali che conducono all’uso problematico passando per le potenzialità positive di Internet espresse nel nostro caso attraverso i Social Network Sites, aspetto che conduce l’individuo ad un approccio più o meno frequente con gli strumenti della Rete. Riguardo alla prima ipotesi di ricerca i risultati hanno dimostrato un’influenza diretta della variabile indipendente “basso supporto sociale online” sulla variabile dipendente “supporto sociale online”. Questo sta a significare che le persone che nella vita di tutti i giorni sperimentano un basso supporto sociale da parte di amici o conoscenti ricercheranno online questo aspetto, fondamentale per il loro benessere. È stato, infatti, dimostrato che il supporto sociale rappresenta un utile risorsa psicologica in grado di tamponare il peso degli eventi stressanti (Cohen & Wills, 1985). Tutto questo è reso possibile perché la percezione di supporto sociale può essere “veicolata” attraverso Internet colmando le mancanze della vita offline.

Lo studio a questo proposito rileva una predittività tra l’utilizzo di Facebook e lo sviluppo di capitale sociale. La scelta di Facebook è dovuta in primis al fatto che è il SNS più usato e secondariamente alle sue funzionalità. Attraverso Facebook è possibile entrare in contatto con contenuti o chattare con persone che possono offrire soluzioni o suppporto sociale difronte a situazioni critiche. L’utente attraverso Facebook riesce a confidarsi quando sente l’esigenza di parlare, sia per risolvere problemi personali che solamente per raccogliere informazioni utili. In questo caso si parla di capitale sociale bridging, che attraverso lo sviluppo di legami “deboli” permette di raccogliere informazioni o aprire nuove prospettive (Granovetter, 1982) in un periodo come l’emerging adulthood in cui ci si trova continuamente davanti a cambiamenti e transizioni da superare. Nell’altro caso ci riferiamo al capitale sociale bonding, grazie a cui l’utente riesce a ricevere supporto emotivo da conoscenti con cui si sta consolidando un rapporto o da affetti più cari presenti da sempre nella vita della persona. L’individuo instaura, quindi, conversazioni online con diversi utenti, i quali non sono necessariamente amici. Se gli effetti di queste conversazioni migliorano il benessere percepito la persona aumenterà la frequenza di questi contatti che da sporadici diventeranno abituali. Si nota quindi il potenziale “terapeutico” del supporto sociale online come risorsa psicologica, come proposto da Oh, Ozkaya, & LaRose (2014). L’incremento delle conversazioni online con conoscenti e/o amici porta però con sé dei rischi. L’utente deve essere in grado di regolare gli scambi virtuali non recando alterazioni alle proprie attività ed evitando che esse interferiscano con impegni lavorativi, didattici o sentimentali. Come sottolineato da Caplan (2003) l’utente potrebbe passare ad un utilizzo disfunzionale della Rete sviluppando un uso problematico di Internet (PIU).

Qua nasce la seconda ipotesi di ricerca (H1.1), che attraverso le analisi statistiche effettuate dimostra un’influenza positiva da parte della variabile indipendente “supporto sociale online” sulla variabile indipendente “uso problematico di Internet”. Sono emerse differenze significative riguardo al genere e alla professione e ciò sta a significare che l’effetto è differente per maschi e femmine e per ruoli lavorativi. La ricerca di supporto sociale online, in mancanza di un adeguato supporto sociale offline, può sviluppare nell’utente un uso problematico degli strumenti della Rete con tutte le conseguenze negative ad esso correlate. Numerosi, infatti, come espresso nella revisione della letteratura, sono i risvolti negativi per la vita dell’utente creando problemi nei rapporti di lavoro fino a quelli sentimentali/familiari.

L’individuo nel ricevere supporto sociale online, di fronte ad effetti positivi sperimentati per la propria stabilità interiore può addirittura arrivare a preferire le interazioni online piuttosto che quelle faccia a faccia (Caplan, 2003). H3 indaga proprio questo aspetto e le analisi statistiche dimostrano una correlazione positiva tra la variabile indipendente “preferire interazioni online piuttosto che quelle faccia a faccia” e la variabile dipendente “uso problematico di Internet”. In queste condizioni l’individuo si aliena sempre di più dagli scambi sociali impoverendo le proprie skills interazionali nella vita offline e invertendo quella che dovrebbe essere la normalità dei rapporti interpersonali.

Una correlazione negativa, invece, è emersa tra le variabili di H4 “mindfulness” e “problematic Internet use”. Questo sta a significare che al crescere del valore dell’uso problematico di Internet diminuisce quello della mindfulness. È bene ricordare che al fine di regolare il comportamento non è solo importante averne il controllo, ma è anche necessario essere consapevoli della differenza tra l’azione eseguita e l’azione desiderata o giusta (MacKillop & Anderson 2007). Se l’utente non è pienamente consapevole delle propri azioni online tra quello che è funzionale ai suoi obbiettivi e quello che invece è superfluo non sarà in grado di regolare il proprio comportamento sviluppando contemporaneamente un uso problematico della Rete.

Un altro fattore determinante per l’utilizzo di Internet è l’autostima, motore di ogni attività e di ogni sua realizzazione. H3 indaga il rapporto tra utilizzo dei social network (Facebook, Instagram, LinkedIn) e l’autostima con l’obbiettivo di dimostrare che un frequente utilizzo delle piattaforme Social è accompagnato ad una bassa autostima da parte degli utenti. La scelta di focalizzarsi su questi tre SNS piuttosto che altri è perché nella fascia d’età degli emerging adults, la bassa autostima, in considerazione delle sfide che gli individui si trovano ad affrontare, può essere legata a problemi personali come ad insoddisfazione lavorativa. Gli utenti, quindi, ricercano conforto attraverso i SNS con la speranza o l’illusione che il loro utilizzo possa aiutarli a riequilibrare la considerazione del proprio sé. Come sostenuto da Kuss e Griffith (2011), le persone utilizzano Facebook per cercare di compensare online una povera immagine sociale offline. I Social Network Sites sopra riportati potrebbero ipoteticamente fornire feedback positivi per un miglioramento della valutazione di sé sia sulla sfera personale (Facebook e Instagram) che su quella lavorativa (LinkedIn). Come hanno dimostrato Valkenburg, Peter e Schouten (2006) nel loro studio su un campione di adolescenti, i feedback ricevuti attraverso il Web sotto forma di like, commenti e contatti possono migliorare o impoverire la loro autostima in un delicato periodo come l’emerging adulthood tra continui “alti e bassi”. I risultati non hanno confermato l’esistenza di una correlazione tra uso di Instagram e LinkedIn e bassa autostima cosa che invece si verifica con l’utilizzo di Facebook. Come dimostrato da Vogel et at. (2014) in un interessante lavoro di ricerca un frequente uso di Facebook si accompagna ad una bassa autostima e questo si verifica per un fattore di moderazione. Essi hanno dimostrato che le persone che fanno un uso frequente di Facebook tendono durante la loro attività online ad effettuare confronti “verso l’alto”, ovvero con persone considerate “influenti” che si pensa abbiano determinate caratteristiche positive. Attraverso la consultazione dei loro profili, l’utente crede erroneamente, a maggior ragione se non ha un rapporto diretto con la persona nella vita oflline, che essi abbiano un’esistenza più felice della loro. Come conseguenza diretta, avviene una svalutazione del proprio io o, in altre parole, un impoverimento dell’autostima.


© Emerging adults ed utilizzo di Internet: organo funzionale o strumentalità inversa? – Andrea Pivetti