Selezione e Assessment center
L’analisi a priori: la selezione e l’assessment center
In questo caso, le leve operative proposte, hanno la finalità di analizzare la motivazione che un determinato soggetto ha a priori, ossia prima di iniziare la sua esperienza lavorativa, o di intraprendere una nuova attività o responsabilità. Un’analisi di questo tipo, condotta con tecniche preventive come la selezione e le sedute di assessment (insieme di tecniche basate su colloqui motivazionali e test situazionali), è utile nel momento in cui si voglia fare una previsione sul grado di accettazione dell’attività proposta al soggetto, e sul livello di competenze che “potenzialmente” sarà in grado di mettere in pratica sul campo. Il manager, fin dalla in fase di selezione e di pianificazione della prestazione, gode pertanto di una straordinaria opportunità: quella di stimolare il collaboratore a mettere in campo o modificare (nel caso di una risorsa già operante) certi comportamenti. L’accordo iniziale sulla prestazione è determinante ai fini del risultato, in quanto il collaboratore deve sapere su cosa e come sarà valutato. Il valore attribuito al risultato finale può rappresentare uno degli input motivazionali, che vanno evidenziati in una sorta di “patto iniziale” con se stessi e richiamati nei momenti di caduta della motivazione.
Una volta condivisi gli obiettivi il valutatore deve stimolare e verificare i cambiamenti e miglioramenti nell’anno con interventi di assessment, ma non è raccomandabile arrivare alla fine dell’anno per valutare quei comportamenti. In sede di assessment è importante esplicitare al dipendente qual è il risultato e il vantaggio, in termini di gratificazione, che lo sviluppo della competenza consentirà di conseguire. Secondo differenti indagini aziendali, infatti, sembra che la più comune causa di prestazioni insoddisfacenti da parte dei collaboratori non sia legata alle scarse competenze, o alla scarsa volontà del collaboratore, bensì alla poca chiarezza sugli obiettivi e sulle aspettative che i superiori hanno dai collaboratori stessi. Sempre riferendosi al modello prima esposto della prestazione, la selezione e altri strumenti come l’assessment sono finalizzati a capire anche se, per una data posizione, l’inadeguatezza di un soggetto sia da imputare ad un difetto di capacità o di motivazione. Ciò risponde ad almeno due necessità. In primo luogo orientare la formazione iniziale verso l’elemento che sia risultato carente, qualora tale elemento non sia da considerarsi strategico e per ciò stesso imprescindibile per lo svolgimento della specifica mansione. Inoltre, in questa maniera, è possibile rendere coerenti le valutazioni fatte a posteriori con quelle fatte a priori, così che misurino l’eventuale superamento del gap di quell’aspetto specifico precedentemente misurato. Questo lavoro di ancoraggio tra competenza e risultato atteso (che ricorda le già esposte tecniche di PNL), può emergere dal processo di rilevazione del gap, in un processo che nella prassi viene definito mappatura delle competenze collegate alla performance di eccellenza, attraverso la diagnosi del gap individuale e la predisposizione di un piano di sviluppo, secondo una logica di “performance improvement”. Non bisogna quindi terminare l’intervista di valutazione senza stabilire chiaramente quali sono gli obiettivi di sviluppo per il prossimo periodo, ed il piano di azione per raggiungerli. Le sedute di assessment, costituiscono inoltre una sistematica verifica del grado di apprendimento ed integrazione nell’azienda, due variabili chiavi nel predire il livello di motivazione attuale e prospettico del lavoratore.
Come già anticipato questa fase dovrà concentrarsi su competenze di natura generica, che essendo tali possono adattarsi a qualsiasi attività lavorativa (sistemi di skill evaluation). Fra queste si hanno principalmente le intelligenze cognitive (percezione ambientale, creazione di aspettative, progettazione comportamentale, etc), e le intelligenze emotive , che creano meccanismi di repulsione/attrazione classificando i fenomeni in piacevoli e dispiacevoli, e così via. In accordo con il fine di indagine del presente lavoro, si ritiene utile approfondire le caratteristiche dell’intelligenza emotiva, come dimensione della competenza più strettamente legata alla motivazione. L’intelligenza emotiva è la capacità di riconoscere, capire ed utilizzare con efficacia il potere delle emozioni trasformandolo in energia, empatia, informazione, affidabilità e creatività per arrivare ad un certo risultato. A questo riguardo è doveroso fare alcune precisazioni, che si ritengono importanti da un punto di vista manageriale. Il fatto di vedere soddisfatti i propri bisogni, o viceversa di incontrare degli ostacoli nel perseguire i propri scopi, suscita nel lavoratore delle emozioni. Pur essendo emozione e motivazione due processi fra loro interdipendenti, spesso il manager li confonde. Lo studio della motivazione cerca di spiegare il perché di un comportamento, lo studio dell’emozione descrive la reazione ad un cambiamento. Quindi non sempre un lavoratore che non manifesta in modo evidente una dose di emotività o empatia non ha motivazioni. Avrà delle motivazioni che si esternano con altre modalità. Simmetricamente se un lavoratore non reagisce a degli incentivi, non vuol dire che non è coinvolto o che il lavoro non gli da emozioni, ma può aver bisogno di altri tipi di incentivi, o ha delle motivazioni incoerenti con il tipo di incentivi che gli si sta proponendo per attivare il suo comportamento. Sempre in riferimento alla motivazione ed all’emozione bisogna fare ulterioriormente chiarezza. Tradizionalmente la motivazione viene considerata una “eccitazione organizzata”, ossia un’attività programmata e consciamente orientata alla realizzazione di un determinato scopo . L’emotività, invece, si ritiene a torto essere una forma di “eccitazione disorganizzata”, nel senso che non è funzionale ad un particolare obiettivo. In realtà esistono motivazioni non conosciute o non controllabili e persone che conoscono e controllano perfettamente il proprio stato emotivo. Nel lavoro, l’esperienza delle emozioni positive produce un valore che le organizzazioni devono essere pronte ad apprezzare ed utilizzare, in quanto rappresentano delle vere e proprie energie da incanalare, disporre e armonizzare in vista di mete, budget e obiettivi predefiniti. Fino a poco tempo fa essere emotivo sul lavoro era un segno di debolezza. Oggi le cose stanno cambiando, e le aziende ricercano sempre di più gente creativa, gente che apporti, ossia assertiva, né passiva, né aggressiva. Se prima era visto come un segnale di debolezza, adesso è visto come un segnale di forza. La motivazione, quindi, è una parte delle competenze personali dell’intelligenza emotiva. Le emozioni di un lavoratore, inoltre, accompagnano la sua esperienza cognitiva e anzi svolgono spesso una funzione adattiva, rappresentando, tra l’altro, una fonte propulsiva di altissimo valore. Gli effetti dannosi che talvolta si osservano, vanno più che altro imputati a inefficienze del processo di regolazione emozionale del soggetto. Essere emotivi non vuol dire dare briglia sciolta alle emozioni, vuol dire, invece, avere un’autoconsapevolezza, sapere che cosa si sente e, nel momento in cui si riesce a capire, imbrigliare questa energia e usarla nel migliore dei modi.
Le emozioni poi vengono ancora viste come appartenenti al mondo privato o comunque a quello del “non-lavoro” e la loro manifestazione è ben accetta, purché avvenga altrove rispetto all’ambiente produttivo. L’equilibrio, invece, tra lavoro e vita richiede che s’investa in emozioni per favorire l’apprendimento emotivo e recuperare un’educazione alla gestione delle emozioni. Ci si riferisce in particolare alle emozioni positive come l’entusiasmo, la sorpresa, la gioia, l’affetto, il sentirsi vitali, peculiari della motivazione. Educare alla gestione ed al riconoscimento delle competenze emozionali, significa per l’organizzazione migliorare le sue basi per il conseguimento degli obiettivi di crescita e per favorire la produzione di un benessere soggettivo e collettivo.
Tra gli approcci di nuova generazione nell’analisi della motivazione attraverso le competenze, hanno un grande rilievo i metodi “esperienziali” volti a capire quali elementi si presentano combinati nei casi di successo, raffrontati a quelli che si presentano o non si presentano nei casi di insuccesso. La tecnica utilizzata è un tipo di intervista che richiede di ricostruire e descrivere situazioni di successo e di insuccesso esplicitando ciò che si è fatto e con quali risorse. In quest’area lo strumento più affermato è il behavioral event interview (BEI) o “intervista del comportamento di evento”, realizzato da David McClelland , che fa parte dei più generici Competency Assessment Methods e delle più generiche “tecniche proiettive”, in cui si chiede all’intervistato quale comportamento metterebbe in atto in situazioni e circostanze simili a quelle del ruolo specifico . L’intervista narrativa o le altre tecniche di proiezione simulata del ruolo come il role playing e il business game, si basano sul presupposto che il comportamento umano ha modelli che si ripetono , per cui, attraverso un osservazione a ritroso, cerca di analizzare gli eventi critici nella vita e nella carriera di una persona, al fine di trarre alcuni fattori come gli atteggiamenti, le motivazioni, le intenzioni, l’immagine di sé, rilevabili in una determinata situazione lavorativa. L’idea è che il comportamento attuale, ma soprattutto quello passato, forniscono il migliore modello predittivo di quale sarà il comportamento futuro, a differenza delle normali interviste basate esclusivamente sulla formazione, sull’esperienza e sulle conoscenze, tutte informazioni già rilevabili nel documento curriculare. Quindi non solo quali competenze ha un candidato, ma “come” e “perchè” li mette in pratica. In questa maniera è possibile comprendere quali sono le abilità trasversali che qualificano le competenze tecniche del soggetto, le aree che maggiormente lo motivano, dal momento che hanno portato a risultati di successo e le aree che invece non gli procurano alcuna soddisfazione .
E’ però possibile una verifica a priori della rispondenza del candidato alla posizione, solo nella misura in cui, ancora prima dell’intervista, si è stabilito quali reazioni sarebbero da considerare performanti e quali comportamenti si ritiene che rivelino una forte motivazione al lavoro nei casi specifici che si chiederà di descrivere. Verrà quindi operato un confronto tra il modello teorico previsto e il racconto del candidato. Inoltre la tecnica dell’intervista sul comportamento di evento consente a posteriori di verificare quasi sul campo se, effettivamente, il candidato ha delle forti motivazioni al lavoro che lo spingono a profondere maggiore impegno, qualora gli si presentino situazioni analoghe a quelle che aveva descritto ed in cui ha la possibilità di dimostrare la sua coerenza di fondo. Infatti uno dei problemi maggiori di questo tipo di tecnica è quello delle così dette “vite inventate”. Il fatto cioè che, essendo ormai sempre più diffuso questo tipo di intervista, si corre il rischio che i candidati si preparino delle situazioni ipotetiche ad hoc per ogni tipologia di domanda, simulandole perfettamente durante il racconto, o, quantomeno, esagerando situazioni reali. Ciò succede intanto in conseguenza di un sempre più diffuso utilizzo dei media (soprattutto di internet) per promozionare l’immagine ed i valori aziendali. Questo fa sì che, il potenziale candidato, ha la possibilità di inventare delle situazioni da cui traspare l’idea di candidato ideale per una data società, o comunque, “aggiustando il tiro” di un’esperienza effettivamente avuta, orientandola verso l’idea di un’esperienza di successo, in conformità con le informazioni apprese su internet o con altri mezzi. Inoltre, soprattutto in ambito anglosassone, sia gli uffici di orientamento al lavoro di alcune università come quella di “Law and Economics”, sia le società specializzate in outplacement , allenano il candidato sulle più frequenti caratteristiche ricercate dai datori di lavoro e sulle tipologie di domande che verranno fatte durante l’intervista. Ma c’è di più. Non è infrequente, infatti, trovare dei forum o delle newsletter su internet in cui ex-candidati sottoposti ad intervista, abbiano avuto la pazienza e la bontà di pubblicare le domande che di solito vengono fatte nelle maggiori società come Hewlett-Packard, Nike, Microsoft, Intel, etc., dove vengono fatti centinaia di colloqui al giorno. Sono quindi necessarie delle contromisure per evitare di cadere in tranelli o lasciarsi affascinare da racconti fittizi. In primo luogo la semplice consapevolezza del problema (che non è così diffusa come si può pensare) mette in allerta l’intervistatore nel cercare evidenti segnali di bluff. Ad esempio, il fatto che non faccia neanche un secondo di pausa di riflessione prima di rispondere alla domanda, o che ha uno sguardo sicuro e diretto durante il racconto (quando invece di solito quando si parla pensando al passato si guarda altrove) è un indice del fatto che ha preparato quella domanda . In secondo luogo, per confermare l’autenticità della storia e degli esempi del candidato, gli intervistatori devono scendere nei particolari e richiedere aspetti specifici della storia, esibendo però un tono di curiosità e non da indagatore, cosa che altrimenti potrebbe bloccare il candidato. Un altro modo può essere quello di chiedere non solo cosa ha fatto, ma anche cosa ne pensava di quello che stava facendo, e cosa ne pensa ora a mente fredda. Diverse ricerche, infatti, dimostrano che è difficile per un falsificatore mantenere una coerenza costante fra tutti e tre i livelli di racconto. Inoltre il fatto che abbia preso una posizione di giudizio sia al tempo in cui stava svolgendo l’attività, sia al momento del racconto, indica che l’esperienza è effettivamente avvenuta, poiché ha lasciato un segno, tanto da indurre il soggetto ad una sua revisione critica.
Un’altra tecnica si basa sul principio che i candidati che sostengono di aver avuto dei successi significativi, devono imparare qualcosa dalle loro esperienze. Se può essere facile fabbricare un successo, lo è molto meno inventare esempi di che cosa si è imparato da un successo. Per cui domande tipo “cosa le ha insegnato l’esperienza” o “come applichi quello che hai imparato da allora” possono servire a individuare il candidato simulatore. Per concludere l’intervistatore puòfare alcune domande che richiedono al candidato di dimostrare quello che conosce, in tempo reale, e non evincendolo dalla descrizione delle cose di successo che ha fatto in passato. Alternativamente si può sempre prendere spunto da situazioni già raccontate, ma cambiando alcuni fattori interagenti o le variabili di azione, per vedere se la sua competenza di successo è ancora tale anche “cambiando il finale”. Questo tipo di domande, infatti, devono essere risposte sul momento, e non possono essere preparate .
Il vantaggio principale di questo metodo è la capacità di cogliere gli aspetti delle competenze specifici ad un particolare compito, aspetto importante sia ai fini della formazione e dello sviluppo, sia per ricompensare le capacità e le competenze che hanno particolare valore in quel compito e che non sarebbero rilevanti in un approccio standardizzato, basato su metodologie classiche di intervista uguali per tutti. Uno svantaggio è il carattere statico, orientato al passato e poco evolutivo di un’analisi centrata sulle competenze che hanno mostrato di generare comportamenti efficaci, ma che nulla dice su quali altre combinazioni di competenze sarebbero state possibili e forse più efficaci, né quali altri comportamenti si sarebbero potuti generare con le stesse competenze. Un altro forte svantaggio, come si è detto, è la possibilità di comportamenti opportunistici. L’intervista basata sul comportamento, continua pertanto ad essere uno strumento efficace per selezionare i candidati che devono avere certe competenze e attitudini, tra cui la capacità di automotivarsi e la motivazione verso quella specifica mansione, ma le tecniche su cui si fonda dovranno evolversi, per tenere conto della maggiore preparazione dei candidati e della necessità di rilevare la dinamicità nel riformulare e ricombinare continuamente il proprio asset di competenze, in risposta ad un’elevata competitività. Ancora più complesso il caso in cui si utilizzino test strutturati allo stesso modo. In questi casi, l’appropriatezza della prestazione, come si evince dall’analisi del test, non costituisce un indicatore preciso o scientifico della presenza di motivazione. Come nel caso dell’istruzione programmata, in cui ciascuna conoscenza è distribuita in un piccolo gruppo di domande all’interno di test di verifica dell’apprendimento, se la risposta data dal soggetto è corretta, la medesima ricompensa, sarà attribuita anche a chi ha individuato la risposta giusta per caso, tirando ad indovinare, il che, tra l’altro, può finire per indebolire anche la motivazione estrinseca del candidato. L’ottenimento di quel posto, cioè, non costituisce più una sfida (vedasi la parte teorica in cui si è parlato di automotivazione).
© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo