Lo straining: una sottomissione feroce
Lo straining: una sottomissione feroce
È chiaro che associare al termine mobbing ogni azione vessatoria subita da un lavoratore e agita da parte di un collega o di un superiore è ormai abitudine comune. Chi, anche grossolanamente, si occupa di disagio nelle relazioni in ambito lavorativo, è a conoscenza di questo fenomeno e delle sue forme, attribuendone giustamente connotazioni negative, riferite ovviamente a quanto di più dannoso possa esserci per una persona che opera nel proprio ambiente lavorativo.
Sembra quindi quasi eccessivo ricercare all’interno di questo costrutto sociale un’ulteriore fenomenologia ristretta e diversificata per certi aspetti dal mobbing, pur derivandone conseguenze per il lavoratore vessato.
D’altro canto, affinché sia possibile dare alla vittima di azioni negative palesatesi sul posto di lavoro un’adeguata “etichetta giuridica” che stabilisce quale tipo di reato sta subendo, è necessario distinguere il mobbing in tutte le sue sfaccettature, seppur, superficialmente, sia solo una questione di numeri e di tempistiche.
È questo il caso dello straining, altro termine per definire qualcosa di malevolo che si perpetra nelle sedi lavorative e che può colpire chiunque.
Ege (2001) per primo adotta questo termine al fine di descrivere una situazione simile a quella del mobbing, ma differente per tempi e conseguenze.
Lo studioso definisce lo straining come una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione ostile e stressante, che ha come conseguenza un effetto negativo costante e permanente nell’ambiente lavorativo. Il lavoratore strainizzato è ridotto in uno stato di persistente inferiorità rispetto alla persona che compie l’atto vessatorio, ciò avviene sempre in maniera discriminante.
In sostanza, si parla di straining come di una situazione lavorativa conflittuale in cui la vittima ha subito azioni ostili limitate nel numero e/o distanziate nel tempo (e quindi non rientranti nei parametri del mobbing, in cui non è previsto un limite di azioni e devono accadere per almeno sei mesi); tuttavia tali da provocarle una modificazione negativa costante e permanente della propria condizione lavorativa.
Lo straining è una condizione di profondo disagio lavorativo dovuto a demansionamenti, privazioni degli strumenti di lavoro, isolamento professionale e relazionale e trasferimenti illegittimi.
Pur non essendo mobbizzati, le vittime di queste situazioni presentano ugualmente serie ripercussioni non solo sulla salute in senso stretto, con sintomi psicosomatici anche gravi, spesso sconfinanti nella patologia vera e propria, ma anche a livello di autostima e di qualità di vita in senso lato.
Lo straining in effetti è un fenomeno che potrebbe essere facilmente scambiato per un semplice caso di “stress occupazionale”, se non fosse per il fatto che la vittima di solito lo percepisce come mobbing, data l’alta componente di intenzionalità e di discriminazione.
Il legame tra straining e stress occupazionale è assai forte: in una situazione di straining, l’aggressore sottomette la vittima facendola cadere in una condizione particolare di stress con effetti a lungo termine.
Tale stress può derivare dall”isolamento fisico o relazionale o dalla passività ed indifferenza generale nei confronti della vittima, dalla privazione, dalla riduzione o dall’eccesso del carico lavorativo.
La persona strainizzata può ritrovarsi relegata in una stanza in fondo al corridoio dove nessuno passa o trasferita nella classica filiale remota dove nessuno vorrebbe mai andare; può essere sottoposta ad un eccessivo carico di lavoro o comandata a mansioni superiori per cui non ha preparazione adeguata; può venire deprivata nelle sue mansioni e costretta a incarichi minori ed umilianti, se non addirittura all’inoperosità.
Per rilevare una situazione di straining deve essere presente e attestata almeno un’azione ostile, che abbia una conseguenza duratura e costante a livello lavorativo e un carattere intenzionale e discriminatorio.
La vittima di straining, dunque, deve aver subito almeno un’azione negativa che non si è esaurita, ma che continua a far sentire i suoi effetti a livello lavorativo a lungo termine e in modo costante (per esempio un cambio di mansioni e/o di qualifica, uno spostamento/trasferimento penalizzante, una perdita di chance, la soppressione di un bonus, etc).
La vittima dello straining deve poi essere confinata in una posizione di costante inferiorità rispetto ai suoi aggressori: essa non ha più le stesse capacità e possibilità di azione e di gestione del conflitto rispetto a prima e rispetto ai suoi aggressori e quindi non è più in grado di tutelare i propri diritti.
Infine, per essere inquadrata nello straining, l’azione ostile deve avere carattere intenzionale e discriminatorio, ossia deve essere deliberatamente predisposta ai danni di una certa persona o di un certo gruppo di persone, a cui deve essere riservato un trattamento diverso, in senso negativo, rispetto agli altri.
Lo straining è stato per la prima volta definito anche in sede giurisprudenziale che, dopo aver disposto una consulenza tecnica nominando lo psicologo Ege, ha richiamato i principi distintivi sopra riportati ed ha concluso che per lo straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nei casi di demansionamento o emarginazione grave del lavoratore).
“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia – © Maurizio Casanova