Le conseguenze di deumanizzazione e infraumanizzazione
Le conseguenze di deumanizzazione e infraumanizzazione
Secondo Haslam e Loughnan (2014), le conseguenze della deumanizzazione possono essere suddivise in quattro gruppi:
• la riduzione dei comportamenti pro sociali;
• l’incremento dei comportamenti antisociali;
• gli effetti sul giudizio morale;
• gli aspetti funzionali.
Per quanto concerne la riduzione dei comportamenti prosociali, essa può avvenire sia a livello individuale che collettivo. Vaes et al. (2002) hanno mostrato che le persone rispondono in maniera prosociale a coloro che si descrivono in termini di emozioni secondarie, poiché essi vengono percepiti come “più umani”.
In contrasto, i membri dell’ingroup tendono a discriminare i membri dell’outgroup (non fornendo loro alcun tipo di aiuto) perché li vedono come mancanti di emozioni unicamente umane. A livello collettivo ciò si manifesta con una minore propensione all’aiuto verso coloro che hanno subito atrocità, in quanto la percezione dell’outgroup come meno umano porta ad una minor empatia verso di esso e consente una maggior giustificazione per le loro sofferenze (Zebel, Zimmermann, Viki & Doosje, 2008). Inoltre, sia la deumanizzazione sia l’infraumanizzazione possono agire riducendo il perdono intergruppi: ciò è stato dimostrato in contesti come quello Nord Irlandese (Tam, Hewstone, Cairns, Tausch, Maio & Kenworthy, 2007), dove, in caso di infraumanizzazione, c’è una minore propensione al perdono dell’altro gruppo e, in particolare, eventuali scuse da parte dell’outgroup non vengono accolte se espresse in termini di emozioni secondarie (Haslam & Loughnan, 2014).
Gli effetti più evidenti della deumanizzazione sono sicuramente l’incremento degli atti antisociali, che riguardano soprattutto azioni violente ed aggressive. Ad esempio, ciò è stato rilevato nel bullismo nei bambini, che deumanizzando la propria vittima provano sia meno sensi di colpa precedenti sia meno rimorsi successivi ad un’eventuale aggressione. Anche percepire nemici e criminali come meno umani porta ad altre conseguenze negative, che possono andare da un maggior supporto ad azioni violente, ad una maggiore propensione alla tortura e ad azioni maggiormente punitive: ad esempio, la deumanizzazione dei criminali porta a sentenze dure e punitive indipendentemente dalla gravità del crimine commesso (Bastian, Jetten, Chen, Radke, Harding & Fasoli, 2013).
Come verrà trattato nel dettaglio nel capitolo 3, la deumanizzazione comporta effetti anche sul giudizio morale: in particolare, persone che sono percepite con un basso livello di agency (ovvero la capacità di autocontrollo e pianificazione) vengono giudicate mancanti di responsabilità morale, mentre a quelle con un basso livello di experience (ovvero la capacità di percepire e provare emozioni) vengono negati alcuni diritti umani come quello di essere protetti dalle aggressioni. Come evidenziato da Bastian e Haslam (2011), ciò dipende dalla percezione di umanità: le persone a cui mancano i tratti unicamente umani vengono viste come non giustificabili e meritevoli di punizione, mentre le persone a cui viene negata la natura umana vengono giudicate come meno degne di protezione e capaci di riabilitazione.
Le conseguenze viste finora sono tutte di natura negativa, ma ci sono casi in cui la deumanizzazione può anche risultare “vantaggiosa”, come è stato evidenziato da due studi in ambito medico. Il primo (Lammers & Stapel, 2011) fa riferimento a trattamenti più dolorosi ma più efficaci verso alcuni pazienti cui viene negata la natura umana; il secondo (Vaes & Muratore, 2013), basato anch’esso su pazienti fittizi, si riferisce, invece, ad una riduzione dei sintomi di burnout che sperimentano gli operatori sanitari che umanizzano in minor misura le sofferenze di un malato terminale. Ovviamente, queste affermazioni vanno prese con la dovuta cautela, poiché l’empatia e l’umanizzazione hanno effetti positivi e predominanti sul trattamento dei pazienti.
Anche Leyens et al. (2007) analizzano le conseguenze dell’infraumanizzazione: essa, soprattutto se associata ad elevata identificazione con il proprio gruppo, ha come conseguenza la riluttanza/negazione ad accettare i misfatti passati commessi dal proprio ingroup, perpetuando il rancore intergruppi ed interferendo sulla piena riconciliazione di gruppi precedentemente in conflitto.
L’outgroup viene infraumanizzato dall’ingroup solo se quest’ultimo è ritenuto responsabile delle sue sventure (Castano & Giner-Sorolla, 2006), portando quindi ad una giustificazione del triste destino delle altre nazioni. Inoltre l’infraumanizzazione, come si è detto, predice una minore propensione al perdono intergruppi, fattore cruciale per l’armonia. Il contatto intergruppi frequente e di buona qualità comunque, costituisce un fattore che può incidere positivamente su questo processo, in quanto più si entra in relazioni armoniose con l’outgroup, maggiore sarà la propensione a considerarlo come umano e quindi a perdonare i suoi membri.
Viene evidenziato anche come il legame tra l’infraumanizzazione e la moralità possa essere cruciale nel mantenere la discordia tra i gruppi: il fatto che le emozioni secondarie (positive e negative) vengano considerate proprie dell’ingroup fa sì che le persone possano considerare come simbolo di piena umanità anche quelle prettamente negative ed immorali (come odio e mancato rispetto), e quindi accettarle come caratteristiche dell’ingroup. Inoltre, diverse ricerche effettuate su Arabi, Israeliani ed Ebrei hanno suggerito che i membri dei gruppi dominanti hanno più difficoltà ad abbandonare l’infraumanizzazione rispetto a quelli di basso status. Ciò è importante perché, mentre la teoria di giustificazione del sistema (Jost & Banaji, 1994) postula che i gruppi di basso status accettano la loro posizione ed i valori del gruppo dominante, la teoria dell’identità sociale (Tajfel, 1981) propone alcune variabili che spiegano come e quando gli individui dei gruppi di basso status tentano di innalzare la propria posizione sociale. Tra queste variabili si distinguono strategie oggettive (quindi atti tangibili di cambiamento sociale come le rivolte) e strategie simboliche (cioè cambiamenti di mentalità con la potenzialità di generare azioni tangibili): ad esempio, membri di gruppi stigmatizzati possono cambiare il valore attribuito ad una dimensione. Tra le soluzioni simboliche di innalzamento del valore dell’ingroup gli autori includono, il fenomeno dell’infraumanizzazione, in quanto pensare che gli altri siano meno umani può condurre ad una identità sociale positiva. Per i gruppi di basso status l’infraumanizzazione può avere una serie di conseguenze reali (Leyens et al., 2007): credere in una superiorità fondata su un’unica essenza umana rafforza la coesione del gruppo, che si percepisce come più forte e capace di fronteggiare le minacce esterne, e incrementa l’identificazione, rendendo i membri più leali verso l’ingroup e meno propensi all’adozione di strategie personali come la mobilitazione individuale. Inoltre, secondo Leyens et al.(2007), può facilitare alcune condizioni che nel lungo termine possono portare ad azioni collettive. Così come le conseguenze dell’infraumanizzazione possono portare dei benefici a lungo termine sui gruppi di basso status, bisogna considerare il possibile effetto opposto sui gruppi ad alto status. La storia ci porta esempi di regni (come l’impero Romano, così convinto della propria essenza superiore da negare il potere emergente di gruppi opposti) che sono miseramente crollati proprio per aver considerato se stessi come gli unici detentori dell’essenza umana.
Infine Leyens et al. (2007) discutono del ruolo dei media, che spesso riportano le notizie in maniera infraumanizzante. Ciò porta naturalmente ad un circolo vizioso che conduce ad un incremento dell’infraumanizzazione, in particolare verso alcuni gruppi etnico/sociali o verso categorie di persone che hanno un particolare impatto mediatico, come i criminali.