La base della comunicazione pubblicitaria
La pubblicità: comunicare, influenzare, convincere
“Il mestiere della pubblicità è ormai cosi’ vicino alla perfezione che sarà ben difficile apportarvi altri miglioramenti”. (Samuel Johnson, 1759)
La base della comunicazione pubblicitaria
“Advertising may be viewed as the construction of semiotic worlds for the rhetorical purpose of swaying purchasers to buy what is advertised”.
Cosi’ prende avvio il breve ma interessante saggio di Alan Harris intitolato Sell! Buy!. L’autore pone l’accento sul potere della parola pubblicitaria come mezzo di persuasione più o meno occulta, raggiunta spesso grazie ad un processo di manipolazione linguistica, che permetta di elaborare un messaggio coinvolgente e accattivante al fine di catturare l’attenzione del destinatario.
L’obiettivo del pubblicitario, secondo Harris è quindi, la creazione di mondi di volta in volta nuovi, definiti “mondi semiotici” o realtà simboliche, esistenti indipendentemente dal mondo fisico, che vadano ad imprimersi con forza nell’immaginario di colui che riceve il messaggio.
Già dalle sue prime apparizioni sulla scena sociale ed economica, la pubblicità, che in Italia si chiamava reclame, cominciò ad attingere ai più svariati ambiti della lingua, trasformando il materiale linguistico a sua disposizione secondo la finalità primaria della persuasione.
Un messaggio pubblicitario può essere raffinato, divertente, ammiccante, originale, e si potrebbe aggiungere un lungo elenco di aggettivi tra i più diversi, ma ciò che ne determina il successo è la sua capacità di convincere, di farsi largo più o meno subdolamente nei pensieri – nella loro parte più inconscia – del destinatario.
Baldini[1] spiega che la parola pubblicitaria cessa di essere semplicemente una parola, e va a fondersi e confondersi con altri elementi visivi, iconici, sonori, paralinguistici, intertestuali fino a divenire il messaggio pubblicitario in cui ogni particolare è studiato con la massima attenzione non, come molti sostengono, per informare o presentare un prodotto al pubblico, ma per creare un oggetto del desiderio attraverso un sapiente uso delle immagini, dei suoni e soprattutto delle parole, tanto da riuscire a far coincidere nell’immaginario collettivo l’idea di felicità e di successo con un certo aperitivo, make-up, o profumo.
Horkheimer e Adorno hanno parlato in proposito di una vera e propria reificazione delle reazioni più intime dell’uomo a confronto con il messaggio pubblicitario; questo processo può spingersi a livelli estremi; sotto la pressione incalzante proveniente dal mondo patinato della pubblicità, valori ed entità astratte vengono spesso fatte coincidere con il prodotto reclamizzato.
Tra le differenti forme di comunicazione, la pubblicità si caratterizza per il fatto che l’emittente ed il messaggio pubblicitario non mirano solo a trasmettere al destinatario della comunicazione dati, informazioni, idee, sensazioni, visioni del mondo, nè soltanto a provocare reazioni, siano esse di adesione o repulsione. La pubblicità ha per scopo di convincere il destinatario della comunicazione a fare o non fare qualcosa; la pubblicità, quindi, è il fondamentale strumento (anche se non l’unico), di persuasione, oltre che di comunicazione.
La finalità persuasiva attiene a specifici comportamenti del destinatario, che l’emittente ha per scopo predefinito di provocare o scongiurare. Può trattarsi di comportamenti eterogenei. L’esperienza empirica ha ormai insegnato che la persuasione pubblicitaria non trova affatto un limite nei rapporti di mercato. La pubblicità può essere usata per convincere a comprare qualcosa, ma trova anche nei comportamenti politici e sociali il suo campo di elezione, non meno che nel mercato dei beni e servizi[2].
Si può persuadere, a mezzo pubblicitario, l’elettore a votare un certo candidato, o il cittadino ad aderire ad una certa iniziativa, oppure a tenere o non tenere un dato comportamento, a seconda delle finalità di incentivazione o disincentivazione proprie dell’emittente del messaggio[3].
La pubblicità persuade anche mediante strumenti diversi della diffusione dell’informazione. Sotto la denominazione di “suggestione” possono raccogliersi le molteplici tecniche pubblicitarie che fanno leva sugli aspetti meno razionali della psiche umana, è che pure incidono sulle decisioni del destinatario della comunicazione in pari modo, se non superiore alla stessa razionalità.
Rispetto alle altre forme di manifestazione del pensiero, l’attacco pubblicitario si caratterizza per la sua strumentalità; il messaggio pubblicitario comunica per ottenere un risultato concreto. La pubblicità è manifestazione del pensiero strumentale ad uno scopo che, ovviamente, non è la pura comunicazione di idee, opinioni, visioni del mondo[4].
La decisione economica non è soltanto frutto di razionalità, cosi’ come non lo è la decisione politica, o la decisione di tenere o non tenere un certo comportamento sociale. Il destinatario della comunicazione reagisce ad una serie di stimoli che possono essere molto più forti della razionalità, ed indurlo a spendere il proprio denaro, o il proprio voto, in una direzione anzichè in un’altra.
La pubblicità conosce questi stimoli, li cataloga e li classifica in ragione delle particolarità ci ciascun gruppo omogeneo di destinatari (sempre meglio delimitato via via che la tecnica pubblicitaria si affina), ed infine li utilizza per i suoi scopi persuasivi; non si pensa ad ipotesi marginali come la pubblicità subliminale, ma a fenomeni ben più frequenti di pubblicità e suggestione.
L’abbinamento di prodotti, di proposte politiche, di iniziative di ogni genere, a immagini di bellezza, fascino, richiamo erotico, successo, fortuna, a forti personalità, o comunque a modelli accreditati, è una tecnica di persuasione che ha poco a che fare con la razionalità dell’individuo.
La metafora della pubblicità “fabbrica dei sogni” è ormai obsoleta; la pubblicità odierna ci dimostra che anche la fabbricazione di incubi può essere del tutto idonea a raggiungere uno scopo persuasivo.
Non mi riferisco solo alle tecniche pubblicitarie basate sulla deterrenza: mostrare immagini di disastri stradali per disincentivare alla guida veloce, o mostrare i danni della droga per dissuadere a consumarla.
Penso invece all’uso pubblicitario di immagini forti (di violenza, di drammaticità estrema, o di situazioni sessuali singolari o esplicite), al solo scopo di colpire l’osservatore, imprimendogli nella memoria un marchio, un prodotto, un partito politico.
L’immagine “forte” suscita una curiosità verso il prodotto, genera un interesse che potrà tradursi in acquisto, e tanto basta. In un mondo affollato di pubblicità, “gridare forte” è un modo per farsi sentire, sovrastando la strida altrui.
In tale contesto pubblicitario, rientrano moltissimi altri meccanismi persuasivi; tra i più diffusi è la tecnica di strumentalizzare istinti e sentimenti della persona umana: l’uso pubblicitario del corpo, soprattutto quello femminile, dell’immagine dei bambini, dei rapporti familiari, che divengono mezzi per una classica (e piuttosto semplice), persuasione pubblicitaria.
Oltre a queste tecniche ormai superate, esistono metodi molto più sottili, che riscuotono più successo. L’esperto di comunicazioni Ivan Preston ha compilato un catalogo delle tipiche affermazioni delle pubblicità quali appaiono nei mass media[5].
Egli nota che in molti spot si proclamano differenze del tutto secondarie facendole apparire importanti (ad esempio le sigarette Calem “larghe”, che sono di due millimetri più spesse delle solite sigarette), si fanno affermazioni prive di senso finalizzate all’esaltazione del marchio (lo slogan “Coke is it!”, qualunque cosa quell’it possa significare), si abbonda in magnificazioni e superlativi senza significato (nello slogan della Bayer “la migliore aspirina al mondo”, quando tutte le aspirine sono uguali). In altre parole è sufficiente che ci sia una ragione qualsiasi.
Dal punto di vista psicologico, gli spot sull’aspirina funzionano perchè, affermando che nessun altro rimedio è più forte, più rapido, più delicato o più efficace, ci inducono a trarre automaticamente la (scorretta) deduzione che nessun altro prodotto antalgico sia altrettanto forte, altrettanto rapido, altrettanto efficace della marca A. La descrizione del prodotto crea l’illusione che la marca A sia la migliore, non che sia come tutte le altre.
Come accade che le parole acquistino questo potere e la capacità di influenzare?
Il modo in cui viene descritto un oggetto o presentata un’opzione dirige i nostri pensieri e incanala le nostre risposte cognitive nei confronti della comunicazione. Attraverso le etichette che impieghiamo per descrivere un oggetto o un evento, possiamo definirlo in modo tale che il destinatario del messaggio accetti la nostra definizione della situazione e sia conseguentemente pre-persuaso prima ancora che cominci l’argomentazione vera e propria[6].
Questa semplice regola della persuasione venne riconosciuta da Cicerone oltre due millenni fa.
Cicerone affermava che uno dei fattori del suo successo nell’ottenere l’assoluzione di alcuni dei più famigerati assassini di Roma, fosse la sua abilità nel sostenere che i loro nefandi crimini non erano affatto “crimini”, ma azioni virtuose, e che le vittime erano malvagi che meritavano di essere uccisi.
In un recente esperimento, due studiosi di psicologia del consumatore hanno dimostrato l’efficacia della formulazione del messaggio nella formazione degli atteggiamenti dei consumatori nei confronti del macinato di bovino[7]. La loro scoperta è stata che le valutazioni dei consumatori erano più favorevoli nei confronti di un’etichetta che dichiarava: “75% magro” piuttosto di una che dichiarava “25% di grassi”.
Possiamo trovare la stessa tecnica in mille altre situazioni; nei supermercati, dove il pesce surgelato venduto nel reparto delle carni fresche, viene chiamato “surgelato fresco”, i venditori di assicurazioni mediche per anziani chiamano i loro opuscoli “guide sanitarie gratuite”, per finire con i fabbricanti di piccoli elettrodomestici che definiscono “cordless” i prodotti con alimentazione a batteria.
La parola “magro” è più attraente della parola “grasso”; la parola “fresco” tende a oscurare il fatto che il pesce in realtà è surgelato, una “guida gratuita” è molto più utile di una brochure pubblicitaria e un apparecchio “cordless” sembra molto più potente di uno alimentato da due batterie alcaline.
Spesso il significato pieno dell’implicazione è lasciato all’immaginazione del pubblico. Negli anni trenta, l’Istituto per l’analisi della propaganda, definì questa tattica il ricorso a generalità d’effetto[8]. In questi casi il propagandista impiega parole che hanno connotazioni positive ma che sono solitamente ambigue nel contesto in cui vengono usate.
Ecco qualche esempio: “Un America gentile, benevola”; “Rendiamo nuovamente forte l’America”; “Il meglio che si possa acquistare”; “Dobbiamo sostenere i nostri coraggiosi combattenti per la libertà”;.
Pochi negherebbero che espressioni come gentile, benevola, forte, il meglio e coraggiosi combattenti per la libertà siano cose buone; nella maggior parte delle situazioni concrete, però, pochissimi sarebbero d’accordo sul significato di ciascuna di esse.
Si consideri, ad esempio, l’impegno preso da Richard Nixon nella campagna presidenziale del 1968 per una “pace onorevole” nel Vietnam. Cosa significava realmente? Per alcuni pace onorevole significava il ritiro immediato delle truppe e la fine di una guerra ingiusta.
Per altri significava combattere fino a quando gli Stati Uniti avessero riportato una vittoria senza condizioni. Quello che Nixon intendeva per pace onorevole era lasciato all’immaginazione dell’ascoltatore, ma non c’erano dubbi sul fatto che Nixon aveva l’obiettivo “giusto” sulla guerra del Vietnam.
Le parole, nella pubblicità, possono essere usate anche per definire i problemi e creare in tal modo bisogni personali e sociali. Nella storia della pubblicità americana, a detta di Stephen Fox, la pubblicità ebbe la massima influenza durante gli anni venti[9], epoca in cui i pubblicitari battezzarono molti di quei “bisogni del consumatore” che cerchiamo di soddisfare ancora oggi.
Ad esempio, la Lambert Co., produttrice del Listerine, diffuse il termine “alitosi” riferito all’alito cattivo; la maggioranza degli americani ignorava di avere l’alitosi fino al momento in cui la Lambert Co. non li rese consapevoli della possibilità di disgustare il vicino ammonendoci che “anche il vostro migliore amico ve lo nasconderà”.
I pubblicitari, naturalmente, non sono gli unici ad inventare nuove etichette come strumenti di persuasione. I primi patrioti americani riuscirono a rafforzare il fervore patriottico chiamando “massacro di Boston” una scaramuccia con i britannici di scarso significato.
Adolf Hitler impiegò la medesima tecnica per mobilitare il popolo tedesco spiegando i problemi economici della Germania nei termini della minaccia rossa o del problema ebraico. Gli antiabortisti definiscono la loro posizione per la vita (chi mai potrebbe essere contro la vita?), mentre i sostenitori del diritto della donna di ricorrere all’aborto si definiscono per il diritto di scelta.
Lo psicologo Gordon Allport ha sottolineato che è nella natura del linguaggio dividere e categorizzare il rumore dell’enorme quantità di informazioni che ci investe in ogni istante del giorno[10].
È questa natura intrinseca del linguaggio che gli conferisce il potere di persuadere. Attribuendo a qualcuno l’etichetta di “uomo”, “donna”, “bel cinese”, “medico”, mettiamo in risalto una caratteristica particolare dell’oggetto “essere umano” a spese dei molti altri possibili. Noi poi reagiamo a queste caratteristiche, organizzando le nostre realtà attorno all’etichetta dell’oggetto.
I nomi che “separano” – come noi-loro, bianco-nero, ricco-povero, maschio-femmina – servono a ripartire il mondo in tanti piccoli contenitori e a suggerire le appropriate azioni da prendere.
I ricercatori hanno scoperto che le offerte di lavoro che impiegano il generico pronome maschile (pronome che si suppone applicarsi sia ai maschi che alle femmine) producono candidati di sesso femminile in numero considerevolmente minore rispetto a quelle formulate in termini più generali[11].
I pubblicitari, consapevoli del potere dei nomi, selezionano per i loro prodotti nomi di marca che, come è il caso ad esempio per lo shampoo Head & Shoulders (testa e spalle), le pile Die Hard (dure a morire), il dentifricio Close-Up (primo piano), attirano l’attenzione sulla caratteristica più saliente del marchio[12].
La storia della pubblicità e anche dei movimenti politici dimostra che la gente tende ad agire secondo i nomi e le etichette, impiegati per descrivere un evento o una situazione.
Il potere delle parole e delle etichette di influenzare il nostro modo di pensare non è calcolabile, dato che si tratta di una sfera irrazionale e inconscia, è possibile però ipotizzare una suggestione di grandi dimensioni.
[1] Baldini, 1987, 1996 : 14
[2] www.giuffre.it
[3] Aaker. D. A. – Myers J., Management della pubblicità, Franco Angeli s.r.l. 1998, pp. 55
[4] Colley R.H., Gli obiettivi della pubblicità. Definizione e misurazione, ETAS
KOMPASS, Milano 1968, pp. 379
[5] Preston I.L., The Tangled Web They Weave: Truth, Falsity and Advertisers, University of
Wisconsin Press, 1994, pp. 194
[6] Pratkanis A, Aronson E., L’età della propaganda, Il Mulino, 2003, pp. 103
[7] Levin I, Gaeth G., How consumers are affected by the frame of attribute information before and after consuming the product, in Journal of Consumer Research, 1998, pp. 374378
[8] Lee A., Lee E., The fine art of propaganda., New York, 1939
[9] Fox S, The mirror makers: A history of twentieth-century American Advertising, New York, Morrow, 1984
[10] Allport G., The nature of Prejudice, Reading, Addison-Wesley, 1954; trad.it. La natura del Pregiudizio, Firenze, La Nuova Italia, 1973
[11] Bem S., Does sex-biased job advertising, in Journal of Applied Social Psycology, 1973, pp. 6-18
[12] Ries A, Trout J., Positioning: the battle for your mind, New York, McGraw-Hill, 1981
© Psicologia della comunicazione persuasiva – Dott.ssa Romina Sinosich