Intelligenza Emotiva: Discussione

Intelligenza Emotiva: Discussione

Quello presentato in questa tesi è uno dei primi studi ad indagare l’effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto. Inoltre è anche il primo ad indagare empiricamente il ruolo dell’intelligenza emotiva di tratto nel comportamento altruistico. Per permettere questa doppia indagine è stato messo a punto un paradigma che permette una misurazione della motivazione ad aiutare. Questa modalità di misurazione dell’altruismo rappresenta un elemento di originalità della ricerca qui presentata. Infatti, lo studio delle motivazione altruistiche ha visto più comunemente l’impiego di misure esplicite, come il desiderio di aiutare un’altra persona (Isen, 1972; Batson et al., 1978; Jenni et al.,1997; Fethersonhaugh et al. 1997; Kogut e Ritov, 2005a ) o piuttosto l’ammontare di una somma di denaro da donare (Isen, 1970; Dickert et al. 2011). Nel presente studio la motivazione altruistica era misurata invece solo tramite una misurazione indiretta del desiderio di aiutare un bambino in pericolo di vita. In particolare, si assumeva che tanto più i partecipanti desideravano salvare questo bambino, tanto più si sarebbero impegnati nel compito che dovevano affrontare al computer. Misure di questo impegno erano la velocità e l’accuratezza delle loro risposte. Il vantaggio dell’utilizzo di misure implicite è che dovrebbero consentire risposte più spontanee da parte dei partecipanti. In particolare, utilizzando un simile paradigma, le persone dovrebbero avere più difficoltà a controllare la prestazione al computer rispetto ad una risposta esplicita che potrebbe essere influenzata più facilmente da fattori esterni al disegno sperimentale (e.g. desiderabilità sociale).

Nel presente studio questo paradigma è stato messo alla prova per la prima volta. Per prima cosa, si è trovato un effetto significativo della manipolazione del senso di efficacia nei partecipanti. Come ci si aspettava, nella condizione di feedback positivo c’era una prevalenza significativa di affetti positivi, mentre, al contrario, nella condizione di feedback negativo i partecipanti provavano in modo significativamente più intenso sentimenti negativi. In particolare, alla percezione di insuccesso nel compito  corrispondevano maggiori livelli di tristezza, senso di colpa e fatica, e minori dell’autostima e della giovialità, mentre all’opposto, in risposta al feedback positivo i partecipanti avevano una maggiore autostima e giovialità, oltre che a minori livelli di tristezza, senso di colpa e fatica. Nelle due condizioni, poi, questi sentimenti tendevano ad intensificarsi man mano che i loro successi o insuccessi si accumulavano. Dunque, in linea con le ipotesi, sembrerebbe che  la positività degli affetti tenda a crescere in relazione a ripetuti successi e a diminuire in relazione a ripetuti insuccessi.

Questa manipolazione sperimentale a sua volta influenzava significativamente la prestazione dei partecipanti nel compito. In particolare, i partecipanti che ricevevano ripetuti feedback positivi mostravano un’accuratezza significativamente maggiore rispetto agli altri che, al contrario, mostravano una tendenza a ridurre i loro sforzi in relazione ai ripetuti insuccessi.

Differentemente da quando ci si aspettava, invece, non si è trovato alcun effetto del feedback sui tempi di reazione. Infatti, indipendentemente dalla condizione di appartenenza, tutti i partecipanti mostravano prestazioni simili per quello che riguarda la velocità delle risposte. In particolare, si è trovato un effetto dovuto alla ripetizione, che sembrerebbe corrispondere ad un’ aumentata familiarizzazione nel compito piuttosto che ad una manipolazione sperimentale. Un dato poi interessante è che questo effetto sfumava dopo il quarto blocco. Una possibile causa di questo aumento finale dei tempi di reazione potrebbe risiedere in un accresciuto affaticamento nei partecipanti. Il fatto poi che tutti i partecipanti abbiano mostrato trend simili per quanto riguarda la velocità potrebbe rispecchiare la contestualizzazione delle istruzioni iniziali. Infatti, tutti i partecipanti leggevano, all’inizio dell’esperimento, che per salvare i bambini mostrati sullo schermo  nei diversi blocchi dovevano cliccare sulla foto entro 500 ms. E’ possibile che tanto i partecipanti nella condizione di  feedback positivo, tanto quelli nella condizione di feedback negativo siano stati spinti da questa manipolazione a prestazioni simili per quanto riguarda la rapidità. In uno studio futuro, potrebbe essere utile indagare se una differente formulazione della consegna iniziale possa portare i partecipanti ad una maggiore differenziazione dei tempi di reazione.

Resta il fatto che i partecipanti nella condizione di feedback positivo mostravano una maggiore accuratezza nelle diverse prove rispetto ai partecipanti nella condizione di feedback negativo. Sulla base di questi risultati, sembrerebbe quindi che il fatto di esser riusciti a salvare il bambino spingesse i partecipanti ad impegnarsi di più nel compito. Al contrario, in risposta al feedback negativo corrispondeva una riduzione dell’impegno. Questi risultati suggeriscono che quando le persone s’interessano al benessere di qualcuno, sapere che i propri intenti abbiano raggiunto l’obiettivo potrebbe aumentare ulteriormente la motivazione altruistica ad aiutare qualcuno in difficoltà. Inoltre, poiché ad un maggiore impegno, generalmente, corrispondono anche maggiori probabilità di successo, queste persone potrebbero essere spinte a mettere sempre più energie nei loro sforzi altruistici. Diversamente, il fatto di sapere che i propri intenti umanitari non abbiano dato i risultati sperati potrebbe, in conseguenza di un accresciuta percezione di inefficacia, indurre le persone a donare di meno, o peggio ancora, a non donare affatto in futuro. Sembrerebbe dunque che il feedback in una campagna  di beneficenza che richiede uno sforzo continuativo, il fatto di ricevere un feedback sull’esito positivo dei propri sforzi potrebbe indurre le persone non solo a mantenere il proprio impegno altruistico ma addirittura ad incrementarlo in futuro. Questo potrebbe essere il caso, per esempio, delle adozioni a distanza dove le persone contribuiscono con uno sforzo continuativo alle spese necessarie perché un bambino, che altrimenti avrebbe poche probabilità di sopravvivenza, possa essere nutrito ed istruito. Molto spesso i benefattori ricevono dai bambini che aiutano lettere e foto che testimoniano l’esito positivo dei loro sforzi. Alla luce delle evidenze empiriche  emerse in questo studio,  questi “genitori adottivi”, dovrebbero essere indotti dalla percezione del successo dei propri sforzi a donare di più allo stesso bambino, o, in alternativa, ad adottare un altro bambino. Al contrario, sapere che quel bambino non è riuscito a sopravvivere potrebbe indurre le persone ad essere meno motivate ad intenti altruistici in un futuro.

I risultati del presente studio, tuttavia, hanno mostrato anche che, se da un lato la percezione di successo/ insuccesso ha un effetto determinante sulla motivazione altruistica dei partecipanti, dall’altro anche il modo in cui questi elaborano le emozioni indotte dal sentirsi più o meno efficaci nel compito gioca un ruolo determinante nella loro motivazione altruistica. In particolare sembrerebbe che l’intelligenza emotiva di tratto moderi la relazione tra la percezione di autoefficacia derivante dal feedback e, conseguentemente, la motivazione implicita all’altruismo. Per prima cosa, in questo studio persone con differenti livelli di IE di tratto reagivano in modo differente alla manipolazione sperimentale dell’affetto. In linea con Chamorro et al. (2007), nelle rispettive condizioni sperimentali, questi partecipanti provavano un sentimento di giovialità ed un autostima più elevati rispetto agli altri. In particolare, nella condizione di feedback positivo questi partecipanti erano meno influenzati dalla manipolazione sperimentale. Più nello specifico, mentre i partecipanti con bassa IE di tratto mostravano un calo significativo del senso di colpa e della tristezza che provavano man mano che passavano da un blocco all’altro, i partecipanti con un elevata  IE di tratto mantenevano un livello costante di queste emozioni durante tutti e 5 i blocchi. Infatti, questi ultimi presentavano uno stato d’animo significativamente più positivo già al loro arrivo in laboratorio, per cui la manipolazione sperimentale aveva un minor effetto sul loro umore che rispetto a quello degli altri. Nella condizione di feedback negativo, invece, non risultavano esserci differenze significative negli affetti provati nelle due condizioni.

Tuttavia, era proprio in quest’ultima condizione che i partecipanti con differenti livelli di IE di tratto mostravano differenti prestazioni, mentre nell’altra condizione, nonostante l’intelligenza emotiva moderasse le loro reazioni emotive, i partecipanti non differivano significativamente nell’impegno che mettevano nel compito.

In particolare, in questa condizione si sono evidenziati due trend opposti nell’accuratezza delle risposte. Inizialmente i partecipati con bassa IE di tratto mostravano un’accuratezza significativamente maggiore rispetto a quelli con alta IE di tratto ma, dopo i primi due blocchi, mentre i primi mostravano un significativo calo dell’impegno con cui affrontavano il compito, i secondi incrementavano il livello di accuratezza delle loro risposte. Sembrerebbe, dunque, che i partecipanti con un’alta autoefficacia emotiva di tratto inizialmente accusassero maggiormente il fatto di non esser riusciti a salvare il bambino in pericolo di vita. Questo dato in particolare sembra essere in linea col fatto che queste persone siano più sensibili alla procedura di induzione di uno stato d’animo negativo di quanto non siano invece persone con una minore IE di tratto (Petrides e Furnham, 2003). Il presente studio ha permesso di generalizzare questi dati ad un diverso comportamento ed ha dimostrato come questa maggiore sensibilità agli stimoli negativi possa tradursi in una minore disponibilità ad aiutare un altro in difficoltà. Questi risultati sembrerebbero suggerire che le persone con un alta intelligenza emotiva di tratto possano essere meno motivate ad un comportamento altruistico se in un azione analoga poco precedente hanno visto i loro sforzi vanificarsi. Tuttavia questo sembrava un effetto temporaneo. Infatti in questo esperimento si è trovato anche che questi partecipanti, dopo un iniziale calo della prestazione, aumentavano i loro sforzi per salvare il bambino. Al contrario, i partecipanti che avevano ottenuto punteggi più bassi nel TEIQue, dopo i primi due insuccessi mostravano un significativo calo dell’accuratezza con cui affrontavano il compito. Sembrerebbe dunque, che i partecipanti con alta IE di tratto dopo l’iniziale calo della prestazione cercassero di riscattarsi impegnandosi di più per salvare il bambino in pericolo di vita. Questi dati suggeriscono che ad un alta autoefficacia emotiva di tratto  corrisponda una maggior abilità a far fronte alle emozioni negative suscitate da un insuccesso. In particolare, i partecipanti che avevano riportato punteggi di intelligenza emotiva più alti di tratto mostravano una maggiore resilienza, una maggiore tolleranza alle frustrazioni ed una maggiore gestione dello stress rispetto ai partecipanti con bassa IE di tratto. Questi dati poi si traducevano in una maggior determinazione nel perseguire l’obiettivo e quindi in un maggiore impegno nel compito. Nella condizione di feedback negativo, i partecipanti con alti livelli di IE di tratto, dunque, sembravano mostrare una maggior motivazione altruistica, rispetto ai partecipanti con bassa IE di tratto. Questi dati in particolare potrebbero dar conto del perché alcune persone più di altre riescano a perseverare nel fornire aiuto e soccorso ad altre persone in difficoltà anche quando le condizioni particolarmente avverse in cui operano potrebbero facilmente indurle a pensare che i loro sforzi siano inutili. Questo potrebbe essere il caso di Madre Teresa di Calcutta che ha dedicato la sua vita intera ad aiutare le vittime dell’estrema povertà in India.

Inoltre, il fatto chei partecipanti con alta e bassa IE di tratto  in conseguenza della percezione di inefficacia indotta dal feedback negativo mostrassero una differente motivazione all’altruismo verso i bambini da salvare risulta essere particolarmente interessante alla luce del fatto che tutti i partecipanti, indipendentemente dai loro livelli di intelligenza emotiva di tratto, riportassero, in egual misura, un aumento degli affetti negativi non significativamente differente in risposta alla loro percezione di insuccesso. Isen (1999) ha evidenziato come molti studi abbiano portato risultati contrastanti riguardo al fatto che un umore negativo possa spingere le persone ad un comportamento altruistico. Infatti mentre alcuni di questi studi hanno dimostrato che le persone affette da uno stato d’animo negativo sono meno disposte ad interessarsi agli altri (Isen et al., 1970; 1972), altri hanno dimostrato, all’opposto, che le persone quando sono tristi adottano comportamenti altruistici per sollevare il loro stato d’animo (Cialdini et al. 1973; 1976; 1987). Fino ad oggi non si è trovata ancora una spiegazione esaustiva di questa incoerenza nei risultati. Tuttavia quanto trovato in questo studio potrebbe contribuire a far luce su questo dibattito. Infatti,  quanto emerso suggerisce che una possibile causa del fatto che in studi diversi si siano trovati risultati opposti riguardo l’influenza delle emozioni negative sull’altruismo possano essere i differenti livelli di intelligenza emotiva di tratto e, conseguentemente, il diverso modo di reagire agli stimoli elicitati dal contesto. In accordo con alcuni studi recenti (Small et al. 2007; Dickert et al. 2008; 2011; Cameron e Payne, 2011; Rubaltelli e Agnoli, 2012), sembrerebbe che l’interesse altruistico verso un’altra persona in difficoltà sia il prodotto dell’interazione di due fattori principali: il contesto situazionale e le disposizioni individuali. Questo studio non solo conferma  quanto trovato in questi studi precedenti ma suggerisce anche che un solido quadro teorico di riferimento per le differenze individuali nell’elaborazione e gestione delle emozioni possa  essere fornito dall’intelligenza emotiva di tratto.   In particolare, il fatto che i partecipanti con alta e bassa IE di tratto reagissero con prestazioni differenti all’effetto di ripetuti insuccessi suggerisce che queste persone possano usare differenti strategie di regolazione delle emozioni. Rubaltelli e Agnoli (2012),  hanno dimostrato che i reappraisers, ovvero le persone che rivalutano lo stimolo prima che l’emozione sia elicitata, possono affrontare in modo più efficace dei suppressors, ovvero coloro che tendono invece a sopprimere le emozioni indesiderate, gli affetti negativi che possono entrare in gioco quando si deve decidere di fare una donazione. In una replica dello studio qui presentato potrebbe essere utile affiancare alla misure degli affetti e dell’intelligenza emotiva di tratto anche un questionario sulle strategie di regolazione delle emozioni. In questo caso si potrebbe ipotizzare che le persone con un elevata IE di tratto abbiano una maggiore predisposizione ad utilizzare strategie come il reappraisal mentre quelli con una bassa IE di tratto facciano maggior ricorso a strategie come la soppressione. Questo spiegherebbe come mai la prestazione delle persone con bassa IE di tratto, inizialmente meno influenzata dalla percezione di insuccesso nel compito rispetto a quella delle persone con alta IE di tratto, cali significativamente in relazione ai ripetuti feedback negativi e al conseguente aumento dell’umore negativo. Infatti, è possibile che, per far fronte agli affetti negativi, la soppressione si rivelasse più efficace del reappraisal in un primo momento ma, poiché questa strategia non consente di eliminare del tutto le emozioni negative, è possibile che man mano che  questi si accumulavano anche la motivazione a salvare i bambini in pericolo di vita ne risentisse. Queste ipotesi necessitano di un approfondimento empirico, tuttavia i risultati presentati in questa tesi hanno delle implicazioni interessanti per lo studio delle decisioni nell’ambito della beneficenza. Infatti, in linea con Rubaltelli e Agnoli (2012), il fatto che le persone con alta IE di tratto siano più abili a regolare le emozioni dovrebbe far si che queste riescano a mediare meglio tra le emozioni associate alle proprie intuizioni morali e quelle associate invece al proprio ragionamento morale. Di conseguenza, quando queste persone devono scegliere se aiutare una vittima sola oppure un gruppo di più persone dovrebbero essere più abili a risolvere il conflitto che si origina tra la propria motivazione altruistica ad aiutare il numero di persone maggiore possibile e la propria motivazione egoistica a risparmiare risorse economiche e temporali. Quindi, le persone con alta IE di tratto, rispetto a quelli con bassa IE di tratto, dovrebbero essere più abili ad integrare le loro intuizioni morali ed i loro ragionamenti morali e di conseguenza dovrebbero essere anche meno vulnerabili all’effetto della vittima identificabile.

Inoltre il presente studio misurava la motivazione altruistica a livello implicito. Come esposto sopra, questa modalità di misurazione ha il vantaggio di favorire, da parte dei partecipanti, un minor controllo delle risposte e quindi una maggior spontaneità.  Tuttavia da un integrazione di misure implicite ed esplicite potrebbero emergere nuovi spunti di riflessione. Perugini, Richetin e Zogmaister (2010), hanno sottolineato come queste misure possano arricchirsi vicendevolmente. In uno studio futuro, che replichi il presente paradigma, potrebbe dunque essere utile affiancare alla misura dell’accuratezza e dei tempi di reazione, anche una misura esplicita dell’altruismo. Ad esempio, subito dopo il blocco e subito prima del feedback si potrebbe chiedere ai partecipanti quanto sarebbero disposti ad offrire per il bambino che dovevano salvare.   Dato che gli affetti positivi motivano le persone ad essere più altruiste (Isen et al., 1970; 1972), non mi aspetterei una discordanza tra le due misure nella condizione di feedback positivo dove i partecipanti dovrebbero essere più altruisti degli altri sia a livello implicito che a livello di motivazione esplicita. Mi aspetterei, invece, che nella condizione di feedback negativo,  i partecipanti con bassi livelli di intelligenza emotiva, a causa anche della loro minor abilità nella regolazione delle emozioni, mostrino una minor discrepanza tra le due misure rispetto ai partecipanti con alti livelli di IE di tratto, che invece dovrebbero ricorrere  a strategie di regolazione delle emozioni più adattive (e.g. reappraisal). Mi aspetterei, in particolare, dato la loro maggiore vulnerabilità agli affetti negativi, che questi ultimi mostrino la discrepanza più ampia tra l’impegno e l’ammontare dell’offerta all’inizio dell’esperimento piuttosto che alla fine. Se queste ipotesi venissero confermate dall’evidenza empirica, si avrebbe una ulteriore dimostrazione del fatto che le persone con alta e bassa IE di tratto ricorrano a differenti processi cognitivi.

Il paradigma mostrato in questa tesi è stato ideato appositamente per studiare il comportamento altruistico, tuttavia le implicazioni dei risultati emersi non sono circoscritte ad un solo ambito. Infatti, il fatto che persone con diversi livelli di intelligenza emotiva possano reagire in modi diversi a ripetuti successi ed insuccessi potrebbe fornire una spiegazione plausibile per un vasto numero di comportamenti anche molto distanti dall’ambito dell’altruismo. Ad esempio, nell’ambito della finanza, dove i trader s’imbattono in continue vincite e perdite una persona con un alta intelligenza emotiva di tratto potrebbe essere in grado di ottenereprofitti significativamente superiori rispetto a quelli di altri colleghi con bassa IE di tratto.

Infatti una persona con un alta IE di tratto potrebbe trarre vantaggio dalla sua migliore abilità di regolazione delle emozioni e di conseguenza dovrebbe riuscire ad essere meno vulnerabile agli affetti.

In conclusione, quello presentato in questa tesi è uno dei primi studi che mostra che l’intelligenza emotiva di tratto modera l’effetto di ripetuti successi ed insuccessi sulla motivazione altruistica. Anche se in futuro, nuove ricerche saranno necessarie per confermare e approfondire ulteriormente quanto emerso da questa ricerca, il risultato trovato  è importante perché apre una nuova via nello studio dell’impatto dei fattori individuali nella motivazione ad aiutare un altra persona in difficoltà.

 

Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto –  © Andrea Righi