Intelligenza Emotiva: Definizione del costrutto
Intelligenza Emotiva: Definizione del costrutto
Un costrutto che recentemente ha riscosso sempre più l’attenzione dei ricercatori è quello dell’intelligenza emotiva.
Sebbene come parola abbia fatto la sua apparizione già a partire degli anni ’60 (Leuner, 1966), questo costrutto ha cominciato ad avere una forma maggiormente definita solo in tempi relativamente recenti. La concezione di un intelligenza emotiva ha comunque alcuni antenati illustri. Quasi un secolo fa, infatti, Thorndike (1920) sosteneva l’esistenza di un intelligenza sociale che coincideva con la capacità di capire e dirigere le persone ed agire saggiamente nelle relazioni interpersonali. Abbastanza simile a questa intelligenza è l’intelligenza interpersonale proposta invece da Gardner (1983). Questo tipo d’intelligenza coincide con la capacità di riconoscere e fare distinzioni riguardo i sentimenti, le intenzioni e le credenze altrui.
A questo tipo d’intelligenza Gardner ne affiancava una seconda più introspettiva: l’intelligenza intrapersonale, ovvero la capacità di riconoscere i propri sentimenti. Questi due tipi di intelligenza quando sono considerati insieme costituiscono l’intelligenza personale. Secondo Gardner, infatti, intelligenza intrapersonale ed interpersonale sono strettamente collegate e per questo motivo non è semplice riuscire sempre a distinguerle. Tuttavia, una prova della loro autonomia sarebbero ad esempio i bambini autistici in cui è compromessa l’intelligenza interpersonale ma non quella intrapersonale.
Gardner (1983) includeva queste due tipologie di intelligenza insieme ad altre cinque all’interno del suo modello delle intelligenze multiple. In particolar modo, questo studioso criticava la visione, allora predominante, secondo la quale l’intelligenza coincide con una capacità unitaria di ragionamento logico.
Il contributo di Gardner (1983) ha indubbiamente spianato il terreno per il successivo affermarsi dell’intelligenza emotiva. La prima definizione si deve al lavoro di Salovey e Mayer (1990) che definiscono l’intelligenza emotiva come “l’abilità di monitorare le emozioni e i sentimenti propri e altrui, distinguere tra questi ed usare le informazioni per guidare il pensiero e le azioni di qualcuno”. In particolare questi due studiosi considerano l’intelligenza emotiva come un sottoinsieme dell’intelligenza intrapersonale ed intrapsichica di Gardner (1983). In aggiunta, Salovey e Mayer (1990) considerano l’intelligenza emotiva come l’abilità di processare l’informazione affettiva. Quest’abilità comporterebbe in particolar modo il coinvolgimento di tre processi differenti: valutazione ed espressione delle emozioni in se stessi e negli altri, regolazione delle emozioni in se stessi e negli altri, uso delle emozioni in modo adattivo.
Se il lavoro di Salovey e Mayer (1990) è stato importante perché l’intelligenza emotiva entrasse nelle grazie dei ricercatori, il best-seller di Goleman (1995), “Intelligenza Emotiva”, è stato addirittura fondamentale perché il concetto diventasse estremamente popolare anche al di fuori del campo della ricerca psicologica.
Negli anni successivi la ricerca sull’intelligenza emotiva o anche quoziente emozionale, come spesso è stato chiamato, hanno preso sempre più il sopravvento ottenendo un attenzione crescente sia dal mondo scientifico che da quello popolare. Questo fermento ha portato molti teorici a proporre definizioni differenti del costrutto e, di conseguenza, anche a proporre molti strumenti per la sua misurazione. Tuttavia, molte definizioni proposte si sono rivelate o troppo ampie o troppo strette, se non addirittura in contrasto l’una con l’altra. Molte di queste, poi, generalizzavano il concetto di intelligenza emotiva ad altre abilità, competenze e qualità. Per Goleman (1995), ad esempio, l’intelligenza emotiva coincide con la perseveranza nel raggiungere un obiettivo, con la capacità di motivare se stessi, ma anche con la predisposizione all’empatia, alla speranza, all’ottimismo e all’assertività. Tuttavia queste sono dimensioni che appartengono alla personalità e dunque dovrebbero essere ortogonali all’intelligenza. Di conseguenza anche gli strumenti costruiti per misurare il test hanno spesso rispecchiato questa confusione concettuale alla base della definizione del costrutto (e.g. Bar-On, 1997). In aggiunta, nella costruzione di molti di questi strumenti sono stati ignorati i principi elementari che vanno rispettati quando viene costruito un test. Una di queste è la differenza fondamentale tra misure di tipiche e massime performance (Crombach, 1949; Argentero, 2006). I test di massima performance infatti hanno l’obiettivo di misurare le massima prestazione che una persona può ottenere in un determinato compito e usualmente ricorrono all’utilizzo di prove di abilità (e.g. risposte giuste e sbagliate). I test di tipica performance invece hanno l’obiettivo di misurare un comportamento che caratterizza l’individuo abitualmente e coinvolgono maggiormente misure self-report che non considerano risposte giuste o sbagliate. Molti ricercatori hanno ignorato questa distinzione fondamentale e hanno proposto costrutti misurati con prove di massima peformance come se rispecchiassero la modalità tipica di comportamento (e.g. Mayer, Caruso, Salovey, 1999). Non c’è da sorprendersi se misure basate su definizioni di costrutti e metodi di misurazione della performance differenti mostrassero anche una bassa validità convergente e molti teorici abbiano messo in dubbio la scientificità stessa del costrutto (e.g. Eysenck, 2000, Petrides e Furnham, 2000; Locke, 2005). Petrides e Furnham (2000) hanno tentato tuttavia di indirizzare la questione riguardante l’intelligenza emotiva verso una maggior scientificità cercando di superare i limiti delle precedenti teorie.
Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto – © Andrea Righi