Il valore strategico della motivazione in azienda: dalle Relazioni Umane alle Risorse Umane
Il valore strategico della motivazione in azienda: dalle Relazioni Umane alle Risorse Umane
Dalle critiche successive all’opera di Mayo si è visto che l’effetto della Scuola delle Relazioni Umane sull’organizzazione del lavoro non era stato dirompente.
Queste teorie vanno progressivamente in crisi nel momento in cui si prende coscienza che gli interessi umani dei dipendenti sono intrinsecamente contrapposti a quelli delle aziende organizzate in modo tradizionale.
L’unico modo per superare il contrasto poteva allora essere il ripensamento dell’organizzazione del lavoro, in modo che le mansioni, arricchite di contenuti intelligenti, avrebbero stimolato le motivazioni dei dipendenti e garantito una reale crescita psicologica e intellettuale.
A partire dalla metà degli anni ‘50, si andava pertanto configurando una situazione sociale che rendeva la teoria del lavoro di Taylor necessariamente da superare, a causa della necessaria riprogettazione del sistema organizzativo di fronte all’incalzare di un elevato tasso di obsolescenza tecnologica e dei prodotti.
In più il benessere economico verificatosi in maniera crescente a partire dal dopoguerra, i miglioramenti nell’ampiezza e nella qualità della formazione, l’erosione dei modelli tradizionali di autorità, hanno ridotto l’importanza della soddisfazione dei bisogni elementari, ponendo invece l’accento verso la soddisfazione dei bisogni di ordine superiore, come quelli di “autorealizzazione” e “autodeterminazione”.
Si affaccia in questo scenario la corrente delle neo-relazioni umane la quale ha cercato, invece, di integrare l’uomo nell’organizzazione, modificando le strutture formali in modo che queste siano realmente rispondenti ai bisogni dei lavoratori.
Viene attuato così un rovesciamento delle prospettive nei confronti delle teorie classiche e della corrente delle Relazioni Umane: per accrescere l’efficacia dell’organizzazione, non è più l’individuo che deve adattarsi ad essa, spinto da incentivi finanziari o relazionali, ma spetta all’organizzazione modificare le proprie strutture formali per soddisfare i bisogni di appartenenza, di stima e di realizzazione dell’individuo.
I tentativi teorici più avanguardisti nel superamento del taylorismo si sostanziano in una grande scuola del pensiero organizzativo: quella motivazionalista.
La Scuola comprende un gruppo di studiosi sociali che, soprattutto in America, nel periodo 1960-70, cercano un superamento del taylorismo su un piano volontaristico, ossia nella realizzazione della personalità.
I meriti principali di tali autori sono quelli di aver saputo interpretare le esigenze del loro tempo, dando voce alle migliaia di operai che avevano bisogno di sentirsi uomini e persone anche nel lavoro alla catena di montaggio.
Ancora, l’aver affermato apertamente che i lavori svolti in autonomia e piena responsabilità procurano soddisfazione e migliorano la produttività. D’altro canto, i modelli motivazionali, si sono caratterizzati per un’attenzione, quasi esclusiva, alla dimensione psicologica dei soggetti e alle dinamiche microsociali (ciò che rappresenta il loro maggiore limite), e hanno comunque avuto una bassa efficacia nel modificare concretamente l’organizzazione del lavoro.
Argyris è l’autore che testimonia la transizione dalle Relazioni Umane alle teorie motivazionali. Argyris, infatti, afferma che l’organizzazione moderna del lavoro (quindi la teoria tayloristica e le teorie ad essa legate) comprime troppo la personalità del singolo lavoratore e non favorisce la crescita della sua individualità .
Il fatto di eseguire continuamente ordini e di svolgere un lavoro per niente creativo ma solo esecutivo, non sviluppa la fantasia e la creatività del soggetto, comprimendone l’indipendenza, la capacità di ricerca e di adattamento, la capacità di programmare il proprio futuro, di assumere responsabilità e di conoscere le potenzialità del proprio ego. I sistemi di gestione vengono quindi ritenuti responsabili delle frustrazioni e della demotivazione, a causa della struttura rigidamente formale dell’organizzazione, di una direzione autoritaria, di sistemi di controllo ristretti come quelli budgetari, i piani di incentivi e l’analisi dei tempi e dei metodi.
Dalla razionalità aziendale discendono conseguenze incompatibili con lo sviluppo della maturazione personale: Argyris individua tali conseguenze proprio in quei principi che la scuola classica ha indicato come i cardini fondamentali di un’organizzazione “razionale” del lavoro.
La specializzazione dei compiti, ad esempio, se da un lato aumenta il rendimento lavorativo, dall’altro frena la naturale ricerca umana della novità e sviluppa solo “poche e superficiali capacità” , mentre le altre sono condannate ad una lenta atrofia.
In sintesi, Argyris ritiene che le teorie classiche, quelle delle Relazioni Umane e delle neo-relazioni umane si sono avvalse di una concezione quasi deterministica del fattore umano: l’uomo è considerato sottomesso passivamente alle pressioni dell’organizzazione.
Ognuna di queste teorie auspica un tipo di stimolo (finanziario, relazionale o motivazionale) per scatenare i comportamenti desiderati e raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione
Finché le aziende resteranno organizzate in modo scientifico, incomberà sempre il dilemma tra perseguire i fini aziendali, sacrificando l’integrità psicologica dei lavoratori, oppure salvaguardare i lavoratori rinunciando a massimizzare i profitti aziendali.
La soluzione che in più occasioni e scritti propone Argyris, consiste nel creare una dirigenza più sensibile e più democratica, ma nel promuovere la nascita di gruppi informali che si autogestiscano il lavoro discutendo fra loro e trovando le migliori soluzioni, per rendere il lavoro più piacevole.
Naturalmente tale proposta è un po’ debole ed in seguito la sua teoria si è evoluta. La debolezza consiste nel fatto che c’è un rinvio troppo ottimistico ad una presunta democrazia di base che non sempre si riscontra nella realtà quotidiana.
Nella terza fase di sviluppo delle Relazioni Umane (fine anni ‘60), si consolidano, con una maggiore attenzione ai problemi di implementazione ed in una prospettiva sistemica e di pianificazione, le diverse tecniche del personale: sistemi di valutazione, di programmazione delle carriere, di pianificazione retributiva (fasce retributive, dinamica retributiva individuale, i “fringe benefits”).
Si avverte, contestualmente, una diffusa esigenza di coniugare i processi di cambiamento organizzativo, con le politiche di crescita del personale e di collegare la dinamica retributiva dei quadri e dei dirigenti alla performance aziendale ed individuale; la quarta fase di sviluppo della corrente di Mayo (negli anni ‘70) è stata profondamente influenzata dalla diffusione delle teorie e dei modelli organizzativi di matrice “sistemico-situazionale” .
Esse applicano allo studio delle organizzazioni i fondamenti della teoria dei sistemi, sulla base della considerazione che un’organizzazione va intesa come un sistema (insieme di elementi in reciproca relazione tra loro, organizzati per la realizzazione di un fine) complesso (ovvero a sua volta costituito da più sub-sistemi tra loro interagenti) e aperto (nel senso che scambia risorse e restituisce risultati con l’ambiente che lo circonda).
Una più ottimale predisposizione della mansione può pertanto consentire il raggiungimento di prestazioni di livello superiore, qualora preveda la necessaria integrazione reciproca tra fattori tecnologici e fattori umani della mansione stessa, in cui sono contenuti gli aspetti legati alla motivazione ed ai rapporti sociali tra l’individuo e l’organizzazione. Un tale cambiamento di rotta è possibile scorgerlo, in fase primordiale, già a partire dagli anni ‘50 ad opera della Teoria dei sistemi socio-tecnici di Trist, elaborata da un gruppo di ricercatori del Tavistock Institute in Inghilterra e successivamente, trova una più decisa affermazione negli anni ‘70, con la Teoria dei sistemi aperti e quella del sistema organizzativo globale.
La riflessione muove da un’analisi dell’attività lavorativa intesa appunto come “sistema sociotecnico” all’interno della quale tutte le persone impiegate nella produzione costituiscono il “subsistema sociale”, mentre le macchine e le altre strutture costituiscono il “subsistema tenico”.
L’organizzazione efficiente nasce dalla capacità di individuare le migliori modalità possibili per far interagire i due subsistemi e armonizzare le varie componenti.
Negli ultimi decenni il ruolo e l’importanza delle persone all’interno delle organizzazioni è stato progressivamente oggetto di un processo di continua e straordinaria rivalutazione, tanto da assumere il ruolo di vero protagonista delle fortune (o meno) dell’attività dell’organizzazione stessa.
Mantenere collaboratori validi all’interno della propria azienda richiede però forti doti motivazionali. Si ritiene infatti che il lavoro debba essere sempre più un “piacere” piuttosto che un “dovere”, con il conseguente insorgere del rifiuto per i lavori di routine o meno graditi. Queste considerazioni, seppur attuali, erano tuttavia state oggetto di approfondimento già qualche decennio prima.
Nel corso degli anni ‘70, l’Occidente industrializzato venne invaso dai prodotti industriali giapponesi (automobili, radio e televisori, prodotti fotografici) .
Ci si rese conto e si scoprì che tali successi produttivi e di vendita erano legati ad un’organizzazione del lavoro molto innovativa, che di fatto aveva definitivamente superato il modello fordista. Lo studio approfondito della produzione giapponese porta gli occidentali a comprendere che i risultati raggiunti sono il frutto certamente di una grande capacità di lavoro e di disciplina in fabbrica, ma alla base vi è un nuovo modello di organizzazione produttiva avviato già nell’immediato dopoguerra nella fabbrica di automobili Toyota e poi perfezionato, il così detto “modello giapponese”.
Con questa espressione si intende un insieme di modelli organizzativi del lavoro in fabbrica, che trasformano alcuni limiti dello sviluppo industriale classico in risorse innovative.
Di questi vari tentativi il più riuscito è il modello organizzativo che venne attuato alla Toyota nel periodo 1948-60, sotto la direzione di Tsjichi Ohno e che prende il nome di “toyotismo”.
La caratteristica essenziale è innanzitutto la forte riduzione del magazzino sia in entrata che in uscita . A sua volta il prodotto finale doveva arrivare al termine della catena di montaggio senza alcun difetto ed in questa maniera essere rapidamente portato fuori dallo stabilimento per la vendita. Per ottenere tutto ciò (avere i prodotti nel momento in cui servono) è necessaria una stretta collaborazione all’interno dell’azienda, ma anche al di fuori della stessa.
Un’altra caratteristica molto importante è quindi il coinvolgimento dei dipendenti e dei fornitori, ma anche il primato della “qualità totale”.
In realtà il segreto di questo modello risiede nell’enfasi posta sulla creazione di valori aziendali condivisi (quella che viene chiamata la “corporate culture”), sui processi di socializzazione ed internalizzazione della conoscenza attraverso la frequente fluttuazione di informazioni dal top management ai gruppi di produzione, sul caos creativo attraverso la sovrapposizione delle mansioni.
Nel modello giapponese, infatti, le mansioni hanno confini poco precisi ed i dipendenti sono sollecitati a partecipare alle decisioni riguardanti la produzione. Gli operai hanno il diritto-dovere di interrompere il flusso produttivo ogni qualvolta notano anomalie o difetti. Inoltre gli operai vengono preparati ad affrontare nuove situazioni lavorative e, pur mantenendo una specializzazione, sono abituati ad essere polivalenti.
La collaborazione ed i suggerimenti vengono sollecitati ed espressamente richiesti anche ai fornitori esterni rispetto all’azienda ed ai venditori dei prodotti finiti.
Le nuove richieste ed i nuovi suggerimenti possono diventare nuovi stimoli per modificare i prodotti.
Tali modifiche possono essere effettuate con estrema rapidità in quanto tutta l’officina ed il ciclo produttivo è stato impostato per facilitare e non ostacolare i continui aggiornamenti e miglioramenti.
In definitiva, il perno centrale su cui si fondano le tecniche di motivazione del personale, nel modello giapponese, è costituito da un elevato coinvolgimento e partecipazione attiva agli obiettivi aziendali.
Dopo gli anni della cosiddetta “scoperta” del modello giapponese in Occidente vi furono dei tentativi di applicazione. Negli anni ‘80 e ‘90 in varie fabbriche automobilistiche si tenta un aggiornamento delle strutture organizzative.
Il problema principale da superare era quello di acquisire il consenso degli operai ad una produzione più intensa ma anche più responsabile, in presenza di conflitti sindacali o di una manodopera non abituata da decenni ad essere considerata autonoma e responsabile sul lavoro.
In tale contesto, la funzione del personale, che nel passato aveva svolto prevalentemente le attività di amministrazione e gestione dei rapporti contrattuali di lavoro, allarga le proprie attività allo sviluppo organizzativo e del personale, enfatizzandone la valenza economica e collegandolo con il processo di pianificazione strategica e di budgeting.
All’inizio degli anni ‘80 la perdita di competitività delle imprese americane e il successo delle aziende giapponesi ha sollevato l’importanza delle “Risorse Umane”.
Si afferma così la scuola americana dello Human Resource Management basata su un modello teorico contingente: non esiste una scelta ottima, ma è importante la coerenza con la strategia e l’ambiente organizzativo.
Le organizzazioni e la gestione del personale vengono a configurarsi sempre più come sistemi complessi di conoscenze. La quantità e la qualità delle risorse umane disponibili condizionano la formazione e la realizzazione della strategia aziendale, così come le scelte organizzative orientano le politiche di gestione delle risorse umane verso modalità e obiettivi coerenti con la strategia. Il rilievo strategico attribuibile alle politiche di gestione delle risorse umane e alla costante ricerca della motivazione in ambito lavorativo, costituiranno da questo periodo in poi un punto fermo.
© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo