Emozione e decisione
Emozione e decisione
La psicologia del giudizio e delle decisioni a partire degli anni ’60 ha cominciato ad accendere i riflettori sui processi cognitivi che guidano la scelta dell’attore decisionale. In particolare, la ricerca in quest’ambito della psicologia sperimentale ed applicata ha dimostrato che i meccanismi sottostanti la presa di decisione sono del tutto irrazionali
(e.g. Kahneman e Tversky, 1979). Infatti molto spesso il nostro bisogno di prendere la decisione migliore incontra la necessità di risparmiare le nostre risorse cognitive (Simon, 1957). Dunque, quando prendiamo una decisione siamo più propensi ad usare dei processi cognitivi automatici ed intuitivi detti procedure satisfacing (Simon, 1957) o euristiche di ragionamento (Kahneman e Tversky, 1973; 1974), piuttosto che a fare un attenta valutazione di pro e contro di ogni scelta, come sostenevano le Teorie della scelta razionale (e.g. Von Neumann e Morgenstern, 1947). Solo recentemente la ricerca sulle decisioni ha dimostrato che le emozioni giocano un ruolo fondamentale nel processo di scelta (Epstein, 1994; Damasio, 1994). Molti studiosi concordano sul fatto che nei processi decisionali siano coinvolti due sistemi distinti legati a diverse modalità di elaborare l’informazione (Zajonc, 1980; Epstein, 1994; LeDoux, 1996; Kahneman, 2003). Epstein (1994) per esempio ha proposto un modello secondo il quale l’adattamento all’ambiente avverrebbe mediante un sistema esperenziale ed uno razionale. Il primo agisce in maniera rapida, automatica e senza sforzo ma sacrifica l’accuratezza delle percezioni a cui ci conduce in favore della velocità con cui opera. Il secondo è invece più lento, comporta il dispendio di molte risorse cognitive ma allo stesso tempo è capace di un altissimo livello di astrazione in un ottica progettuale anche di lungo termine. Questi due processi di elaborazione dell’informazione coinvolgono anche meccanismi neurali differenti. II sistema esperienziale coinvolge maggiormente il talamo e l’amigdala, due delle strutture più antiche del cervello, mentre quello razionale coinvolge maggiormente la corteccia, che è l’area più evoluta e giovane dell’encefalo. Questi due sistemi si compensano ed interagiscono tra di loro in ogni situazione, tuttavia il sistema esperienziale, per la sua stessa natura è portato a precedere quello razionale nell’elaborazione dell’informazione. Zajonc (1968, 1980), come abbiamo visto, è stato tra i primi a dimostrare la supremazia dell’emozione sulla cognizione. I suoi studi sulla mera esposizione hanno mostrato, inoltre, come le reazioni affettive possano influenzare la nostra preferenza per uno stimolo piuttosto che per un altro. Cosa ancor più sorprendente, non è necessario che l’emozione raggiunga la soglia della consapevolezza perché influenzi il nostro pensiero. Queste scoperte hanno portato molti teorici a parlare di un vero e proprio inconscio cognitivo (e.g. Epstein, 1994), ovvero un sistema fondamentalmente adattivo che organizza l’esperienza senza sforzo, in modo automatico ed intuitivo e così facendo indirizza il nostro comportamento. Naturalmente, questo modalità di organizzare l’esperienza gioca un ruolo determinante anche nei processi di presa di decisione.
Gli studiosi delle decisioni hanno proposto che le emozioni possano influenzare le nostre decisioni in diversi modi. Loewenstein, Weber, Hsee e Welch (2001), ad esempio, definiscono un emozione anticipatoria quando indica una reazione viscerale connessa con la percezione del rischio e dell’incertezza che accompagnano una decisione. Damasio (1994) sulla base di osservazioni fatte su pazienti con lesioni della corteccia ventromediale frontale ha proposto che le nostre scelte siano normalmente guidate da marcatori somatici. Questi corrispondono a sensazioni viscerali e non viscerali che anticipano l’esito al quale può condurre una data azione spingendoci ad evitarla o ad approcciarla. In altre parole, quando un marcatore somatico è negativo funziona come un campanello d’allarme che ci avverte che è meglio evitare quella decisione, quando è positivo invece rappresenta un incentivo verso quella determinata azione. Bechara, H. Damasio, Traner, A. Damasio, (1997) chiedevano a pazienti neurologici con lesioni della corteccia prefrontale e a persone sane di partecipare ad un gioco d’azzardo il cui obiettivo era quello di vincere la maggior somma di denaro possibile. A tutti i partecipanti veniva affidata una somma iniziale di 2000$ fittizi e veniva chiesto di pescare una carta da quattro diversi mazzi. Ogni carta comportava una vincita o perdita di denaro. Tuttavia, due mazzi portavano ad alte perdite ed alte vincite e alla lunga risultavano svantaggiosi mentre gli altri due che mostravano un equilibrio maggiore tra vincite e perdite alla lunga portavano ad un guadagno. Coerentemente con l’ipotesi del marcatore somatico, man mano che le persone sane procedevano nel gioco imparavano a diffidare dei mazzi svantaggiosi, e si concentravano su quelli che portavano a vincite e perdite più contenute. Contrariamente, i pazienti, la cui lesione comportava un grave deficit nell’elaborazione dell’emozione e nella pianificazione, continuavano a scegliere i mazzi svantaggiosi anche dopo che avevano subito ampie perdite. Inoltre, subito prima di effettuare la scelta i pazienti mostravano anche un’attivazione della conduttanza cutanea significativamente inferiore rispetto alle persone sane. Questo studio non solo da una valida dimostrazione di come le emozioni anticipatorie possano guidare le nostre decisioni ma dimostra anche che possono avere un valore adattivo. Tuttavia, le stesse reazioni viscerali che si rivelano utili in un compito come quello che Bechara e colleghi (Bechara, H. Damasio, Traner, A. Damasio,1997) possono rivelarsi fortemente maladattive in altri contesti decisionali. Benartzi e Thaler (1995) hanno mostrato come le emozioni anticipatorie possano spingerci ad investire in obbligazioni sicure piuttosto che in titoli azionari che mediamente offrono un maggior ritorno nel lungo termine.
Oltre alle emozioni anticipatorie, anche le emozioni non strettamente legate alla decisione che dobbiamo prendere giocano un ruolo chiave nell’influenzare le nostre scelte. Isen e Mean (1983) hanno mostrato, ad esempio, che gli affetti positivi ci portano a prendere decisioni in modo più accurato e veloce rispetto agli affetti negativi. I partecipanti di un loro esperimento dovevano valutare sei automobili come se le dovessero comprare. In particolare nella decisione di acquisto dovevano prendere in considerazione nove dimensioni diverse. Tra i partecipanti coloro che subito prima del compito erano stati indotti a provare un emozione positiva mostravano una minore ridondanza nel processo di ricerca ed erano più propensi ad eliminare gli aspetti inutili al fine della decisione. Di conseguenza, questi soggetti giungevano ad una decisione più velocemente rispetto a quelli della condizione di controllo. Isen e Patrick (1983) hanno dimostrato anche che gli affetti positivi influenzano la propensione a rischiare dell’attore decisionale. In un loro esperimento, ad esempio, le persone cui era stato indotto uno stato d’animo positivo nel gioco della roulette erano più propense a affrontare scommesse ma solo se queste comportavano un basso rischio di perdita. Quando la probabilità di perdere la scommessa era alta invece mostravano un avversione al rischio più alta rispetto alla condizione in cui l’affetto non era stato manipolato in alcun modo. Per spiegare questi risultati Isen, Nygren e Ashby (1988) hanno proposto che le persone quando sono di buon umore siano meno propense a correre rischi che potrebbero minacciare il loro stato d’animo.
Ulteriori evidenze di come l’umore possa influenzare la decisione sono state fornite da Forgas (1989) il quale ha preso in considerazione affetti positivi e negativi. In uno studio chiedeva ai soggetti che prendevano parte al suo esperimento di prendere una decisione in merito ad 8 potenziali partner. In una condizione la scelta li riguardava personalmente, mentre nell’altra riguardava un’altra persona. Come Forgas si aspettava i partecipanti che erano stati indotti a provare tristezza erano propensi a considerare variabili interpersonali, mentre coloro che erano stati indotti a provare gioia o piuttosto uno stato emotivo neutrale, facevano più caso alle variabili inerenti il compito. Inoltre, nella condizione di tristezza i partecipanti tendevano ad usare strategie decisionali meno efficaci rispetto agli altri. In particolare, erano più lenti e propensi a considerare aspetti meno importanti ai fini della scelta. Nella condizione di felicità invece erano più veloci, ma in contrasto con quanto dimostrato da Isen et al. (1983), solo se la scelta li interessava personalmente.
Altri ricercatori hanno dedicato i loro studi all’emozione legata all’anticipazione dell’esito della decisione. Loomes e Sudgen (1982), ad esempio, nella loro Teoria del Regret, suggeriscono che il fatto di anticipare la delusione (regret) legata all’esito indesiderato di un alternativa condiziona la scelta. In un’ampliamento di questa teoria Loomes e Sudgen (1986) hanno proposto che oltre al regret, altre due emozioni possono influenzare il comportamento dall’attore decisionale: il disappunto e l’entusiasmo. Ad esempio, Ritov e Baron (1990) hanno mostrato che le persone che sono meno propense a vaccinare un figlio anticipano il regret che deriverebbe in seguito agli effetti collaterali del vaccino.
Mellers, Schwartz e Ritov (1999) hanno proposto una teoria della decisione che mette in relazione emozione anticipata ed emozione esperita. Questa teoria sostiene che l’attore decisionale quando valuta delle scommesse soppesa il dolore anticipato ed il piacere anticipato. Più precisamente, in un primo momento, il decisore valuta il piacere medio legato ad ogni scommessa e successivamente sceglie l’alternativa che massimizza il piacere atteso soggettivo. Mellers et al. (1999), per testare questa teoria hanno messo a punto degli esperimenti piuttosto elaborati in cui i partecipanti dovevano effettuare una scelta tra più alternative. In una condizione, detta di feedback parziale, i partecipanti una volta effettuata la scelta vedevano solo il risultato della propria decisione, in un altra condizione, detta di feedback completo, i partecipanti vedevano anche l’esito che sarebbe uscito nel caso avessero scelto una scommessa differente. I risultati hanno mostrato che i partecipanti si sentivano meglio sia se sapevano di aver evitato perdita più maggiore di quella ottenuta (effetto disappunto), sia se sapevano di aver scelto l’opzione migliore (effetto regret). In aggiunta, i partecipanti erano soggetti ad un effetto sorpresa: il piacere di vincere o di perdere era più intenso quando era inatteso. Mellers e colleghi (1999), dunque, hanno dimostrato che l’attore decisionale preferisce la scommessa che gli consente di minimizzare il massimo dispiacere possibile e di massimizzare il massimo piacere possibile.
Gli sviluppi più recenti hanno portato i teorici a suggerire che il decisore usi i sentimenti che percepisce come informazioni (Loewenstein et al. 2001). Quest’ipotesi è coerente sia con il fatto che l’affetto precede la cognizione (Zajonc, 1968; 1980) sia con il fatto che le persone codifichino affettivamente le conseguenze di alternative come linee d’azione (Damasio, 1994; Bechara et. al 1997). Slovic, Finucane, Peters e Mc Gregor (2002) hanno proposto addirittura che l’affetto possa essere rappresentato come una vera e propria euristica di giudizio: l’euristica dell’affetto o affect heruristic. L’affetto, infatti, proprio come un euristica, ci conduce in una direzione piuttosto che un’altra in modo automatico ed inconsapevole. Quest’euristica è fortemente collegata alla percezione del rischio e quindi anche al processo decisionale. Alhakeacami e Slovic (1994) hanno dimostrato che il piacere che proviamo in una certa attività è correlato negativamente con la rischiosità che le attribuiamo. Per esempio giovani fumatori che iniziano a fumare sono più propensi a farsi prendere dall’impulso del momento e a sottovalutare i rischi legati al fumo. In un esperimento, Finucane, Alhakeacami, Slovic e Johnson (2000) chiedevano ai partecipanti di valutare i benefici ed i rischi associati a diverse attività (ad es.: alcolici, energia nucleare, cellulari, conservanti, motociclette). In una condizione per rendere più difficile l’accesso al sistema razionale (da loro chiamato analitico) davano un limite di tempo per ogni risposta. Come si aspettavano, le attività ritenute più piacevoli erano anche quelle ritenute meno rischiose. In un altro esperimento, Slovic et al. (2002), hanno dimostrato come quest’euristica possa condurci ad incoerenze nel processo decisionale. Questi studiosi in un esperimento chiedevano ai partecipanti di valutare il grado di attrattività di una scommessa. Per alcuni la scommessa implicava una probabilità elevata di vincere una somma di 9$ mentre non si perdeva niente. Ad altre persone, invece, veniva proposta una scommessa che offriva un’elevata probabilità di vincere 9$ ma anche la possibilità di perdere 5 centesimi. Contro ogni regola della logica coloro che avevano visto il secondo formato della scommessa la trovavano più attraente, nonostante implicasse la possibilità di perdere. Gli autori spiegano questo risultato sostenendo che quando la possibilità di vincere 9$ è affiancata dalla possibilità di una piccola perdita è più facile da valutare e quindi anche più facile di da associare ad un emozione, rendendola così più invitante. Coerentemente con questo risultato, Peters (2006) ha suggerito anche che le persone ricorrano a sensazioni affettive quando non hanno abbastanza informazioni per valutare gli stimoli. In contrasto con questo punto di vista, tuttavia, Rubaltelli, Rumiati e Slovic (2010) hanno dimostrato che le persone sono più abili ad utilizzare le loro reazioni affettive quando due stimoli sono valutati in modalità congiunta rispetto a quando queste sono valutate separatamente. In un esperimento questi ricercatori hanno proposto ai loro partecipanti una replica del Paradosso di Ellsberg (1961). Questo Paradosso mostra che le persone preferiscono scommesse dove la probabilità di vincita è nota rispetto a scommesse vaghe, la cui probabilità non è conosciuta. Alcuni partecipanti vedevano entrambe le scommesse appaiate, altri vedevano soltanto una delle due scommesse.
Quando la scommessa ambigua era valutata separatamente (separate evaluation) era valutata significativamente più attraente rispetto a quando era valutata appaiata all’altra (joint evaluation). In un estensione di questo lavoro ho dimostrato (Righi, 2010) che la preferenza per una esito certo rispetto ad uno incerto (effetto certezza; Allais, 1953, Kahneman e Tversky, 1979) si verifica solo nella condizione di joint evaluation. Questi risultati sembrerebbero dimostrare che l’attore decisionale ricorra a feedback affettivi sopratutto quando può operare un confronto tra alternative.
Concludendo, le emozioni influenzano fortemente il comportamento dell’attore decisionale, sia un livello conscio che ad un livello inconscio. A volte le reazioni affettive ci possono indurre in errore, ma in un gran numero di situazioni giocano un ruolo estremamente adattivo nel comportamento del decisore. Un campo strettamente legato al comportamento dell’attore decisionale è quello della beneficienza. Nel prossimo capitolo vedremo il potere delle emozioni nella motivazione all’altruismo.
Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto – © Andrea Righi