La Sindrome da Burnout

La Sindrome da Burnout

 

La sindrome da burnout è una sindrome di esaurimento emotivo con sensazioni di depersonalizzazione e di ridotte capacità sociali.

Quando le situazioni stressanti sono protratte nel tempo creano una fase di allarme, una fase di resistenza ed infine una fase di esaurimento.

Questo significa che le persone attraversano momenti in cui inizialmente mettono in atto strategie e risorse per adempiere all’ esubero di richieste esterne, cercando di adattarsi, per infine ricadere in un vissuto di sconforto e frustrazione che inevitabilmente porterà ad una caduta delle difese messe in atto e alla conseguente comparsa di sintomatologie psicologiche, fisiologiche ed emotive.

La Sindrome da Burnout è caratterizzata da sensazioni di ansia cronica, nervosismo, agitazione psico-motoria, senso di colpa, negativismo, calo dell’autostima e confusione mentale.

Le somatizzazioni fisiche possono variare da persona a persona, quindi si passa dalle emicranie all’insonnia, dai disturbi gastrointestinali a quelli cardiaci.

La percezione del sentirsi logorati, prostrati e spossati avvia la sensazione che non si abbiano più risorse da dedicare all’esterno, l’atteggiamento conseguente di distacco dalla realtà aumenta il senso di depressione e il virare verso atteggiamenti negativi, che possono condurre la persona a percepirsi “inadeguata” a 360 gradi, influenzando tutti i settori della sua vita lavorativa e privata.

Il primo passo per affrontare questa disagevole situazione è la consapevolezza interiore, ovvero il riconoscere che quello che sento e provo non è indice di disturbo mentale!

Sicuramente affidarsi ad un professionista della salute psicologica che sia in grado di guidarci in un percorso volto a ristabilire le strategie più efficaci per affrontare la problematica contingente.

Inizialmente sarà necessario stabilire un lasso di tempo utile per staccare “la spina” dalle situazioni stressor, implementando un percorso evolutivo di consapevolezza circa i propri pensieri, i comportamenti, le modalità di risposta disfunzionali per individuando strategie di intervento più efficaci ed ecologiche per la persona.

Spesso le persone arrivano presso al nostro studio con una salda documentazione medica.

È necessario stabilire i piani di intervento più adeguati alla situazione personale e lavorativa dell’interessato, guidando verso strategie emergenziali e pianificando interventi futuri.

Nei casi più “semplici” una pausa lavorativa e un buon percorso terapeutico supportivo ad indirizzo cognitivo-comportamentale può essere efficace e risolutivo; diverso il caso in cui si inseriscano nella narrazione della persona elementi di mobbing o straining, ovvero singoli episodi di conflittualità particolarmente gravi in grado di sviluppare livelli di frustrazione elevati in chi li vive.

Vedremo mobbing e straining in articoli successivi.

Se ti rendi conto di avere qualcuno di questi sintomi contattaci.

 

Talent retention: 5 strategie efficaci

Talent retention: 5 strategie efficaci

La talent retention è la capacità delle aziende di trattenere i propri talenti all’interno.

E’ già detto, ridetto e stradetto, che le richieste attuali dell’ambiente e dell’economia, tenendo conto anche gli sviluppi tecnologici, richiede di essere duttili, attivi, responsivi, in grado di cambiare e rispondere alle necessità della situazione. Queste capacità dell’azienda, successivamente, sono tenute d’occhio dai nuovi talenti in ingresso e sono fattori importanti sia per il talent management che per la talent retention.

La talent retention, nello specifico, è diventata un tassello fondamentale per molte realtà e molti stati. In Italia, ad esempio, stiamo iniziando a soffrire di una carenza di talenti che sono scappati all’estero nei vari anni. Alcune stime ci dicono che nel futuro avremmo una mancanza di tantissimi laureati.

Già nel 2019 si diceva che all’appello mancavano 160 mila laureati e che le aziende avrebbero avuto forti difficoltà a riempire i posti vacanti. Adesso le cifre sono più che raddoppiate, arrivando ad un tetto di 470 mila laureati o diplomati vacanti.

Questo dato ci fa capire, a livello di risorse, quanto sia importante, e che lo sarà ancora di più nel prossimo futuro, di trattenere le persone e non farle andare via.

La domanda quindi qui diventa: come trattengo le mie persone?

Dobbiamo tenere in considerazione i due fattori cardine che rendono questa una necessità pressante:

  1. il fatto che ci sono fisicamente meno persone per coprire i ruoli
  2. il lavoro cambia costantemente e richiede tanto alle persone.

Ci sono, quindi, delle situazioni in cui possiamo fare qualcosa e altre in cui non abbiamo alcun potere. Da qui possiamo costruire 5 suggerimenti che possano aiutare alla talent retention e a trattenere le nostre persone, i nostri talenti, in azienda.

  1. Aggiustare gli stipendi in base al costo della vista

Sembra un qualcosa di così scontato, eppure l’Italia è l’unico stato dell’Unione Europea dove i salari sono diminuiti negli ultimi 30 anni invece che aumentare e dove non esiste un salario minimo.

Questo rende l’Italia lo stato con gli stipendi più bassi d’Europa.

Tenere uno stipendio basso, non calmierato in base al costo della vita per la persona, comporta inevitabilmente la perdita della figura di riferimento.

       2. Implementare lo smartworking

Per aumentare la talent retention è sicuramente importate dare uno sguardo a cosa fanno i nostri competitor. Uno dei fattori che è stato implementato sino ad oggi è lo smartworking.

Lo smartworking si è amato o si è odiato. Può essere utile in alcune realtà, può essere troppo in altre. La formula magica non esiste, per ogni ambiente di lavoro deve essere calcolata la propria percentuale di lavoro da casa e inserita all’interno della schedule lavorativa normale.

Lo smartworking ha permesso di incrementare la flessibilità delle persone sul posto di lavoro, di utilizzare meglio il tempo legato agli incontri lavorativi, anche se, in alcuni casi, ha incrementato le ore che vengono passate a lavorare. Questo perchè viene a mancare la solida distinzione tra casa e lavoro, che si vanno a fondere in un’unica entità.

Per non parlare dei benefici ambientali che lo smartworking ha, indubbiamente, togliendo dal traffico milioni di machine.

Per implementare un lavoro smart corretto è necessario:

  • equipaggiare i dipendenti con tutti gli strumenti che li rendano in grado di poterlo svolgere agevolmente
  •  fare in modo che la persona non si senta sola ma parte del team
  • intervallare lo smartworking con delle riunioni cadenzate e continuative
  • incrementare ed efficientare la comunicazione aziendale

       3) Riconoscere il duro lavoro e premiare i dipendenti

Tutti noi vogliamo una cosa molto importante sul luogo di lavoro: essere visti.

Essere visti include anche essere premiati se facciamo qualcosa di buono, ricevere dei riconoscimenti sul nostro posto di lavoro, sentirci parte dell’azienda. Solo così sarà possibile la talent retention, fancendo sentire le persone indispensabili.

Dovrebbe essere un punto scontato, ma troppo spesso viene dimenticato o lasciato da parte come punto. In Italia 1 dipendente su 2 non si sente apprezzato sul lavoro.

Quali sono dei comportamenti che possiamo mettere in atto che permettono ai talenti di sentirsi apprezzati al fine di fare una buona talent retention?

  • Si danno dei feddback che siano positivi quando la figura svolge bene il proprio compito oppure costruttivi quando questo non accade
  • Importante ascoltare la nostra risorsa e sentire che cosa ha da dire
  • Dare la possibilità ai talenti di intervenire e poter dire la loro riguardo il proprio posto di lavoro
  • Creare dei team coesi
  • Avere un buon clima e benessere organizzativo

         4. Presta attenzione al benessere delle tue risorse umane

Hai svolto la valutazione dello stress da lavoro correlato come sancito dal d.lgs 81/08?

Se non l’hai ancora fatto è il momento di farlo, Oltre alle manovre obbligatorie per legge ci sono tante cose che possono essere fatte per dare valore al proprio capitale umano e farlo sentire parte del tutto.

Non soltanto attraverso meccanismi di individuazione del disagio, come la valutazione dello stress o le valutazioni di clima, ma anche attraverso misure preventive di benessere. Possono essere, infatti, messe in atto tutta una serie di attività utili a migliorare il clima aziendale prima che avvenga qualcosa, come ad esempio:

  • formare tutte le risorse all’interno dell’organizzazione. Limitare la formazione a quella obbligatoria per legge non è sufficiente e le tue persone lo sanno
  • fare dei team building per dare la possibilità alle persone di creare legami anche esterni al posto di lavoro
  • fornire percorsi di empowerment. Ci sono delle caratteristiche che la tua persona non ha e che vorrebbe avere per ricoprire al meglio il suo ruolo? Un percorso di sviluppo delle proprie competenze o di coaching può essere ciò che fa al caso della persona

Queste sono alcune delle cose che possono essere fatte all’interno dell’azienda per la talent retention.

         5. Fare attenzione ai rapporti tra le persone

Uno studio molto interessante di Udemy ci dice che il 50%delle persone che ha lasciato il porprio lavoro lo ha fatto per un pessimo manager o capo.

Questo è un dato molto interessante, oltre a tutti gli altri che abbiamo legati all’importanza dei rapporti umani all’interno dell’azienda. Dobbiamo sempre ricordarci che l’azienda è fatta di persone e i loro rapporti sono l’indice di quanto l’azienda stia bene o no.

Creare ambienti dove le persone abbiano dei buoni e floridi rapporti tra di loro, permette non solo di far stare bene le persone, ma anche di aumentare la soddisfazione lavorativa, la creatività, la voglia di venire a lavoro e, di conseguenza, la produttività.

 

Queste sono alcune delle cose che possono essere messe in atto per la talent retention, ne vedremo altre nel prossimo futuro!

Stay tuned

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stress

Quanta stanchezza! Non sarà mica stress?

Quanta stanchezza…e quanto stress!

La pandemia ci ha messi a dura prova, per un periodo molto molto lungo. Volente o nolente tutti ne abbiamo risentito, se non nella via privata sicuramente in quella lavorativa. Sia direttamente che indirettamente.

Ci ha lasciati privi di forze e stanchi, stremati, senza energie. Questo è successo soprattutto sul lavoro: il fenomeno della great resignation è ancora in atto.

Un fiume di stanchezza che non capiamo bene da dove venga..e se provenisse dallo stress?

Ma che cos’è lo stress sul posto di lavoro?

Lo stress è la capacità che ha un dato organismo di sopravvivere alle situazioni ambientali. Per stress si intende proprio quel’attivazione fisica che permette la sopravvivenza tramite la reazione di attacco/fuga.

Quando lo stress avviene sul posto di lavoro si chiama stress da lavoro correlato.

Stime della FIASO ci dicono che 1 lavoratore su 4 soffre di stress da lavoro correlato, la spesa calcolata sull’EU-15 è di 20 miliardi di euro.

Per non parlare di quello che è il costo uscendo dall singola realtà, guardandolo più in generale in tutte le patologie corollarie che causa.

Alcune stime riportano che il  75-90% di tutte le visite mediche sono per problematiche relative allo stress.
Il 77% delle persone si rende conto che lo stress ha un impatto sulla salute fisica e il 73% su quella mentale.
Il 48% ha problematiche legate al sonno a causa dello stress

Come funziona lo stress?

Tramite gli occhi vediamo lo stimolo, il messaggio viene trasportato al cervello, nello specifico alla corteccia visiva. Nel caso in cui nel nostro campo visivo ci sia qualcosa che è pericoloso per noi si attiva l’amigdala. L’amigdala lancia l’allarme e da lì tutto l’organismo si prepara.

Non è un pericolo ma piuttosto la minaccia di un pericolo a innescare più spesso la risposta di stress

Daniel Goleman

L’attivazione dei pompieri fisici si ha tramite l’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene che, stimolati, dicono al corpo di produrre tutte le sostanze che servono:

  • rilasciato dall’ipotalamo il fattore di rilascio per la corticotropina (CRH) che stimola l’adenoipofisi a produrre l’ormone adrenocorticotropo o corticotropina (ACTH)
  • L’ACTH a sua volta agisce sulle ghiandole surrenali stimolando la produzione di corticosteroidi

Scendendo dalla colonna vertebrale proprio come farebbero i pompieri nella loro caserma, la cascata enzimatica si espande poi in tutto il corpo. Tutte sostanze che ‘attivano’ o ‘spengono’ alcune zone tramite il sistema simpatico e quello parasimpatico, una rete di nervature che collegano la colonna vertebrale agli organi.

La parte simpatica possiamo dire che attiva:

  • tende i muscoli, perchè bisogna essere pornti a combattere o fuggire
  • le vene e le arterie si dilatano, per permettere maggiore afflusso di sangue ai muscoli
  • il cuore batte più forte per portare più sangue ai muscoli
  • i polmoni si dilatano per portare più ossigeno ai muscoli

D’altro canto il sistema parasimpatico chiude tutto ciò che non serve sul momento per fuggire o scappare:

  • spegne l’intestino, grande consumatore di energia, che serve invece ad altre zone
  • restringe i piccoli capillari delle estremità
  • spegne la salivazione

Attività sinergiche per permetterci di combattere o fuggire per la nostra sopravvivenza. Un’attivazione massiccia per il nostro organismo, che mobilita moltissime sostanze e sone del corpo proprio per sopravvivere.

Quest’attivazione quindi è positiva, ci permette di non morire e di reagire efficacemente all’ambiente.
Allora quando è che diventa negativa?

L’attivazione dello stress diventa negativa quando dura troppo nel tempo. Infatti tutto quello che è positivo sul momento diventa negativo a lungo andare. Possiamo immaginare i muscoli costantemente tesi che producano contratture. Le vene continuamente sotto stress rischiano di ledersi e assottigliarsi. L’intestino sempre sottoperformante può portare a irritazioni o a sindromi. Il corticolo di per sé stesso, in grandi quantità, è lesivo delle pareti del cuore.

Tutto il complesso di attacco/fuga fondamentale per la nostra sopravvivenza ci si ritorce contro quando rimane troppo tempo attivo o accade troppe volte di fila senza avere il tempo di recuperare.

Ma come può succedere che si attivi per così tanto?

Mentre la nostra attivazione dell’organismo è rimasta la stessa per millenni noi ci siamo evoluti e con noi anche la società in cui siamo inseriti. Non siamo più in totale balia della natura. Ciò che ora ci causa paura e attiva il nostro sistema di sopravvivenza sono paure più quotidiane: il lavoro, il traffico, il professore, la collega.

Il rimanere cronicamente attivati comporta un esaurimento delle nostre risorse interne, mentali e fisiche. Non riuscire a ricaricarsi modifica il nostro modo di reagire all’ambiente. Entriamo in un circolo vizioso in cui non siamo più consapevoli e attenti a ciò che sta succedendo intorno a noi ma siamo trasportati dai fatti che ci succedono. Questo non fa altro di farci rientrare in una spirale di sempre maggiore stress dal quale rischiamo di non riuscire a trovare una via d’uscita.

Lo stress ci porta sulla soglia delle nostre capacità di reagire all’ambiente, quando è troppo non riusciamo più a farlo efficacemente rischiando patologie ben più gravi.

Anche gli stessi modi di far fronte allo strss possono essere autodistruttivi e comportare un ulteriore incremento dello stress:

  • alcool e sigarette
  • uso di sostanze
  • negare l’esistenza del problema
  • fare finta di niente
  • concentrarsi in attività frenetiche e compulsive
  • mangiare troppo o troppo poco
  • dormire troppo o troppo poco

All’inizio queste strategie possono sembrarci utili ed efficaci per il problema, a lungo andare sveleranno il fatto di non esserlo.

Un cane che si morde la coda, insomma. Una situazione difficile che, malamente gestita, diventa una polveriera pronta a esplodere.

Ma adesso diamo qualche risoluzione per far fronte allo stress..

Se mi trovo in una situazione di stress cosa faccio?

Innanzi tutto è utile capire che cosa sia lo stress per me. Acquisire consapevolezza dei miei limiti mi aiuterà, nel futuro, a capire quando li sto attraversando.

Fare un passo indietro e osservare la situazione come se fossimo un osservatore esterno. Questo ci permetterà di vedere meglio la situazione che ci troviamo ad affrontare.

Utilizzare delle tecniche di respirazione, nello specifico concentrandosi sull’espirazione. Il diaframma interagisce con la nervatura del vago e permette un rilassamento del cuore.

La parte di fondamentale importanza è quella di prendere consapevolezza di noi stessi, di quelli che non i nostri automatismi che ci portano inevitalmente a provare stress. Imparare a non reagire più automaticamente ma poter scegliere consapevolmente come rispondere ci insegna a fermarci, prendere tempo, uscire dalle abitudini e creare un circolo vitale virtuoso.

 

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Sitografia:

NCBI

AIS

Fiaso

 

Saper parlare non vuol dire comunicare bene

Parlare non vuol dire comunicare bene.

Il potere delle parole, quello che siamo abituati a sottovalutare.

Nasciamo con le corde vocali e la capacità, come specie, di poter parlare che ci discosta enormemente dalle altre. Per quanto un animale possa imparare ad articolare una serie di suoni e attribuirli un senso, non sarà mai in grado di articolare le lingue come possiamo fare noi. Non possedendo il nostro sistema fonatorio gli animali sono impossibilitati a farlo.

Nascere con questa capacità è una forza e, al tempo stesso, una debolezza.

Una forza perchè, saper parlare, ci ha permesso di riunirci in comunità e di poterci scambiare le reciproche informazioni. Ha permesso di esprimere i concetti, di raccontare situazioni, di narrare storie.

Una debolezza perchè saper parlare naturalmente ci fa dimenticare quanto sia un’operazione delicata parlare. Perchè saper parlare non vuol dire comunicare bene.

Come sappiamo bene (ormai) la comunicazione si divide in: verbale, non verbale e paraverbale.

E’ assodato che la parte comunicativa verbale, quindi solamente quello che viene detto, compone una piccola parte della comunicazione finale.

Lo abbiamo anche provato sulla nostra pelle. Con le chiusure del lockdown i contatti sono mutati esclusivamente in digitale e telefonico. Abbiamo incontrato collaboratori e aziende confrontandoci con delle voci senza corpo, al di là della cornetta. Abbiamo erogato corsi di formazione dove il focus principale era solo la nostra voce.

Quindi sappiamo bene cosa vuol dire sentire una voce che non ci piace e che non sa parlare bene. Ma che cos’è nella voce che non ci piace? Che cosa ci permette di dire che una persona è un buon divulgatore e un’altra no?

Ovviamente il contenuto verbale ha la sua importanza: ascoltare un discorso con poco contenuto è spiacevole tanto quanto sentire un discorso con tanto contenuto ma detto molto male.

Ciò che ci rende simpatici o antipatici è il paraverbale, tutto ciò che accompagna la comunicazione ma non è il contenuto verbale delle parole e delle frasi. Perciò: il tono, il ritmo, la prosodia, il modo di gestire le pause, il timbro.

Una persona che parla in modo estremamente veloce, inserendo poche pause annaspate e con un tono estremamente squillante ci porterebbe, inevitabilmente, a chiudere il telefono in faccia.

Eppure, nonostante queste informazioni siano quasi di luogo comune, lo sottovalutiamo. Non diamo peso a quanto sia importante una voce ben gestita come biglietto da visita.

Fermo restando che non ci sono due occasioni per una prima impressione. La prima impressione è fondamentale. Studi neuroscientifici ci dicono che per crearci una prima impressione di una persona ci bastano pochi millesimi di secondo.

Ci sono situazioni, soprattutto quelle lavorative, in cui non hai l’occasione di recuperare quel momento. E’ estremamente importate avere nozioni di comunicazione e di non verbale per riuscire, da subito, a dare l’impressione migliore all’altra persona.

Questo non deve essere fatto in un’ottica di ‘fregare’ l’altr*.

Una buona comunicazione è una comunicazione che è in grado di creare sintonia e sinergia immediata, permettendo ai parlanti di sentirsi a proprio agio. Comunicare bene significa, al contrario dei luoghi comuni,

Quante volte possiamo dire di esserci sentiti a nostro agio a parlare con le altre persone? Ci siamo mai soffermati a capire perchè questo sia accaduto?

Questo accade per varie ragioni. Innanzi tutto la comunicazione contempla sempre almeno due persone, qualcuno che comunica e qualcun altr* che riceve la comunicazione. Questo significa che quando si comunica lo si fa verso un’altra persona e ci si aspetta un ritorno da questa persona, in modo bidirezionale.

Per tarare una comunicazione efficace bisogna innanzi tutto abituarsi a guardare e ascoltare l’altra persona. Sembra paradossale: perchè per comunicare bene dovrei ascoltare bene?

Diventare un buon ascoltatore vuol dire saper capire cosa gli altri ci stanno dicendo e come ce lo stanno dicendo. Questo ci permette di entrare, almeno un pochino, nella mente dell’altr*. Potremmo adeguare la nostra comunicazione di conseguenza.

Osservare l’altra persona, inoltre, ci da il feedback immediato se la nostra comunicazione sia o meno efficace. Se chi ci ascolta si sta annoiando è qualcosa che riusciamo a recepire immediatamente da come si dispone nello spazio.

Non ci si può allenare nella comunicazione da soli, comunicare è un duro lavoro che va fatto insieme!

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Comportamenti di acquisto: Obiettivi della ricerca

Comportamenti di acquisto: Obiettivi della ricerca, Procedura e Partecipanti

Gli obiettivi della ricerca sono molteplici e possono essere così sintetizzati:

  • indagare le credenze comportamentali, di controllo e normative riguardo il comportamento in oggetto, e cioè l’acquisto dei prodotti alimentari biologici, considerando il Modello Aspettativa-Valore (Fishbein e Ajzen, 1975);
  • testare la validità della Teoria del Comportamento Pianificato (Ajzen, 1991; Ajzen e Madden, 1986) applicandola al comportamento di acquisto di prodotti alimentari biologici;
  • testare ulteriori modelli estesi con ulteriori costrutti non presenti nel modello originale della TPB, cioè la norma morale, la self-identity e il comportamento passato, ed esaminare se questi consentono di migliorare il potere esplicativo della teoria e come sono in relazione con atteggiamento e comportamento.

Procedura e partecipanti

La ricerca si è svolta in tre diversi momenti tra Luglio e Ottobre 2014.

In una prima fase, è stato svolto uno studio pilota con il quale sono state indagate le credenze comportamentali e di controllo relative al consumo di prodotti alimentari biologici su un gruppo di 40 persone, delle quali 20 facevano parte di aziende agricole e 20 erano persone che non avevano direttamente a che fare con il lavoro in azienda agricola. I partecipanti dello studio pilota erano tutti adulti, residenti per la maggior parte nelle provincie di Padova, Rovigo e Ferrara. Nella seconda fase è stato somministrato un questionario di sette facciate ad un campione più ampio di persone; successivamente nella terza e ultima fase, si è somministrato  un secondo questionario alle stesse persone, le quali sono state ricontattate dopo un mese dalla compilazione del primo questionario al fine di rilevare il comportamento d’acquisto adottato nel mese precedente.

L’analisi[1] delle caratteristiche degli individui che hanno partecipato alla seconda fase della ricerca, mostra che il questionario è stato somministrato a 242 adulti, di cui 92 uomini (il 38%) e 150 donne (il 68%), con un età compresa tra i 19 e gli 88 anni. La media dell’età è di 42.30 e la deviazione standard di 14.56.

Per quanto riguarda il titolo di studio, il 47.1% dei partecipanti è in possesso di un diploma di scuola media inferiore, il 30.6% possiede una laurea ed il 22.3% si è fermato alla scuola dell’obbligo.

Le risposte relative all’occupazione sono state classificate in due modalità; la prima modalità fa riferimento al tipo di lavoro indicato, nella seconda modalità, invece, le occupazioni sono state categorizzate sulla base del livello sociale della professione. Per quanto riguarda il primo criterio, è emerso che il 33.9% sono impiegati o tecnici,  il 15% sono imprenditori, liberi professionisti, agricoltori, artigiani o commercianti, cioè persone che svolgono un attività in proprio, il 9.6% sono operai o braccianti che svolgono un lavoro essenzialmente manuale, il 9.2% sono dipendenti addetti al commercio e alla ristorazione e ai servizi alla persona,  l’8% sono dirigenti, insegnanti o educatori, l’1.7% sono infermieri, operatori sanitari o militari, ed infine il restante 22.5% sono casalinghe, studenti, pensionati o disoccupati.

Successivamente, le professioni fornite sono state codificate in sei livelli di prestigio sociale, in cui ogni livello è definito da diversi criteri, ad esempio in base al fatto che il lavoro svolto sia manuale o di tipo impiegatizio, se alle dipendenze o svolto in proprio, se svolto in proprio e con dipendenti, associato conseguentemente ad un titolo di studio.

Questo permette di valutare un’occupazione non solo in termini economici, ma anche di prestigio sociale e di stile di vita ad esso associato (Manganelli e Canova, 1995). Il livello inferiore raggruppa i lavori di tipo manuale svolti alle dipendenze di altri o in proprio, associati al titolo di studio della scuola dell’obbligo. Il livello medio comprende in genere piccoli imprenditori, commercianti, gestori di bar, trattorie o ristoranti, impiegati, rappresentanti, insegnanti, al quale il titolo di studio associato è quello della scuola dell’obbligo o un diploma di scuola superiore. Il livello superiore comprende i liberi professionisti, gli imprenditori di medie e di grandi imprese, i dirigenti di imprese o di enti pubblici, gli insegnanti di scuole medie superiori e i docenti universitari, che tendenzialmente come titolo di studio possiedono una laurea. Ognuno di questi sei livelli è suddiviso in uno alto e in un basso, per un totale di sei livelli appunto. Dai dati ottenuti sulla base di questa codifica è emerso che il 52.5% appartiene ad uno status occupazionale medio, di cui il 31.8%  medio basso ed il 20.7% medio alto; il 19% ha un occupazione di livello inferiore, di cui il 12.4% inferiore alto ed il 6.6% inferiore basso; il 5.4% dei rispondenti ha invece un livello di status superiore, di cui il 3.7% superiore basso e l’1.7% superiore alto. Escluse da questa classificazione ci sono le occupazioni come casalinga, pensionato o disoccupato, studente, tirocinante, che coprono il 23.2% del resto dei rispondenti.

Per quanto concerne la provincia di nascita, dall’analisi emerge che a maggior parte  dei partecipanti sono nati nel Nord-Est (l’83.8%), con una concentrazione maggiore in provincie come Padova (41.9%) e Rovigo (37.8%); il 10.4% è nato al Centro, di cui il 9.5% nella provincia di Ferrara; il 3.6% è nato al Sud o all’Estero.

Relativamente alla provincia di residenza troviamo che l’8,9.% dei partecipanti risiede al Nord-Est, di cui l’88.5% in Veneto e nello specifico nelle provincie di Padova (45.5%) e Rovigo (40.1%); il resto dei partecipanti risiede in Emilia-Romagna (11.2%), di cui il 9.5% nella provincia di Ferrara.

Rispetto allo stato civile, notiamo che più della metà degli intervistati è coniugato o convivente (60.7%), mentre il 33.5% è celibe/nubile, il 3.3% è separato ed il 2.5% è vedovo. Inoltre, il 65% dichiara di avere figli a carico.

Relativamente al reddito mensile netto della famiglia, nessuno dei partecipanti dichiara di percepire fino a 500 euro, il 7.5% dichiara di percepire da 500 a 1000 euro, il 21.5% da 1000 a 1500 euro, il 16.2% da 1500 a 2000 euro, il 18% da 2000 a 2500 euro, il 17.1% da 2500 a 3000 euro, l’11.8% da 3000 a 4000 euro, ed infine il 7.9% percepisce più di 4000 euro. I dati sono esposti in Tabella 3.1.

Tabella 3.1 Reddito dei partecipanti

Fascia di reddito (in euro) Fino a 500 Da 501 a 1000 Da

1001 a

1500

Da

1501 a

2000

Da

2001 a

2500

Da

2501 a

3000

Da

3001 a

4000

Più di 4000
Percentuale partecipanti 0% 7,5% 21,5% 16,2% 18% 17,1% 11,8% 7,9%

E’ stato chiesto infine di indicare l’orientamento politico in un continuum lungo 10 centimetri dove lo “0” era associato all’estrema sinistra e il “100” all’estrema destra; la media dell’orientamento politico dei partecipanti è 48.60 e la deviazione standard è 28,46.

Per quanto riguarda la terza fase ed ultima fase,  degli stessi 242 partecipanti che hanno compilato il primo questionario, ne hanno preso parte 235.

[1] In questa e nella successiva fase i dati sono stati raccolti in collaborazione con Marta Pinarello

 


© L’acquisto di prodotti alimentari biologici. Analisi di modelli estesi della Teoria del Comportamento Pianificato  – Dott. Filippo Barretta


Counseling Strategico: ancora tecniche

Counseling Strategico: ancora tecniche

Foto di Arek Socha da Pixabay

Tecnica dell’ordalia

Il terapeuta impone un compito esasperante adeguato al problema della persona, compito che deve risultare maggiormente noioso rispetto al problema stesso.

L’ordalia deve essere congeniata in modo da risultare positivo ed attuabile per il soggetto, che non può legittimamente opporsi.

L’ordalia può essere strutturata in modo diretto, paradossale (prescrizione del sintomo) oppure in modo tale da coinvolgere altre persone o il terapeuta stesso (per esempio, aumentando l’onorario ogni qual volta si verifica il sintomo) (Haley, 1984).

Prescrizione di comportamenti in atto

Nel caso in cui il soggetto si mostri resistente all’attuazione di un qualsiasi agire, il terapeuta può prescrivergli ciò che già sta mettendo in atto, in modo tale da restituirgli una dimensione attiva (Haley, 1985).

Tecnica dell’illusione di alternative

Quando il terapeuta deve impartire una prescrizione ritenuta troppo impegnativa per il paziente, gli si assegna la possibilità di scelta tra due compiti di cui il secondo deve risultare meno ansiogeno e maggiormente attuabile del primo (Nardone, 1991).

Uso del paradosso

Vengono impiegate azioni e comunicazioni paradossali illogiche ed impreviste che producono il salto del livello logico indispensabile al cambiamento, modificando una rigida e compulsiva situazione percettivo-reattiva.

Si possono amplificare ed esasperare le lamentele e le fissazioni del paziente fino a condurre egli stesso alla rassicurazione del terapeuta (Nardone, Watzlawick, 1990; Nardone, 1991).

Ristrutturazione

Consiste nell’indurre il paziente ad una ricodificazione di immagini e percezioni della realtà mediante spostamento del punto di osservazione.

Secondo Gulotta (1997), la ristrutturazione consiste nel modificare la struttura concettuale ed emozionale di una situazione, ottenendo una alterazione del significato che le viene attribuito.

Se il problema può essere visto e vissuto in maniera alternativa, allora può essere ridotto o eliminato, dal momento che la sua esistenza è intimamente associata con la prospettiva di chi è coinvolto.

Ad esempio, viene operata una ristrutturazione all’interno di una struttura familiare definendo una lite come espressione d’amore.

Se la lite viene ripercepita dai suoi membri come un tentativo di unione, allora i comportamenti messi in atto per alimentarla possono essere trasformati in una serie di condotte tese alla vicinanza.

Vissuta in modo diverso, la situazione non ha più bisogno di essere problematica.

Allo scopo di realizzare una ristrutturazione, possono essere utilizzati paradossi, dubbi ipotetici, storie e metafore, punti di vista alternativi, manovre che sorprendono e conducono un cambiamento nel sistema percettivo-reattiva del paziente (Nardone, Watzlawick, 1990; Nardone, 1991).

La ristrutturazione può essere realizzata anche attraverso analogie terapeutiche e sillogismi informali (Erickson, Rossi, 1989).

Uso dell’ironia

L’ironia possiede uno straordinario potere nel ristrutturare, attraverso il senso dell’humor o il ridicolo, situazioni che viste nella loro serietà o tragicità vengono vissute come inaccettabili ed immutabili.

Una ristrutturazione ironica del tema in discussione è in grado di cambiare la cornice percettiva e le conseguenti reazioni del paziente nei confronti di tale realtà (Nardone, 1991).

L’umorismo può essere utilizzato in terapia considerandone gli effetti a breve e lungo termine.

Nell’immediato del contesto terapeutico, può servire ad alleviare la tensione, a sdrammatizzare una situazione, ad esorcizzare la paura, a creare un clima di collaborazione, ed evitare la mitizzazione del terapeuta, a far accettare ciò che è proibito, a trasferire concetti altrimenti ostici.

A lungo termine, insegnare a vedere e ad affrontare la vita puntando sull’umorismo significa far apprendere un’abilità che può diventare decisiva.

L’umorismo va usato per consentire al paziente di riflettere sui suoi problemi in maniera diversa e creativa, e per aumentare la capacità stessa di risolvere i problemi.

Con pazienti poco portati all’umorismo, per disposizione personale o per situazioni particolarmente difficili, si può far ricorso all’immaginazione di situazioni divertenti.

Anche comportamenti non verbali possono essere usati umoristicamente (Gulotta, 1997).

Dichiarazione d’impotenza  

È una tecnica particolarmente indicata con quei pazienti che, invece di pensare a migliorare il proprio comportamento, sono più interessati a sconfiggere il lavoro del loro terapeuta.

In questo caso, poiché ogni tentativo da parte del terapeuta di cambiare viene sabotato, l’unica soluzione diventa ammettere umilmente la propria incapacità nel riuscire a facilitare il cambiamento.

La reazione del paziente a questa confessione è di stupore, accompagnata spesso da un forte timore di sentirsi improvvisamente abbandonati.

L’ammissione di incapacità da parte del terapeuta porta il paziente a fare un esame di coscienza e a riconoscere la propria parte di responsabilità nel mancato cambiamento.

In questo modo il terapeuta acquista parte del controllo sulla relazione sfidando il cliente ad impegnarsi affinché lo convinca che egli, in fondo, è capace di fare un vantaggioso uso del trattamento (Gulotta, 1997).

Tecnica della concretizzazione

Dinanzi a problematiche formulate in maniera generica, lo scopo della tecnica risulta nell’accumulazione di un numero sufficiente di esempi concreti che permettono di incominciare a scorgere i contorni del problema, la maniera in cui il cliente lo percepisce, i ruoli assunti, le diagnosi inespresse (Schein, 1987).

Accento sul processo

Dal momento che i problemi vengono per lo più descritti in termini di contenuto, risulta utile riuscire a far riformulare il problema in termini di processo, allo scopo di identificare in quale fase si è verificato il problema.

Inducendo la ricostruzione del processo, non solo vengono reperiti dettagli utili, ma viene anche insegnata al cliente l’importanza di ragionare per ricavare la propria diagnosi del problema (Schein, 1987).

Feedback

Il feedback viene inteso come un’informazione sul progresso compiuto da una persona in relazione ai suoi obiettivi.

Non appena il consulente o il terapeuta ha un’idea rispetto a ciò che il cliente sta tentando di ottenere, gli può fornire un feedback su come sta avanzando verso il conseguimento di tali obiettivi (Schein, 1987)”.

L’esposizione in via generale di alcuni dei tratti salienti della terapia breve strategica e delle principali tecniche strategiche, caratterizza lo stesso approccio in riferimento all’area del Counseling. Nella fattispecie il Counseling Strategico può essere definito come “l’arte di risolvere problemi complicati, mediante soluzioni semplici”. Tale modello muove dall’idea che un disagio, emotivo o relazionale che sia, viene generato in funzione del come si percepisce la realtà circostante, e dai comportamenti disfunzionali attivati in relazione alla stessa. “Obiettivo dell’approccio breve strategico è l’interruzione di quel circolo vizioso che porta ad adottare un comportamento disfunzionale che, come tentata risposta al disagio, invece di porre fine alla sofferenza la acuisce” (www.ierf.it, 2014).

Il Counselor strategico, in linea con i principi generali della relazione d’aiuto, deve essere in grado di fornire una risposta efficace ed idonea ad ogni singolo caso; deve saper elaborare tecniche specifiche “strategiche”, da ricucire addosso al cliente che ha preso in carico. L’approccio strategico si rivolge sia alla singola persona che ai gruppi (coppia, famiglia o organizzazioni) e muove nell’ambito dell’asse comunicazionale-relazionale. Attraverso l’instaurarsi di una relazione autentica risulta possibile mediare e facilitare processi adattivi a sfavore di processi disfunzionali, nonché acquisire l’arte dell’imparare ad “aiutarsi da sé”, per gestire le situazioni nel “qui ed ora e allora”.

Oltre alle varie tecniche dell’approccio breve strategico, già sopraccitate, un ulteriore modello efficace del Counseling strategico è il Problem Solving Strategico elaborato da Nardone presso lo “Strategic Therapy Center” (STC) Change Strategies, centro fondato dallo stesso Nardone e da Watzlawick. Tale modello affonda le sue radici nelle teorie del costruttivismo di von Glasersfeld e von Foerster, nelle scoperte della comunicazione di Bateson e Erickson e nelle ricerche sui principi della comunicazione del Mental Research Institute (MRI), noto come “Scuola di Palo Alto” (Watzlawick, Weakland, Fisch, Jackson), approfonditi in seguito da Paul Watzlawick nella sua “Pragmatica della Comunicazione Umana” (1967). Tale modello è adatto alla risoluzione di problematiche relazionali per il singolo, per la coppia e la famiglia; consente l’applicazione di interventi mirati sui singoli o a livello sistemico. Il Counseling Strategico così inteso è finalizzato a produrre un cambiamento concreto, partendo da un’indagine del “come funziona” il problema piuttosto che delle cause che lo hanno originato, le quali vengono spesso svelate indirettamente dalla sua soluzione.

Tra il problema e la soluzione il Problem Solving Strategico si articola nelle seguenti fasi:

  1. Definire il problema: Per definire concretamente il problema occorre partire dall’analisi del cosa sia realmente il problema, comprendere chi viene coinvolto, in quale contesto si verifica, in quale situazione e con quale modalità si manifesta. Per guardare il problema con diverse prospettive ci si può avvalere del livello immaginativo, ipotizzando come le altre persone che conosciamo possano percepire lo stesso problema. Se come obiettivo, invece, ci si prefigge solo il miglioramento di una data situazione, allora può essere utile partire dal raggiungimento dell’obiettivo per poi procedere a ritroso analizzando le difficoltà, le carenze e le resistenze che bloccano la strada volta al cambiamento.
  2. Accordare l’obiettivo: Il passo successivo alla definizione del problema è stabilire i cambiamenti utili alla risoluzione del problema stesso. Bisogna tener ben presente quale realtà concreta potrebbe realmente farci ritenere che l’obiettivo sia stato raggiunto. Nel caso il lavoro riguarda un team, risulta fondamentale consolidare il gruppo allineandosi sinergicamente sino al pervenire alla stessa percezione degli obiettivi da raggiungere e della strada; bisogna stabilire un clima di compartecipazione attiva tra i membri.
  3. Analisi e valutazione delle tentate soluzioni: Bisogna sempre soffermarsi sulle tentate soluzioni e relativi fallimenti dato che, talvolta, sono proprio queste ad alimentare il problema che si cerca di risolvere. Concentrare l’attenzione sui tentativi fallimentari messi in atto per raggiungere l’obiettivo prefissato libera dalla tendenza a sforzarsi attivamente di trovare soluzioni senza prima aver indagato su tutto ciò che non funziona. Questo passaggio serve ad escludere cosa non ha funzionato e nello stesso tempo ad identificare cosa abbia invece funzionato e se può essere applicabile nella nuova situazione.
  4. Tecnica del come peggiorare: Consiste nel simulare delle azioni peggiorative al fine di far emergere cosa abbia reso stagnante il processo di tentata risoluzione del problema. In sostanza l’emergere e descrivere delle azioni peggiorative accende un meccanismo tale da provocare un’avversione verso tutte le possibili azioni fallimentari sperimentate in precedenza.
  5. Tecnica dello scenario oltre il problema: Un’altra strategia utilizzabile per la risoluzione di un problema è quella di ipotizzare lo scenario “al di là del problema”, ovvero immaginare cosa troviamo di fronte dopo il cambiamento. Tale strategia consente di individuare attraverso il livello di esperienza immaginativo, quali possono essere gli aspetti realizzabili per il raggiungimento dell’obiettivo prefissato e quali possano rivelarsi effetti collaterali nonostante la risoluzione del problema per il quale ci siamo attivati.
  6. Tecnica dello scalatore: Questa tecnica consente di individuare la sequenza di piccoli passi da fare per poter raggiungere la vetta. Siccome il primo passo è sempre quello più complesso e difficile da individuare si fa ricorso alla tecnica dello scalatore: si parte dalla vetta invece che dalla base e si procede a ritroso sino al punto di partenza. Questo processo consente di individuare il percorso concretamente necessario alla risoluzione del problema, nonché di frazionare una serie di micro – obiettivi che ci risparmiano inutili dispersioni di energie o spropositati e inutili passi.
  7. Aggiustare il tiro progressivamente: Una volta stabilita la visione globale del problema e delle strategie da intraprendere è necessario affrontare piccoli problemi in sequenza fino al giungere alla soluzione definitiva. In pratica si tratta di aggiustare progressivamente il tiro avendo ben chiaro e definito l’obiettivo da raggiungere, in modo da gestire nello stesso tempo i vari cambiamenti determinati da ogni singola azione (Nardone, 2009).

 


La relazione d’aiuto secondo l’approccio strategico

La relazione d’aiuto secondo l’approccio strategico

 

 La relazione d’aiuto, come accennato nei precedenti capitoli, si avvale di una serie di metodologie e strumenti derivanti dalle varie scuole di pensiero psicologiche e psicoterapeutiche. Una delle più recenti metodologie che sembra riscuotere un certo grado di efficacia e che ha trovato una consistente applicazione anche nell’area del Counseling è quello della terapia breve strategica, elaborata dal gruppo di ricercatori del MRI (Mental Research Institute) di Palo Alto (Watzlawick et al., 1974); questi autori hanno sintetizzato l’approccio sistemico con i contributi tecnici dell’ipnoterapia di Milton Erickson, nella prospettiva di formulare modelli sistematici in grado di far evolvere l’approccio strategico di Erickson alla terapia da pura arte, o magia, a procedura clinica ripetibile (Watzlawick, Nardone, 1997).

Tale modello, sia per l’area della psicoterapia che per quella relativa al counseling, è stato poi messo a punto anche in Italia dallo stesso Watzlawick e Giorgio Nardone, presso il Centro di Terapia Breve Strategica di Arezzo. La tradizione pragmatica e la filosofia dello stratagemma come chiave di soluzione di problemi, tipica della terapia breve strategica, ha radici ben più antiche; tra i contributi strategici di enorme rilevanza anche nella modernità, ricordiamo infatti l’arte persuasiva dei sofisti, l’antica pratica dello Zen ed il libro dei 36 stratagemmi dell’antica Cina. La terapia breve strategica ha rivoluzionato l’area delle psicoterapie orientandola verso la risoluzione rapida ed effettiva delle varie problematiche presentate dai pazienti, anche quelle più complesse e persistenti.

L’approccio strategico si delinea lungo un asse relazionale, ovvero si pone come punto di riferimento lo strutturarsi delle dinamiche relazionali che gli esseri umani attuano nel rapportarsi con sé stessi, con gli altri e con il mondo circostante. Secondo tale approccio, infatti, è attraverso le relazioni che l’esperienza umana perviene alla strutturazione della mente, a partire fin dalla prima infanzia dal rapporto con la figura materna e con quella paterna, fino ad allargarsi ad un contesto familiare allargato e poi a quello sociale che accompagnerà l’essere nel corso di tutta la sua esistenza. Questa centralità data alla relazione va a destrutturare quelli che sono i canoni classici della psicologia classica, che ha sempre rivolto, invece, una certa attenzione al mondo intrapsichico del soggetto.

Nell’ottica strategica, infatti, l’individuo non è più dominato da impulsi, istinti e pulsioni energetiche, ma è parte attiva nella costruzione della propria realtà, in quanto costruisce una personale rappresentazione interna della stessa e continuamente la rielabora pervenendo ad una sempre e maggiore conoscenza personale e situata.

Sulla scorta di una personale percezione e costruzione della realtà dell’essere, la terapia breve strategica nell’approccio con i pazienti, differentemente dalla concezione classica freudiana, aderisce ad una definizione della “normalità – come – ­adattamento alla realtà”. A tal proposito utile è il riferimento di Heisenberg (1958), sullo stesso argomento:

“La realtà di cui noi parliamo non è mai una realtà “a priori”, ma una realtà conosciuta e creata da noi. Se, in riferimento a quest’ultima formulazione, si obietta che, dopo tutto, esiste un mondo oggettivo, indipendentemente da noi e dal nostro pensiero, che funziona o può funzionare indipendentemente dal nostro agire , e che è quello che noi effettivamente intendiamo quando facciamo ricerca, a questa obiezione, così convincente a prima vista, si deve ribattere sottolineando che anche l’espressione “esiste” ha origine nel linguaggio umano e non può quindi  avere un significato non legato alla nostra comprensione. Per noi “esiste” solo il mondo in cui l’espressione “esiste” ha un significato” (Watzlawick, Nardone, 1997).

Si evince chiaramente, nella terapia breve strategica, la forte influenza apportata dal “Costruttivismo” (secondo il quale l’individuo che apprende costruisce modelli mentali per comprendere il mondo intorno a lui) e dal “Costruzionismo” (il quale sostiene che l’apprendimento avviene in modo più efficiente se chi apprende è coinvolto nella produzione di oggetti tangibili, come accade per esempio con l’apprendimento esperienziale). Fondandosi quindi sui principi del costruttivismo e del costruzionismo, la terapia strategica pone attenzione sulle interazioni della persona verso il gruppo e sull’interazione che avviene tra gli stessi membri. Espressione di questa interazione è senza dubbio il linguaggio che consente l’apertura a quel complesso processo che è la comunicazione tra gli esseri umani. Senza comunicazione non vi è interazione, non può delinearsi ciò che sembra essere figlia della comunicazione, ovvero “la relazione”. La relazione, in ambito terapeutico, si delinea come quel ponte che consente di collegare due isolotti, il terapeuta ed il paziente. Solo se avviene questo contatto pieno, entrambe le figure posso dirigersi verso la strada che porta al cambiamento, ovvero modificare ed interpretare la realtà in maniera efficace e adattiva. Fu lo psicologo Watzlawick che nel 1967, insieme ad altri suoi collaboratori della “Scuola di Palo Alto”, segnò una vera e propria rivoluzione copernicana in tema di comunicazione, pubblicando il volume “Pragmatica della comunicazione umana” (Spurio, 2015).

Gli studiosi del M.R.I affermano che: “è comunicazione qualsiasi evento, cosa, comportamento che modifica il valore di probabilità del comportamento di un organismo” (Watzlawick et al., 1971). Ad ogni modo non vi è nella persona la possibilità di non comunicare: l’attività o meno, le parole o il silenzio, emanano comunque dei messaggi che influenzano gli altri, che a loro volta, non possono sottrarsi dal partecipare, al processo comunicativo in atto. In ambito terapeutico, strategico o meno, il ruolo della comunicazione appare di vitale importanza in quanto consente di stabilire, con il proprio interlocutore, un terreno comune in cui risulta possibile comprendere l’esperienza attraverso un linguaggio comune e condiviso. In definitiva il contributo di Watzlawick può essere sintetizzato nella capacità di costruire un proprio modello basato sulla ricerca delle strategie utili a determinare un cambiamento nella vita dell’individuo, avvalendosi degli assunti costruttivisti e costruzionisti. Con Watzlawick la psicoterapia diventa un percorso che ha come scopo quello di ristrutturare la visione del mondo del paziente, attraverso le “esperienze emozionali correttive” (Alexander, 1956).

Vi sono diversi contributi da cui la terapia breve strategica oggi può attingere, come ad esempio quelli derivanti dal M.R.I., dalla Cibernetica, da Milton Erickson, da Gregory Bateson e Margaret Mead, da Alfred Kroeber e John Weakland e Jay Haley e William Fry, da Jay Haley, da Giorgio Nardone, etc. Per questi ultimi si rimanda alla bibliografia di riferimento.

Infine, come riportato nell’articolo di Petruccelli F. e Parziale M. (1999) “di seguito vengono relazionate alcune delle tecniche maggiormente formalizzate e utilizzate tra quelle reperibili in letteratura.

 


Non solo Covid: i nuovi rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro

Non solo Covid: i nuovi rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro

Di   28 Aprile 2021

Si celebra oggi il World Day indetto dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO)

Parola d’ordine: Resilienza

Anche nella Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro , che si celebra oggi, si accendono i riflettori su una delle parole d’ordine della contemporaneità. Il concetto di Resilienza è infatti centrale in tempi in cui la vorticosità dei cambiamenti impone capacità di adattamento continue e pressoché immediate, pena l’incapacità di farvi fronte ed il rischio di esserne travolti.

È dunque significativo che il titolo della campagna 2021 scelto dall’Organizzazione Internazionale del lavoro (ILO, la più antica Agenzia specializzata delle Nazioni Unite) per la Giornata mondiale del 28 aprile sia Investire ora in sistemi resilienti di salute e sicurezza sul lavoro, allo scopo di prevenire e fronteggiare l’emergere di nuove condizioni di rischio e minaccia per l’incolumità dei lavoratori.

Gli infortuni e le malattie professionali: una piaga ancora da superare

L’istituzione del World day for safety and health at work   risale al 2003 ma la stessa data era stata precedentemente (1996) scelta dal movimento sindacale per la commemorazione dei lavoratori morti e feriti in tutto il mondo sui luoghi di lavoro. La Giornata intende ricordare l’assoluta necessità della prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, focalizzando l’attenzione su una piaga ancora non superata del progresso umano, considerando che i numeri rimangono purtroppo ancora piuttosto importanti.
Viene infatti stimato che ogni 15 secondi, nel mondo, un lavoratore muore a causa di un infortunio sul lavoro o di una malattia professionale. E che, sempre ogni 15 secondi, 153 lavoratori hanno un infortunio sul luogo di lavoro. Più in generale si valuta che ogni giorno 6.300 persone muoiano a causa di incidenti sul lavoro o malattie professionali, causando più di 2,3 milioni di morti all’anno. Gli incidenti che si verificano annualmente sul posto di lavoro sono 317 milioni, molti dei quali portano ad assenze prolungate per malattia.

Il costo umano di queste tragedie quotidiane è enorme e l’onere economico causato dalle scarse pratiche di messa in sicurezza dei luoghi di lavoro è stimato essere, ogni anno, attorno al 4 per cento del prodotto interno lordo mondiale.

In Italia tre morti ‘bianche’ al giorno

Si tratta di numeri dai quali si evince come uno dei pilastri fondativi dell’International Labour Organization, ‘Garantire a ogni donna e a ogni uomo condizioni di lavoro sicure’, sia un traguardo ancora lontano che necessita di una presa di coscienza e una responsabilizzazione sempre maggiore da parte delle 3 principali componenti della questione: governi, datori di lavoro, lavoratori. Un flagello silenzioso, a cui non sfugge anche il nostro Paese.

In Italia i dati forniti negli ultimi anni da parte dell’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL) riportano un numero annuo di denunce di infortunio che oscilla tra i 500 e i 700 mila, di cui circa il 20% registrato ‘fuori sede’ (cioè infortunio occorso con mezzo di trasporto o comunque in itinere rispetto al luogo di lavoro), e un numero di decessi costantemente al di sopra di 1.000. Ovvero più di tre morti ‘bianche’ al giorno.

L’impatto dello tsunami Coronavirus sulla salute e la sicurezza del lavoro

Rilevazioni che, a livello planetario come nazionale, sono state inevitabilmente influenzate nell’ultimo anno dall’avvento dell’emergenza sanitaria in corso. E l’invocata capacità di resilienza dei sistemi di salute e sicurezza sul lavoro è ovviamente riferita primariamente alla necessità di affrontare scenari e minacce completamente nuove, quali quelle determinate dal Covid-19. Per rimanere ai dati nazionali, gli ultimi resi disponibili dell’Inail riferiscono di oltre 150.000 contagi sul lavoro (oltre il 5% dei contagiati nazionali) e 499 morti dall’inizio della pandemia.

Allo stato la ‘seconda ondata’ pare avere avuto sul lavoro un impatto più grande della prima: il periodo ottobre 2020-febbraio 2021 incide per il 64,4% sul totale delle denunce di infortunio da inizio pandemia, vale a dire il doppio rispetto a quella del trimestre marzo-maggio 2020 (32,2%).
Il dato si ribalta guardando invece i casi mortali con oltre i due terzi dei morti sul lavoro per Covid registrati nella prima ondata (il 67,8%). Va da sé che si tratta di numeri, in Italia come nel mondo, che vedono in prima fila i lavoratori della salute (39% delle denunce di contagio, l’83% dei quali infermieri), gli operatori socio-sanitari (19%) e i medici (9%).

Oltre il Covid-19: alle origini delle nuove minacce per il benessere dei lavoratori

Ma l’impatto della pandemia sulla salute e la sicurezza sul lavoro (SSL) non si limita ai dati della trasmissione del virus, poiché nuovi rischi sono emersi a seguito delle stesse misure intraprese per contrastare e mitigare la sua diffusione.

Il passaggio a nuove forme di organizzazione del lavoro, come il diffuso ricorso al telelavoro o allo smart working, ha, ad esempio, presentato molte opportunità per i lavoratori ma ha anche introdotto potenziali minacce per la SSL, quali i rischi psicosociali (il pericolo della solitudine, il senso di isolamento) e l’accentuazione delle dinamiche di conflitto intra-familiare, comprese le violenze e le molestie. Va in ogni caso considerato che si tratta di tendenze non esclusivamente determinate dall’emergenza sanitaria in corso.



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Importazione di prodotti alimentari biologici da paesi terzi

Importazione di prodotti alimentari biologici da paesi terzi

 

Foto di Andi Graf da Pixabay

 

L’importazione da Paesi Terzi di prodotti biologici è disciplinata dal Reg. (CE) n. 834/07, dal Reg. (CE) n. 889/08 e dal più recente Reg. (CE) n. 1235/08.

Secondo questi regolamenti, le importazioni di prodotti biologici provenienti da Paesi terzi possono realizzarsi attraverso tre diverse modalità:

  • importazioni da Paesi terzi la cui equivalenza delle norme di produzione e del sistema di controllo alle disposizioni dell’Unione Europea è stabilita dalla Commissione. I Paesi in equivalenza, sono riportati nell’allegato III del Reg. (CE) n. 1235/2008, e successive modifiche e integrazioni (Argentina, Australia, Canada, Costa Rica, India, Israele, Giappone, Svizzera, Tunisia, Stati Uniti, Nuova Zelanda);
  • importazioni da operatori di Paesi terzi il cui metodo di produzione è valutato equivalente da Organismi di Controllo autorizzati dalla Commissione UE ad operare in determinati Paesi e per determinati gruppi di prodotto. L’elenco degli Organismi autorizzati nei diversi Paesi è riportato nell’allegato IV del Reg. (CE) n. 1235/2008, e successive modifiche e integrazioni;
  • per le importazioni che non rientrano nella fattispecie dei punti precedenti, per un periodo transitorio che è terminato il 30 giugno 2014, gli Stati membri possono rilasciare autorizzazioni ai sensi dell’art. 19 del Reg. (CE) n. 1235/2008 (Sinab, Bio in cifre, 2014).

 

 


© L’acquisto di prodotti alimentari biologici. Analisi di modelli estesi della Teoria del Comportamento Pianificato  – Dott. Filippo Barretta


 

YouTube per il Personal Brand

YouTube per il Personal Brand

YouTube è un social media importante che permette di ottenere un nuovo canale specializzato nei video, utile per promuovere e attirare nuovi fan e clienti al proprio brand.

Per promuovere il proprio brand con questo social, bisogna creare un video in cui ci si presenta al pubblico, farsi riconoscere metterci la faccia, e mostrare le proprie passioni anche pubblicando corsi, tutorial grafici e i gli ultimi lavori.

Dopo Google, il secondo motore di ricerca più usato è quello interno a YouTube, quindi è importante inserire titoli, descrizioni, categorie e tag di un video pensando alle parole chiavi con strategia e non con distrazione. Inserire titoli intelligenti con parole chiavi, crea curiosità aiutando con le anteprime del nuovo video.

Utili sono le testimonianze di fan e clienti consolidati ti permettono di aumentare esponenzialmente la fiducia e affidabilità del proprio brand. Una cosa è leggere due righe di testo con le solite frasi, un’altra è vedere e sentire il cliente o fan in prima persona che da un feedback con una breve registrazione condivisa.

La comunicazione video agisce in modo immediato, crea emozionalità maggiore rispetto a trecento righe di testo, quindi può essere molto interessante far conoscere in questo modo i  nuovi servizi o gli ultimi progetti e iniziative per far capire le proprie potenzialità a chi ci guarda.

Essendo molto vasta bisogna imparare a utilizzare la community di YouTube non abbandonando i nostri video al destino di citazioni o commenti indesiderati. Monitorando settimanalmente i video, si ha la possibilità di ottenere statistiche mirate al target di visualizzazioni e creare in questo modo un’analisi più precisa. Ad esempio si può rispondere con delle video risposte a quei video molto trafficati e in linea con la propria mission.

I video di YouTube, sono quindi molto utili nel contesto del Personal Branding poiché sono la forma più innovativa di comunicazione: quanto più il video risulta essere accattivante tanto più permette di comunicare con il pubblico. Se un video nasce allo scopo di far conoscere un brand personale, i migliori sono quelli eseguiti come fossero interviste contenenti i soli messaggi chiave. Per generare un video di qualità e che sia in grado di raggiungere un certo audience, bisogna prestare attenzione anche ad aspetti in apparenza futili come la scelta del colore dell’abbigliamento (mai troppo chiaro) e la scelta dei giusti accessori. È opportuno inoltre, evitare di leggere e cercare di essere il più naturali possibile, senza dimenticare di curare bene i contenuti.


© Il personal Branding – Marika Fantato