Burnout e Lavoro Emozionale: Analisi dei dati

Burnout e Lavoro Emozionale: Analisi dei dati

 

Per verificare la prima ipotesi è stato effettuato un confronto tra le medie, per verificare se esistono differenze significative tra i lavoratori con diversa anzianità lavorativa rispetto alla percezione che questi ultimi hanno della domanda emotiva.
A tal proposito, essendo la variabile indipendente (anzianità lavorativa) misurata su scala ordinale, e la variabile dipendente (domanda emotiva) misurata su scala a intervalli, è stata condotta un’Anova Univariata. Questo test permette di confrontare le medie di due o più gruppi confrontando la variabilità interna a questi gruppi con la variabilità tra i gruppi.
Per la verifica della seconda ipotesi è stata condotta un’analisi preliminare della correlazione tra le variabili dissonanza emotiva e soddisfazione lavorativa.
Il coefficiente di correlazione descrive il legame tra due variabili e, attraverso un indice, esprime l’intensità di questo legame. Essendo misurate a livello di scala a intervalli, il coefficiente di correlazione utilizzato è la “r” di Pearson. La significatività del risultato ottenuto ha giustificato l’ipotesi di una relazione causale tra la dissonanza emotiva e la soddisfazione lavorativa, motivo per cui successivamente è stata condotta un analisi della regressione lineare, che ha previsto come variabile indipendente la dissonanza emotiva e come variabile dipendente la soddisfazione lavorativa. A differenza della correlazione l’analisi di regressione lineare consente di stabilire se e in quale misura un cambiamento nella variabile indipendente determina un cambiamento nei valori della variabile dipendete.
Per la verifica della terza ipotesi, sull’esistenza di differenze significative tra maschi e femmine nella frequenza delle manifestazioni emotive e nell’intensità di queste ultime, sono stati effettuati due confronti tra le medie dei gruppi attraverso  il t-test per campioni indipendenti.
Anche per la quarta ipotesi, come per la seconda, si è partiti dall’analisi della correlazione (per pre-testare la validità di una relazione lineare tra la surface acting e l’esaurimento emotivo, la depersonalizzazione e il ridotto senso di riuscita professionale (H.4).
Come è possibile riscontrare in Figura 5 esiste una correlazione positiva tra la surface acting e la depersonalizzazione (r = .432; sig = .001), una correlazione positiva tra surface acting e esaurimento emotivo (r = . 390; sig = .004) e una correlazione negativa tra surface acting e il ridotto senso di riuscita professionale (r= -.351; sig =.018). Pertanto ha senso ipotizzare una relazione causale, analizzabile con una regressione lineare.

Burnout e Lavoro Emozionale: Partecipanti e strumento

Burnout e Lavoro Emozionale: Partecipanti e strumento

Partecipanti

La presente  ricerca è stata condotta su 156 operatori sanitari, prevalentemente infermieri. Su tali dati verranno verificate le prime due ipotesi. Il 35.9% sono uomini e il 63.5% sono donne. I rispondenti hanno un età compresa tra i 23 e i 57 anni (media = 36.58; deviazione standard = 8.02 ). Riguardo l’anzianità lavorativa, la distribuzione è quella mostrata nelle tabella sottostante.
Figura 3. Distribuzione dei partecipanti in base alla loro anzianità lavorativa (N =156 )
Per quanto riguarda lo stato civile il 34.6% è coniugato, il 55.1% è nubile/ celibe, mentre il restante dichiara di essere convivente, separato, divorziato o libero. La maggior parte dei rispondenti non ha figli (69.2%), il 16.7% ne ha uno, il 10.9% ne ha due e il 2.6% ne ha tre.
Per quanto riguarda la distribuzione dei partecipanti secondo la qualifica professionale si rileva che il 3.8% sono infermieri coordinatori, l’89.1% sono infermieri, mentre la restante percentuale si compone di tecnici di laboratorio (0.6%) tecnici di radiologia (1.9%) e della prevenzione (0.6) e fisioterapisti (1.9%).
Il campione su cui verranno verificate le ipotesi relative al lavoro emozionale, si compone di 21 maschi e 35 femmine. L’età media è di 36,28 anni (ds = 7,44).
 Figura 4. Distribuzione dei partecipanti in base alla loro anzianità lavorativa (N =56)
Il 10.7% sono infermieri coordinatori, il 69.6% sono infermieri, il 5.4% sono fisioterapisti, la stessa percentuale si riscontra per i tecnici di radiologia, l’1.8% sono tecnici della prevenzione e l’1.8 sono i tecnici di laboratorio.
Per quanto riguarda lo stato civile il 30.4% è coniugato, il 58.9% è nubile/ celibe, l’8.9% è libero. Il 73,2% non ha figli, il 14,3%, il 5.4% ne ha due e la restante percentuale ne ha tre.
 Lo Strumento
Per misurare le variabili oggetto dell’indagine è stato utilizzato parte del questionario costruito sulla base della letteratura nazionale e internazionale dal  gruppo di ricerca di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni dell’ Università di Bologna, utilizzato in una ricerca condotta nel 2009 con l’obiettivo di individuare la presenza di criticità legate a fattori di rischio psicosociale e gli indicatori di disagio, di stress e di malessere organizzativo all’interno di un contesto ospedaliero.
Le dimensioni indagate in questa ricerca sono:
Dissonanza emotiva.  È stata misurata attraverso 4 item (ad esempio, “Devo esprimere emozioni positive nonostante io provi irritazione e rabbia.”), rispetto ai quali i partecipanti dovevano indicare quanto spesso provavano quell’esperienza (1 = mai o di rado;  2 =  2-3 volte al mese; 3 = 2-3 volte alla settimana; 4 = quasi tutti i giorni). Punteggi alti indicano un livello alto di dissonanza emotiva (Agervold &Mikkelsen, 2004) ;
Soddisfazione per il lavoro. Costituisce uno degli esiti più importanti del lavoro. È stato considerato come principale indicatore della qualità dell’esperienza lavorativa e del raggiungimento dei risultati attesi sia dalla persona che dall’organizzazione  È stata misurata attraverso un singolo item: “Complessivamente è soddisfatto del lavoro che svolge?” La risposta è stata data sulla base di una scala a 5 intervalli (1 = per niente soddisfatto; 5  = completamente soddisfatto ) (Wanous, Reichers e Hudy, 1997);
Domanda emotiva. E’  stata misurata attraverso  la scala adattata da Gray-Toft e Anderson (1981)  composta da 7 item per misurare il carico emotivo che le attività svolte quotidianamente dal personale sanitario comportano (relazionarsi con utenti sofferenti, dover comunicareesiti spiacevoli, il rapporto con la morte). Un esempio di item è  “Le capita di adottare procedure che per i pazienti rappresentano esperienze dolorose?”. La scala si compone di 5 livelli (0 = no; 1= si, ma non mi sento stressato; 2 = si e mi sono sento un po’ stressato; 3 = si e mi sento stressato; 4 = si e mi sento molto stressato );
Burnout. E’ stato misurato utilizzando un adattamento  della versione del Maslach Burnout Inventory (Maslach, e Jackson, 1981). Si compone di 16 item relativi alle tre diverse sotto dimensioni: esaurimento emotivo (“Si sente emotivamente logorato dal suo lavoro”),  depersonalizzazione (“Da quando ho cominciato a lavorare qui sono diventato più insensibile con la gente”),  ridotto senso di realizzazione professionale (“Penso di essere bravo/a nel mio lavoro”). Prevede una scala di risposta a 6 livelli dove 0=mai e 6=ogni giorno;
Per la rilevazione delle dimensioni del lavoro emozionale, oggetto di indagine di questo studio è stata utilizzata l’“Emotional labour scale” elaborata da Brotheridge e Lee (2003). La ELS  utilizza una scala Likert a 5 livelli con le seguenti risposte: mai (1), raramente (2), a volte (3), spesso (4), sempre (5). Le dimensioni sono: frequenza,  intensità , varietà,  durata dell’interazione, azione profonda (deep acting ) e di superficie (surface acting).
Nello studio di validazione degli autori le stime di consistenza interna (Alpha di Cronbach) per ciascuna sottoscala variavano da .74 a .91. Gli autori sottolineano l’importanza di distinguere le dimensioni surface e deep acting poiché ciascuna dimensione suggerisce uno stato interno fondamentalmente diverso e possono avere effetti differenziali sul benessere dei lavoratori. Nello specifico la surface acting comporta una spinta verso il basso dell’espressione autentica a favore di una maschera emozionale, mentre la modalità deep acting comporta una spinta di direzione opposta, nel tentativo di manifestare le emozioni richieste con un allineamento dei propri sentimenti. Lo stato finale del surface acting è un senso di inautenticità che riduce il senso di benessere. Oltre alla formulazione della scala, un ulteriore obiettivo degli autori è stato quello di esaminare come i sei aspetti di EL siano associati con le tre dimensioni del  burnout (Maslach & Jackson, 1986, cit. in Brotheridge & Lee,2003 ). I risultati hanno dimostrato che sia l’ esaurimento emotivo che la depersonalizzazione sono significativamente  correlati con la dimensione surface acting. Ciò suggerisce che la tensione emotiva è dovuta in larga parte allo sforzo  necessario  per nascondere i propri sentimenti veri  o a fingere di sentire quelli che sono stati espressi. Nello specifico della ricerca in questione, le dimensioni indagate del lavoro emozionale, relative alle ipotesi di ricerca sono:
Frequenza delle manifestazioni emotive. Un esempio di item è  “il lavoro le richiede di mostrare emozioni specifiche?”
Intensità delle manifestazioni emotive. Un esempio di item è  “esprime emozioni intense?”
Surface acting. Un esempio di item è  “finge di avere emozioni non realmente sentite”?
Si riportano di seguito i valori descrittivi delle dimensioni indagate, le correlazioni tra le variabili e i coefficienti Alpha di ciascuna dimensione.

Burnout e Lavoro Emozionale: Metodo

Burnout e Lavoro Emozionale: Metodo

 

 

Metodo
Con l’obiettivo di esplorare il ruolo del lavoro emozionale e della domanda emotiva in ambito sanitario, è stato somministrato un questionario ad un campione strategico di studenti del corso di laurea specialistica in scienze infermieristiche e ostetriche e agli studenti del master in “Management nell’Area Infermieristica e Ostetrica, Tecnico Sanitaria, Preventiva e Riabilitativa” dell’Università di Bologna.
È stata predisposta la compilazione del questionario via mail, a cui ha risposto il 40% degli studenti (N = 56).
La richiesta di partecipare alla ricerca si espressa in forma diretta e i partecipanti sono stati informati degli obiettivi generali della ricerca. Sulla base del loro interesse e adesione è stato inviato il questionario via mail, contente le istruzioni per la compilazione.
Su tale campione verranno verificate le ipotesi relative al lavoro emozionale (H.3, H.4).
Riconoscendo la limitata numerosità del campione,  per una maggiore significatività delle analisi statistiche, in relazione alla verifica delle prime due ipotesi i dati degli studenti (N = 56) saranno integrati ai  dati (N = 100) di altri operatori sanitari, ricavati da una  ricerca condotta dal gruppo di ricerca della facoltà di psicologia.
La giustificazione di tale operazione metodologia, risiede nel fatto che la presente ricerca non si pone come obiettivo un’analisi dei fattori di rischio del contesto lavorativo, per cui non risulta rilevante la provenienza dei partecipanti dal medesimo contesto.
Si intende piuttosto focalizzare l’attenzione sull’attività lavorativa, sulle peculiarità di quest’ultima, fortemente caratterizzata da connotazioni emotive e sull’incidenza di queste ultime   sulle dimensioni del burnout lavorativo.

Burnout e Lavoro Emozionale: obiettivi e ipotesi di ricerca

BURNOUT E LAVORO EMOZIONALE: QUALE RELAZIONE?

 

 

Obiettivi e ipotesi di ricerca

Questa ricerca, si propone l’obiettivo di contribuire ad un incremento in letteratura di studi centrati sul ruolo delle emozioni nei contesti professionali; in particolare di contribuire ad un incremento di studi quantitativi volti all’analisi della relazione tra il lavoro emozionale e il burnout lavorativo, nei contesti sanitari, specificatamente per quanto riguarda la professione infermieristica, che la letteratura riconosce come maggiormente coinvolta nel lavoro emozionale e che è stata studiata prevalentemente tramite l’utilizzo di metodologie qualitative.
In particolare, si propone di integrare le due prospettive di lavoro emozionale proposte, individuando il livello di domanda emotiva presente all’interno di questo ambito professionale (prospettiva job focus oriented)  e le implicazioni per il lavoratore  derivanti dall’esposizione a tale domanda (prospettiva employee-focused oriented). Nello specifico ciò che si  intende verificare è :
    • In una prospettiva job focus oriented, una differenza tra operatori sanitari con maggiore esperienza lavorativa, in relazione alla percezione della domanda emotiva, rispetto a coloro con minore anzianità lavorativa, secondo la prospettiva proposta da Smith (1992)  per il quale l’adattamento del lavoratore  alla domanda emotiva può essere concepito come una competenza che può quindi essere appresa sulla base dell’acquisizione dell’esperienza lavorativa  (H.1);
    • In una prospettiva employee-focused oriented, ma con forti ripercussioni anche in termini organizzativi , si intende verificare se la dissonanza emotiva ha un impatto sulla soddisfazione lavorativa, cosi come proposto da  Morris e Feldaman (1996) (H.2).  In letteratura, sebbene vi sia un considerevole accordo per quanto  riguarda la definizione di questo costrutto, diverse sono le posizione relative al rapporto di questa dimensione con il lavoro emozionale. Come accennato Morris e Feldaman (1996)  la intendono  come la quarta dimensione del lavoro emozionale, mentre ad esempio secondo Brotheridge e Lee (2003) la dissonanza emotiva non  viene considerata una componente del lavoro emozionale in quanto quest’ultimo non sempre comporta una dissonanza emotiva e i lavoratori possono effettivamente vivere le emozioni visualizzate (Ashforth & Humphrey, 1993). La posizione di Zapf (2002), è che essa sarebbe da considerare come una domanda lavorativa esterna, ancorata all’ambiente specifico di riferimento e alle sue situazioni sociali. Secondo l’autore,  infatti, le situazioni sociali che il lavoratore incontra non sono del tutto descrivibili in termini di regole di espressione e di parametri del lavoroemotivo (frequenza delle interazioni, durata, ecc.). In questa ricerca pertanto, sebbene venga testata l’ipotesi di Morris e Feldamn con l’obiettivo di verificare le implicazioni organizzative di tale dimensione, la dissonanza emotiva non sarà concettualizzata come componente del lavoro emozionale, mentre verrà analizzata la modalità di regolazione superficiale (surface acting), intesa come una possibile modalità di regolazione della dissonanza emotiva.
    • Di fornire un sostegno empirico alla letteratura per quanto riguarda l’esistenza di una differenza significativa fra maschi e femmine nella frequenza di manifestazione emotive e nell’intensità di queste ultime; di verificare nello specifico se le donne abbiano, per aspettative legate al proprio ruolo, maggiori manifestazioni emotive e di maggiore intensità  rispetto agli uomini. (H.3) (Gray,2009; Morris& Feldman, 1996 )
    • Sempre in una prospettiva employee-focused oriented, con l’obiettivo di porre attenzione sulle implicazioni per il benessere del lavoratore, di analizzare se il lavoro emozionale è in grado di predire l’insorgenza del burnout. Data la relativa numerosità del campione verrà presa in considerazione solo variabile surface acting e verrà analizzato l’effetto che quest’ultima ha sulle tre dimensioni del burnout lavorativo, nello specifico se la modalità di regolazione superficiale dei propri stati d’animo è in grado di predire l’insorgenza del burnout. (H.4) (Hochschild,1983; Martinez-Indigo, Totterdell, Alcover, & Holman, 2007;  Zapf & al.,2001).

 

Lavoro emozionale e burnout

Lavoro emozionale e burnout

 

La relazione esistente tra domanda emotiva, nello specifico il lavoro emozionale,  dissonanza emotiva e burnout è stata poco analizzata. Nelle ricerche sul burnout le alte domande emotive che risultano dalle interazioni con i clienti sono viste come caratteristiche dei lavori che forniscono servizi ma solo recentemente la domanda emotiva viene inclusa negli studi sul burnout. In precedenza gli studi piuttosto hanno analizzato le variabili sociali e organizzative come potenziali predittori del burnout.
Partendo da una prospettiva job-focused emotional labor, l’intuizione che le variabili sociali e organizzative non possano catturare la complessità del lavorare con i pazienti nell’ambito dell’assistenza sanitaria, e che fosse più appropriato per questa tipologia di lavoro includere oltre alle domanda psicologica e fisica anche quella emotiva è stata colta da De Jonge et al. (1999) che ha dimostrato su uno studio di 212 operatori di cura che l’introduzione della domanda emotiva contribuisce  a spiegare una percentuale maggiore di varianza relativa al burnout.
Nella stessa prospettiva altri autori  (Blanc, Bakker, Peeters,  Heesch & Schaufeli, 2001) hanno condotto uno studio per esplorare la relazione tra differenti tipi di domanda lavorativa e burnout in particolare sulle dimensioni di esaurimento emotivo e depersonalizzazione (considerate come il nucleo del bunout) su  un campione di 816 addetti all’assistenza oncologica.
L’obbiettivo di questo studio era quello si ampliare il modello di Karasek (1979) “domanda controllo”, includendo la domanda emotiva che è particolarmente rilevante per i servizi alla persona.
Nello specifico sono state incluse due tipi di domanda emotiva nel questionario. La prima è definita “problemi nell’interazione con i pazienti” e valuta l’ampiezza con la quale i rispondenti sono confrontati con domande quali pazienti aggressivi, non cooperativi e con aspettative irrealistiche. Il secondo tipo di domanda emotiva è nominata  “confronto con la morte”  che misura il grado con la quale i lavoratori sono confrontati con domande come la morte di diversi pazienti contemporaneamente, e il dover informare i parenti circa la morte di un paziente.
I risultati hanno dimostrato che l’inclusione della domanda emotiva, oltre alla domanda quantitativa, migliora significativamente la predizione del burnout tra coloro che prestano assistenza oncologica. In un altro studio longitudinale, con un intervallo di un anno  condotto da Vegchel e colleghi (2004), su un campione di 2255 dipendenti delle assicurazioni sociali, gli autori hanno indagato il ruolo delle variabili di moderazione “controllo lavorativo” e “supporto sociale” nella relazione tra domande lavorative e burnout. Per adattare lo studio a questa categoria professionale, gli autori hanno testato sia la domanda quantitativa che quella emotiva. La domanda quantitativa venne misurata con 4 item relativi al carico di lavoro e agli straordinari, in parte derivati da misure standard utilizzate nelle applicazioni del modello DC; mentre le domanda emotiva venne misurata con la scala sviluppata da M. Sòderfeldt (1997, citato in Vegchel, De Jonge, Soderfedeldt, Dormann & Schaufeli , 2004), composta da otto dichiarazioni relative agli sforzi emotivi sul lavoro.
Le ipotesi indagate in questo studio sono che le alte domande lavorative, il basso controllo e il basso supporto sociale (misurati nel tempo 1) conducessero ad avversi effetti sulla salute in termini di burnout e che gli effetti negativi delle alte domande potessero essere moderati dall’alto controllo e/o alto supporto sociale. I risultati delle analisi hanno dimostrato la validità delle ipotesi formulate, eccetto per la variabile supporto sociale. Per quanto riguarda l’esaurimento emotivo è stata riscontrata una forte associazione sia per le domande quantitative che emotive. Questo risultato è in linea con il modello domanda risorsa (Demerouti, Bakker, Nachreiner, & Schaufeli, 2001) il quale assume che le domande sono correlate positivamente all’esaurimento; inoltre la domanda emotiva era anche correlata positivamente con la depersonalizzazione, mentre non lo era la domanda quantitativa.
In una prospettiva employee-focused emotional labor, Zapf e coll. (2001) hanno condotto uno studio indagando  su un campione di 1241 lavoratori di diversi contesti (ospedale, banca, call center, asilo), la relazione tra gli stressors organizzativi e sociali, le variabili relative al lavoro emotivo (richiesta di mostrare emozioni positive e negative, richiesta di sensibilità emotiva, controllo sugli scambi emotivi e dissonanza emotiva) e il burnout. I risultati dalla regressione multipla gerarchica mostrano che le variabili relative al lavoro emotivo correlano con gli stressors organizzativi e sociali ed un unico contributo della variabile lavoro emozionale  nella predizione del burnout. Inoltre, la dissonanza emotiva risulta essere la variabile maggiormente predittiva delle dimensioni esaurimento emotivo e depersonalizzazione.
Un altro studio focalizzato sulle modalità di gestione delle emozioni è stato condotto su un campione di  345 medici di medicina generale che lavorano in una grande comunità urbana in Spagna (Martinez-Indigo, Totterdell, , Alcover, & Holman, 2007). L’analisi della regressione ha indicato che la regolazione delle emozioni aveva una associazione positiva con l’esaurimento emotivo, quando è stata effettuata utilizzando una modalità di  superficie.
Sempre nel tentativo di analizzare la relazione esistente tra la dissonanza emotiva e il burnout, Heuven e Bakker (2003) hanno condotto uno studio su un campione di 220 assistenti di cabina. L’ipotesi di questi autori era che oltre alle “classiche” variabili di  Karasek (1979) riscontrabili  nel modello domanda-controllo, la dissonanza emotiva avrebbe dato un contributo autonomo per spiegare la varianza nel Burnout (cioè, esaurimento emotivo e depersonalizzazione). I risultati di una serie di equazioni strutturali (SEM) hanno sostenuto questa ipotesi, in particolare emerse che la  dissonanza emotiva è stata il principale predittore di burnout in misura maggiore rispetto alle domande lavorative e alla mancanza di supporto. Un ulteriore studio che ha analizzato la relazione tra la  domanda emotiva, la dissonanza emotiva e il burnout è quello condotto da Bakker e Heuven (2006) su un campione di 108 infermieri e 101 ufficiali di polizia. Infermieri e poliziotti sono confrontati con situazioni quali morte, malattia, violenza, situazioni che scatenano reazioni emotive, mentre la loro professione richiede loro di inibire o sopprimere le emozioni che normalmente scaturiscono per reagire a queste situazioni. Pertanto gli autori  hanno ipotizzato che la domanda emotiva lavorativa, la quale richiede una regolazione delle emozioni, comporterà elevati livelli di dissonanza emotiva che condurrà a percepire un sentimento di esaurimento e cinismo. I risultati della SEM analisi hanno confermato questa ipotesi.

Il costrutto del Job burnout

Il costrutto del Job burnout

 

Dalla rassegna sul costrutto del job burnout condotta da Borgogni e Consiglio, (2005) emerge che questo concetto nasce come problema sociale, originatosi dall’esperienza lavorativa di alcune categorie di professionisti che vivono all’interno del contesto lavorativo una specifica difficoltà. Si tratta di particolari categorie professionali come medici, infermieri, insegnanti, educatori, poliziotti, operatori sociali impiegati  in contesti sociali e sanitari dove l’obiettivo dell’attività lavorativa è la cura, l’aiuto, la riabilitazione dell’utenza. L’essere disponibili, empatici, prestare cure, sono azioni che richiedono un considerevole dispendio di energia psicologica. I primi sintomi di questo malessere degli operatori sono quindi il distacco emotivo e l’insofferenza verso l’utenza, che portano a definire  lo stato di burnout come il risultato di uno squilibrio prolungato tra investimenti e risultati, tra richieste e risorse (Schaufeli & Enzmann,1998, citato in Borgogni & Consiglio, 2005). La prima sistematizzazione teorica del costrutto avviene ad opera di Christina Maslach (1982, citato in Borgogni & Consiglio, 2005) secondo la quale il job burnout rappresenta una specifica sindrome da stress cronico caratterizzata da tre dimensioni:
Esaurimento emotivo : rappresenta la componente centrale e più tipica del job burnout e consiste nella sensazione della persona di aver «bruciato» tutte le energie psicologiche; il lavoratore si sente svuotato e senza più risorse fisiche ed emozionali per affrontare l’attività lavorativa. L’esaurimento è la dimensione maggiormente legata allo stress e al benessere fisico, oltre che psicologico, e costituisce anche l’aspetto più approfondito dalla ricerca scientifica. Può considerarsi una condizione necessaria, ma non sufficiente alla comparsa del burnout;
Depersonalizzazione: rappresenta la componente interpersonale del burnout ed è caratterizzata da un esasperato distacco nella relazione con gli utenti/clienti che si esprime nel trattare gli altri come oggetti piuttosto che come persone. La depersonalizzazione costituisce quindi una reazione di difesa, che si manifesta attraverso un atteggiamento freddo e cinico, di indifferenza e annullamento delle emozioni;
Ridotto senso di riuscita professionale: rappresenta la componente di valutazione di sé del burnout, caratterizzata da un crescente senso di inadeguatezza, dalla mancanza di fiducia circa le proprie possibilità di riuscita nell’attività professionale.
A partire da queste dimensioni teoriche, la Maslach mette a punto il diffuso questionario MBI-Maslach Burnout Inventory .Sebbene questo costrutto sia nato in riferimento alle helping profession,  in seguito diversi autori hanno cercato di estenderne l’ applicabilità  e la pertinenza ad un numero maggiore di contesti professionali, riadattando ciascuna delle tre dimensioni con un carattere più generale, dimensioni valutabili attraverso il MBI-General Survey (Maslach & Leiter 1999; Maslach, Schaufeli & Leiter, 2001, cit. in Borgogni & Consiglio, 2005). Le tre dimensioni costitutive vengono articolate con item meno caratterizzanti il contesto socio-sanitario e definite come: esaurimento (exhaustion), disaffezione lavorativa (cynicism) ed efficacia professionale o inefficacia (professional efficacy o inefficace); è la disaffezione lavorativa quella che si discosta maggiormente dall’originaria formulazione (Leiter e Schaufeli, 1996 cit. in Borgogni & Consiglio, 2005). Con depersonalizzazione ci si riferiva ad una modalità disfunzionale di affrontare la richiesta emotivamente coinvolgente dell’utente (attraverso il distacco da quest’ultimo), invece con disaffezione lavorativa si intende riferirsi ad un generico atteggiamento di indifferenza, freddezza e distanza emotiva dal lavoro ed alla risposta difensiva nei confronti di vari aspetti della vita lavorativa (Maslach e Leiter, 1999; Borgogni, Armandi, Consiglio e Petitta, 2005 cit. in Borgogni & Consiglio, 2005).
Nella stessa prospettiva diestensione del costrutto ad altri ambienti professionali si colloca il modello proposto da Demeruti e colleghi (2001) denominato modello “domanda risorsa.” In un studio condotto su un campione di 374 lavoratori appartenenti a tre gruppi occupazionali (servizi alla persona, industria, trasporti) gli autori hanno validato questo modello  che ha come presupposto che il burnout si sviluppi a prescindere dal tipo di occupazione quando le domande sono alte e quando le risorse lavorative sono limitate poiché le condizioni lavorative negative conducono ad una carenza di energie e ad una diminuzione della motivazione dei lavoratori.
Gli autori definiscono le domande lavorative come quegli aspetti fisici, sociali o organizzativi del lavoro che richiedono di sostenere uno sforzo fisico o mentale e che sono associati con certi costi psicologici e fisiologici  quali l’ esaurimento, mentre le risorse lavorative si riferiscono a quegli aspetti fisici, psicologici, sociali o organizzativi del lavoro che riducono le domande lavorative ed i costi associati,sono funzionali al raggiungimento degli obiettivi lavorativi,stimolano la crescita, l’apprendimento e lo sviluppo personale” (Demerouti, Bakker, Nachreiner, & Schaufeli, 2001, pag. 501).
Questo modello propone che lo sviluppo del burnout segue due processi. Nel primo processo gli aspetti delle richieste lavorative (domande lavorative estreme) conducono ad un costante sovraccarico e alla fine all’esaurimento. Nel secondo una mancanza di risorse rende difficile l’incontro con le domande lavorative, mancanza che conduce ad un comportamento di ritiro. Le conseguenze a lungo termine di questo ritiro è il disimpegno dal lavoro (disengagement).  In sintesi i risultati di questa ricerca suggeriscono che lo sviluppo dei sintomi del  burnout è determinato da una specifica costellazione di condizioni lavorative. Quando le domande lavorative sono alte, gli autori  predicono che i dipendenti abbiano maggiori probabilità di sperimentare esaurimento (ma non disimpegno), quando le risorse lavorative sono assenti, si predicono alti livelli di disimpegno (ma non di esaurimento) mentre in condizioni con alte domande e allo stesso tempo limitate risorse i lavoratori sviluppino sia esaurimento che disimpegno, che se presenti simultaneamente rappresentano la sindrome del burnout. La validità di questo modello è stata testata anche nel contesto italiano su un campione di 159 infermieri (Guglielmi, Simbula, Depolo &Violante, 2011).
In questo studio sono state considerate in particolare due specifiche domande (dissonanza emotiva e iniquità percepita) e due specifiche risorse lavorative (controllo e supporto sociale da parte dei superiori). I risultati delle analisi SEM hanno sostenuto la validità del modello JD-R e confermato l’esistenza di entrambi i processi.
Pur riconoscendo la validità di questo modello, in questa ricerca si farà riferimento alla prima formulazione del concetto di job burnout, essendo l’obiettivo quello di analizzare l’attività lavorativa di operatori sanitari oltre ad analizzare gli effetti in termini di depersonalizzazione, esaurimento emotivo e ridotto senso di riuscita professionale, che si ipotizza siano correlati ad un processo di regolazione delle proprie emozioni.

 

 

 

 

Il lavoro emozionale in ambito infermieristico

Il  lavoro emozionale in ambito infermieristico

Sebbene lo studio del lavoro emozionale sia nato in riferimento agli assistenti di volo, negli ultimi anni la letteratura scientifica, ha dimostrato interesse per un ulteriore professione esposta a lavoro emozionale: la professione infermieristica (Gray, 2009; Smith & Gray 2000; Mann & Cowburn, 2005; Henderson, 2001; Smith, 1992).
Smith (1992)  fu il primo ad applicare la nozione di lavoro emozionale all’ambito infermieristico nel suo studio sugli studenti di scienze infermieristiche  concludendo che erano necessari  ulteriori ricerche, poiché spesso le emozioni in questo contesto  sono rese invisibili. Questo significa indagare ciò che spesso viene visto come una tacita ed non codificata competenza. Il riconoscimento in letteratura della nozione di lavoro emozionale in abito infermieristico emerge per lo più attraverso studi qualitativi condotti attraverso interviste o focus group, rivolti  infermieri o a studenti di scienze infermieristiche, pubblicati su riviste mediche.
Questo riconoscimento deriva dalla consapevolezza che un aspetto cruciale di tale professione è il “prendersi cura” del paziente. Dai focus group e dalle interviste individuali  condotte da Henderson (2001) su 49 infermieri impiegati in diverse aree cliniche, provenienti dal Canada e dal Regno Unito, emerge che gli infermieri ritengono che il “prendersi cura” del paziente, intendendo con tale locuzione gli sforzi mentali, fisici ed emozionali relativi al supporto degli altri, sia una componente essenziale della processo di guarigione del paziente e che vi sia un lavoro emozionale connesso a tale attività.
Gli infermieri lavorano a stretto contatto con il loro pazienti e spesso questa relazione è caratterizzata da emozioni intense, come ad esempio il confronto con la morte e la malattia  (Bakker & Heuven, 2006). Come suggerito da Bolton (2001) la professione infermieristica è forse una delle occupazioni maggiormente associate ad un intenso lavoro emozionale, essendo una parte del loro lavoro incoraggiare i pazienti con gravi malattie, consolare i membri della famiglia in caso di cattive notizie, confrontarsi con la morte, con le aspettative dei pazienti, etc.
Pertanto il lavoro emozionale si configura per queste professioni una parte del loro ruolo lavorativo.
Smith e Gray (2000) nel loro studio qualitativo, condotto attraverso interviste a 60 persone tra cui studenti ed infermieri qualificati, hanno riscontrato che molti infermieri hanno riportato che nella loro attività lavorativa devono “sintonizzare” le proprie emozioni alle emozioni dei pazienti (p.232)  e  che il lavoro emozionale si configura come una “parte integrante della normale routine di assistenza infermieristica” (p.232).
In un altro  recente studio qualitativo longitudinale condotto da Gray (2009) per un periodo di dodici mesi,  volto ad esaminare il ruolo del lavoro emozionale negli infermieri, si concluse che questo lavoro caratterizza la professione infermieristica.
I dati di questa ricerca vennero raccolti attraverso 16 interviste in profondità e semi strutturate. I temi suscitati nelle interviste hanno indagato diverse tematiche del lavoro emozionale riguardanti la definizione del lavoro emozionale secondo gli infermieri, gli aspetti di routine del lavoro emozionale, l’immagine tradizionale e moderna degli infermieri e le barriere professionali e di genere che involgono il lavoro emozionale in ambito sanitario.
In particolare l’autore ha rilevato che la definizione data dagli infermieri al lavoro emozionale echeggia la definizione proposta per la prima volta da Hochschild (1983). Un infermiere rispose: “Io sento che il lavoro emozionale è il modo con cui gli infermieri prestano assistenza alle persone in modo da farle stare tranquille e al sicuro… Una parte del nostro lavoro è di mostrare sostegno per loro anche se hai avuto un giorno terribile e sei stanco di stesso e di tutti gli altri…Devi dare loro il supporto  supplementare  di cui hanno bisogno” (p.170).
Per quanto riguarda la rappresentazione sociale degli infermieri emerse che i tirocinanti si sentivano obbligati a impiegare le emozioni nel lavoro di cura poiché questa attività venne descritta come il “lavoro di un angelo”. Infine dagli intervistati  emersero immagini stereotipate di cura, che presentano degli ostacoli al lavoro emozionale in questo contesto, nella misura in cui il lavoro emotivo non è riconosciuto come attività professionale ed è stato invece considerato come parte del lavoro che ci si aspetta da una figura femminile, associata allo stereotipo di immagine materna predisposta a prendersi cura.
Sebbene sia stata riconosciuta l’esposizione ad un lavoro emozionale  per la professione infermieristica, pochi studi hanno indagato attraverso ricerche quantitative il rischio di stress e job burnout connessi a questa attività.
Un’eccezione è rappresentata dallo studio condotto da Mann e Cowburn (2005)  volto ad analizzare la relazione tra il lavoro emozionale e lo stress in un campione di trentacinque infermieri del reparto di salute mentale. In questa ricerca gli infermieri hanno completato il questionario relativo a 122 interazioni pazienti-infermieri.  I dati vennero raccolti in relazione alla durata e alla intensità delle relazioni, alla varietà delle emozioni espresse, alla percezione del livello di stress in riferimento alle interazioni, al grado di profondità o di superficie di espressione delle emozioni degli infermieri.  In questo studio la durata delle interazioni fu misurata con un item che chiedeva quanto tempo (in minuti) durasse l’interazione. L’ intensità  delle emozioni esperite  e le modalità surface e deep acting  per ciascuna interazione con il paziente venne valutata con l’uso dell’Emotional Labour Scale (Brotheridge & Lee,2003 ) mentre l’ Emotional Labour Inventory di Mann (citato in Mann & Cowburn, 2005) venne utilizzato per misurare il livello di lavoro emozionale eseguito  nel corso di ogni interazione con il paziente. Inoltre, venne inclusa una misura, piuttosto diretta, per valutare quanto ciascuna interazione fosse percepita come stressante, chiedendo agli infermieri “quanto stressante è stata l’interazione?” e venne calcolato il punteggio su una scala a otto livelli. Infine, per valutare il livello di stress generale venne utilizzato il Daily Stress Inventory (Brantley & Jones, 1989, cit. in Mann & Cowburn, 2005). I risultati di questa ricerca hanno suggerito che il lavoro emozionale è positivamente correlato sia con il livello di stress riferito alle interazioni sia al livello di stress generale, e che la modalità di superficie fosse un predittore più importante del lavoro emozionale rispetto alla modalità profonda.
Quest’ultimo risultato implicitamente suggerisce che  non sia di per sé rispondere alle regole di visualizzazione ad avere effetti sullo stress percepito, quanto lo sforzo connesso ad una manifestazione di emozioni non genuine. Come suggerito da Zapf (2002) la dissonanza emotiva può essere considerata anche come una domanda lavorativa,  al pari di altre domande lavorative.
In relazione al focus di attenzione, come suggerito da Brotheridge e Grandey (2002) il costrutto del lavoro emozionale è stato concettualizzato in due modi principali.
Il primo, job-focused emotional labor, denota il livello di domanda emotiva in un’occupazione. Questa prospettiva   fa riferimento al livello di domande emotive poste da una certa occupazione, in termini di aspettative di mostrare certe emozioni, frequenza e durata dei contatti interpersonali, intensità e varietà delle emozioni che devono essere mostrate come suggerito da Morris e Feldman (1996). La seconda prospettiva, employee-focused emotional labor denota il processo del lavoratore di regolazione delle emozioni, attraverso le due modalità proposte dalla Hochschild (1983) per un  adattamento alla domanda emotiva, prospettiva analizzata anche attraverso la dissonanza emotiva (Abraham, 1998; Morris & Feldman, 1996) e  il processo di regolazione delle emozioni (Grandey, 2000; Hochschild, 1983). Con l’obiettivo di integrare le due prospettive, e di analizzare la relazione tra  lavoro emozionale e il burnout lavorativo, si riporta di seguito una breve rassegna di questo  ultimo costrutto e una rassegna delle ricerche che hanno analizzato la relazione esistente tra queste due variabili.

 

 

 

Il concetto di lavoro emozionale

Il concetto di lavoro emozionale

Il concetto di lavoro emozionale, venne proposto per la prima volta da Hochschild (1983) e venne successivamente ampliato e ridefinito da altri autori (Ashforth & Humphrey,1993; Morris & Feldman,1996; Grandey, 2000) nelle sue dimensioni, antecedenti e conseguenze, generando una ampia teorizzazione del medesimo costrutto.
In questo lavoro, frutto di una ricerca  qualitativa condotta attraverso interviste ad assistenti di volo,  l’autrice definisce il lavoro emozionale, differenziandolo da quello fisico e cognitivo, come un “ lavoro che richiede di indurre o sopprimere un sentimento al fine di sostenere un espressione esteriore che produca uno stato mentale in un altro, in questo caso il sentimento di sentirsi protetti in un luogo sicuro.” (p.6-7). L’autrice evidenzia come sia necessario  per queste figure professionali visualizzare certe emozioni come parte della loro prestazione lavorativa in quanto ad essi è richiesto di essere accoglienti, allegri, pazienti e trasmettere un senso di sicurezza.
Secondo Hochschild (1983), il lavoro emozionale è caratterizzato  da tre elementi distintivi:  prevede un contatto faccia a faccia o vocale con il pubblico;  richiede al lavoratore di produrre uno stato emotivo in un’altra persona;  permette al datore di lavoro, attraverso la formazione e la supervisione, un certo grado di controllo sull’attività emotiva dei lavoratori. Un’altra considerazione proposta dall’autrice è che i lavoratori possono gestire e regolare le loro emozioni attraverso due modalità: in superficie (surface acting) o in profondità (deep acting). La prima modalità  fa riferimento ad una manifestazione emotiva, senza che però essa venga sentita come propria. Il lavoratore finge semplicemente un appropriata  emozione. Concerne una gestione del comportamento, piuttosto che dell’emozione, che viene disciplinata, attuata attraverso un’accurata presentazione del comportamento verbale e non verbale; mentre nella seconda modalità le emozioni vengono modificate consapevolmente al fine di esprimere l’emozione desiderata. Secondo l’autrice, la modalità profonda è associata con una riduzione dello stress ed un aumento del senso di  realizzazione personale, mentre la modalità di superficie è associata con un aumento di stress, esaurimento emotivo, depressione e senso di inautenticità. Tali considerazioni sono supportate anche dallo studio condotto da Mann e Cowburn (2005) sulla relazione tra il lavoro emozionale e lo stress in un campione di trentacinque infermieri del reparto di salute mentale. Il contributo più importante che emerge dal lavoro della Hochschild  è che il lavoro emozionale richiede uno sforzo, in parte imputabile all’espressione, nel lungo termine, di emozioni non genuine, capaci di causare negative conseguenze psicologiche, imputabili alla dissonanza emotiva, definita dall’autrice come: “una separazione tra emozioni espresse e emozioni percepite”  (p.90). Una definizione simile è proposta anche da Abraham (1998), secondo il quale la  dissonanza emotiva è “una forma di conflitto persona-ruolo proveniente dal conflitto tra emozioni  espresse e vissute” (p.137). Dalle interviste condotte emersero, infatti, effetti negativi del lavoro emozionale quali sintomi psicosomatici, alcolismo e problemi sessuali. Pertanto l’autrice concluse che la gestione delle emozioni è un aspetto cruciale di alcune professioni e può divenire deleterio per la salute psicofisica dei lavoratori,  sottoponendo questi ultimi ad un rischio di stress e job burnout.
In  seguito al lavoro condotto dalla Hochschild, altri autori hanno revisionato il concetto di lavoro emozionale.
Ashforth e Humphrey (1993) hanno definito il lavoro emozionale come l’azione di mostrare appropriate emozioni, conformi con le regole di visualizzazione. Rispetto alla prospettiva della  Hochschild ,Ashforth e Humphrey erano più interessati al concetto di lavoro emozionale come comportamento osservabile  che come gestione dei sentimenti. I due autori hanno minimizzato l’importanza della gestione interna delle emozioni e hanno suggerito invece l’importanza del ruolo dell’identità sociale e personale come fattori in grado di moderare gli effetti del lavoro emotivo, il quale stimola le pressioni per la persona ad identificarsi con il ruolo di servizio. Inoltre, essi hanno suggerito che il lavoro emozionale non richiede necessariamente uno sforzo cosciente. Infatti, essi suggeriscono che la gestione delle emozioni potrebbe diventare una routine senza sforzo per i lavoratori, invece che una fonte di stress e per quanto riguarda gli esiti hanno focalizzato l’attenzione sulle espressioni emotive osservabili e l’efficacia del compito, proponendo che il lavoro emotivo sia correlato positivamente all’efficacia del compito a condizione che il cliente percepisca l’espressione come sincera. Tuttavia essi concordano con la precedente prospettiva che, se il lavoratore non mostra emozioni genuine, il lavoro emozionale induce ad una dissonanza emotiva. Un’altra prospettiva del lavoro emozionale è quella proposta da  Morris e Feldman (1996). Questi autori hanno definito il lavoro emozionale  come: “lo sforzo, la pianificazione e il controllo necessari per esprimere le emozioni organizzative desiderate durante le transazioni interpersonali” (p.987). Questa definizione, proviene da un approccio interazionista, secondo il quale  le emozioni sono espresse e in parte determinate dalla l’ambiente sociale.
Questa prospettiva è simile alle precedenti in quanto riconosce che le emozioni possono essere cambiate e controllate da un individuo, ma suggerisce che il quadro sociale più ampio determina  quando ciò avviene. Questi autori hanno proposto che il lavoro emozionale è costituito da quattro dimensioni: (a) frequenza di manifestazioni emotive, (b) attenzione  alle regole di visualizzazione richieste (intensità di emozioni e durata dell’ interazione), (c) varietà di  emozioni che devono essere visualizzate, (d) dissonanza emotiva. Secondo gli autori la frequenza delle espressioni emotive è stata la componente più esaminata del lavoro emozionale. Tuttavia la concettualizzazione del lavoro emozionale solo in termini di frequenze di appropriate emozioni potrebbe far perdere alcune complessità del costrutto, poiché la frequenza da sola non cattura il livello di pianificazione, di controllo o delle abilità necessarie per regolare l’espressione delle emozioni. La seconda dimensione implica la durata e l’intensità delle manifestazioni emotive. Nello specifico gli autori sostengono che l’espressione di emozioni di lunga durata richieda maggiore sforzo, mentre l’intensità della manifestazione, fa  riferimento alla forza  con la quale un’ emozione è vissuta o espressa. In riferimento alla terza dimensione l’assunto proposto è che quanto maggiore è la varietà di emozioni visualizzate, maggiore sarà  il lavoro emotivo dei lavoratori, mentre per quanto riguarda l’ultima dimensione, sostengono  che i  lavoratori possono esperire dissonanza emotiva quando l’espressione emotiva richiesta dalle regole di visualizzazione si scontra  con  i “veri” sentimenti. Morris e Feldeman suggeriscono che, piuttosto che essere una conseguenza, la  dissonanza emotiva deve essere considerata come la quarta dimensione del lavoro emozionale, poiché ciò che rende la regolazione dell’espressione emotiva più difficile, sono esattamente quelle situazioni in cui vi sono conflitti tra emozioni autenticamente sentite e  tra quelle organizzative desiderate. Come suggerito da Sarchielli e colleghi (2009) sarebbe proprio la dissonanza emotiva la componente più problematica relativamente all’ambito del lavoro emotivo, in  quanto il fatto di non essere in grado di provare quello che si dovrebbe comporta il sentirsi falsi e ipocriti, determinando nel lungo tempo l’alienazione dalle proprie emozioni e le conseguenze negative. Sulla base di queste considerazioni e sui risultati della ricerca sui fattori di stress lavorativo su un campione di 134 insegnati, nasce il  suggerimento di considerare la dissonanza emotiva come un potenziale fattore di stress lavoro correlato. Morris e Feldeman per ciascuna di queste dimensioni proposte, sulla base di una rassegna sugli studi del lavoro emozionale, propongono degli antecedenti di ciascuna dimensione (riscontrabili in fig.1), formulati in termini di preposizioni, e le conseguenze di queste ultime. Per quanto riguarda la frequenza delle manifestazioni emotive, gli autori sostengono che le regole organizzative di visualizzazione emotiva e la supervisione dei superiori,  sono associate positivamente con la frequenza delle manifestazioni emotive desiderate. Sempre sulla base dell’analisi della letteratura, un altro antecedente di questa dimensione proposto è il genere, nello specifico propongono che le donne abbiano maggiori manifestazioni emotive rispetto agli uomini. La letteratura che ha indagato questo aspetto suggerisce che le donne mostrano una maggiore espressività emotiva  rispetto agli uomini (Deaux, 1985; La France & Banaji, 1992,citati in  Morris & Feldman,1996 ). Ad esempio, Rafaeli (1989) ha riscontrato che le commesse di negozio trasmettono  più alti livelli di emozioni positive ai propri clienti rispetto agli uomini.  Le motivazioni, riscontrate in letteratura della maggiore frequenza  sono: che le donne vengono socializzate ad agire in modo amichevole, (Deutsch, 1990; James, 1989 , citati in  Morris & Feldman,1996), che le donne potrebbero avere una maggiore capacità di codificare e presentare le loro emozioni rispetto agli uomini (LaFrance & Banaji, 1992, citati in  Morris & Feldman,1996), e che mostrano emozioni più positive a causa di un maggiore  bisogno di approvazione sociale (Hoffman, 1972). Un ultimo antecedente di questa dimensione, associato positivamente, è  il compito di routine. Gli antecedenti dell’attenzione alla richiesta di regole di visualizzazione sono: la ripetitività del compito, associato negativamente; il prestigio dell’utente con il quale il lavoratore si interfaccia, associato positivamente con l’attenzione alle regole di visualizzazione e negativamente alla varietà; la varietà del compito, associata positivamente con la varietà delle manifestazioni emotive.
Gli antecedenti della dissonanza emotiva sono:  la forma dell’interazione, in  particolare gli autori suggeriscono che i lavori che richiedono un’interazione faccia a faccia richiedano un maggior controllo dell’espressione emotiva; l’autonomia lavorativa, ipotizzata avere una correlazione negativa con la dissonanza emotiva. Nel contesto del lavoro di servizio, l’autonomia  si riferisce specificamente alla misura in cui gli operatori hanno la possibilità di adeguare le regole di visualizzazione per soddisfare i propri stili interpersonali. I dipendenti che hanno più autonomia sul loro comportamento espressivo hanno più probabilità di violare le regole di visualizzazione dell’organizzazione. Pertanto i dipendenti che hanno  maggiore autonomia lavorativa dovrebbero essere meno sottoposti a  dissonanza emotiva.
Un studio che ha analizzato il ruolo della variabile “autonomia ” è quello condotto da Johnson e Spector (2007). Questo studio ha indagato su un campione di 176 partecipanti di  8 organizzazioni come fattori invidiali (genere, intelligenza emotiva e autonomia lavorativa) moderano l’impatto delle strategie del lavoro emozionale sul benessere dei lavoratori. L’analisi della regressione gerarchica ha indicato che l’autonomia era un moderatore significativo della relazione strategie di lavoro emozionale e outcomes personali di esaurimento emotivo, benessere e soddisfazione lavorativa. In sintesi l’autonomia è risultata essere una variabile in grado di alleviare le conseguenze negative per coloro che svolgono un lavoro emozionale. L’ ultimo antecedente definito “affettività”, concerne una tendenza generale a sperimentare uno stato d’animo particolare, in particolare gli autori sottolineano,  una correlazione positiva tra stati affettivi positivi e dissonanza emotiva quando le regole di visualizzazione richiedono espressioni di emozioni negative e viceversa per gli stati affettivi negativi. Per quanto riguarda le conseguenze, secondo questo modello tutte e quattro le dimensioni hanno una correlazione positiva con l’esaurimento emotivo, e solo la dissonanza emotiva ha una correlazione negativa con la soddisfazione lavorativa.
Figura 1.Tratto da Morris & Feldman (1996). The Dimensions, Antecedents, and Consequences of Emotional Labor ( p. 996).
In uno sforzo di integrare le differenti prospettive Grandey (2000), ha elaborato un  modello di lavoro emozionale, individuando importanti componenti del lavoro emozionale, i sui antecedenti situazionali, il processo di regolazione delle emozioni determinato da fattori individuali e organizzativi, le conseguenze  a lungo termine declinate in benessere individuale e benessere organizzativo.
Figura 2. Tratto da Grandey (2000) Emotion Regulation in the Workplace (p. 101).
 Sebbene il modello proposto da Grandey (2000) rappreseti un’integrazione delle precedenti prospettive, la presente ricerca farà riferimento al modello proposto da Morris e Fieldman in quanto intende esplorare le dimensioni proposte dagli autori, nello specifico la frequenza, e l’intensità, il processo di regolazione emotivo e l’impatto di quest’ultimo  sul benessere individuale, senza indagare i fattori contestuali organizzativi, quali autonomia lavorativa, supporto dei colleghi e dei supervisori, perché la medesima provenienza dei partecipanti alla ricerca non è stata una variabile discriminante, essendo l’obiettivo non quello di un indagine del contesto quanto quello di analizzare l’attività  lavorativi di operatori sanitari, nello specifico la professione infermieristica. Anche se la presente ricerca si focalizzerà sugli aspetti critici del lavoro emozionale, in un ottica di prevenzione e salvaguardia del benessere psicologico del lavoratore, è bene ricordare che l’esecuzione del lavoro emozionale può avere anche conseguenze positive, come la facilitazione di incontri interpersonali con i destinatari, l’efficacia delle attività e l’espressione di sé (Ashforth & Humphrey, 1993). Un’ evidenza empirica relativa agli esiti positivi del lavoro emozionale è rappresentata dallo studio di Zapf e Holz, (2006). In questo studio vennero differenziati i seguenti aspetti del lavoro emozionale: la richiesta della regolazione delle emozioni, la richiesta di mostrare emozioni positive e negative, la richiesta di essere sensibili alle emozioni dei clienti e la dissonanza emotiva.
Le analisi furono condotte su un vasto campione rappresentativo 1342 di lavoratori composto da agenti di call center, impiegati in  hotel, impiegati di banca e insegnanti di scuola di infanzia. I dati hanno mostrato che la  dissonanza emotiva è stato l’aspetto del lavoro maggiormente stressante, mentre la visualizzazione di emozioni positive e la sensibilità verso le  emozioni dei clienti hanno avuto effetti positivi sulla realizzazione personale.

 

Il ruolo delle emozioni nei contesti professionali

Il ruolo delle emozioni nei contesti professionali: Introduzione

 

 

Le condotte lavorative, espressione dell’interazione tra persona e contesto di lavoro, concernono alcune dimensioni comprendenti, oltre alla corporeità, alle funzioni mentali e ai significati dell’ esperienza lavorativa, la dimensione dei sentimenti e delle emozioni (Sarchielli, 2003). Lo studio della condotta lavorativa è stato per lungo tempo ricondotto allo studio dei livelli di soddisfazione – insoddisfazione e delle reazioni emozionali che accompagnano i vissuti soggettivi in relazione all’esperienza di lavoro. Con i cambiamenti del mondo del lavoro degli ultimi decenni e l’aumento dei lavoratori occupati nelle aziende dei servizi è apparso sempre più evidente che la sfera emozionale è rilevante non solo come esito o esperienza che accompagna l’attività di lavoro, ma anche come richiesta individuale posta dal lavoro e pertanto meritevole di attenzione. L’incremento di attenzione per il benessere psicologico del lavoratore, riscontrabile ad esempio nell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 81 (9 aprile 2008), in materia di tutela della salute e della sicurezza dei luoghi di lavoro, ha favorito inoltre, un atteggiamento di prevenzione dei rischi correlati all’attività lavorativa. L’obiettivo di questo lavoro è quello di analizzare gli effetti della componente emotiva, per uno specifico ambito occupazionale, la professione infermieristica, e di analizzare la relazione che quest’ultima riveste sul benessere psicologico del lavoratore.

IL LAVORO EMOZIONALE
Il ruolo delle emozioni nei contesti professionali
Il ruolo delle emozioni nei contesti professionali  è stato un argomento di ricerca a lungo trascurato. Tale noncuranza potrebbe essere attribuita alla tradizione dei modelli razionalistici delle organizzazioni che hanno sottostimato o considerato come un elemento di disturbo  il ruolo delle emozioni nell’attività di lavoro. Un esempio è offerto dalle concezioni weberiana e tayloristica, entrambe promotrici di una visione delle organizzazioni come strumenti razionali per raggiungere scopi specifici, senza nessuno spazio per l’iniziativa dei soggetti, tenuti solo al rispetto delle regole (Bonazzi, 2006). Dalla rassegna condotta da Brief e Weiss (2002) emerge che  lo studio delle emozioni nei luoghi di lavoro nasce come tema di ricerca scientifica negli anni trenta, principalmente negli Stati Uniti, grazie allo sviluppo degli strumenti metodologici necessari allo svolgimento delle ricerche, che hanno giustificato le applicazioni dei principi scientifici allo studio del fenomeno sociale. Un esempio di studi condotto in questi anni è quello di Elton Mayo (1954, citato in Depolo, 2007) relativo agli effetti emozionali del lavoro di gruppo. Secondo gli autori, gli anni trenta sono stati caratterizzati dall’innovazione e dalla scoperta di una diversità di idee e metodi concernenti lo studio di questa tematica. Tuttavia la diversità metodologica caratterizzante quegli anni sbiadì, per lasciare posto ad un approccio che ha analizzato il contesto lavorativo quasi esclusivamente in termini di soddisfazione professionale. Solo nella seconda metà degli anni ottanta e novanta, i ricercatori organizzativi riscoprono l’interesse per le emozioni. Il motivo per cui questo tema di ricerca è riemerso come settore di indagine del comportamento organizzativo non è noto, ma probabilmente dipende  dall’interesse che la psicologia in generale ha dimostrato per questa tematica. Tale interesse è riconducibile soprattutto agli approcci interazionisti e del costruttivismo sociale, i quali hanno focalizzato la loro attenzione sul rapporto tra individuo e organizzazione non come entità a sè stanti  ma come sistemi in interazione. Tale interesse si concretezza nello studio del processo di organizzare piuttosto che all’organizzazione in sè. Questi orientamenti connotati per una critica agli approcci entitari sono più propensi a considerare le interazioni degli attori concreti, gli scambi, i processi politici, cognitivi, sociali e i vissuti emozionali connessi a tali scambi (Hosking & Morley,1991, citato in Depolo, 2007). Nella letteratura sulle emozioni, c’è poco accordo su cosa si intenda per emozione ma il termine si riferisce di solito ad uno stato di arousal fisiologico  e  ad una valutazione cognitiva della situazione che prevede un cambiamento nella prontezza di azione,  in quella cognitiva  e in quella di relazione con  l’ambiente, normalmente  associate con specifici eventi e  così intensi da compromettere  il processo di pensiero (Grandey, 2000). L’interconnessione tra emozione e ambiente  è riconosciuta anche dal modello interazionista delle emozioni, che ben si adatta alla lettura del connubio tra emozioni e contesti professionali (Morris & Feldman,1996). Questo modello attribuisce una considerevole importanza ai fattori sociali nella determinazione e nell’espressione delle emozioni. Questa prospettiva suggerisce che gli individui attribuiscono senso alle emozioni attraverso la loro comprensione dell’ambiente sociale e  che le emozioni in parte siano socialmente costruite. Conseguentemente, l’esperienza emotiva e l’espressione emotiva può essere valorizzata, espressa o soppressa.
Sebbene il binomio emozione-lavoro sia stato un argomento di ricerca in parte trascurato, con qualche eccezione per gli anni ottanta (Hochschild,1983), negli ultimi anni e per categorie professionali particolari quali, call center, impiegati di banca (Zapf, Seifert, Schmutte, Mertini &  Holz, 2001),  polizia (Bakker & Heuven, 2006), assistenti di cabina (Bakker & Heuven, 2003) e  infermieri (Smith ,1992; Mann & Cowburn, 2005; Henderson, 2001; Smith &  Gray ,2000; Gray, 2009; Bakker & Heuven, 2006), il crescente impiego nel settore dei servizi, la sensibilizzazione verso la qualità del servizio offerto e l’attenzione per il benessere dei lavoratori, hanno spinto la letteratura scientifica ad occuparsi degli aspetti di interazione cliente-lavoratore che sono il requisito di molte professioni. Un particolare tipo di relazione cliente-lavoratore è quella che investe lavoratore-paziente, relazione che ha spesso attirato l’attenzione della letteratura scientifica per l’elevato rischio di burnout lavorativo.  A differenza di altre professioni, medici, infermieri, terapisti sono principalmente coinvolti nel lavoro con la persona, relazione  che molto spesso implica il supporto dei pazienti , elevati costi interpersonali, o domande emotive.
La domanda  emotiva può essere definita come quegli aspetti del lavoro che richiedono uno sforzo emotivo a causa del contatto di interazione con i clienti. ( De Jonge & Dormann, 2003, citato in Vegchel, De Jonge , Soderfeldt, Dormann &  Schaufeli, 2004). Un elemento cruciale del ruolo di questi lavoratori, è ad esempio il confronto con molti aspetti della vita umana (malattia, povertà, morte) da cui potrebbero nascere problemi di interazione sociale con i clienti. Un ulteriore aspetto di queste professioni, è quello relativo alla la gestione delle emozioni, il quale risulta una componente determinante del loro ruolo. Ragionevolmente  non si può presumere che  i lavoratori che forniscono servizi alla persona, siano sempre di buon umore,  piuttosto talvolta essi possono essere annoiati o essere suscitati da emozioni negative come rabbia, paura o delusione. Tuttavia ad essi è richiesto un lavoro emozionale, come parte del loro ruolo  lavorativo, in risposta alle emozioni organizzative desiderate. Ekam (1973, citato in Morris & Feldman, 1996) definisce le norme che indicano l’appropriatezza dell’espressione emotiva, regole di visualizzazione (display rules),  per riferirsi agli standard di comportamento che indicano non solo quali emozioni sono appropriate in una data situazione, ma anche le modalità attraverso cui queste emozioni dovrebbero essere espresse.

 

 

Vita in ambienti confinati: aspetti psicologici e criteri di selezione del team

Vita in ambienti confinati: aspetti psicologici e criteri di selezione del team

 

Abstract

La vita in condizioni come quelle antartiche presenta una serie di difficoltà non comuni alla vita di tutti i giorni. Questo tipo di ambientazione ha spesso suscitato curiosità popolare e scientifica riguardo le difficoltà psicologiche attraversate dagli spedizionieri. L’intento di questo breve saggio è quello di mettere in evidenza le caratteristiche principali per la buona riuscita di una missione in questi territori, seguendo i più importanti esempi della letteratura scritta fino a questo momento.

 

1 – Introduzione

Le stazioni dell’Antartide in inverno sono luoghi isolati e solitari, spesso spazzate da forti venti, soggette a lunghi cicli solari, e fenomeni geomagnetici. Nonostante per molti versi l’Antartide sia simile all’Artide, nessun gruppo umano indigeno vi ha mai vissuto, contrariamente a quanto succede nel circolo polare Artico. Per questi motivi, per certi versi, le condizioni di vita all’interno di una stazione polare Antartica sono molto simili a quelli riscontrabili all’interno di capsule spaziali o sottomarini (Suefeld, Steel, 2000). Generalmente si ritiene, che nonostante la scelta di fare parte di questi luoghi per un periodo più o meno lungo sia volontaria, le caratteristiche da cui sono contraddistinti generi inevitabilmente situazioni di stress più o meno marcate. Le nuove condizioni a cui ci si deve abituare richiedono forti dosi di coping e capacità di adattamento personale.

Una delle difficoltà maggiori, sicuramente, è il fatto che questi ambienti espongano gli individui a condizioni di vita radicalmente differenti dalle normali abitudini quotidiane (Fischer, 1994) nonché il fatto che essi richiedano strategie di coping inusuali.

La salienza di queste caratteristiche ha generato numerosi studi sia riguardo gli agenti stressori ambientali, sia riguardo levariabili che influenzano le differenze di comportamento individuali, nella percezione dello stress, come nella gestione e nella resistenza allo stesso. Queste ultime includeranno, inoltre, fattori di gruppo, ambientali e di personalità.

Nel corso degli anni il design ambientale (Stuster, 1996), la selezione del personale (Taylor, 1987) e la composizione del gruppo e della leadership (Natani e Shurle, 1974) sono state le basi della ricerca psicosociale, dei test e delle disposizioni circa gli abitanti delle zone antartiche, nonché di ambienti simili, che definiremo “capsulari”.

Certamente, oggigiorno, le condizioni in cui versano le stazioni polari sono ben lontane da quelle che caratterizzarono l’epoca d’oro delle esplorazioni in Antartide, escludendo quindi l’insufficienza di cibo, riparo e cure mediche, così come il totale isolamento dal mondo esterno. Ciononostante, è certo che non tutti gli individui possiedono le risorse interne per affrontare un intero inverno in condizioni come quelle antartiche (Weiss et al., 2000).

Vari studi (i.e. Palinkas, 1986), nondimeno, hanno evidenziato come la maggioranza dei soggetti inviati in Antartide abbia completato con successo il proprio compito senza gravi problemi, specialmente a lungo termine, mostrando, al contrario, benefici a lungo termine per quanto riguarda lo stato di salute e il successo professionale.

 

2 – Il soggiorno in ambienti polari

Nell’analisi compiuta sui diari di alcuni esploratori britannici, scritti agli inizi del ventesimo secolo, Mocellin et al. (1991), hanno mostrato come le condizioni polari non siano necessariamente foriere di aumenti dello stato d’ansia. Nonostante le condizioni fossero obiettivamente più pericolose, le tecnologie meno avanzate, molti esploratori menzionano esperienze positive, persino nei periodi di soggiorno più difficili. Questi includevano commenti sulla grandiosa bellezza del paesaggio, episodi di serenità e rilassamento e sentimenti di crescita personale. Il livello di stress si era mantenuto sorprendentemente basso, anche durante il periodo di stallo che viene definito più che altro “noioso”.

Gli autori non hanno trovato nessuna differenza significativa, inoltre, nel livello di ansia di soggetti in Artide o in Antartide, nonostante, nel secondo ambiente, le condizioni meteorologiche siano notevolmente più difficili. Molti spedizionieri segnalavano, all’arrivo, sentimenti di eccitazione e durante il periodo di stallo i commenti diventavano maggiormente positivi, fatto probabilmente dovuto all’instaurazione di una routine all’interno del gruppo e della progressione positiva della missione.

Riguardo le condizioni generali dell’ambiente Suefeld (1998) afferma che i soggiorni polari, da questo punto di vista, potrebbero apparire simili ad altri ambienti difficili, molti dei quali possono apparire terribili visti dall’esterno ma con cui le persone trovano frequentemente buone strategie di fronteggiamento con risultati positivi nella maggior parte dei casi.

 

3 – Le interazioni all’interno del gruppo

Gli individui che si trovano in condizioni isolate e confinate devono necessariamente interagire frequentemente e strettamente con il gruppo di cui fanno parte. Secondo il modello di Olivetti Belardinelli (1987) gli assestamenti in questo tipo di interazioni sono raggiunti attraverso l’adattamento delle relazioni da interne ad esterne. L’Antartide è luogo più freddo, più sopraelevato. più secco, ventoso e meno accessibile di tutti i continenti terrestri (Cornelius, 1991): la sopravvivenza umana è possibile solo con l’aiuto di complessi supporti tecnologici, nonché di un ben strutturato piano di lavoro. La capacità di adattamento umano a questo ambiente, nonostante tutte le difficoltà che sembra presentare ad una prima analisi, si dimostra particolarmente efficace: molti autori (i.e. Latis, 1968, Law, 1960; Levesque, 1991; Palinkas, 1986) pongono l’accento sulla grande rilevanza di fattori psicologici, sociali e culturali nei processi di adattamento personali durante la permanenza.

Una ipotesi abbastanza comune è che gli ambienti esotici aumentino i conflitti interpersonali, la rabbia e l’irritabilità, che a loro volta influenzeranno la coesione all’interno del gruppo, ipotesi che sono state riscontrate da diversi autori (i.e. Gunderson e Nelson, 1963; Gunderson, 1966; Law, 1960; Palinkas, 1986). Le ostilità, comunque, sono viste in modo negativo (Lugg, 1977) in quanto pericolose per la coesione all’interno di questi gruppi e gli individui sviluppano una serie di pattern comportamentali che aiutano il contenimento dei conflitti (Harrison e Connors, 1984) come ad esempio evitare giochi altamente competitivi o la comunicazione emozionale. La cosa più importante è la conservazione dell’armonia all’interno del gruppo (Law, 1960). Una possibile spiegazione a questo fenomeno è che i conflitti tra membri potrebbero avere effetti devastanti per la sicurezza dell’intero gruppo in caso di eventi critici. Di conseguenza, la pressione sociale per l’adeguamento alle norme del gruppo e per il raggiungimento di obiettivi comuni diventa molto alta, così come l’importanza del groupthink può diventare particolarmente elevata in caso di situazioni di isolamento (Helmreich, 1983).

 

4 – Gli ambienti “capsula”

Suedfeld (2000) descrive gli ambienti “capsula” come isolati e confinati (ICE, isolated, confined environment), questa categoria si incrocia, poi, con la categoria degli ambienti estremi e inusuali (EUE, extreme, unusual environments), in genere esotico, anormale o particolarmente stressante. Si noti che la definizione dipende dall’occhio dell’osservatore: così come la tundra artica parrebbe strana e pericolosa ad un abitante di New York, Times Square potrebbe dare la stessa impressione ad un cacciatore Inuk

che vi si trovi improvvisamente.

Di fatto, però, si può indicare con il termine estremo qualsiasi ambiente i cui parametri siano sostanzialmente al di fuori da quelli ottimali per la sopravvivenza umana, nonostante comunque vi possano vivere gruppi, e inusuale per denotare condizioni che siano fortemente devianti rispetto a quelle dei più, anche se non per la totalità delle comunità umane. Alcuni ambienti si possono classificare EUE anche solo temporaneamente, ad esempio nel caso di una guerra o di una calamità naturale. Molti EUE comprendono non solo la lontananza fisica dal resto della popolazione, ma anche la difficoltà di accesso alle risorse esterne, oltre ad un range spaziale ben definito.

Vi possono essere ICE in luoghi non EUE, come ad esempio nel caso di prigioni, campi di prigionia, comunità che lavorano per certi periodi nelle miniere o sulle piattaforme petrolifere, abitanti di eremi, gli equipaggi nelle navette spaziali e in simulatori simili, il personale delle aree di controllo missilistiche e vari altri. ICE locati in zone EUE possono includere deserti caldi o freddi, isole disabitate, picchi montuosi, capsule.

Le capsule hanno la particolarità di essere lontane da altre comunità, locate in condizioni estreme per la sopravvivenza umana, e difficili da raggiungere o lasciare. Sono inoltre abitate da gruppi , composti artificialmente, di persone che vengono allontanate dalla loro normale vita quotidiana e che si trovano in quella situazione per completare un compito o un obiettivo ben preciso. le escursioni all’esterno sono rare e disagevoli, oltre che frequentemente pericolose. Importanti all’interno della capsula sono gli spazi

lavorativi, le zone living così come zone ricreative, infermeria, zone per la preparazione e la consumazione dei cibi e comunicazione con l’esterno.

All’interno di questi ambienti, le indagini di tipo psicologico sono piuttosto dispendiose. Piuttosto che direttamente in loco, spesso si preferisce l’uso di simulazioni, meno costose, più sicure e facilmente accessibili. I metodi utilizzati sono i più vari: test psicometrici, interviste, esperimenti in laboratorio, osservazione partecipativa, studi sul campo simulazioni e metodi qualitativi, con analisi di contenuto. I dati raccolti nelle capsule, per ovvie ragioni situazionali, forniscono dati di piccoli campioni, sicuramente non raccolti a caso, e quindi non necessariamente rappresentativi dell’intera popolazione. I dati raccolti finora, però, presentano una grande concordanza interna, essendo stati replicati in diversi ambienti, in diversi gruppi e in più di un ambiente capsula, cosa che accresce notevolmente la credibilità delle conclusioni che sono state fatte sinora (Suefeld e Steel, 2000).

L’immagine che spesso viene enfatizzata della vita nella capsula è quella della deprivazione, della fatica, di forti stress e pericoli. Molto spesso l’accento è posto sulle difficoltà nell’interazione fra membri del gruppo, negli scontri interpersonali, nelle discordi riguardo le procedure da seguire sia con l’organizzazione centrale che con i capi, con menzioni di frequenti ammutinamenti e ribellioni. Quello che non viene menzionato, spesso, è la frequenza di comportamenti simili in caso di ambienti noiosi, monotoni, ma familiari (Douglas, 1991).

Secondo Suefeld (2000) è importante concentrarsi, invece, sugli aspetti positivi e salutari dell’esperienza della vita in capsula, oltre ovviamente ad analizzare gli aspetti negativi.

Per molti dei soggetti che passano un certo periodo in un ambiente capsulare, almeno per quelli per cui il soggiorno non si è trasformato in un disastro completo, l’esperienza è diventata una parte importante della vita, percepita come un stimolo alla crescita, al rafforzamento personale all’approfondimento della propria psiche, da ricordarsi con orgoglio e piacere.

 

5 – Aspetti psicologicamente rilevanti dell’ambiente-capsula

In passato la psicologia ha occupato un posto di minore importanza nelle scienza polari, rispetto alle altre discipline (Suefeld, 1991). Il Comitato Scientifico sulle Ricerche Antartiche (sigla inglese SCAR), un’associazione non governativa che coordina e monitora tutte le ricerche antartiche grazie agli accordi internazionali, ha approvato solo nel 1987 l’aggiunta di un rappresentante dell’Unione Internazionale delle Scienze Psicologiche all’interno dell’organico. Attualmente, il ruolo della ricerca psicologica in

questo campo è riconosciuta e presa in considerazione nella creazione degli obiettivi e nelle attività attuali dei gruppi che affrontano un periodo nelle zone polari.

Suefeld e Steel (2000) pongono una lista di diversi aspetti che possono essere potenzialmente stressori in un ambiente particolare come quello della capsula. Come vedremo, questa lista presenta una serie di caratteristiche spesso intrinseche alla vita nella capsula, che possono essere moderate e rese meno cruciali, se non, dove possibile, evitate completamente.

Si ritiene particolarmente importante la riduzione dello stress dove possibile perché questo non potrà che migliorare il clima all’interno del gruppo e favorire la cooperazione per portare avanti obiettivi comuni, oltre a mantenere alto il livello di motivazione personale.

La letteratura popolare e professionale riguardo gli ambienti polari ha a lungo parlato della “sindrome dell’inverno”. Molti membri degli equipaggi inviati durante l’inverno polare hanno dimostrato combinazioni di depressione, irritabilità, danni cognitivi, disturbi del sonno e stati di coscienza alterati (Palinkas e Browner, 1995). Altri sintomi riportati durante questo periodo sono apatia, problemi psicosomatici e mancanza di igiene personale tra alcuni membri del gruppo (e.g. Taylor, 1987).

Suefeld e Steel (2000) individuano diverse fonti negli ambienti-capsula che accrescono lo stress. Queste fonti vengono divise in quattro categorie principali di seguito riportate: stressori fisici; fattori psicoambientali, che sono determinati dalle reazioni degli individui alle condizioni ambientali; fattori sociali, legati alle relazioni interpersonali; fattori temporali, relativi al passare del tempo.

 

5.1 – Stressori fisici

La natura pericolosa dei luoghi in cui vengono installate le capsule fa sì che si ponga un particolare accento sull’identificazione dei pericoli che possono incorrere. Nella regione Antartica gli imprevisti deterioramenti delle condizioni climatiche, la mancanza di un adeguato equipaggiamento (ad esempio una radio) o abbigliamento durante le escursioni in esterni sono i motivi di maggiore preoccupazione.

Molti di questi pericoli, comunque, vengono considerati solo moderati, anche perché molti degli spedizionieri ritengono di essere in grado si fronteggiarli con successo.

L’eziologia di alcuni effetti avversi è incerta: per esempio, c’è stata un’inattesa riattivazione di virus latenti (herpes ed Epstein-Barr) tra il personale di spedizioni in Antartide e nello spazio (Suedfeld e Steel, 2000). Questo fenomeno potrebbe essere legato allo stress, ma potrebbe anche essere imputato alla mancanza di difese immunitarie durante l’incapsulamento dell’equipaggio.

Un altro problema è il rumore. Il rumore costante, monotono e le vibrazioni dei macchinari può interferire con il riposo e la concentrazione. Le tempeste polari sono inoltre fonti di rumore forte e persistente, che alla lunga può innervosire notevolmente. Ovviamente, il rumore può anche trasformarsi in piacere quando riguarda il suono di radio, musica e televisione, oltre che si suoni piacevoli della natura.

 

5.2 – Fattori Psico-Ambientali

Densità: le capsule tendono ad essere piccole per ragioni di tipo pratico (costi di costruzione, maggiore efficienza, minore dispersione termica, composizione limitata del gruppo). Questa condizione non si può applicare alle stazioni antartiche in inverno, in quanto la portata del gruppo si riduce drasticamente, ma lo sono in estate, quando il gruppo è più numeroso. Molte capsule in questa stagione non permettono all’equipaggio di avere spazi personali, la privacy necessaria e la distanza minima dalle altre

persone. Queste condizioni disturbano la necessità di avere un luogo dove poter stare soli occasionalmente. Probabilmente il letto è l’unico spazio privato di cui ogni membro dell’equipaggio dispone. Curiosamente una possibile soluzione potrebbe venire da un noto programma televisivo “Grande Fratello”: all’interno della casa, dove vi è alta densità di abitanti e mancanza di spazi privati viene istituito il “confessionale” dove è possibile passare del tempo in solitudine, magari sfogandosi dei

propri problemi in un dialogo solitario oppure (nonostante questo non venga messo in onda) con uno psicologo che interagisca con chi parla.

L’isolamento all’interno della capsula: L’isolamento può portare a reazioni nevrotiche, apatia, disordini del sonno, stress psicologico risultante dalla stanchezza, dalla mancanza di informazioni e dalla sindrome ipomaniacale da post-isolamento.

Confinamento: Percepito maggiormente durante le spedizioni aerospaziali, la sensazione di essere confinati e non potersi muovere dalla capsula si può evitare con l’interruzione della monotonia, ad esempio inserendo all’interno della capsula piante o animali da curare che aiutano l’equipaggio a ridurre stress e noia. I fattori che accompagnano frequentemente la sensazione del confinamento sono la mancanza di esercizio fisico, e il conseguente decondizionamento.I soggetti provano stato di sonnolenza, depressione e declino generalizzato dell’umore; comportamenti compulsivi, problemi psicosomatici ed ipodinamia, la conseguenza dell’insufficienza di attività motoria. Questa condizione

può portare ad atrofia muscolare e a minori performance cognitive e motorie. Monotonia: la mancanza di novità e di variazione a livello sensoriale, la mancanza di cambiamenti all’interno come all’esterno, sia del paesaggio che dei compiti da svolgere, possono portare a sensazioni di noia, depressione, minor reattività.

 

5.3 – Fattori sociali

Monotonia sociale: il fatto di dover stare insieme forzatamente e la monotonia sociale sono sicuramente tra i fattori maggiori di stress (Suefeld, Steel, 2000). Smith (1969) conclude che dopo 2 o più settimane di confinamento, i più irritanti comportamenti erano considerati l’inadeguatezza della leadership e il comportamento degli altri. L’arrivo di visitatori o i rimpiazzi possono essere buoni alleati per spezzare la monotonia sociale. Questo rimedio, comunque, presenta una doppia faccia, se da un lato interrompe la monotonia pone anche nuovi compiti al gruppo: i nuovi arrivati hanno bisogno di attenzioni, rompono la routine del gruppo e pongono problemi di integrazione all’interno del team già esistente.

Conflitti: i conflitti possono accendersi tra membri dell’equipaggio così come tra superiori e membri.

L’ammiraglio Bird (1938) preferì passare l’inverno Artico da solo piuttosto che rischiare di essere accompagnato da qualcuno che avrebbe potuto diventare insopportabile per il modo che aveva di masticare! Il conflitto può essere scatenato anche dalle caratteristiche personale dei soggetti che compongono il gruppo. Come si vedrà più avanti nell’articolo (vedi: La selezione dell’equipaggio: il modello giapponese) alcune nazioni insistono sulla selezione di un gruppo armonioso piuttosto che sull’individuo in se.

Ruoli Sociali: Al momento dell’arrivo nella postazione l’individuo si trova di frequente in mezzo a persone sconosciute e deve di conseguenza ricostruire un ruolo sociale all’interno del nuovo gruppo.

L’autostima e la valutazione di sé diventano in questo momento cruciali, in quanto il soggetto si trova analizzato e scrutato da persone quasi o totalmente sconosciute. La creazione di una nuova identità all’interno del gruppo, la nascita di una micro cultura, o peggio, di più microculture, la creazione di nuovi concetti di se in relazione agli altri sono ulteriori fonti di stress. Ruoli incompatibili (ad esempio il personale militare e gli scienziati civili) possono portare conflitti, generalmente sulla base del diverso centraggio della missione o sulle differenti priorità della stessa.

Queste tensioni possono portare a divisioni all’interno del gruppo con la conseguente formazione di sottogruppi o addirittura di un intero gruppo contro un solo individuo. Creare chiarezza nei ruoli, da parte della direzione, può essere un modo per facilitare il processo iniziale e creare minori conflitti.

Comunicazione: All’interno della capsula la comunicazione interpersonale viene accentuata. Altman e Haytorn (1965, 1967) hanno mostrato come il confinamento in questo particolare ambiente aumenti l’intimità e l’apertura verso gli altri. I soggetti che si sono inizialmente aperti agli altri, però, potrebbero pentirsi di averlo fatto, in un momento successivo. Facilmente, infatti, si verificano perdite di informazioni, pettegolezzi tra compagni che possono portare a numerosi sentimenti negativi.

Mantenere la segretezza di alcune informazioni diventa quasi impossibile. In particolare, nei gruppi a prevalenza maschile, le donne sono spesso oggetto di pettegolezzi riguardanti la loro (supposta) disponibilità sessuale (Rothblum et al., 1998). In un contesto così isolato la comunicazione diventa comunicazione è non solo nei messaggi con la base, che fornisce ovviamente importanti informazioni e consigli utili, ma anche con la famiglia, gli amici e i colleghi, capace di risollevare l’umore e provocare sensazioni positive e di sollievo a molti dei soggetti in isolamento.

D’altro canto, la mancanza di informazioni, o ancora peggio, cattive notizie da casa, possono essere foriere di rabbia, depressioni e frustrazione in caso il soggetto si senta impotente nell’aiutare o partecipare a ciò che succede in famiglia.

Sesso: Molti programmi in Antartide, sia americani che russi, includono regolarmente membri femminili nell’equipaggio. I risultati sono generalmente buoni, anche se si è verificato l’insorgere di alcune gelosie o competizioni sessuali, mentre alcune donne hanno trovato l’eccesso di attenzioni scomodo e difficile.

Nonostante la NASA non abbia riscontrato articolarti differenza nelle performance tra i due sessi, in caso di missioni spaziali, in Russia è stato notato che “per alcune delle mansioni a bordo che richiedono attenzione e accuratezza, le donne si sono dimostrate capaci di agire in modo più efficiente rispetto agli uomini” (Gubarev, 1983, p. 38 in Suefeld e Steel, 2000).

 

5.4 – Fattori Temporali

Durata: uno degli aspetti critici della permanenza in capsula è la durata del periodo. Il fattore tempo impatta tutte le variabili fisiche e psicologiche che abbiamo precedentemente menzionato, in virtù del fatto che molti degli stressori non sono particolarmente gravi, ma possono diventarlo accumulandosi con il tempo, mentre l’equipaggio potrebbe non rendersi conto della loro presenza fino a che siano diventati ormai gravi. Per questo motivo è molto importante un costante monitoraggio dei primi sintomi di stress in modo da adottare per tempo le appropriate contromisure.

Con il passare del tempo, inoltre, è possibile che la motivazione e il morale subiscano un declino, mentre, in particolare per gli spedizionieri in Antartide, eventuali lacune nella preparazione venono riconosciute aumenta la preoccupazione per eventuali pericoli durante le spedizioni polari, il lavoro e persino l’attività ricreativa.

Ciononostante, vi sono anche aspetti positivi in una durata lunga ma ragionevole di una missione polare. Le capacità di coping e le confidenza tra membri aumentano con il passare del tempo, mentre si riduce l’apprensione per la difficoltà dei compiti da affrontare.

Cicli: I ritmi circadiani, in particolare il ciclo sonno-veglia, se alterati, possono dare luogo a situazioni critiche. Molti individui possono essere soggetti ad aumenti di stress, sia fisiologico che psicologico, significativi nel caso i loro ritmi naturali non vengano rispettati. Programmazione: la divisione del tempo lavorativo e del tempo ricreativo ha una grande importanza. A volte l’eccesso di lavoro può essere stressante, ma quello che spesso passa inosservato è il contrario:

l’eccessivo tempo libero, in una situazione come quella Antartica può essere ugualmente nocivo.

Durante il tempo libero, infatti, difficilmente si trova distrazione da quelli che sono gli aspetti negativi della capsula: l’isolamento, la mancanza di spazi privati, le condizioni climatiche esterne (specialmente durante l’inverno). Stati di coscienza alterati, eccessiva sonnolenza, percezione rallentata del passare del tempo e rallentamento delle funzioni cognitive, sono i sintomi più diffusi, spesso erroneamente confusi come sintomi di deterioramento mentale. Importante da questo punto di vista è la presenza di un adeguato numero di distrazioni per i tempi morti da affrontare durante la permanenza.

Le seguenti tabelle propongono un riassunto dei principali fattori di stress, con le cause, i sintomi, le conseguenze sullo stato psicologico e fisiologico e le possibili precauzioni per evitare conseguenze negative.

 

 

6 – Caratteristiche principali per la bona riuscita della missione

6.1 – L’importanza dell’armonia all’interno del gruppo di lavoro

Come abbiamo visto precedentemente la compatibilità tra membri del gruppo è una caratteristica estremamente importante per la buona riuscita del compito. Shears e Gunderson (1966) la considerano come una delle condizioni più importanti per l’efficacia di una stazione antartica, importante quasi come la performance lavorativa, per un adattamento effettivo all’ambiente antartico.

Peri e Tortora (1989) sono stati tra i primi in Italia ad investigare questa particolare area, purtroppo con risultati iniziali scarsi, a causa dell’insufficiente partecipazione da parte dei soggetti ai test utilizzati. La difficoltà ad ottenere appoggio dall’equipaggio è dovuta alla scarsa considerazione dell’aspetto psicologico di tali missioni, diffuso specialmente in passato. Attualmente le condizioni sono cambiate e Peri et al. (2000) hanno potuto condurre felicemente un’indagine volta a studiare l’evoluzione delle relazioni umane durante il soggiorno in Antartide, che tenesse in conto le dinamiche intra- ed interpersonali utilizzando una versione italiana del MIPG (Matrix of Intra and Interpersonal Processes in

the Group), meno personale ed invasivo rispetto ad altri metodi e quindi risultato più accettabile dai soggetti. Si noti che l’esperimento metteva a confronto le modificazioni avvenute in una campagna di due mesi in Antartide da parte di due diversi gruppi, il primo più numeroso (40 elementi) e il secondo più ridotto (solo 15 soggetti). Nonostante i due gruppi non presentassero particolari disparità all’inizio della campagna, le differenze finali risultano essere notevolmente accentuate dal soggiorno stesso. Il gruppo che inizialmente presentava una maggiore ansia e minore armonia interpersonale ha registrato un aumento finale dell’ansia e un’ulteriore diminuzione dell’armonia; il gruppo meno ansioso e più

armonico ha registrato invece una maggiore armonia e un calo dei livelli dell’ansia. Peri et al. (1991) ipotizzano che l’ambiente Antartico abbia la capacità di intensificare le caratteristiche delle relazioni umane, siano esse positive o negative. Un’altra risorsa importante, che ha il potere di condizionare positivamente il gruppo è il grado di apertura e di chiusura tra i membri stessi e tra i membri e i leader.

Questa caratteristica nell’esperimento è rimasta costante per l’intero periodo all’interno del gruppo, nonostante ciò, gli autori precisano che verso la fine del progetto in uno dei due gruppi appariva un umore irritabile che è rimasto latente, ma che forse sarebbe potuto sbocciare con l’andare del tempo.

 

6.2 – La selezione dell’equipaggio: il modello giapponese

Weiss et al. (2000) hanno condotto uno studio sulle caratteristiche del gruppo di lavoro giapponese per le missioni in Antartide, nella stazione polare di Asuka, al fine di individuare eventuali differenze con i team occidentali. Il processo di selezione, effettuati per il Japanese Antartic Resarch Expedition (o JARE), come primo punto era particolarmente centrato sull’abilità personale di completare i compiti assegnati all’individuo, con un occhio di riguardo alla composizioni di gruppi che potessero lavorare insieme in modo efficiente e privo di particolare difficoltà. In quelli che sono i criteri standard della selezione degli equipaggi per le missioni in Antartide, abilità, compatibilità e stabilità (Gunderson,

1974), i primi due sono considerati i più importanti, in contrasto con lametodologia comunemente adottata in Europa che considera la prima e l’ultima come le caratteristiche più rilevanti.

Non è solo questo però, secondo gli autori, a rendere intrigante e degna di nota la metodologia giapponese. Nonostante la ricerca psicologica non sia tra le priorità del JARE ci son state indagini sulle modalità in cui il popolo giapponese si adatta alle condizioni polari (i.e. Takami, 1991). Generalmente le condizioni di vita giapponesi sono caratterizzate da forte affollamento e mancanza di spazi personali, condizioni che hanno sviluppato nella popolazione strumenti difensivi che permettono di convivere fortunatamente con queste condizioni (e.g. vedi Raybeck, 1992).

Il senso del gruppo, inoltre, è molto forte in netto contrasto con la mentalità individualista occidentale, e fin da piccoli i bambini imparano a far parte di gruppi in modo armonioso e a collaborare per raggiungere scopi comuni. I risultati dell’indagine di Weiss et al. (2000) compiuta nell’arco di tre anni su un campione di 107 maschi giapponesi, la maggioranza di cui non era mai stata in Antartide prima, ha messo in luce che gli spedizionieri avevano alti livelli di resistenza allo stress, erano più orientati allo scopo e meno orientati verso emozioni negative rispetto ad un campione di nordamericani studiato precedentemente durante l’estate Artica, già di per se meno difficoltosa dell’inverno nella stessa regione.

Il fatto che non siano stati rilevati cambiamenti significativi nei tratti di personalità stabili durante il periodo in studio, potrebbe inoltre suggerire che il metodo di selezione e di allenamento giapponese per i gruppi di lavoro nell’inverno polare sia particolarmente efficace e consistente nell’usare criteri affidabili nel produrre team che possano resistere e fronteggiare con successo con le condizioni ambientali e sociali artiche.

 

6.3 – Criteri di selezione dei candidati

Per motivi di ovvietà, abbiamo preferito non menzionare il primo screening di selezione dei candidati, basato sulle capacità fisiche, sull’assenza di patologie psicologiche potenzialmente pericolose per il candidato e per gli altri, insufficiente sopportazione dello stress, per passare direttamente alla seconda fase del processo di selezione, ovvero, tra i migliori, scegliere chi è davvero qualificato per questo tipo di missioni.

Diversi criteri sono stati formulati per questo processo:

Gunderson (1973) propone una triarchia di caratteristiche quali: l’abilità nel compito, socievolezza e stabilità emotiva. Il programma spaziale sovietico utilizza, invece, una massiccia batteria di test ed interviste, di cui un test per la resistenza allo stress richiede ad un gruppo di candidati di guidare una piccola vettura attraverso la campagna. Come suggerisce questa attività, lo scopo delle selezioni non è di selezionare un individuo ma un gruppo di persone, sulla base di come lavorano e si coordinano vicendevolmente, la compatibilità di gruppo è considerata, come abbiamo visto nell’esempio giapponese, la caratteristica principale nel programmare una missione. Alcuni tratti personali

importanti, che esulano leggermente dagli standard ufficiali, sono il senso dell’umorismo, la sensibilità culturale e la tolleranza (Burrough, 1998).

Tra gli approcci di tipo personalistico il modello “Big Five” (Costa e McCrae, 1992) è stato considerato particolarmente valido per i programmi di selezione degli equipaggi da inviare in capsula.

Generalmente, i candidati da inviare in Artide e Antartide hanno punteggi più alti in tutti i settori rispetto alla norma, eccetto che nel fattore nevroticismo, ovvero la summenzionata “stabilità emotiva” di Gunderson.

 

7 – Conclusioni

Numerosi studi si sono occupati delle condizioni psicologiche dei gruppi di lavoro in Antartide. Come abbiamo visto, questo tipo di ambiente presenta una notevole serie di caratteristiche che lo rendono unico e interessante dal punto di vista dell’andamento psicologico dei soggetti che vi affrontano un periodo più o meno lungo. Gli studi che sono stati compiuti hanno evidenziato le numerose caratteristiche possono portare a situazioni di stress, più o meno acute.

Quello che risulta cruciale è l’attenzione che viene posta, nei criteri di selezione, dalla scelta di una squadra piuttosto che ad una serie di individui dotati. Questo approccio potrebbe essere la chiave di un successo ancora maggiore nelle missioni in Antartide. Creare un gruppo in base alle caratteristiche personali di compatibilità e testare il gruppo, piuttosto che l’individuo, può diventare un criterio fondamentale che permetta missioni a contenuti livelli di stress e aumentata armonia, condizioni che non possono che favorire la buona riuscita della missione.

 

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© Vita in ambienti confinati: aspetti psicologici e criteri di selezione del team – Anna Rosso