Stress: Origini e Sindrome Generale di Adattamento

Lo stress: le sue origini e la  Sindrome Generale di Adattamento (SGA)

 

Il termine “stress” è entrato a far parte del linguaggio corrente: ognuno di noi l’ha utilizzato almeno una volta nella vita per descrivere una situazione di disagio, di tensione, di forte preoccupazione o di ansia.

L’uso che se ne fa è indubbiamente molto generico, spesso improprio, soprattutto se si pensa che, in realtà, l’origine del termine è legata al settore metallurgico, nel quale era tradizionalmente utilizzato per indicare gli effetti che grandi pressioni determinavano sui materiali.

Proprio di pressioni e di effetti si deve parlare quando si utilizza il termine stress.

Il tentativo di collocazione etimologica si deve, infatti, necessariamente ancorare alla definizione proposta da Hans Selye, il quale proprio dalla metallurgia aveva preso in prestito il termine per indicare una concatenazione di eventi omeostatici, adattamenti, e modificazioni fisiologiche che gli animali da laboratorio mettevano in atto come effetto delle pressioni esercitate da agenti nocivi introdotti nel loro organismo.

Selye è considerato, a giusta ragione, il padre fondatore delle ricerche sullo stress; a lui va il merito di aver “portato alla luce” il fenomeno e averlo trasferito alla comunità scientifica.

Egli non avrebbe mai pensato, probabilmente, di attivare un interesse di ricerca che, nato in un contesto biologico, avrebbe dato e ricevuto poi grandissimi apporti dalla psicologia e dalle scienze del comportamento umano.

Occorre chiarire che, da un punto di vista etimologico, il termine “stress” è passato dal significato iniziale di avversità, difficoltà, afflizione, a quello più recente di pressione, sollecitazione, tensione o sforzo ed è frequentemente usato per indicare una “spinta a reagire” esercitata sull’organismo da diversi stimoli sia esterni all’individuo, sia interni (stressors).

Ciò che portò il “padre dello stress”a formulare la sua definizione scientifica del termine, fu l’ipotesi, corroborata dai suoi studi (Selye, 1936), che esistesse, nei meccanismi biologici che presiedono alle risposte di adattamento di un organismo a fronte di un agente nocivo, un insieme di segni e di sintomi tra loro correlati e coerenti tale da far pensare all’esistenza di una sindrome generalizzata di risposte, denominata, successivamente, “sindrome generale di adattamento” (SGA) o, facendo riferimento alla metallurgia, “stress”.

La definizione scientifica che ne diede in seguito, vedeva lo stress (o SGA) come “una risposta (generale) aspecifica a qualsiasi richiesta (demand) proveniente dall’ambiente”(Selye, 1955).

Con il termine “aspecifico” egli elude la solita visione che un effetto, una risposta biologica, sia sempre riconducibile a una sola causa. Enfatizza, invece, il fatto che stimoli differenti possano indurre una risposta stereotipata, chiamata stress, determinata non tanto dalla natura dello stimolo, quanto dalla sua intensità.

Per questo motivo tale stimolo non deve essere necessariamente negativo o dannoso per attivare una SGA, ma può anche essere intensamente piacevole o gioioso: tale risposta è aspecifica perché la sua finalità è favorire un generale adattamento dell’organismo. Col termine “qualsiasi” si sottolinea proprio come la medesima risposta sia causata anche da stimoli diversi, di qualsiasi natura: la SGA può essere attivata non solo da eventi straordinari, ma anche da richieste ambientali solite, purché accentuate o percepite come soggettivamente intense.

In molti riconobbero che fosse corretto identificare col termine stress una risposta a uno stimolo ambientale, la reazione adattiva di un organismo sottoposto all’influenza di fattori esterni.

Tra questi, Lazarus e Folkman (1984), lo definirono come “un particolare tipo di rapporto tra la persona e l’ambiente, che viene valutato dalla persona stessa come gravoso o superiore alle proprie risorse e minaccioso per il proprio benessere”.

Questo significa che, in base a tale definizione, lo stress deriva da una dinamica fra individuo e ambiente che scatena una risposta interiore dell’individuo, appunto, con effetti fisiologici. Tali effetti, come aveva spiegato molto bene anche Selye nei suoi studi pionieristici, non sono necessariamente negativi.

Gli effetti negativi si verificano quando vi è un’incongruenza fra le richieste dell’ambiente e la capacità soggettiva di esaudirle. Tale incongruenza viene definita distress, contrapposta alla condizione di eustress che è positiva e fonte di gratificazione per l’individuo.

Nel suo volume dal titolo Stress without Distress, infatti, già Selye aveva sostenuto che lo stato di stress fosse uno stato fisiologico normale e che, quindi, non potesse e non dovesse essere evitato: “La completa libertà dallo stress è la morte. Contrariamente a quanto si pensa di solito, non dobbiamo, e in realtà non possiamo, evitare lo stress, ma possiamo incontrarlo in modo efficace e trarne vantaggio imparando di più sui suoi meccanismi, e adattando la nostra filosofia dell’esistenza a esso” (Selye, 1974).

Ogni individuo, sosteneva ancora Selye, possiede un diverso livello di resistenza al fenomeno, che, a sua volta, non è sempre e necessariamente negativo o dannoso. I fenomeni che generano stress si possono riconoscere nell’angoscia, nello sforzo fisico, come pure nel successo; infatti “dal punto di vista della sua capacità di provocare uno stress, non ha importanza che l’agente stressante, o la situazione che dobbiamo fronteggiare, sia piacevole o spiacevole: conta solamente l’intensità del bisogno di adattamento o riadattamento” (Selye, 1974).

Gli individui, secondo Selye, possiedono un “serbatoio di energie” per fronteggiare gli stimoli esterni, in base al quale si determina il livello di resistenza al fenomeno. Tale “serbatoio di energie” si esaurisce facilmente quando l’agente stressante è particolarmente intenso, o quando più fattori stressanti agiscono contemporaneamente, oppure ancora quando l’azione degli agenti stressanti è prolungata nel tempo.

In tutti questi casi si avrà come risultato una situazione di distress, causa di patologie sia psichiche, sia organiche. Quando, al contrario, la risoluzione di una situazione di stress produce nell’individuo una sensazione di piacere, di gratificazione, agendo come un rinforzo positivo per simili situazioni future, l’energia del serbatoio aumenta e si

Bibliograia

  • Lazarus, R., S., e Folkman, S. (1984). Stress, appraisal, and coping. New York: Springer Publishing.
  • Selye, H., (1936). A syndrome produced by diverse nocuous agents. Nature, London 138, 30-32
  • Selye, H., (1955). La sindrome di adattamento. Istituto sieroterapico milanese S. Belfanti, Milano
  • Selye, H. (1974). Stress without Distress. New York, J.B. Lippicott, trad. it. Stress senza paura, Milano. Rizzoli, 1976.

 

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Stile repressore e benessere: La struttura del benessere soggettivo

La struttura del benessere soggettivo

 

Tutti noi valutiamo quello che accade nella nostra vita in termini di favorevolezza/sfavorevolezza e siamo capaci di costruire giudizi sulla nostra vita.

Il benessere soggettivo si riferisce al modo in cui le persone valutano la propria vita.

Nella letteratura sono distinte tre componenti del benessere:

    1. la soddisfazione per la vita,
    1. l’affetto piacevole
    1. l’affetto spiacevole (Andrews & Robinson, 1991; Argyle, 1987; Diener, 1984, 1994).

La soddisfazione della vita riguarda un processo cognitivo di valutazione delle proprie circostanze di vita, in riferimento a particolari standard personali come le aspettative o gli ideali (Cantril, 1965).

La componente affettiva indica le emozioni che le persone provano durante la loro vita quotidiana (Diener & Larsen, 1993; Bradburn, 1969).

L’affetto positivo corrisponde a stati affettivi piacevoli come la felicità, l’entusiasmo mentre, l’affetto negativo corrisponde ad affetti spiacevoli come la rabbia o l’insoddisfazione; entrambi i concetti sono ritenuti distinti e influenzati da variabili differenti.

Per esempio la teoria di Bradburn (1969) afferma che il benessere soggettivo è costituito dalla prevalenza di affetto positivo rispetto a quello negativo.

Il benessere è distinto concettualmente sia dall’umore transitorio, sia dall’affettività intesa come tratto di personalità durevole (Costa & McCrae, 1980; Watson & Tellegen, 1985), collocandosi in una posizione intermedia; lo si potrebbe concepire come il livello medio di affettività sulla dimensione di piacevolezza/spiacevolezza, nell’arco di un periodo di tempo abbastanza lungo e attraverso varie situazioni (Diener & Larsen, 1993).

In questo senso, un soggetto avrà un benessere soggettivo elevato se proverà gioie e soddisfazioni frequenti e, solo di rado, emozioni negative come la tristezza. Un basso livello di soddisfazione, con poche emozioni piacevoli e molte emozioni spiacevoli è ritenuto essere un indicatore di basso benessere soggettivo.

Ognuna delle tre principali componenti del benessere può essere scomposta in altri aspetti più specifici e valutabili separatamente.

Ad esempio la soddisfazione della vita può essere divisa in soddisfazione per vari ambiti come il tempo libero, le amicizie o il matrimonio.

L’affetto piacevole può essere suddiviso in emozioni distinte (gioia, orgoglio, ecc.), così come l’affetto negativo (tristezza, vergogna, ecc.).

Gli studiosi cercano soprattutto di capire qual è l’origine dei sentimenti di benessere e i fattori responsabili della loro stabilità o del cambiamento nel tempo. Vengono considerate variabili socio-demografiche, variabili relative a condizioni di vita “oggettive”, variabili di personalità, il ruolo del temperamento, l’influenza dei processi psicosociali, della cultura, dei valori personali, delle relazioni interpersonali e del sostegno sociale. Ciò che manca è però una teoria unica che coinvolga tutte queste variabili.

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Stile repressore e benessere: Il Benessere soggettivo

Il benessere soggettivo

 

 

I primi sforzi per indagare il benessere soggettivo si sono sviluppati in ambiti diversi dalla psicologia. All’inizio degli anni Settanta i sociologi hanno iniziato ad interessarsi alla valutazione delle condizioni di vita della popolazione generale, per misurare le quali furono messi a punto degli indicatori della qualità di vita, prima economici (PIL) e poi sociali (condizioni abitative, reddito, istruzione ecc.).

Nel corso del tempo questi strumenti furono sottoposti ad una serie di critiche e si cominciarono ad usare anche indicatori soggettivi, come i giudizi di felicità e la soddisfazione per la vita (Campbell et al., 1976; Withney, 1976). Tali misure erano considerate importanti poiché tenevano in considerazione il punto di vista delle persone sulle proprie condizioni di vita.

L’attenzione per la misurazione del benessere soggettivo è emersa anche in settori più specifici. Ad esempio, per quanto riguarda la gerontologia, lo scopo era individuare dei criteri per distinguere le persone che “invecchiano bene” da quelle che lamentano disturbi e difficoltà (Baltes, 1990; Laicardi & Sberna, 1992; Ryff, 1989), al fine di valutare l’efficacia degli interventi a favore degli anziani.

Oltre a prendere in considerazione la quantità di attività svolte dall’individuo, la capacità d’impegno, la maturità (Baltes, 1990), si riconobbe l’importanza di misurare anche il punto di vista degli stessi soggetti, la loro prospettiva, espressa attraverso i giudizi di soddisfazione per la vita o misure riguardanti il morale o il tono dell’umore (Laicardi, 1987; Neugarten et al., 1961).

Negli ultimi anni il concetto di “invecchiare bene” comprende anche altre dimensioni come la felicità, il benessere soggettivo e la relazione ottimale tra l’individuo e l’ambiente (Ryff, 1996).

Un altro ambito interessato alla valutazione degli indicatori soggettivi del benessere è quello della salute mentale. A seguito del processo di deistituzionalizzazione dei pazienti psichiatrici e la presa in carico di queste persone dalla comunità e dai servizi, si è resa necessaria una valutazione delle loro condizioni di vita, del loro inserimento nella società e degli interventi di riabilitazione ad essi rivolti (Oliver et al, 1996).

Alcuni autori hanno affermato che per misurare la qualità della vita di questi pazienti occorrono indicatori socio-demografici e oggettivi, ma anche indicatori soggettivi, che prendano in considerazione il punto di vista delle persone medesime (Baker & Intagliata, 1982; Barry, & Crosby, 1995; Lehman, 1983; Oliver et al., 1996).

Ultimamente il benessere soggettivo è stato ritenuto una delle dimensioni della qualità di vita e della salute anche nelle scienze mediche e della riabilitazione (Bowling, 1995; Labbrozzi, 1995; McDowell & Newell, 1987) ed è stato per questo incluso negli strumenti di valutazione utilizzati nella pratica clinica (ad esempio il World Health Organisation Qualità of Life, WHOQOL; de Girolamo, de Leo & Galassi, 1995).

Altri settori riguardanti la promozione della salute (Renwick & Brown,1996) focalizzano l’attenzione sulla dimensione soggettiva del benessere nella loro definizione di qualità della vita, ritenendo la prospettiva delle persone un punto di partenza per orientare attività di promozione della salute, centrate sullo sviluppo delle abilità e sull’empowerment individuale e sociale.

Diener et al. (1997) hanno sottolineato alcune caratteristiche centrali per lo studio del benessere soggettivo. Innanzitutto, questo settore copre l’intera gamma del continuum benessere-malessere poiché non considera solo stati indesiderabili, come la depressione, ma si focalizza anche sulle differenze individuali nei livelli di benessere positivo e i fattori che ne sono alla base. Inoltre il benessere soggettivo è definito nei termini di “esperienza interna del soggetto”, ovvero non è imposta alcuna struttura di riferimento esterna e, in questo senso, la ricerca sul benessere soggettivo si differenzia dal metodo clinico.

Uno svantaggio di questo approccio è che, da solo, il benessere soggettivo non può essere considerato un criterio di salute mentale.

Infine gli studiosi di quest’area sono interessati a misurare gli stati di benessere a lungo termine e non solo l’umore passeggero.

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Stile repressore e benessere: Il concetto di Benessere

Il concetto di benessere

“Benessere, qualità della vita, star bene, allegria, “benestare” o star bene, insegnamento del benessere, felicità, gioia. Sono tutti sinonimi di quello che comunemente si chiama piacere” (Spaltro, 1995).

Il tema del benessere si configura come uno degli argomenti più attuali di discussione fra diverse discipline: la psicologia, la filosofia, la politica, l’economia, l’urbanistica, la sociologia e altre ancora. Già Epicureo, nel IV sec. A. C., parlava della felicità nell’Epistola a Miceneo, scrivendo: “…bisogna esercitare ciò che procura felicità, perché se abbiamo questa, abbiamo tutto, ma se manca, facciamo di tutto per averla”.

Per poter parlare di benessere occorre conoscerne la definizione; purtroppo è difficile trovare una risposta esaustiva, ancora di più se si spera di trovare una spiegazione omnicomprensiva del concetto. La difficoltà di definire il benessere riguarda il fatto che esso “non è un’entità unitaria semplice e non riguarda solo un costrutto specifico” (Aureli et al., 1999); spesso accade che ogni autore riporti la propria definizione, in antitesi con altri, e basi il suo lavoro su queste premesse.

La psicologia si è interessata al benessere fin dalle sue origini, anche se Spaltro (1995) ha sottolineato come la psicologia contemporanea si sia occupata più che altro della faccia opposta della medaglia, ovvero del malessere. Si pone, infatti, spesso l’attenzione sulle condizioni in cui il benessere manca, vale a dire l’infelicità e la sofferenza umana (Argyle, 1987; Legrenzi, 1998; Myers & Diener, 1995; Ryff, 1989; Strack et al 1991). La presenza di stati di benessere viene pertanto definita come “assenza di sintomi di malessere”, cioè emozioni negative e disturbi ad esse legati, come ansia, depressione, sintomi fisici.

L’OMS, ormai da un trentennio, parlando di promozione della salute con la conferenza d’Alma Ata (1971) prima, e con la carta d’Ottawa (1986) poi, ha ribadito il concetto di salute e di benessere nella loro dimensione positiva (Zani & Cicognani, 2000).

L’OMS definisce la salute come “uno stato di benessere fisico, mentale e sociale e non solamente assenza di malattia o infermità”; tale spiegazione costituisce una svolta storica che permette l’abbandono dell’interpretazione medicalista del benessere. Quest’ultima considerava, infatti, il benessere l’opposto del disagio e si poneva dunque nell’ottica della mancanza, in cui il “sano” diventa “appendice del patologico” (Lavanco & Novara, 2002).

A proposito della salute mentale, l’OMS la definisce come “uno stato di benessere emotivo e psicologico nel quale l’individuo è in grado di sfruttare le sue capacità cognitive o emozionali, esercitare la propria funzione all’interno della società, rispondere alle esigenze quotidiane della vita di ogni giorno, stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri, partecipare costruttivamente ai mutamenti dell’ambiente, adattarsi alle condizioni esterne e ai conflitti interni ”.

Una prima direzione di ricerca sulla condizione di benessere, intesa nelle sue dimensioni positive, si è concentrata sull’analisi dell’esperienza soggettiva del benessere o “benessere soggettivo” (Diener, 1984; Andrews & Robinson, 1991).

L’attenzione per il benessere soggettivo nasce in alcuni settori disciplinari specifici come la salute mentale, la qualità della vita e la gerontologia, nel tentativo di scoprire misure della qualità della vita più valide dei soli indicatori oggettivi. Alcune ricerche in questo campo hanno concettualizzato il benessere come esperienza emozionale positiva (presenza di affetti piacevoli e assenza di affetti spiacevoli) e presenza di sentimenti di soddisfazione nei confronti della propria vita (Diener, 1984).

Un secondo filone d’indagine nasce dal tentativo di andare oltre la visione del benessere come “assenza di malessere”, proponendo una serie di criteri del benessere psicologico, inteso come “funzionamento psicologico ottimale” o “ salute mentale positiva” (Ryff, 1989).

Il benessere soggettivo è quindi considerato un indicatore del benessere psicologico, legato ad altri ma di per sé non sufficiente a definire lo stato di salute mentale (Diener et al., 1997).

Queste due direzioni d’indagine si concentrano prettamente su un tipo di benessere individuale, ponendo al centro degli studi il soggetto stesso. Negli ultimi anni si sta riconoscendo sempre più l’importanza della dimensione sociale e quindi del contesto, nell’influenzare la salute fisica e psicologica. Alcuni autori hanno proposto il costrutto di “benessere sociale”, intendendo con esso la qualità delle relazioni sociali dell’individuo e il proprio funzionamento all’interno della società (ad esempio Keyes, 1998; Larson, 1993).

 

 

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Stress e Soggettività

Stress e Soggettività

Da quando  il termine “stress” è entrato a far parte del linguaggio terminologico specifico della psicologia (Selye, 1955), si assiste ad un proliferare di diverse scuole  di pensiero che, raggruppate nel loro insieme, possono essere divise tra quelle che enfatizzano il ruolo attivo dello stimolo esterno che agisce sulla persona (che in questo caso subisce passivamente lo stimolo) e quelle che intendono invece lo stress come risultato di un’interazione tra persona e ambiente e che vedendo, quindi, lo stress come il risultato di tale interazione, ne presuppongono un ruolo attivo della persona. In ogni modo, qualunque sia l’approccio, è bene sottolineare che un eccesso di stress sulla (e nella)  persona può avere una diretta conseguenza sulla salute e sul benessere.

Molte ricerche che hanno indagato sulla relazione tra stress e benessere, sia fisico che mentale, hanno messo in evidenza come la reazione delle persone allo stress possa essere diversa da persona a persona, a seconda delle circostanze (Donnell 2003; Dohrenwend & Dohrenwend, 1981).

Non tutte le persone, quindi, vivono e sperimentano lo stress (e le conseguenze ad esso collegate) allo stesso modo in quanto ogni individuo è unico e risponde in maniera differente sia agli stimoli fonte di stress, sia agli inaspettati eventi negativi della vita (Park et al., 1997; Stowell et al., 2001; Bond, 2004).

Così, mentre alcuni non hanno difficoltà a fronteggiare positivamente lo stress grazie ad una capacità intrinseca ad attivare il processo di ricerca di significato, altri potrebbero essere meno abili nell’integrare il significato degli eventi nella loro esperienza o, a compensare i cambiamenti apportati dagli eventi stessi, soprattutto quando percepiti e vissuti come negativi (Skaggs & Barron, 2006).

In un recente lavoro, Tosevski (2006), afferma che “gli eventi stressanti della vita possono avere sulla salute delle persone un impatto variabile a seconda che vengano percepiti come una minaccia o come una sfida”, lasciando chiaramente intendere che ciò che può fare la differenza sul proprio benessere ed incidere di conseguenza sulla salute, sia in larga misura la percezione soggettiva.

Tali risultati hanno portato alcuni ricercatori a chiedersi quali fattori  influenzano la risposta individuale allo stress e ad indagare le differenze individuali come potenziali fattori intervenienti tra stress e benessere (Donnell, 2003).

In letteratura si trovano lavori che hanno indagato tali differenze, individuandole spesso in capacità che nel loro insieme ne costituiscono un costrutto teorico ben delineato, e hanno anche predisposto e testato degli strumenti atti a migliorare la risposta individuale grazie a training specifici di sviluppo e miglioramento di tali capacità.

Nei prossimi articoli faremo una panoramica su quelle capacita che consentono un “fronteggiamento” migliore (ricordiamo che il termine “coping” si riferisce alle capacità che la persona è in grado di mettere in atto in risposta allo stimolo percepito come stressante per far fronte ad esso), ossia un miglioramento delle capacità di coping e su alcuni dei principali strumenti che consentono tale sviluppo.

    1. Per un approfondimento delle origini storiche del termine si rimanda al’articolo specifico: “Lo stess: le sue origini”
    1. Per un approfondimento delle diverse correnti e filoni sullo stress, si rimanda all’articolo specifico: “Modelli Teorici di riferimento dello Stress sul Lavoro”

Bibliografia di riferimento

  • Bond, F.W., e Bunce, D. (2000). Mediators of change in emotion-focused and problem focused worksite stress management interventions. Journal of Occupational Health Psychology, 5(1), 156-163.
  • Dohrenwend, B. S., e Dohrenwend, B. P. (1981). Stressful life events and their contexts. Prodist, New York.
  • Donnell, A. (2003). The effect of hardiness on the relationship between stress and well-being: Moderator, mediator, or both? The Sciences and Engineering, 64 (6-B), 2911.
  • Park, C. L., e Folkman, S. (1997). Meaning in the Context of Stress and Coping. Review of General Psychology, 1 (2), 115–144.
  • Selye, H., (1955). La sindrome di adattamento. Istituto sieroterapico milanese S. Belfanti, Milano
  • Skaggs, B.G., e Barron, C.R. (2006). Searching for meaning in negative events: concept analysis. Journal of Advanced Nursing, 53(5), 559–570.
  • Stowell, J.R., Kiecolt-Glaser, J.K., e Glaser, R. (2001). Perceived Stress and Cellular Immunity: When Coping Counts. Journal of Behavioral Medicine, 24 (4), 323-339.
  • Tosevski, D.L., e Milovancevic, M.P. (2006). Stressful life events and physical health. Current Opinion in Psychiatry, 19, 184–189.

 

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Stile repressore e benessere – Introduzione

INTRODUZIONE

Questa ricerca ha come obiettivo un’indagine conoscitiva sull’effetto dello stile repressore sul benessere psicologico e soggettivo e sulla qualità di vita. Le persone con stile repressore minimizzano il loro stato di ansia e i pensieri negativi, così da apparire più desiderabili socialmente.

Proprio per questo, risulta interessante esplorare se, effettivamente, chi adotta questa tipologia di risposta offre un’immagine di sé più positiva rispetto ad altri, sottolineando un benessere maggiore in generale ed un minor disagio psicologico.

Nella prima parte della ricerca affronterò i temi di natura teorica, prendendo in considerazione le principali teorie psicologiche ad essi connessi; nel primo capitolo tratterò il concetto di “benessere soggettivo”, la sua struttura e le diverse condizioni suscettibili di mantenerlo e/o cambiarlo, e successivamente considererò il benessere psicologico e sociale.

Per i primi due, approfondirò i metodi per misurare gli aspetti salienti che li compongono.

Nel secondo capitolo approfondirò il concetto di “stile repressore”, le sue implicazioni nella definizione di se stessi, le conseguenze che apporta in termini sia negativi sia positivi sulla salute fisica e psicologica, ed infine i più importanti strumenti di misura.

Nella seconda parte riporterò i dati della ricerca sperimentale effettuata; descriverò le procedure utilizzate, che comprendono la scelta del campione, la batteria di test utilizzati, i contatti con l’Ospedale e il tipo di test statistico scelto per testare le ipotesi.

Descriverò, poi, le analisi statistiche effettuate e i risultati; alla luce di questi arriverò ad una conclusione in rapporto alla letteratura di riferimento.

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