Il coinvolgimento e la partecipazione: l’empowerment

Il coinvolgimento e la partecipazione: l’empowerment

L’evoluzione positiva della motivazione nel contesto lavorativo dipende dalla capacità, da parte di chi ha la responsabilità di gestirlo, di costruire sistemi produttivi nei quali operi personale che possa sentirsi coinvolto, autonomo, consapevole, responsabile, ma anche e soprattutto soddisfatto del proprio lavoro.

Con il termine empowerment (letteralmente dare potere, permettere di), si intende un sistema di gestione che consiste nell’accrescimento delle possibilità dell’individuo di controllare la propria vita, fondandosi su un processo attraverso il quale le persone, a partire da qualche condizione di svantaggio e di dipendenza, vengono rese “potenti” (empowered) ovvero rafforzano le proprie capacità e possibilità reali di scelta e di intervento (si vedano i costrutti motivazionali dell’autoderteminazione e di regolazione precedentemente trattati).

Nato negli anni ‘80 in ambito lavorativo, tale costrutto viene utilizzato ampiamente negli studi sul management e sulle organizzazioni solo negli ultimi anni . Si possono definire “empowerizzanti” quelle modifiche delle prestazioni richieste e del sistema dei riconoscimenti, che portano le persone di un’organizzazione a ricavare dalla loro attività una maggiore esperienza di realizzazione delle proprie potenzialità e della propria influenza.

Il lavoratore empowered dovrebbe conoscere se stesso, le proprie possibilità e limiti, avere una buona autostima, saper padroneggiare la propria disciplina, saper prendere decisioni efficaci, saper risolvere i problemi.

Per ottenere un sistema di gestione empowering, le strategie di formazione dovranno a questo punto essere finalizzate soprattutto a sviluppare quell’intelligenza emotiva ed interpersonale che, come si è precedentemente detto, consiste nella capacità di motivare se stessi, riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri, ossia di saper essere empatici nel comunicare e risolvere i problemi.

Sorge tuttavia spontaneo un interrogativo, all’interno di questo “gioco dei ruoli”.

Prima ancora di individuare le leve operative che il manager deve utilizzare per creare empowerment, bisogna comprendere quanta responsabilità, in questo processo, è attribuibile direttamente alla persona stessa.

Un’azione di empowerment, necessita in altre parole della piena adesione del destinatario e deve essere caratterizzata da una forte personalizzazione del percorso; ciò comporta che i tempi dell‘azione, i contenuti e la sequenza delle attività previste e ipotizzate, vengano adeguate e strutturate in base alle caratteristiche della persone.

La condizione di lavoratore empowered viene così fuori sia dalle azioni di supporto del manager, che ha la responsabilità di guidare il collaboratore in un percorso di continua ridefinizione e affinamento del proprio progetto professionale, oltre che personale, sia da una propensione naturale del lavoratore a svilupparsi autonomamente, andando cioè alla ricerca di un proprio sistema di ricompense personali, a prescindere dagli interventi che l’azienda può intraprendere a scopi motivazionali.

In definitiva, una parte importante del processo di empowerment, va demandata a tuta la serie di motivazioni intrinseche (precedentemente individuate ad esempio nel desiderio di sperimentarsi con situazioni nuove e difficili, di compiacere le figure autorevoli di riferimento, di ricevere l’ammirazione dei propri pari, di fare le cose meglio di altri, di svolgere un compito nel migliore dei modi, o semplicemente de esprimere fiducia in se stessi, ect) già sperimentate dall’individuo in fase di crescita, ma che rimangono tuttavia presenti nella vita adulta, dove possono risultare meno evidenti, essendo incanalate all’interno di attività strumentali all’ottenimento di vantaggi relativi a necessità contingenti o alle circostanze.

La responsabilità del management può essere solo quella di fornire delle “motivazioni strumentali”, aiutando cioè il dipendente a esprimere al meglio le sue motivazioni intrinseche in un setting professionale.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

L’incentivazione del personale

L’incentivazione del personale

Il mondo del lavoro, si sta spostando verso la meritocrazia, riconoscendo che la crescita e lo sviluppo delle aziende, pubblica o privata che sia, è legata alla capacità e volontà di alcuni dipendenti di offrire un contributo di elevata professionalità nel lavoro.

L’azienda deve essere in grado di riconoscere e gratificare queste persone ed i loro sforzi, in caso contrario rischia di trasmette la sensazione che impegnarsi nel lavoro, essere creativi e propositivi, avere un approccio positivo nei rapporti di lavoro, tutto questo non abbia alcun valore. In quest’ottica assume un ruolo fondamentale il supervisore, il quale è costantemente a contatto con il proprio personale e deve saperlo osservare, guidare, stimolare e apprezzarne le qualità ed i meriti, ma soprattutto deve riconoscere coloro che eccellono da coloro che si limitano ad offrire una prestazione standard.

Non è quindi sufficiente progettare una organizzazione o identificare le competenze che i membri devono possedere, ma bisogna anche definire un sistema di misure e incentivi che assicuri un corretto orientamento delle risorse verso le performance attese. Solo armonizzando il modello organizzativo, le caratteristiche e le aspirazioni dei singoli individui e il sistema di incentivazione, il tutto impostato su di un nuovo modo di gestire incertezza e complessità e di comprendere il valore effettivamente generato, consentirà alle aziende di trattenere le risorse migliori.

I sistemi di incentivazione, si devono innanzitutto basare su metriche che misurino gli indicatori legati effettivamente al valore generato .

Questi sistemi di incentivazione devono inoltre essere coerenti con le attese ed il sistema di valori dell’individuo.

Non sempre la dimensione economica coglie questi fattori. In molti contesti ci sono altri benefici considerati di grande valore, che possono farsi risalire a quell’insieme di ricompense “intangibili” come per esempio un miglior uso del tempo libero, oppure il poter avere riconoscibilità sociale come individuo e non solo come dipendente dell’azienda.

In questa sede, prima ancora di trattare le leve operative a supporto dell’attività di incentivazione, si vuole porre l’attenzione sul ruolo del manager e della sua generale azione incentivante, come primo e fondamentale passo di un più ampio sistema di motivazione.

A questo scopo appare appropriato delinare i contorni di una delle figure che riassumo la competenza motivazionale del manager: il coach o counselor. Le peculiarità di questa figura vengono desunte da una nostra intervista effettuata al dott. Francesco Scimò, un coach professionista e trainer di PNL, componente dell’American Behavioural Terapist Association e ideatore di una sintesi di tecniche di apprendimento denominato “learning revolution”.

Riassumendo lo scopo di un coach è quello di fornire una serie di competenze sull’utilizzo delle risorse che già ci sono, perchè la persona possa fare le proprie scelte, e nell’affrontarle sentirsi e sapersi con un bagaglio di risorse molto superiori. “Non siamo chiamati a sostituirci alla testa delle persone, cerchiamo invece di dare la possibilità a ognuno di arrivarci da se, con i propri mezzi, in modo molto veloce”, dice infatti il dott. Scimò, cosicché tra counselor e dipendente sussiste un rapporto paritario in cui quest’ultimo è attivamente alla ricerca di consulenza per migliorare le proprie relazioni con sé stesso e con il mondo.

Il presupposto che costituisce il rapporto di counseling è quindi che, chi chiede aiuto ha già in sé le risorse necessarie per superare i propri problemi, ed il counselor si propone semplicemente di creare le condizioni per farle emergere, in una frase “aiutando la persona ad aiutarsi”.

Il coaching, inoltre, è una forma di aiuto, di suggerimento, di formazione, finalizzata a ristrutturare i momenti di crisi e i vincoli in opportunità, i problemi in occasione di crescita, trasformando i punti deboli e le credenze limitanti in punti di forza e in credenze potenzianti e motivanti. Alcune persone in determinati momenti della loro vita soffrono infatti per la sensazione d’essere paralizzate, non avvertono nessuna possibilità di azionarsi, non hanno nessuna possibilità di azione, sperimentando la condizione esistenziale di non aver nessun potere rispetto a se stessi e alle possibilità di scelta che gli si presentano . Si apre a questo proposito il campo di azione del counselor che aiuta il lavoratore ad ampliare la gamma di opzioni nelle scelte delle proprie azioni.

Ci si propone, in sostanza, di favorire un processo non innescarlo, perchè se non è innescato da se, nessuno può farlo, perchè la vera motivazione non è indotta dall’esterno.

Dice infatti il dott. Scimò “le persone che riconoscono la figura del coach non sono inferiori, ma semplicemente hanno un obiettivo spesso non chiaro, e vogliono una volta chiaritolo raggiungerlo con facilità, ossia con un rapporto positivo tra emozione che può dare alla fine, emozione che si mette nel mezzo e emozioni a cui si rinuncia inevitabilmente facendo delle scelte. Ognuno ha comunque la dignità di scegliere di non fare assolutamente nulla col talento che ha.”. Inoltre il coaching aiuta a gestire positivamente le proprie energie, sviluppare la creatività, allargare gli orizzonti, rendere partecipi gli altri, farli sentire inseriti in un meccanismo, in una catena. Il coach deve quindi osservare e sentire empaticamente l’altra persona, sviluppando l’ascolto attivo.

Dice ancora il trainer intervistato “ognuno di noi è motivatore e può fare la differenza in determinati momenti e contesti a chi già opera,  indipendentemente dalla scala gerarchica. Questa attività va quindi va fatta all’esterno, nel senso sia di formare i formatori che i formandi, piantando delle microbombe che possano esplodere verso numero più ampio di soggetti. Non è una consulenza finalizzata all’individuo che rimane dentro l’individuo, deve invece portare i frutti all’interno dell’organizzazione  e generare degli effetti diffusi”. Un coach, pertanto, aiuta un imprenditore che, a sua volta, può diventare coach lui stesso.

La figura di coach, infine, mette al centro il percorso di crescita e di maturazione, di conoscenza di sé, condizione fondamentale per gestirsi in maniera consapevole, forte, progettuale rispetto al lavoro. Egli realizza questi intenti attraverso quello che viene chiamato un bilanciamento delle competenze. Il “bilancio orientativo“ o “bilancio delle competenze”  è in grado di favorire l‘autoconoscenza, accrescere la padronanza e promuovere lo sviluppo di risorse metacognitive. Ë una pratica volontaria, attiva, accompagnata, un metodo di analisi e di autoanalisi assistita delle capacità, delle competenze (non certificate, cioè dimostrate o acquisite al di fuori dei percorsi formativi istituzionali), delle attitudini, delle aspirazioni professionali e del potenziale di un individuo, finalizzato alla messa a punto da parte dell’individuo stesso di un proprio progetto di sviluppo professionale.

Dal prossimo paragrafo, oltre al ruolo del manager, si prendono in considerazione leve gestionali che fanno capo all’azienda nel suo complesso. Si prenderà in considerazione il concetto di coinvolgimento, che riconduce alla presa di coscienza della necessità che il singolo o il gruppo partecipino alla definizione degli obiettivi, esprimendo i propri e integrandoli con quelli aziendali, definiti in sede di pianificazione strategica.

Andrà ancora sottolineato come, affinché il coinvolgimento sia effettivo, oltre alla definizione degli obiettivi è indispensabile monitorare il deployment degli obiettivi stessi, cioè il loro tangibile raggiungimento attraverso dei piani di azione concreti.

In questa parte si analizzeranno quindi le problematiche legate ai sistemi di valorizzazione come la job evaluation, la skill evaluation, il compensation e benefit, e ai sistemi di retribuzione, tra cui la seniority, il job enrichment, il job enlargement, la pay per performance, le stock option, etc, ed inoltre si parlerà della relazione fra i differenti programmi di incentivi e il tempo di ritorno, in termini di prestazione, dei loro effetti. Per chiudere il quadro degli strumenti che consentono di mantenere un coinvolgimento elevato si accennerà alle tematiche dello stress management ed infine si proporranno delle metodologie per misurare le conseguenze di un mancato coinvolgimento (people dissatisfaction), circostanza che prelude a “costi di attrito” e la perdita di valore conseguente al turnover.

 

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I conflitti e i rapporti di clan: il team linkage

I conflitti e i rapporti di clan: il team linkage

 

Finora ci si è concentrati sul versante del contenuto della vita di gruppo, che invece si contraddistingue anche per un forte elemento relazionale.

La contiguità fisica, ad esempio, è un elemento che caratterizza il gruppo.

Ci si vede faccia a faccia, si verificano situazioni di simpatia-antipatia, di prevaricazione-disponibilità, di protagonismo-emarginazione, di confronto-scontro, di cooperazione-competizione; tutto ciò determina una rete comunicativo-relazionale molto complessa che richiede la decodifica  contestuale di molteplici messaggi, tra loro anche contraddittori o divergenti.

La trasmissione della conoscenza e lo scambio di idee non sono quindi processi semplici e lineari perché avvengono, all’interno di un circuito comunicativo complesso in cui giocano un ruolo importante anche le situazioni conflittuali; queste vanno governate con competenza e con sensibilità se non si vuole correre il rischio che queste sopravanzino rispetto alla regolare vita di gruppo.

Spesso, poi, soprattutto all’interno del team o dell’area in cui si opera, possono nascere dei gruppi informali, virtuali che si fanno portatori dei propri interessi, delle proprie legittime aspettative e dei propri diritti, fino a convergere verso un comune modo di pensare, una sorta di “clan”, a cui è naturale aderire.

Questo fenomeno è comprensibile e condivisibile, poiché crea una barriera difensiva contro il potere decisionale che in certi casi non agisce in maniera da assicurare la giusta partecipazione ed il coinvolgimento di tutti.

Tuttavia può portare a situazioni in cui si ha una visione distorta dell’organizzazione, a dei filtri di giudizio e ad un irrigidimento comportamentale.

L’individuazione di queste problematiche sideve principalmente a Ouchi, il cui pensiero rappresenta una sorta di combinazione fra il modello giapponese di management, improntato ai principi della qualità, della coesione sul lavoro e dell’identificazione con l’azienda, e il modello americano, che ha nella figura del “manager motivante” il suo pilastro dogmatico .

Secondo Ouchi, in presenza di tali situazioni, compito del diretto responsabile sarà intervenire per correggere tali comportamenti e re-indirizzarli secondo quelle che sono le strategie aziendali e il comune fine.

In definitiva il manager deve contribuire a rafforzare il livello di motivazione delle persone definendo attentamente i compiti di ognuno, in base alle specifiche aspettative di coinvolgimento, e stabilendo degli obiettivi che consentano a tutti i collaboratori di sentirsi alla fine vincenti, in modo complementare fra di loro .

Come si è visto nei precedenti paragrafi, la facilitazione sociale del gruppo influisce altamente sui risultati di apprendimento del gruppo stesso a condizione che al suo interno sia prevalente una struttura cooperativa degli scopi da conseguire e i singoli membri non siano considerati dei potenziali concorrenti, ma piuttosto come risorse utili o necessarie per raggiungere gli scopi stessi collegialmente discussi e decisi.

E’ proprio questo momento preliminare di negoziazione che permette la risoluzione dei conflitti e il successivo avvio del lavoro comune in un clima cooperativo. In altre parole, è di fondamentale importanza costruire un clima generale di sostegno emotivo, nel quale i soggetti si sentano sufficientemente sicuri di poter mettere in discussione le idee e le posizioni altrui senza essere attaccati aggressivamente o colpevolizzati. Le controversie su queste idee, anzi, vanno valutate come contributi positivi e come strumenti efficaci per progredire.

Le situazioni conflittuali che il gruppo sperimenta non vanno nascoste o peggio, lasciate covare sotto la cenere di una illusoria normalità, ma devono essere valutate esplicitamente e, per quanto possibile, risolte; infatti se i conflitti diventano espliciti diventa possibile anche controllarli, impedendo così il deterioramento delle relazioni e l’efficacia del lavoro all’interno del gruppo.

Qualunque sia la loro forma, le tensioni generano malessere e l’atteggiamento spontaneo sarebbe quello di sopprimerle o di negarle, come se fossero intrinsecamente negative. In realtà gli studi sulle relazioni umane  mettono in luce che la frequenza di attriti e conflitti si correla non tanto con il malessere che viene vissuto quanto piuttosto con il numero di conflitti che rimangono irrisolti o che sono stati affrontati con metodi inadeguati.

Certo, la differenza di posizioni non si può negare, ma va vista semplicemente come una delle componenti dell’identità personale e relazionale.

Un fondamentale strumento di integrazione potrebbe essere la realizzazione di “diversity team”, ovvero dei gruppi costituiti secondo le logiche del lavoro di un team multietnico, in cui affiancare risorse culturalmente molto diverse e con diverse abilità (come spesso si fa ad esempio, con chi ha particolari competenze di tipo informatico) per il raggiungimento di un medesimo obiettivo prefissato. Gli aspetti di limite di una cultura, infatti, possono essere in modo complementare i punti di forza di un’altra.

Si è detto come le politiche di diffusione della mission e il raggruppamento delle attività interdipendenti nella stessa unità organizzativa può favorire la comunicazione e il reciproco adattamento fra i membri dell’unità, obbligando a condividere risorse comuni e dando luogo a indici comuni di prestazione, che influiscono positivamente sulla motivazione “di gruppo” e “fra gruppi”.

A questi Majer aggiunge anche i conflitti interpersonali fra il lavoratore e l’azienda .

Ciò pone inevitabilmente il problema del coordinamento e delle strategie finalizzate alla permanenza di un clima coeso all’interno del gruppo, ravvisabile nella tolleranza reciproca e nella convivenza armonica. I conflitti in un gruppo sono comunque da considerare una “fisiologica” situazione di lavoro, poiché generano un arricchimento dei reciproci punti di vista, ma solo nella misura in cui si riescono a minimizzare i conflitti negativi, come gli scontri di tipo relazionale per problemi di potere, che portano ad uno stallo della motivazione.

 

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Le caratteristiche dimensionali: il benchmarking interno

Le caratteristiche dimensionali: il benchmarking interno

Per la maggioranza delle persone il lavoro si attua all’interno di un’organizzazione che può assumere diverse configurazioni.

Si va infatti dalla grande multinazionale all’impresa di servizio pubblico, dall’azienda di medie dimensioni alla piccola azienda di poche persone quasi sempre a base familiare. Le diverse peculiarità dei vari assetti organizzativi impongono necessariamente differenti stili direzionali e la considerazione che differenti saranno, di conseguenza, le leve motivazionali e i fattori determinanti ai fini dell’efficacia interna. E’ quindi importante esaminare la natura delle organizzazioni e le correlazioni principali esistenti tra le caratteristiche di un’organizzazione ed il comportamento sul lavoro .

L’ipotesi di base, in questo caso, è che l’aumento dimensionale è legato al maggiore necessario ricorso all’organizzazione delle attività in gruppo, assegnando a ciascuno un proprio ruolo. Questa circostanza fa emergere, dunque, fra i membri del gruppo fenomeni di dipendenza, (esprimibili in termini di relazioni, legami, collegamenti, scambi e transazioni) che devono essere regolati e governati, se si vuole avere successo nel perseguimento dei propri scopi e obiettivi. La regolazione o governo delle dipendenze produce il fabbisogno di coordinamento, colonna portante di qualsiasi fenomeno organizzativo. Il coordinamento consiste, pertanto, nelle attività di regolazione e governo delle dipendenze che portano un gruppo di attori specializzati e interdipendenti, ad ottenere uno o più obiettivi comuni nello svolgimento di un’attività collettiva.

In una situazione siffatta, si ritiene possibile che nascano dei meccanismi di regolazione della  motivazione derivanti da fenomeni di “mutuo aggiustamento” e di “uniformizzazione delle performance”.

In altre parole con l’aumento dimensionale, si accrescono le possibilità di confronto delle proprie prestazioni con altri membri che hanno funzioni analoghe, se non con altri team facenti parte dello stesso gruppo. Si parla, in questo caso, di benchmarking interno, ossia un approccio sistemico e continuo  che avviene tra unità operative della stessa azienda, per identificare gli standard di prestazione, confrontare se stessi con questi e identificare le prassi che permettono di diventare il nuovo standard di riferimento .

In Auchan, il colosso distributivo francese, vengono periodicamente affissi dei cartelli in cui viene visualizzato l’andamento reddituale di ogni reparto dell’ipermercato e lo scostamento dalla redditività attesa, in modo da facilitare il confronto fra i vari responsabili di reparto e di settore. Un’attività di benchmarking interno, può addirittura permeare in alcuni casi il sistema contabile di riferimento. È il caso della STmicroeletronic, la multinazionale leader nella realizzazione di microprocessori, che nello stabilire le performance di ogni sito produttivo,confronta i costi effettivamente sostenuti (actual) con i costi standard relativi al miglior sito produttivo fra quelli presenti sulle filiali sparse in tutto il mondo.

Come si è visto nella trattazione teorica del processo motivazionale, in definitiva, si osserva spesso che, più che dall’esperienza, si impara per imitazione, dai modelli, comportamenti, bisogni, con cui si viene a contatto, al punto che spesso il confronto con gli altri fornisce una visione più chiara dei motivi e dei fini. Inoltre il confronto con gli altri aiuta a formulare una valutazione positiva o negativa di sé. Nell’attività intesa a motivare, bisogna tenere presente questi elementi di interazione tra i diversi comportamenti individuali.

Un altro fattore chiave che influenza i processi motivazionali all’interno di un gruppo, e a cascata dei singoli componenti, è il clima organizzativo, inteso come l’atmosfera derivante da diverse componenti: lo stile direzionale, il livello di collaborazione e di relazionalità fra i membri, il grado di autonomia decisionale, la struttura organizzativa, etc. L’interazione di questi elementi determina il background sociale all’interno del quale viene svolta l’attività dell’individuo.

L’importanza di questo aspetto diviene via via sempre maggiore al crescere delle dimensioni aziendali, dei livelli gerarchici e delle strutture decisionali. Diversamente dalle piccole imprese, nelle quali il soggetto è l’artefice principale del clima stesso, in contesti più grandi la molteplicità di fattori in gioco e l’interrelazione con diversi soggetti fanno sì che l’individuo più che altro lo subisca.

Sono comunque necessarie alcune precisazioni qualora si ritenga che il clima organizzativo sia una leva manageriale in grado di agire sui processi motivazionali, sulla prestazione e sulla soddisfazione dei collaboratori. Innanzitutto se viene considerata una variabile esogena e si voglia determinare a posteriori, non è affatto agevole la sua misurazione.

Se è infatti chiaro che alcuni aspetti della realtà oggettiva, come ad esempio la struttura organizzativa, contribuiscono a formare un determinato clima organizzativo, è altrettanto evidente che esso è in parte un fenomeno soggettivo e personale, nel senso che è rappresentato dal clima percepito dal singolo dipendente, attraverso la sua opinione e la sua interpretazione psicologica degli aspetti situazionali che formano il contesto in cui lavora, tanto che individui con differente esperienza e capacità di sintesi possono avere schemi conoscitivi diversi e quindi percezioni diverse della medesima situazione organizzativa.

Assieme al concetto di clima organizzativo va pertanto considerato quello di clima psicologico, con la conseguenza che il clima organizzativo è funzione di ambedue le variabili, l’individuo e l’organizzazione, e dipende dalla loro interazione.

Queste stesse considerazioni vanno fatte qualora si voglia disegnare a priori una determinata configurazione del clima organizzativo, utilizzandolo come leva direzionale applicabile ad un gruppo nella sua unitarietà, e solo dopo aver verificato l’omogeneità delle strutture percettive dei singoli membri.

A questo proposito risulta di notevole importanza, se non determinante, la coerenza del clima organizzativo con i valori espressi dalla vision e con il messaggio che vuole comunicare la mission di un gruppo, oltre che dell’azienda nel complesso, in quanto elementi di unificazione e responsabilizzazione dei soggetti appartenenti al gruppo verso l’esterno.

In caso contrario si vivrebbe una situazione organizzativa in cui il dipendente vive una sorta di “doppia personalità lavorativa”, quella effettiva o comunque da lui stesso avvertita, e quella di team member che viene percepita in modo difforme all’esterno.

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I fattori motivanti della membership e l’adattamento organizzativo

I fattori motivanti della membership e l’adattamento organizzativo

Nel paragrafo precedente si è visto come la presenza di interdipendenze e di sovrastrutture nell’agire lavorativo, possono portare a delle conseguenze positive in termini di motivazione.

Dalla condizione di team member (membership), deriva che l’attività lavorativa subisce direttamente o indirettamente diverse influenze sociali, in parte già accennate alla fine del precedente capitolo. Fra gli effetti positivi del condizionamento sociale, si ha ad esempio il potenziamento reciproco, che si trova nei casi in cui si instaurino relazioni positive di fiducia, più facilmente nelle collaborazioni in gruppo.

Si ipotizza cioè che esista in ogni persona un nucleo positivo di motivazione ad apprendere e di autostima, che emerge nel momento in cui i soggetti instaurano delle relazioni positive con gli altri e diventano consapevoli del loro modo di apprendere, attraverso un sostegno reciproco.

In una prospettiva più ampia si collocano invece le applicazioni all’analisi del lavoro di gruppo di alcune teorie come quella del campo di Lewin, precedentemente trattata, che si sono focalizzate per la prima volta sull’importanza delle relazioni e delle interdipendenze fra i membri, visti in funzione della loro posizione reciproca. Secondo questi approcci, fra due persone, non sono tanto importanti le semplici azioni che avvengono fra di loro, ma è fondamentale la percezione che essi hanno reciprocamente sul piano delle intenzioni, dei desideri,  dei progetti e dei rispettivi ruoli.

Di particolare interesse, poi, sono state le strade da questo filone allo studio delle “dinamiche di gruppo” e di come esse influenzano alcuni aspetti dell’agire umano, tra cui la motivazione al lavoro. Esistono infatti delle regole generiche, elaborate già dagli psicologi della Gestalt, che illustrano come una organizzazione possa indirizzare a livello percettivo i suoi membri in direzione di percorsi prestabiliti .

In altre parole il gruppo, pur nell’azione reciproca di forze ed esigenze molteplici, assume una struttura di equilibrio sopraindividuale, sulla base di correlazioni associative dei suoi membri, conformemente alla tendenza di fondo di stabilire relazioni ottimali.

Secondo un altro approccio  gli effetti motivanti dell’appartenenza deriverebbero in sostanza dalla presenza di una “razionalità strumentale”, secondo la quale l’organizzazione e l’azione organizzativa hanno un effetto motivante, solo nella misura in cui possono essere un mezzo per ottenere obiettivi già stabiliti. In altre parole consiste nel rendere omogenei gli interessi dei lavoratori, in modo tale da assicurare che il loro comportamento sia automaticamente coerente con gli obiettivi aziendali, diminuendo il fabbisogno di attività decisionali e comunicative e annullando l’esigenza del controllo, grazie ai rapporti fiduciari che si stabiliscono tra i soggetti.

Tali valori sono tuttavia intermedi perchè strumentali all’ottenimento di obiettivi tecnico-economici (come ad esempio ridurre la percentuale di scarto, aumentare le vendite, migliorare il rapporto con i clienti, ecc.) che proprio per il fatto di essere perseguiti dall’azienda, non sono per loro stessa natura motivanti per i collaboratori. Simmetricamente gli interessi dei collaboratori, da un punto di vista strettamente economico, non sono importanti per l’azienda, ma servono ad essa per raggiungere i propri e viceversa. Si ha così fra i valori e gli interessi aziendali e quelli dei collaboratori un rapporto di mutualità e reciproca strumentalità.

I principi che derivano da queste considerazioni, si possono far risalire ad un principio più generico di equifinalità , secondo cui la formazione di gruppi ottimali e motivanti si basa sull’interazione di due elementi. La percezione di uno scopo comune e la formazione di relazioni stabili tra le persone. Il primo fattore consente l’utilizzazione dell’energia apportata dai membri per il raggiungimento dello scopo, rendendo possibile la distinzione tra il gruppo e la semplice somma degli individui.

A questo punto anche altri aspetti assumono un’importanza determinante: il legame tra i membri, la composizione del gruppo, la qualità degli obiettivi.

Affinché si possa sviluppare un gruppo è necessario che le persone siano motivate a mobilitarsi per il raggiungimento dello scopo, che vi sia una adeguata giustificazione della quantità d’energia necessaria per raggiungerlo, che gli obiettivi vengano dati in modo chiaro e tale da permettere la partecipazione e il coinvolgimento di tutti.

Il secondo elemento che assume grande rilievo sono i rapporti che si instaurano all’interno del gruppo.

La natura di tali rapporti influisce sulla possibilità che un gruppo si formi: in questa fase è cruciale la scelta dei futuri membri, essendo importante che le persone siano obiettivamente partecipi dello scopo comune e che si sentano soggettivamente motivate alla condivisione con gli altri. L’avere scopi comuni produce nei colleghi interazioni che aumentano la motivazione ad apprendere ed in generale favoriscono risultati migliori.

Fra le leve che in definitiva possono essere messe in campo per sprigionare le potenzialità motivanti dell’appartenenza, hanno un ruolo privilegiato le politiche di esplicitazione della mission.

Questo concetto, che può avere un potente impatto su di un’organizzazione, ne riassume la visione, le convinzioni, i valori condivisi all’interno di essa e la sua ragion d’essere. In sintesi lo stato futuro desiderato dall’organizzazione. La mission è talvolta indicata con l’espressione “obiettivi ufficiali”, essendo riferita a dichiarazioni formali sull’ambito di business e sui risultati che l’organizzazione cerca di raggiungere .

Questa è una delle capacità più importanti di cui la leadership aziendale dovrebbe essere dotata, poiché non è sufficiente provare passione verso una determinata attività se non si è in grado di trasmetterla in maniera vivace e coinvolgente.

Una mission che non sia chiara ai  dipendenti, rappresenta probabilmente la causa più frequente di confusione e disincentivazione all’interno di una organizzazione e può dipendere da più fattori.

Spesso chi dirige un’azienda da per scontato che se una certa situazione è per lui chiara lo sarà automaticamente anche per gli altri. Far sì che tutti vengano informati allo stesso modo può sembrare una perdita di tempo, così chi guida un team tenderà a farlo sempre meno spesso, senza considerare che nuovi assunti entrano costantemente nell’organizzazione e che le caratteristiche di base su cui essa si regge cambiano di continuo.

I lavoratori che occupano posizioni a diretto contatto con la clientela potrebbero sviluppare una visione distorta circa le priorità della propria attività. Spesso inoltre capita che, anche sotto le migliori condizioni, l’informazione trasmessa tende a subire delle deformazioni man mano che questa passa attraverso i vari livelli gerarchici, creando una situazione di confusione.

L’unico modo efficace per evitare ciò è quello di mantenere aperte le linee di comunicazione, dedicare una parte del tempo per avere delle conversazioni occasionali con ogni membro del team, durante il quale domandare loro la propria opinione circa gli obiettivi per cui essi stanno lavorando. Per questa ragione ogniqualvolta si rendono necessari dei cambiamenti significativi è utile tenere degli incontri in cui agli apprezzamenti per il lavoro fatto si uniscano e si spieghino le nuove priorità e le ragioni per le quali esse sono state adottate.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

 

Il gruppo e la motivazione

Il gruppo e la motivazione

In questa sezione si ritiene utile approfondire la dimensione organizzativa in cui è inserita l’attività del lavoratore, e più in generale il suo rapportarsi con entità come il gruppo e il team, alle quali l’individuo non solo reagisce, ma vi prende parte mediante le quotidiane interazioni contenute nei processi lavorativi coordinati.

In una società fatta di continue relazioni con organizzazioni di tipo diverso, oltre a quella lavorativa, non si può infatti prescindere dal comprendere le modalità soggettive di percepire il gruppo e la pluralità di rapporti all’interno di esso.

L’organizzazione, quindi, non è qualcosa di separato e di contrapposto agli uomini, bensì è il prodotto di modelli ricorrenti di interazioni che si ricostituiscono proprio attraverso le interazioni quotidiane.

L’importanza di tali rapporti e delle loro conseguenze in termini di motivazione, è stata evidenziata dalla Zucchermaglio, la quale definisce le organizzazioni come insieme di “comunità di pratiche” e non semplicemente come insieme di individui .

Tali comunità sono caratterizzate da tre dimensioni.

    1. Un impegno reciproco (mutual engagement), ciò significa che l’appartenenza alla comunità è data solo dalla condivisione di uno stesso impegno.
    1. L’impresa comune (a joint enterprise) che tende a evidenziare l’aspetto della negoziazione, essenziale perché si possa parlare di una comunità di pratiche. Ma avere degli obiettivi comuni non è tanto il punto di partenza quanto il risultato di un processo di interazione negoziale che ha origine da un impegno reciprocamente condiviso.
    1. Infine, il repertorio condiviso (a shared repertoire) che sottolinea la centralità della costruzione collettiva di risorse per la sussistenza e replicazione della organizzazione.

Per molte persone, inoltre, le organizzazioni sono fonte di self-identity (identificazione di se stessi) e di supporto emozionale, ma anche delle mini-società che hanno loro propri e distintivi modelli culturali.

All’interno delle organizzazioni, infatti, un individuo “entra in contatto con le storie che le persone raccontano su quello che fanno, con le regole e le procedure formali, con i codici informali di comportamento, le norme di abbigliamento, i rituali, i compiti, i sistemi salariali, il gergo e gli scherzi che sono compresi solo da chi vi è all’interno” .

Tutti questi elementi contribuiscono a configurare un senso di appartenenza che ha dei fortissimi influssi sulle dinamiche motivazionali, noto nella prassi manageriale con il termine di cittadinanza organizzativa o di personalità organizzativa. Con questi termini si intende l’effetto positivo dell’influenza sociale sul comportamento lavorativo, influenza che, come si è visto parlando di groupthink, può anche essere negativa, portando a fenomeni come il conformismo e l’inerzia sociale. In particolare ci si riferisce a quelle forme di altruismo, di coscienziosità , di cortesia, di supporto e di aiuto reciproco, che spesso si formano fra i componenti del gruppo a titolo puramente gratuito e senza secondi fini.

Comportamenti organizzativi questi, non espressamente richiesti dal ruolo formale ma che, se presenti, risultano funzionali alla positiva realizzazione dei compiti, costituendo inoltre un forte indicatore del grado di soddisfazione del lavoro, di motivazione dell’individuo al lavoro e all’organizzazione. Tali comportamenti possono essere rilevati direttamente attraverso delle “analisi di clima”, di cui si parlerà nel prosieguo, o indirettamente valutando, per esempio, il turnover, l’assenteismo o la produttività. Una persona motivata al lavoro e all’organizzazione avrà un basso tasso di assenteismo sul posto di lavoro e, verosimilmente, avrà una produttività medio-alta.

Volendo approfondire le dinamiche motivazionali all’interno dei gruppi, bisogna poi indagare la percezione di ciò che accomuna i membri di un gruppo. Potrebbero condividere un’attività, o una condizione, o uno scopo, o una qualità, con diversi  livelli di consapevolezza. Conseguentemente varia la delimitazione di ciò che costituisce  oggetto di interesse per il lavoratore.

Per esempio, l’influenza che viene esercitata su un  individuo per il fatto di appartenere a un certo gruppo può essere molto forte in alcuni casi, come per la nazionalità o l’etnia. Molti comportamenti della persona possono essere spiegati dal fatto di avere una determinata nazionalità, quindi abitudini, linguaggi, gusti, valori, in breve una certa cultura. In altri casi l’essere membro del gruppo influenza il comportamento solo in certi momenti e superficialmente: chi partecipa a un progetto lavorativo ne rispetta i termini e le scadenze, ma una volta giunto al termine le sue motivazioni cambiano. Infine ci sono situazioni in cui può essere considerata quasi nulla l’influenza esercitata sull’individuo dal fatto di essere membro di un gruppo, in special modo se quest’appartenenza non è soggettivamente percepita: chi sta aspettando l’autobus può non sentirsi affatto accomunato agli altri, insieme ai quali eventualmente si trovi. In tale situazione, potrebbe diventare di preminente interesse osservare l’influenza che deriva non già dall’appartenenza al gruppo ma dal comportamento di ognuno degli altri individui (si ricordi l’apprendimento sociale di Bandura). Posto quindi che, come si è detto, esistono diversi criteri di concettualizzazione del gruppo, e sempre rimanendo nella prospettiva del soggetto che ne è membro, può essere adottata in sintesi la seguente definizione di Lewin: “un gruppo è un insieme dinamico, costituito da individui che si percepiscono vicendevolmente come più o meno interdipendenti per qualche aspetto” .

Il gruppo esiste, pertanto, quando gli individui divengono consapevoli che, in qualche modo, il loro destino è collegato a quello del gruppo; è proprio il concetto di “interdipendenza del destino” che Lewin vuole far emergere nel frammento sopra menzionato. Nel gruppo di lavoro, oltre alla interdipendenza del destino emerge un altro aspetto caratterizzante, che si può definire “interdipendenza del compito” , quando cioè esiste un obiettivo da raggiungere, un compito da assolvere, tale che irisultati di ciascun membro hanno implicazioni per i risultati degli altri.

Questa interdipendenza può essere definita “positiva”, quando dà luogo all’instaurarsi di sentimenti di cooperazione e coesione tra i membri, favorendo una migliore prestazione del gruppo; oppure “negativa”, quando prevale la competizione che conduce a insicurezza, riduzione della coesione e peggioramento della prestazione complessiva.

In definitiva, va distinta la “motivazione al lavoro” dalla “motivazione al lavoro di gruppo” che non sempre coesistono e che invece sono estremamente necessarie ambedue nel caso del team working. La seconda caratteristica implica che il lavoratore abbia ben sviluppate competenze soprattutto di tipo relazionale e attitudine alla socializzazione delle informazioni, dei programmi e degli obiettivi condivisi.

Nel prossimo pargrafo si analizzerà la forza con cui alcuni concetti come la vision, la mission e l’organigramma, laddove efficacemente esplicitati, riescono a creare una coesione, fornendo delle spinte motivazionali di fondo. Nell’approfondimento di queste tematiche, muovendosi da un approccio contingente, si ritiene di fare ricorso al concetto di adattamento organizzativo attraverso la nozione  di equifinalità, all’interno della teoria sistematica dell’organizzazione. Nel secondo paragrafo si ritiene importante esaminare la natura delle organizzazioni e le correlazioni esistenti tra le caratteristiche di un’organizzazione ed il comportamento sul lavoro, approfondendo le relazioni tra struttura  e motivazione.

In questa sezione si vuole quindi evidenziare come le azioni manageriali tese all’accrescimento della motivazione devono essere orientate coerentemente con la forma organizzativa che gli fa da scenario, dal momento che, più aumenta la dimensione aziendale, più aumenta il numero di soggetti con funzioni analoghe e pertanto diventa misurabile su più vasta scala l’effetto dei fattori incentivanti. Aumenta anche la possibilità di confrontare le prestazioni di mansioni omogenee.

Difatti, considerando una specifica funzione e rilevando quello che si può definire il livello di prestazione standard associato alla data mansione, si possono individuare due prospettive di osservazione: una relativa al rendimento medio sotto il quale la prestazione sarà valutata non il linea con quella di gruppo e per questo considerata dall’individuo come il livello minimo di sopravvivenza all’interno dell’organizzazione. L’altra che evidenzia come  il superamento dello standard,  generando di per sé un riconoscimento interiore, conduca a quelle dinamiche motivazionali finalizzate all’uniformarsi ad un livello di prestazione superiore.

Si evidenzia così come il sentiero di sviluppo aziendale si deve muovere attraverso l’emulazione delle migliori prestazioni e azioni di benchmarking interno, senza tuttavia nascondere l’eventualità che questo orientamento possa portare a  conflitti organizzativi. Infine, nel terzo paragrafo, si accennerà alla eventualità di fenomeni quali i rapporti di clan che possono alterare l’organicità e  l’effetto unificante delle politiche di incentivazione finalizzate alla coesione del gruppo, rendendo così necessarie azioni di team linkage.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

La soddisfazione ed il performance management

L’analisi a posteriori: la soddisfazione ed il performance management

Nel valutare la probabilità che un soggetto sia predisposto a una determinata mansione, accanto alla motivazione, si deve anche considerare un qualcosa che va oltre: l’intenzione volitiva.

La motivazione è il processo attraverso il quale si arriva a decidere di agire in un certo modo, la volizione è il processo in base al quale le intenzioni si attuano. Se l’analisi a priori può in qualche modo risalire alla motivazione che un soggetto ha nello svolgere un determinato lavoro, non può tuttavia spingersi fino ad indagare la dimensione volitiva, ossia se effettivamente verrà messo in atto il comportamento organizzativo richiesto dalla mansione.

Le unità di analisi diventano quindi il comportamento e il raggiungimento degli obiettivi, quali azioni coerenti all’atteggiamento intenzionale, che tramuta la volontà in azione conseguente.

In questo caso, per ogni posizione/ruolo vengono indicati quali siano i comportamenti organizzativi attesi ed i fattori a cui questi comportamenti rimandano; per ogni fattore il valutatore deve precisare in che misura esso è presente nel soggetto esaminato, tenendo conto solamente di ciò che la persona ha effettivamente fatto nel periodo considerato e non delle sue capacità potenziali.

In definitiva, l’analisi a posteriori, intende ricavare “indirettamente” la presenza o meno della motivazione nello svolgere un lavoro da variabili come lo sforzo, cioè la capacità di guidare e canalizzare l’attenzione in direzione di uno scopo, la perseveranza, cioè la conservazione della motivazione finché non è stato raggiunto l’obiettivo e la resistenza, che si manifesta di fronte agli ostacoli, agli imprevisti, agli insuccessi .

Con questo tipo di analisi, come si è visto, viene indagata quell’area della motivazione che rende attuali e presenti i valori o i motivi che il soggetto stesso ha interiorizzato, portandoli verso la definizione di un’intenzione, e la decisione di impegnarsi in maniera adeguata per raggiungerla.

Secondo una visione più restrittiva , invece, un obiettivo di prestazione è un risultato aziendalmente rilevante e atteso nei confronti del titolare di una posizione, che deve essere riferito ad un arco temporale predeterminato, deve essere derivato dalle aree di risultato di cui la posizione è responsabile e deve essere misurabile in termini di livello di conseguimento, grazie a specifici criteri di misurazione. In una accezione più moderna, riferibile alle pratiche manageriali definite di performance management , la valutazione delle prestazioni è una tecnica di analisi a posteriori, finalizzata a individuare tutte le competenze che il soggetto è riuscito a mettere in campo.

Per questo motivo, l’analisi deve riferirsi all’individuazione delle competenze tecniche necessarie allo svolgimento dell’attività, ma anche di altre competenze (come quelle trasversali), che sono parimenti strategiche per raggiungere l’obiettivo.

In questa prospettiva, le unità di analisi da indagare si possono infatti scindere in task performance, ossia le attività professionali e tecniche richieste proprio per lo svolgimento della mansione; contextual performance, individuabile nei comportamenti che vanno al di là dello svolgimento dei propri compiti, riferibili a tutte quelle azioni pro-attive che aumentano l’efficacia organizzativa o migliorano il clima lavorativo; ethical performance, che riguarda il fare le cose “eticamente corrette”, ossia perseguire realmente gli obiettivi dell’azienda .

Sintetizzando, per essere corretta, la valutazione della prestazione deve concentrarsi esclusivamente sui comportamenti e sui risultati, ossia su criteri legati alla mansione, all’efficacia della prestazione lavorativa, non sul carattere o aspetti strettamente personali, dovendo essere svolta almeno ogni sei o dodici mesi.

La valutazione dell’attività lavorativa o job evaluation, è inoltre un procedimento con cui ciascuna posizione o ruolo precedentemente descritto, viene confrontato con altri allo scopo di stabilirne il valore relativo, con l’obiettivo di permettere la formazione di un equo piano retributivo, nel quale posizioni/ruoli aventi pari valutazione debbono avere anche pari retribuzione, indipendentemente dall’area o settore aziendale presso cui sono svolte.

L’implementazione di un valido ed efficace programma di valutazione della prestazione lavorativa, poi, deve consentire che ognuno in azienda sia in grado di valutare correttamente la qualità del proprio lavoro, in modo da restare in linea con gli obiettivi programmati.

Per questo motivo è necessario che vengano sviluppati, come routine di ogni mansione, tre importanti feedback. Il primo è il feedback proveniente dalle altre persone. Le valutazioni annuali, come quelle quadrimestrali o mensili, sono troppo generiche. Un feedback immediato e specifico rappresenta uno degli strumenti più efficaci per aiutare i lavoratori a migliorare la propria performance, consentendo anche di condurre tutto il gruppo in maniera armoniosa e continua. In ogni caso, bisognerebbe imparare a trattenersi da un’eccessiva presenza quando il lavoro si svolge correttamente, poiché se si esagera, il feedback può interferire troppo nel lavoro delle persone .

Focalizzarsi solo sui fatti presenta innumerevoli vantaggi: non si invade la personalità, si è più specifici ed oggettivi, si è meno influenzati da opinioni e sensazioni, si migliora la comunicazione e la presa di coscienza.

Ricorrere all’esempio comportamentale e comunicare attraverso fatti, permette così di evitare possibili generalizzazioni, ma soprattutto di evitare i giudizi. La seconda fonte di informazioni è rappresentata dal feedback proveniente dal lavoro stesso.

Alcune mansioni hanno al loro interno un sistema di misurazione della performance, anche se molte altre ne sono prive. Il successo di alcune recenti tecniche manageriali, come il TQM, è dovuto in parte al fatto che esse aiutano l’organizzazione a quantificare le performances dell’azienda. Qualunque sia la tecnica impiegata, è responsabilità del manager comunicare a tutti le proprie aspettative in modo chiaro, in modo tale che i lavoratori possano in qualunque momento verificare se la propria attività è in linea con gli obiettivi. Infine il feedback può derivare anche dagli standard che ogni individuo sa di poter raggiungere. Un vero lavoratore performante è colui che sa sviluppare un proprio metro di misura con cui stabilire la bontà del proprio operato, al di là dei parametri esterni.

Questo approccio  si basa essenzialmente sulla esperienza maturata nel tempo svolgendo una determinata mansione, che permette alle persone di formulare un giudizio personale circa il livello del lavoro svolto in modo naturale ed intuitivo.

Trasmettere ai lavoratori questo genere di approccio non è semplice; la migliore strategia è pertanto quella di definire gli standard ad una singola persona in modo chiaro, far si che questa li applichi al lavoro in modo tale che tutte le altre possano riconoscerli e prenderli come esempio. In molti casi questa prassi può richiedere che una data attività debba essere ripetuta più volte, entro determinati intervalli di tempo, finché l’esecuzione non diventa perfetta.

Il processo di valutazione delle performance nasconde delle insidie che devono essere gestite per non minare l’efficacia dello strumento .

Un primo comune ostacolo è uno scarso orientamento aziendale al personale, o scarso orientamento del singolo manager.

Spesso il lavoro è concepito in visione tayloristica con dettagliati mansionari, procedure e con un forte orientamento al compito. Questa visione del lavoro tende a trascurare le caratteristiche della risorsa umana, la cui produttività non è prestabilita, ma può variare notevolmente in funzione della sua motivazione.

Altro ostacolo molto frequente è la motivazione del manager al quieto vivere, pertanto il desiderio di non complicarsi la vita con valutazioni negative. In questo contesto nasce il “buonismo” che rappresenta una distorsione sistematica ad una valutazione oggettiva. Il manager non si accorge di essere latitante nell’assolvere una sua precisa responsabilità, preferisce camuffare la realtà dichiarando che tutti sono bravissimi, o limitandosi a commenti generici inficiati da un eccessivo criticismo, che non entrano nel merito delle questioni.

    • Il falso obiettivo di un capo è di essere amato dai propri collaboratori.
    • Il vero obiettivo è quello di creare un clima di fiducia e di reciproca stima professionale.

Una grossa difficoltà dei valutatori, derivante dal non volere assumere un ruolo, poco esaltante, di colui che giudica altre persone, è infatti comunicare una valutazione negativa della prestazione per paura di demotivare il collaboratore, o di dover iniziare forti discussioni e creare tensioni.

Ma ciò può essere evitato se si riesce a legare la performance negativa ad un piano di sviluppo personale.

Il capo credibile fa percepire che è interessato alla crescita del collaboratore, utilizza il rimprovero costruttivo, quale strumento di crescita. Il capo credibile usa il “noi” parlando di problemi.

Raramente dice: “Tu hai sbagliato!”, bensì “Noi abbiamo sbagliato!”. Ma non lo fa solo per una pratica manieristica, ma perché si sente genuinamente responsabile degli errori del proprio collaboratore.

Se il superiore non si costruisce questa credibilità, per quanto abile nei colloqui, rischierà sempre di essere vissuto come un antagonista nel lavoro. La valutazione delle prestazioni presenta poi il grande rischio della soggettività del valutatore, il quale tende, anche involontariamente, ad usare metri di valutazione squisitamente personali. In genere si tende ad avere alte aspettative su aree comportamentali dove si è più forti. Ad esempio un manager molto analitico darà molto peso alla capacità analitica dei propri collaboratori. Per ovviare a questa distorsione di soggettività, è opportuno sviluppare e condividere una cultura aziendale o di reparto o di Ripartizione.

La cultura condivisa diventa un metro oggettivo di valutazione della prestazione. Se ad esempio l’azienda condivide una forte cultura del lavoro in team, ogni manager darà un gran peso al senso di collaborazione dei suoi collaboratori, alla capacità di fare team, di scambiarsi informazioni, di aiutarsi spontaneamente, etc. Quest’aspetto culturale diventa pertanto un parametro oggettivo di valutazione del personale. La cultura comportamentale attesa è data dal complesso dei comportamenti che un leader, o meglio un’azienda intende vedere praticati. Molto spesso, infine, la valutazione delle prestazioni è intesa come uno strumento per distribuire eventuali premi che l’azienda mette annualmente a disposizione dei propri dipendenti. Quando nelle aziende si consolida questa visione, la gestione stessa del processo diventa molto difficile e piena di ostacoli, risolvendosi in una scarsa propensione del collaboratore ad accettare una valutazione che andrà direttamente ad influire sul proprio portafoglio.

In questo caso valutare significa creare le condizioni per un conflitto. Altre volte viene vissuta come strumento per avviare un processo meritocratico in azienda.

Si arriva infine ad un’altra drammatica percezione, osservata in diversi contesti, dove la valutazione viene percepita come strumento per distinguere i bravi collaboratori da quelli scarsi. La valutazione delle prestazioni professionali non va comunque meramente intesa come uno strumento per attivare “premi o punizioni”, ma costituisce in primo luogo un fondamentale strumento di  conoscenza e definizione della realtà organizzativa. Inoltre è soprattutto uno strumento che completa la definizione dei ruoli, la rende più aderente alle concrete esigenze e condizioni di funzionamento delle strutture, consentendo di meglio governare e gestire l’adattamento dinamico dell’organizzazione rispetto al reale contesto operativo. In sintesi, la valutazione delle prestazioni è uno strumento di sviluppo del personale basata sul riconoscimento delle capacità, dei risultati del singolo e sulla possibilità di migliorare le sue prestazioni.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

 

 

Selezione e Assessment center

L’analisi a priori: la selezione e l’assessment center

In questo caso, le leve operative proposte, hanno la finalità di analizzare la motivazione che un determinato soggetto ha a priori, ossia prima di iniziare la sua esperienza lavorativa, o di intraprendere una nuova attività o responsabilità. Un’analisi di questo tipo, condotta con tecniche preventive come la selezione e le sedute di assessment (insieme di tecniche basate su colloqui motivazionali e test situazionali), è utile nel momento in cui si voglia fare una previsione sul grado di accettazione dell’attività proposta al soggetto, e sul livello di competenze che “potenzialmente” sarà in grado di mettere in pratica sul campo. Il manager, fin dalla in fase di selezione e di pianificazione della prestazione, gode pertanto di una straordinaria opportunità: quella di stimolare il collaboratore a mettere in campo o modificare (nel caso di una risorsa già operante) certi comportamenti. L’accordo iniziale sulla prestazione è determinante ai fini del risultato, in quanto il collaboratore deve sapere su cosa e come sarà valutato. Il valore attribuito al risultato finale può rappresentare uno degli input motivazionali, che vanno evidenziati in una sorta di “patto iniziale” con se stessi e richiamati nei momenti di caduta della motivazione.

Una volta condivisi gli obiettivi il valutatore deve stimolare e verificare i cambiamenti e miglioramenti nell’anno con interventi di assessment, ma non è raccomandabile arrivare alla fine dell’anno per valutare quei comportamenti. In sede di assessment è importante esplicitare al dipendente qual è il risultato e il vantaggio, in termini di gratificazione, che lo sviluppo della competenza consentirà di conseguire. Secondo differenti indagini aziendali, infatti, sembra che la più comune causa di prestazioni insoddisfacenti da parte dei collaboratori non sia legata alle scarse competenze, o alla scarsa volontà del collaboratore, bensì alla poca chiarezza sugli obiettivi e sulle aspettative che i superiori hanno dai collaboratori stessi. Sempre riferendosi al modello prima esposto della prestazione, la selezione e altri strumenti come l’assessment sono finalizzati a capire anche se, per una data posizione, l’inadeguatezza di un soggetto sia da imputare ad un difetto di capacità o di motivazione. Ciò risponde ad almeno due necessità. In primo luogo orientare la formazione iniziale verso l’elemento che sia risultato carente, qualora tale elemento non sia da considerarsi strategico e per ciò stesso imprescindibile per lo svolgimento della specifica mansione. Inoltre, in questa maniera, è possibile rendere coerenti le valutazioni fatte a posteriori con quelle fatte a priori, così che misurino l’eventuale superamento del gap di quell’aspetto specifico precedentemente misurato. Questo lavoro di ancoraggio  tra competenza e risultato atteso (che ricorda le già esposte tecniche di PNL), può emergere dal processo di rilevazione del gap, in un processo che nella prassi viene definito mappatura delle competenze collegate alla performance di eccellenza, attraverso la diagnosi del gap individuale e la predisposizione di un piano di sviluppo, secondo una logica di “performance improvement”. Non bisogna quindi terminare l’intervista di valutazione senza stabilire chiaramente quali sono gli obiettivi di sviluppo per il prossimo periodo, ed il piano di azione per raggiungerli. Le sedute di assessment, costituiscono inoltre una sistematica verifica del grado di apprendimento ed integrazione nell’azienda, due variabili chiavi nel predire il livello di motivazione attuale e prospettico del lavoratore.

Come già anticipato questa fase dovrà concentrarsi su competenze di natura generica, che essendo tali possono adattarsi a qualsiasi attività lavorativa (sistemi di skill evaluation). Fra queste si hanno principalmente le intelligenze cognitive  (percezione ambientale, creazione di aspettative, progettazione comportamentale, etc), e le intelligenze emotive , che creano meccanismi di repulsione/attrazione classificando i fenomeni in piacevoli e dispiacevoli, e così via. In accordo con il fine di indagine del presente lavoro, si ritiene utile approfondire le caratteristiche dell’intelligenza emotiva, come dimensione della competenza più strettamente legata alla motivazione. L’intelligenza emotiva è la capacità di riconoscere, capire ed utilizzare con efficacia il potere delle emozioni trasformandolo in energia, empatia, informazione, affidabilità e creatività per arrivare ad un certo risultato. A questo riguardo è doveroso fare alcune precisazioni, che si ritengono importanti da un punto di vista manageriale. Il fatto di vedere soddisfatti i propri bisogni, o viceversa di incontrare degli ostacoli nel perseguire i propri scopi, suscita nel lavoratore delle emozioni. Pur essendo emozione e motivazione due processi fra loro interdipendenti, spesso il manager li confonde. Lo studio della motivazione cerca di spiegare il perché di un comportamento, lo studio dell’emozione descrive la reazione ad un cambiamento. Quindi non sempre un lavoratore che non manifesta in modo evidente una dose di emotività o empatia non ha motivazioni. Avrà delle motivazioni che si esternano con altre modalità. Simmetricamente se un lavoratore non reagisce a degli incentivi, non vuol dire che non è coinvolto o che il lavoro non gli da emozioni, ma può aver bisogno di altri tipi di incentivi, o ha delle motivazioni incoerenti con il tipo di incentivi che gli si sta proponendo per attivare il suo comportamento. Sempre in riferimento alla motivazione ed all’emozione bisogna fare ulterioriormente chiarezza. Tradizionalmente la motivazione viene considerata una “eccitazione organizzata”, ossia un’attività programmata e consciamente orientata alla realizzazione di un determinato scopo . L’emotività, invece, si ritiene a torto essere una forma di “eccitazione disorganizzata”, nel senso che non è funzionale ad un particolare obiettivo. In realtà esistono motivazioni non conosciute o non controllabili e persone che conoscono e controllano perfettamente il proprio stato emotivo. Nel lavoro, l’esperienza delle emozioni positive produce un valore che le organizzazioni devono essere pronte ad apprezzare ed utilizzare, in quanto rappresentano delle vere e proprie energie da incanalare, disporre e armonizzare in vista di mete, budget e obiettivi predefiniti. Fino a poco tempo fa essere emotivo sul lavoro era un segno di debolezza. Oggi le cose stanno cambiando, e le aziende ricercano sempre di più gente creativa, gente che apporti, ossia assertiva, né passiva, né aggressiva. Se prima era visto come un segnale di debolezza, adesso è visto come un segnale di forza. La motivazione, quindi, è una parte delle competenze personali dell’intelligenza emotiva. Le emozioni di un lavoratore, inoltre, accompagnano la sua esperienza cognitiva e anzi svolgono spesso una funzione adattiva, rappresentando, tra l’altro, una fonte propulsiva di altissimo valore. Gli effetti dannosi che talvolta si osservano, vanno più che altro imputati a inefficienze del processo di regolazione emozionale del soggetto. Essere emotivi non vuol dire dare briglia sciolta alle emozioni, vuol dire, invece, avere un’autoconsapevolezza, sapere che cosa si sente e, nel momento in cui si riesce a capire, imbrigliare questa energia e usarla nel migliore dei modi.

Le emozioni poi vengono ancora viste come appartenenti al mondo privato o comunque a quello del “non-lavoro” e la loro manifestazione è ben accetta, purché avvenga altrove rispetto all’ambiente produttivo. L’equilibrio, invece, tra lavoro e vita richiede che s’investa in emozioni per favorire l’apprendimento emotivo e recuperare un’educazione alla gestione delle emozioni. Ci si riferisce in particolare alle emozioni positive come l’entusiasmo, la sorpresa, la gioia, l’affetto, il sentirsi vitali, peculiari della motivazione. Educare alla gestione ed al riconoscimento delle competenze emozionali, significa per l’organizzazione migliorare le sue basi per il conseguimento degli obiettivi di crescita e per favorire la produzione di un benessere soggettivo e collettivo.

Tra gli approcci di nuova generazione nell’analisi della motivazione attraverso le competenze, hanno un grande rilievo i metodi “esperienziali” volti a capire quali elementi si presentano combinati nei casi di successo, raffrontati a quelli che si presentano o non si presentano nei casi di insuccesso. La tecnica utilizzata è un tipo di intervista che richiede di ricostruire e descrivere situazioni di successo e di insuccesso esplicitando ciò che si è fatto e con quali risorse. In quest’area lo strumento più affermato è il behavioral event interview (BEI) o “intervista del comportamento di evento”, realizzato da David McClelland , che fa parte dei più generici Competency Assessment Methods e delle più generiche “tecniche proiettive”, in cui si chiede all’intervistato quale comportamento metterebbe in atto in situazioni e circostanze simili a quelle del ruolo specifico . L’intervista narrativa o le altre tecniche di proiezione simulata del ruolo come il role playing e il business game, si basano sul presupposto che il comportamento umano ha modelli che si ripetono , per cui, attraverso un osservazione a ritroso, cerca di analizzare gli eventi critici nella vita e nella carriera di una persona, al fine di trarre alcuni fattori come gli atteggiamenti, le motivazioni, le intenzioni, l’immagine di sé, rilevabili in una determinata situazione lavorativa. L’idea è che il comportamento attuale, ma soprattutto quello passato, forniscono il migliore modello predittivo di quale sarà il comportamento futuro, a differenza delle normali interviste basate esclusivamente sulla formazione, sull’esperienza e sulle conoscenze, tutte informazioni già rilevabili nel documento curriculare. Quindi non solo quali competenze ha un candidato, ma “come” e “perchè” li mette in pratica. In questa maniera è possibile comprendere quali sono le abilità trasversali che qualificano le competenze tecniche del soggetto, le aree che maggiormente lo motivano, dal momento che hanno portato a risultati di successo e le aree che invece non gli procurano alcuna soddisfazione .

E’ però possibile una verifica a priori della rispondenza del candidato alla posizione, solo nella misura in cui, ancora prima dell’intervista, si è stabilito quali reazioni sarebbero da considerare performanti e quali comportamenti si ritiene che rivelino una forte motivazione al lavoro nei casi specifici che si chiederà di descrivere. Verrà quindi operato un confronto tra il modello teorico previsto e il racconto del candidato. Inoltre la tecnica dell’intervista sul comportamento di evento consente a posteriori di verificare quasi sul campo se, effettivamente, il candidato ha delle forti motivazioni al lavoro che lo spingono a profondere maggiore impegno, qualora gli si presentino situazioni analoghe a quelle che aveva descritto ed in cui ha la possibilità di dimostrare la sua coerenza di fondo. Infatti uno dei problemi maggiori di questo tipo di tecnica è quello delle così dette “vite inventate”. Il fatto cioè che, essendo ormai sempre più diffuso questo tipo di intervista, si corre il rischio che i candidati si preparino delle situazioni ipotetiche ad hoc per ogni tipologia di domanda, simulandole perfettamente durante il racconto, o, quantomeno, esagerando situazioni reali. Ciò succede intanto in conseguenza di un sempre più diffuso utilizzo dei media (soprattutto di internet) per promozionare l’immagine ed i valori aziendali. Questo fa sì che, il potenziale candidato, ha la possibilità di inventare delle situazioni da cui traspare l’idea di candidato ideale per una data società, o comunque, “aggiustando il tiro” di un’esperienza effettivamente avuta, orientandola verso l’idea di un’esperienza di successo, in conformità con le informazioni apprese su internet o con altri mezzi. Inoltre, soprattutto in ambito anglosassone, sia gli uffici di orientamento al lavoro di alcune università come quella di “Law and Economics”, sia le società specializzate in outplacement , allenano il candidato sulle più frequenti caratteristiche ricercate dai datori di lavoro e sulle tipologie di domande che verranno fatte durante l’intervista. Ma c’è di più. Non è infrequente, infatti, trovare dei forum o delle newsletter su internet in cui ex-candidati sottoposti ad intervista, abbiano avuto la pazienza e la bontà di pubblicare le domande che di solito vengono fatte nelle maggiori società come Hewlett-Packard, Nike, Microsoft, Intel, etc., dove vengono fatti centinaia di colloqui al giorno. Sono quindi necessarie delle contromisure per evitare di cadere in tranelli o lasciarsi affascinare da racconti fittizi. In primo luogo la semplice consapevolezza del problema (che non è così diffusa come si può pensare) mette in allerta l’intervistatore nel cercare evidenti segnali di bluff. Ad esempio, il fatto che non faccia neanche un secondo di pausa di riflessione prima di rispondere alla domanda, o che ha uno sguardo sicuro e diretto durante il racconto (quando invece di solito quando si parla pensando al passato si guarda altrove) è un indice del fatto che ha preparato quella domanda . In secondo luogo, per confermare l’autenticità della storia e degli esempi del candidato, gli intervistatori devono scendere nei particolari e richiedere aspetti specifici della storia, esibendo però un tono di curiosità e non da indagatore, cosa che altrimenti potrebbe bloccare il candidato. Un altro modo può essere quello di chiedere non solo cosa ha fatto, ma anche cosa ne pensava di quello che stava facendo, e cosa ne pensa ora a mente fredda. Diverse ricerche, infatti, dimostrano che è difficile per un falsificatore mantenere una coerenza costante fra tutti e tre i livelli di racconto. Inoltre il fatto che abbia preso una posizione di giudizio sia al tempo in cui stava svolgendo l’attività, sia al momento del racconto, indica che l’esperienza è effettivamente avvenuta, poiché ha lasciato un segno, tanto da indurre il soggetto ad una sua revisione critica.

Un’altra tecnica si basa sul principio che i candidati che sostengono di aver avuto dei successi significativi, devono imparare qualcosa dalle loro esperienze. Se può essere facile fabbricare un successo, lo è molto meno inventare esempi di che cosa si è imparato da un successo. Per cui domande tipo “cosa le ha insegnato l’esperienza” o “come applichi quello che hai imparato da allora” possono servire a individuare il candidato simulatore. Per concludere l’intervistatore puòfare alcune domande che richiedono al candidato di dimostrare quello che conosce, in tempo reale, e non evincendolo dalla descrizione delle cose di successo che ha fatto in passato. Alternativamente si può sempre prendere spunto da situazioni già raccontate, ma cambiando alcuni fattori interagenti o le variabili di azione, per vedere se la sua competenza di successo è ancora tale anche “cambiando il finale”. Questo tipo di domande, infatti, devono essere risposte sul momento, e non possono essere preparate .

Il vantaggio principale di questo metodo è la capacità di cogliere gli aspetti delle competenze specifici ad un particolare compito, aspetto importante sia ai fini della  formazione e dello sviluppo, sia per ricompensare le capacità e le competenze che hanno particolare valore in quel compito e che non sarebbero rilevanti in un approccio standardizzato, basato su metodologie classiche di intervista uguali per tutti. Uno svantaggio è il carattere statico, orientato al passato e poco evolutivo di un’analisi centrata sulle competenze che hanno mostrato di generare comportamenti efficaci, ma che nulla dice su quali altre combinazioni di competenze sarebbero state possibili e forse più efficaci, né quali altri comportamenti si sarebbero potuti generare con le stesse competenze. Un altro forte svantaggio, come si è detto, è la possibilità di comportamenti opportunistici. L’intervista basata sul comportamento, continua pertanto ad essere uno strumento efficace per selezionare i candidati che devono avere certe competenze e attitudini, tra cui la capacità di automotivarsi e la motivazione verso quella specifica mansione, ma le tecniche su cui si fonda dovranno evolversi, per tenere conto della maggiore preparazione dei candidati e della necessità di rilevare la dinamicità nel riformulare e ricombinare continuamente il proprio asset di competenze, in risposta ad un’elevata competitività. Ancora più complesso il caso in cui si utilizzino test strutturati allo stesso modo. In questi casi, l’appropriatezza della prestazione, come si evince dall’analisi del test, non costituisce un indicatore preciso o scientifico della presenza di motivazione. Come nel caso dell’istruzione programmata, in cui ciascuna conoscenza è distribuita in un piccolo gruppo di domande all’interno di test di verifica dell’apprendimento, se la risposta data dal soggetto è corretta, la medesima ricompensa, sarà attribuita anche a chi ha individuato la risposta giusta per caso, tirando ad indovinare, il che, tra l’altro, può finire per indebolire anche la motivazione estrinseca del candidato. L’ottenimento di quel posto, cioè, non costituisce più una sfida (vedasi la parte teorica in cui si è parlato di automotivazione).

 

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

 

 

La misurazione del livello di motivazione

La misurazione del livello di motivazione

Conclusa la trattazione teorica si intende a questo punto fornire un’elencazione di alcuni strumenti operativi, di uso quotidiano nella pratica manageriale, ma implicitamente suggeriti, come si è avuto modo di vedere, dalla speculazione sul tema della motivazione. Le leve operative verranno proposte in una sequenza che rispecchia l’iter cronologico del percorso tipico di una risorsa all’interno dell’azienda. Si va dall’assunzione, all’inserimento nel team, dalle politiche di incentivazione fino alla gestione globale e alla sua uscita (outplacement). In ogni fase, infatti, ci sono diversi aspetti da tenere in considerazione che impattano sulla motivazione in ambito lavorativo.

In questa prima sezione si vogliono approfondire le dinamiche motivazionali inerenti l’ingresso della risorsa all’interno dell’organizzazione, ma anche la problematica della rilevazione della motivazione in qualsiasi momento in cui la risorsa sia già operante nel contesto aziendale. Spesso le aziende traggono il livello di motivazione solo in seguito ai risultati dell’attività lavorativa di un singolo soggetto, ma in realtà, a parità di motivazione, soggetti diversi, o lo stesso soggetto in diverse attività, possono generare prestazioni molto differenti. Va detto che tali differenze in parte dipendono dalle condizioni esterne, dalle difficoltà e dagli imprevisti, dal grado d’incertezza del compito e dell’ambiente lavorativo; tuttavia, per una parte importante dipendono dalle caratteristiche strutturali del lavoratore stesso, dalle risorse che può mobilitare al suo interno, da ciò che è capace di fare, praticamente da quelle che vengono chiamate le sue competenze.

Nella definizione delle competenze esistono vari approcci, che privilegiano, secondo i diversi punti di vista, gli aspetti cognitivi e d’apprendimento, i saperi legati all’esercizio del ruolo e della professione, o gli aspetti d’esercizio delle competenze derivanti dalle caratteristiche del contesto di riferimento. Secondo Nelson e Winter  “la competenza è la capacità di dar luogo ad una sequenza regolare di comportamento coordinato, efficace rispetto agli obiettivi, dato il contesto in cui ha luogo”. Levati e Saraò  definiscono la competenza come “sistema di schemi cognitivi e comportamenti operativi, intrinseci di un individuo, causalmente correlati al successo sul lavoro o a una prestazione efficace, composta di motivazioni, immagine di sé, conoscenze e abilità”. In questa sede quindi il concetto di competenza va inteso in senso allargato, poiché deve tenere conto non solo delle capacità tecniche, necessarie allo svolgimento di una data attività, ma anche di quegli attributi intrinseci alla persona che consentono di mantenere un interesse vivo verso il lavoro, motivando il soggetto ad impegnarsi. Deriva da ciò l’impossibilità di analizzare le competenze prendendo in esame solo la posizione organizzativa: occorre infatti assumere come oggetto di analisi anche le qualità e le risorse individuali del soggetto al lavoro, opportunamente contestualizzate e confrontate. Si parla in questo caso di “attitudini”. Queste sono il risultato di un processo in cui partendo dall’analisi della posizione, si individuano i comportamenti necessari, stendendo un profilo tipo, in modo evidenziare eventuali predittori del comportamento performante.

La centralità assunta dal concetto di competenza professionale ha determinato uno stravolgimento delle modalità consolidate di intendere le qualifiche, le performances e i relativi modi di valutarle e certificarle. I diplomi e le qualifiche, tradizionalmente visti e utilizzati come parametri di valutazione della preparazione delle persone e talvolta intesi come determinanti del successo nel lavoro, hanno perso queste loro funzioni; la loro utilità è ora limitata al dire quali conoscenze sono possedute da un dato individuo e al massimo il modo come costui ne ha gestito l’acquisizione in un determinato contesto formativo. Poco rivelano in relazione al suo comportamento in un contesto lavorativo, dove entrano in gioco le competenze. Per far fronte a questi fabbisogni informativi, la valutazione della motivazione strettamente se non esclusivamente imperniata sul “sapere“ o, al massimo, sul “saper fare“, non è più sufficiente, in quanto poco risponde alle nuove logiche legate al “saper essere”. Dovranno essere analizzate quindi sia le conoscenze e le esperienze passate, ma anche le capacità  attualmente esprimibili e gli atteggiamenti. Sintetizzando si può dire che le competenze sono quell’insieme di abilità necessarie all’esercizio di un’attività lavorativa e la padronanza dei comportamenti basati su conoscenze (sapere e saper fare) e attitudini (saper essere). In sostanza, sono degli attributi intrinseci alla persona, ma significativi e strategici per la sua specifica mansione, in quanto correlati con la performance in compiti e atteggiamenti ben definiti. Si può quindi analizzare la competenza sotto due diversi aspetti che dipendono dalle finalità con cui si vogliono analizzare le risorse umane, a seconda, cioè, se si vogliono comparare tra di loro o se si vogliono comparare con un modello teorico di competenze previste per quel dato compito:

    1. Valutando il primo aspetto il principio guida è scoprire profili di competenze che si correlano alle prestazioni più elevate, dove il contenuto e i parametri della prestazione desiderata sono dati. Una delle finalità seguite da queste analisi delle competenze generali e standardizzate, è quindi definire tipi di competenze sufficientemente astratte e indipendenti dallo specifico contenuto del lavoro, per poter comparare delle competenze generiche, richieste anche in diverse posizioni lavorative, ma che sono chiaramente correlate a performance di livello superiore. In altre parole la competenza è data da conoscenze e abilità che, sulla scorta dell’esperienza pregressa, sembrano poter assicurare specifici livelli di qualità nell’esercizio di qualsiasi professione di riferimento e vengono assunti come indicatori  di un modello predittivo di performances future. Per supportare queste analisi la soluzione è costruire elenchi dei possibili contenuti delle competenze, dai quali si possa dedurre il livello di motivazione e coinvolgimento al lavoro (autonomia, affidabilità, capacità di pianificazione, di visione allargata, di gestione della complessità, di stabilità emotiva, di problem solving, etc.). Un limite di queste classificazioni è che l’elenco potrebbe continuare in linea di principio all’infinito. Inoltre è una visione della competenza che può essere da un lato troppo ampia, perchè prevede una serie indifferenziata di elementi tutti potenzialmente importanti, dall’altro troppo ristretta  rispetto ai possibili elementi costitutivi della competenza stessa ai quali è riferibile una specifica mansione.
    1. Per queste ragioni un secondo aspetto di valutazione è quello di analizzare le competenze lavorative in modo contestualizzato, partendo dal presupposto che le conoscenze applicabili nell’attività di lavoro concreta, costituiscono gran parte delle competenze che un soggetto può e deve esprimere. La finalità in questo caso è quella di tracciare i contorni delle competenze che servono per una data mansione, ed elaborare un modello di competenza performante, che tuttavia poco dice sul livello motivazionale del soggetto.

Lo step successivo sarà quello di capire il grado di profondità e incorporazione delle suddette competenze nella risorsa umana. Spencer & Spencer  propongono l’immagine dell’iceberg o delle scatole cinesi per rappresentare l’idea che le competenze abbiano degli strati “sommersi”, che non possono essere visti nemmeno dagli attori che le posseggono; e che esse racchiudano un “nocciolo duro” molto difficile da disgiungere dall’identità del soggetto stesso e da cambiare. Il set di competenze ha quindi una struttura stratificata, analoga a quella della conoscenza. Lo strato più profondo o nocciolo delle competenze (sotto la linea di galleggiamento) è costituito dai tratti, dalle doti della persona, dalle sue motivazioni intrinseche, e dalla personalità, cioè da ciò che si è capaci di fare per dotazione fisica ed emotiva, e  per dotazione culturale. Una componente più esterna (sopra la linea di galleggiamento), visibile e facile da analizzare è identificata nelle skills o abilità. Esse sono capacità apprese in modo esperienziale, diretto o tramite osservazione. Esse sono largamente identificabili con le conoscenze tacite richieste dalla mansione specifica, ovvero esempi di situazioni lavorative “tipo”. La preparazione professionale è vista come lo strato più codificabile, più facilmente modificabile e trasferibile delle competenze, attraverso la formazione (conoscenze esplicite).

La distinzione tra risorse comparabili o specifiche ad un compito non è comunque  solo una questione di approccio. Componenti generiche possono essere più o meno presenti in un modello di competenza. Tuttavia se una competenza è molto  specifica rispetto ad un uso o attività, la differenza tra il valore dei servizi resi in quell’attività rispetto al migliore impiego alternativo è molto elevata. Ciò significa che nella fase di inserimento, l’analisi della motivazione verso l’espletamento di un lavoro, non può che concentrarsi sulle competenze generiche, mancando ancora il dato esperienziale sul quale poter giudicare come il soggetto ha effettivamente messo in campo le sue qualità. Viceversa, nel caso la risorsa sia già operante, bisogna analizzare il suo livello di motivazione, contestualizzando le competenze generiche in pratiche effettivamente necessarie alla mansione, che ne può richiedere alcune e tralasciarne delle altre. Questa puntualizzazione può apparire ovvia, ma nella prassi manageriale spesso si confondono i due tipi di competenza, nei diversi momenti in cui vengono analizzate le risorse, o si ritiene che tutte le competenze servono per il ruolo in questione. Inoltre si basa su un modello teorico delle competenze, largamente accettato in dottrina, in cui si suppone che la prestazione lavorativa deriva dal reciproco concorrere delle capacità e delle motivazioni del lavoratore:

PRESTAZIONE =  CAPACITA’  x  MOTIVAZIONE

Il modello evidenzia come la qualità di una prestazione lavorativa dipende dalla competenza della persona rispetto al compito che è chiamata a svolgere (il Sapere), dalla motivazione a raggiungere l’obiettivo (il Volere), a cui si possono aggiungere le risorse tecnologiche, finanziarie, informative e umane che l’organizzazione gli mette a disposizione per lo svolgimento di quel compito (il Potere).

Per prefigurare le performance future, si dovranno quindi raffrontare le capacità realmente messe in campo nella mansione specifica, osservabili con comportamenti o risultati visibili, con le motivazioni rilevabili prima di introdurre la risorsa in azienda, verificando che queste coincidano con quelle ricavabili dal modello teorico di competenze previste per quel determinato ruolo, in una logica di anticipazione dei fabbisogni professionali nel medio periodo. Vanno inoltre distinte le competenze di base (informatiche, linguistiche, etc.) da quelle tecnico-professionali. A queste si possono aggiungere le competenze trasversali che fungono da collegamento fra la competenza tecnico-professionale e le competenze generiche facenti parte della personalità dell’individuo, nel senso che possono essere messe in atto sia per attività semplici, sia per attività complesse. Esse riguardano prevalentemente il rapporto che la persona ha con l’ambiente di lavoro, il modo di affrontare i compiti da svolgere, gli aspetti emotivi delle relazioni lavorative (lavorare in gruppo, sviluppare soluzioni creative, negoziare). Si parla infatti di competenze extra-role, che sono osservabili in comportamenti intenzionali definiti “pro-sociali” o “pro-attivi”. Le competenze trasversali o “aspecifiche” sono inoltre definite come le abilità relative al saper mettere in atto strategie efficienti per utilizzare le risorse possedute (conoscenze, valori, motivazioni), coerentemente con le esigenze del compito (comportamento lavorativo atteso, condizioni di esercizio, ambiente, organizzazione) . La valutazione della motivazione, infine, non è un fatto isolato, ma deve introdursi in un “ciclo della prestazione” che passa attraverso tre aree distinte di intervento. Una fase iniziale di pianificazione che si realizza con l’accordo sugli obiettivi di lavoro e di sviluppo personale del collaboratore. Il manager deve definire con il proprio collaboratore le aspettative che ha dalla sua funzione, intendendo per aspettative una chiara definizione degli obiettivi annuali e anche dei comportamenti attesi .

Una fase intermedia che comprende, in genere, l’intero anno di lavoro, durante la quale si svolgono incontri vari di monitoraggio. Il manager svolge colloqui sistematici con il proprio collaboratore, non solo legati alle contingenze del lavoro ma anche alla comunicazione delle osservazioni sui suoi comportamenti e sullo stato di avanzamento dei suoi obiettivi. Il numero degli incontri non può essere programmato a priori, in quanto dipende dalle occasioni in cui è possibile comunicare esempi comportamentali significativi per lo sviluppo del collaboratore. Il colloquio di monitoraggio ha una duplice finalità: sviluppare il dipendente e motivarlo: pertanto anche la gratificazione come il rimprovero costruttivo fanno parte del monitoraggio. Il manager deve sentirsi ed essere percepito come partner della performance del collaboratore e non come spettatore passivo. Il suo ruolo non può essere limitato al processo finale di valutazione bensì al piano completo della performance, altrimenti si creerebbe un’immagine di arbitro, più o meno oggettivo nei giudizi, non coinvolto e corresponsabile di quei risultati.

Il ciclo della performance si conclude con la discussione formale dei risultati e la valutazione del collaboratore, attraverso una fase formale nella quale si presenta e si discute su un rapporto scritto. Questa fase di formalizzazione del giudizio è sicuramente la più delicata e rischiosa, ma sarà sicuramente più facile quanto più sarà percepita come naturale corollario di un anno di monitoraggio.

Nei prossimi paragrafi si tratteranno distintamente la fase iniziale e la fase intermedia della misurazione del livello motivazionale.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

L’influenza degli altri soggetti

L’influenza degli altri soggetti

La considerazione delle aspettative e del processo di motivazione interna, pur non potendo descrivere il processo di motivazione nella sua interezza, fornisce comunque utili suggerimenti ed implicazioni che hanno una grande rilevanza per i manager. Innanzitutto è necessario scoprire quali risultati particolari sono apprezzati da ogni lavoratore, creando un collegamento diretto ed esplicito tra i vari livelli di prestazione e i rispettivi risultati in termini di ricompense.

Le aspettative che generano motivazione nei dipendenti, infatti, non sprigioneranno il loro effetto se i soggetti non sperimenteranno un chiaro nesso fra prestazione e risultato. A questo fine sarà opportuno specificare quali comportamenti specifici costituiscono un buon livello di prestazione, così che il soggetto potrà valutare se ne è all’altezza. In secondo luogo bisogna capire se esistono aspettative contrastanti, incoraggiate anche da altre persone e soggetti di influenza, interni o esterni all’organizzazione, la cui incompatibilità non è percepita dal dipendente.

Se altrimenti fosse percepita, egli si orienterebbe in modo più netto verso una specifica scelta che, pur contrastando con altre, avrà la combinazione migliore di probabilità di successo e valore soggettivo. Un’altro aspetto importante che la teoria delle aspettative vuole evidenziare riguarda la progettazione dei compiti, delle mansioni e dei ruoli.

Questa attività va fatta in modo che ogni individuo, proprio perché ha aspettative e desideri diversi, avrà l’opportunità di soddisfare i propri bisogni mentre lavora; per questa ragione la ricompensa non potrà che essere personalizzata, in quanto inequivocabilmente associata a diversi livelli di impegno-prestazione, e sufficientemente alta da far percepire l’effettivo raggiungimento del risultato. È altresì importante sottolineare come in effetti una tale attività di differenziazione compensativa, sia difficile da mettere in pratica senza provocare un senso di ingiustizia o inequità, quando non degenera in favoritismi e nepotismo.

Quest’ultimo aspetto, ma anche la circostanza che la formazione delle aspettative possa essere influenzata da altri soggetti, sono stati pienamente colti da alcuni approcci socio-relazionali che focalizzano l’importanza della Giustizia Organizzativa, dell’Equità e dell’Apprendimento Cooperativo , ciò che completa il sistema dei fattori interagenti nel modello del contratto psicologico. Già la teoria di Bandura , come si è discusso, ha contribuito in modo determinante a dare una visione sistemica dell’azienda, perché, oltre al ruolo del dipendente e del manager nel processo motivazionale, introduce il ruolo indiretto degli altri soggetti e dell’ambiente organizzativo in cui l’individuo è inserito. In altre parole il dipendente può correggere i propri comportamenti non solo in risposta a pressioni esterne esercitate sulla sua persona, ma anche in base a come percepisce i cambiamenti intervenuti in altri soggetti, conseguenti all’azione di fattori esterni su loro interagenti. Non è necessario cioè, sperimentare in prima persona le conseguenze.

È possibile invece tesorizzare l’esperienza di altri e sviluppare a propria volta uno schema di comportamento preventivo, sul modello del comportamento osservato in altre persone,  utilizzabile in situazioni analoghe. La teoria dell’apprendimento sociale coglie quindi un aspetto molto importante del comportamento organizzativo che si rileva frequentemente e che ha un forte impatto nel processo di formazione delle proprie aspettative. È innegabile infatti che i dipendenti modificano il proprio comportamento in funzione delle conseguenze in termini di premi, punizioni e altri accadimenti derivanti dai passati comportamenti dei colleghi, soprattutto quelli aventi una mansione analoga, poichè si sentono indirettamente interessati. Il soggetto potrebbe infatti non essere il destinatario di tali accadimenti solo temporaneamente, perché ad esempio l’organizzazione non ha ancora rilevato gli effetti del suo comportamento.

Se quindi percepisce che un comportamento simile di un collega ha destato riprovazione, o che un comportamento differente ha generato approvazione, modificherà di conseguenza il proprio comportamento e se non lo fa, inevitabilmente si modificheranno le aspettative correlate al proprio comportamento attuale. In base alla teoria di Bandura si può pertanto dividere il processo diapprendimento in due fasi.

    1. Una prima fase in cui il dipendente, attraverso un’osservazione del proprio ambiente organizzativo e dei soggetti di riferimento, confronta le conseguenze del proprio comportamento con quelle del comportamento di altri. Nel caso differiscano, valuta se le conseguenze del comportamento di altri sono in qualche modo associate alle possibili conseguenze future potenzialmente legate al suo comportamento attuale. Se si trova questo nesso ciò avrà intanto come effetto quello di modificare le aspettative del dipendente. Ossia il soggetto si convincerà che il suo comportamento attuale, prima o poi, porterà a conseguenze analoghe già sperimentate da un altro soggetto con la stessa struttura comportamentale, e non alle conseguenze che aveva ipotizzato fino ad ora.
    1. Una seconda fase, eventuale, perché dipende da quanto le conseguenze osservate influiscono nella propria sfera di interessi, nella quale il dipendente può modificare gli atteggiamenti verso l’organizzazione, o mettere in pratica comportamenti in ambito lavorativo finalizzati a ricercare le conseguenze desiderate o evitare quelle indesiderate, così da assecondare l’input fornitogli dalla modificazione delle aspettative.

Le ricerche estensive e gli approcci successivi alla teoria delle aspettative, invece, pur approvandone la fondatezza e la struttura del modello motivazionale, si distanziano fortemente in quanto trascurano in modo netto il problema dei fattori psicologici interni, concentrandosi invece sul ruolo dei fattori esterni come le ricompense, i compiti, le mete e soprattutto l’influenza di altre persone. E anche quando utilizzano come modello base di processo motivazionale quello delle aspettative, riconducono all’influenza dei fattori esterni suindicati la formazione delle aspettative stesse, non riconoscendo al soggetto un contributo attivo nel crearle.

Queste teorie ipotizzano che la motivazione è influenzata dalle percezioni su come si viene trattati al lavoro. Ciò che contribuisce in modo determinante a motivare una persona non risiede nell’ambito delle pulsioni interne, ma è da riferire al contesto delle relazioni interpersonali, a ciò che gli altri fanno e le permettono di fare. La diversità, come si è visto, è un valore, ma lo è anche l’uguaglianza. Per arrivare a trattare ogni persona secondo le sue necessità, bisogna prima rispondere al bisogno di equità che le persone manifestano. Si distingue inoltre fra giustizia distributiva e giustizia procedurale .

La prima si riferisce a quanto le persone ritengono di essere trattati in modo equo in relazione ai risultati del lavoro, al loro impegno e ai loro sforzi.

Si ipotizza quindi che i lavoratori sono motivati a mantenere rapporti equi e a modificarli, se percepiscono di essere trattati iniquamente, in modo da riequilibrare la situazione organizzativa. potrebbero ad esempio abbassare il livello di sforzo, o richiedere un aumento, o se si sente lui il privilegiato, impegnarsi in lavori meno appaganti. O ancora richiedere un maggiore impegno a chi si ritiene essere privilegiato. Infine potrebbe risolvere queste conflittualità, mediante distorsioni psicologiche, tese ad esempio a gonfiare il valore del suo lavoro, o sgonfiare quello del privilegiato.

Il problema della giustizia procedurale si riferisce invece al livello di equità percepito rispetto al management, relativamente alle decisioni che quotidianamente vengono prese, ma che inevitabilmente riguardano anche il lavoratore. In alcuni casi possono, tra l’altro essere ingiuste, non venendo applicate (o venendo disapplicate nei fatti), perché ad esempio porta a conseguenze ritenute sfavorevoli. Questo senso di ingiustizia, può essere fortemente limitato se si da la possibilità far presenti le proprie argomentazioni e giustificare il proprio dissenso, prima che la decisione venga presa. Ma dipende anche da quanto si sia trattati con rispetto, dignità o dal grado di influenza che si può avere nel processo decisionale. È evidente come le percezioni di giustizia organizzativa influenzino il processo motivazionale, e come le reazioni del lavoratore possano essere ben inquadrate all’interno dalla logica di prestazione-controprestazione del contratto psicologico.

Conclusa la trattazione delle varie teorie, si analizzeranno le più importanti pratiche manageriali per gestire la motivazione, fornendo “alcuni strumenti del mestiere”, derivanti dalla precedente riflessione teorica, di utile impiego per il controllo dei processi di motivazione trasversalmente nei vari aspetti della  gestione aziendale. Tali concetti saranno quindi il risultato di una elaborazione in cui si manterrà un costante collegamento con l’orientamento dottrinale che li ha generati, combinata con i metodi recentemente più utilizzati dalla prassi aziendale.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo