Le dimensioni della percezione della mente

Le dimensioni della percezione della mente

 

I primi studi in scienze cognitive analizzavano la percezione della mente tramite una serie di indicatori, che si riconducevano ad una variabile monodimensionale che indicava in quale misura si attribuiscono capacità mentali a persone, animali, oggetti o entità sovrannaturali. Questo concetto è stato superato grazie agli esperimenti di Gray, Gray e Wegner (2007), che dimostrano come la percezione della mente altrui riguarda due dimensioni diverse (Waytz et al., 2010; Gray et al., 2007) chiamate experience, ovvero la capacità di percepire e provare emozioni, e agency, ovvero la capacità di pianificare ed agire. Nel loro studio viene analizzata la struttura della percezione della mente tramite 2399 questionari compilati su una piattaforma web, il Mind Survey Web Site. Il questionario prevedeva l’esistenza di 13 entità diverse, di cui 7 di tipo umano vivente (un feto, un neonato, una bambina, una donna adulta, un uomo adulto, un uomo in stato vegetativo permanente ed il partecipante), tre di tipo animale (una rana, un cane domestico ed uno scimpanzé selvaggio), una donna morta, Dio e un robot socievole chiamato Kismet. Il test consisteva in 78 confronti tra due entità differenti alla volta, in cui si richiedeva di valutare in una scala di risposta a cinque gradi una delle 18 capacità mentali ipotizzate, ad esempio la capacità di provare paura, oppure uno di sei giudizi personali, chiedendo ad esempio quale delle due entità piacesse maggiormente al partecipante. Due di questi giudizi personali erano finalizzati alla valutazione della propensione al perdono e all’aggressione da parte del partecipante verso le diverse entità. Ogni entità figurava in 12 comparazioni diverse. Il campione, composto da 2040 partecipanti, era costituito da rispondenti di diverso genere, età, religiosità, livello di educazione, credo politico, stato civile, situazione familiare; inoltre, vi erano differenze per quanto riguarda il possesso di animali domestici e la convinzione dell’esistenza di una vita ultraterrena dopo la morte. L’analisi delle dimensioni della percezione della mente consisteva nel calcolare, per ogni entità individuata e per ogni test somministrato, i valori medi relativi alle diverse capacità mentali, nella successiva aggregazione dei dati ottenuti e nell’analisi delle componenti principali con la rotazione varimax. L’analisi ha individuato due fattori con autovalori maggiori di uno, che vengono chiamati rispettivamente experience ed agency e riescono a spiegare il 97% della varianza complessiva. L’experience, responsabile dell’ 88% della varianza complessiva, include 11 capacità mentali: avidità, paura, panico, piacere, rabbia, desiderio, personalità, consapevolezza, orgoglio, imbarazzo e gioia. L’agency invece, responsabile dell’8% della varianza, include 7 capacità mentali: autocontrollo, moralità, memoria, riconoscimento delle emozioni, pianificazione, comunicazione e pensiero. E’ da sottolineare come non siano stati rilevati bias di gruppo consistenti, e come sia stato inoltre analizzato il ruolo delle differenze personali dei partecipanti suddividendoli dicotomicamente secondo le nove variabili demografiche (genere, età, ecc.). I risultati dell’analisi sono stati riportati graficamente da Gray et al. (2007) in Figura 3, e gli autori sono giunti a diverse conclusioni di rilievo:

  • Un’entità sovrannaturale come Dio presenta un’agency molto alta, ma un’experience notevolmente bassa.
  • Dall’analisi dei giudizi personali, il meritare una punizione per dei comportamenti sbagliati dipende fondamentalmente dall’agency, mentre il desiderio di evitare un’aggressione verso una delle entità considerate è maggiormente correlato all’experience di quest’ultima.
  • Chi ha una maggior convinzione nella vita dopo la morte attribuisce minor agency alla bambina, allo scimpanzè, al cane, alla donna, all’uomo, al neonato e a se stessi; inoltre attribuisce maggiore experience alla bambina e al neonato.
  • Chi ha un credo religioso più forte percepisce un’agency minore nelle entità terrene (scimpanzè, cane, bambina e donna) e maggiore in Dio.
  • I partecipanti repubblicani, rispetto ai democratici, attribuiscono agency maggiore al feto ed a Dio, e agency minore al robot, alla bambina, allo scimpanzé e alla donna.
  • Nella Figura 3 la diagonale rappresenta la percezione della mente nella concezione tradizionale (monodimensionale), per cui essa aumenta spostandosi dall’angolo in basso a sinistra a quello in alto a destra.
  • Maggiore è la percezione della mente di un’entità e maggiormente si crede che essa abbia un’anima, tendendo di conseguenza a salvarla dalla distruzione e renderla felice.

Figura 3 – Percezione della mente delle diverse entità nelle due dimensioni di agency ed experience (da Gray et al.,2007)

Gli autori infine propongono un parallelismo tra le dimensioni della percezione della mente individuate e la distinzione Aristotelica tra agenti morali (moral agents), ovvero le azioni moralmente giuste o sbagliate, e i pazienti morali (moral patients), ovvero chi può essere oggetto di queste azioni: l’agency viene paragonata agli agenti morali e quindi al senso di responsabilità, mentre l’experience viene paragonata ai pazienti morali e quindi a diritti e privilegi delle diverse entità.

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

Teoria della Mente

Teoria della Mente

 

I concetti di deumanizzazione e infraumanizzazione sono legati alle attribuzioni di mente agli altri. Quasi tutti gli esseri umani hanno la possibilità di superare la propria visione egocentrica e di ragionare sulle capacità mentali altrui, ma spesso non la utilizzano a dovere (Waytz et al., 2010).

Quali categorie di persone, animali e oggetti hanno una propria mente? La risposta a questa domanda è sicuramente legata alla percezione che si ha di queste entità, e non è quindi solamente una loro proprietà intrinseca: spesso le persone riescono simultaneamente a negare le capacità mentali ad altre persone e, addirittura, ad attribuirle ad oggetti ed entità non-umane, come Dio (Waytz et al., 2010). La percezione della mente degli altri è sicuramente una componente cruciale per la comprensione dei processi sociali in generale e più in particolare dei fenomeni di pregiudizio sociale. La ricerca da alcuni anni si dedica allo studio della percezione della mente, provando ad individuarne le cause, le caratteristiche peculiari e le conseguenze. Esistono numerosi studi che evidenziano come il fenomeno della percezione della mente sia di fondamentale importanza sia nelle relazioni interpersonali che in quelle intergruppi. Per quanto riguarda l’attribuzione di una mente a entità non umane, possono essere citati alcuni esempi, come il giudizio della corte suprema di giustizia Americana sul fatto che le corporazioni ne posseggano una e quindi godano del diritto di libertà ed espressione o come il parlamento Spagnolo abbia attribuito agli scimpanzé in cattività abbastanza capacità mentali da garantirgli, anche se in maniera limitata, alcuni diritti umani. Analogamente, l’attribuzione di mente ad altre persone è un elemento controverso che è stato argomento di dibattito sin dai secoli passati (basti citare la lotta alla schiavitù che ha portato alla Guerra civile Americana o le decisioni sul diritto dei Nativi americani di godere di tutela da parte dei colonizzatori).

La teoria della percezione della mente (Waytz et al., 2010) analizza come le persone definiscano la mente stessa, quando riescono a percepirla come propria di altre entità (umane e non umane), quando e come ciò risulti importante nella vita e nelle interazioni sociali (Waytz et al., 2010). La comprensione di come si sviluppi la percezione della mente nelle persone si basa su tre domande fondamentali (Waytz et al., 2010): le persone pensano che entità particolari abbiano una mente? Qual è lo stato mentale degli altri che viene percepito? Quali sono le conseguenze comportamentali della percezione della mente di altre entità? La teoria della mente (o mentalizzazione) si è concentrata da tempo sulla seconda di queste domande; oggi la ricerca si sta focalizzando anche sulla prima e sulla terza domanda.

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

L’efficacia delle amicizie cross group nella riduzione del pregiudizio

L’efficacia delle amicizie cross group nella riduzione del pregiudizio

Riepiloghiamo ora vantaggi e limiti di queste due forme di amicizia cross- group, analizzando se queste possono essere usate in forma combinata per aumentarne gli effetti positivi sul pregiudizio. L’amicizia cross- group diretta ha sicuramente tre vantaggi rispetto a quella estesa: essa è infatti associata ad una varietà di conseguenze più ampia sulle relazioni intergruppi, ad un cambiamento negli atteggiamenti verso l’outgroup che risulta più forte e persistente, ed è infine meno probabile che l’atteggiamento verso l’outgroup sia influenzato da esperienze vicarie. Nello specifico, se si hanno amici dell’outgroup o si vive in contesti “integrati” dove c’è una possibilità concreta di sviluppare amicizie dirette, eventuali esperienze vicarie hanno una minore influenza sull’atteggiamento verso l’outgroup, poiché l’informazione del contatto diretto è percepita come più accurata nel formare le impressioni. Sfortunatamente, l’amicizia cross group diretta ha una limitazione fondamentale: essa presuppone che i membri dei gruppi abbiano l’opportunità di avere contatti positivi e amichevoli. Quindi, se non si vive nello stesso quartiere, non si va alla stessa scuola o nello stesso luogo di lavoro è difficile che si possano sviluppare queste amicizie. Questi tipi di contesti sono tuttora molto diffusi, ad esempio, cattolici e protestanti nord Irlandesi vivono un’altissima segregazione residenziale, scolastica e lavorativa, che li porta ad evitare i contatti intergruppi anche in assenza di conflitti manifesti (Turner et al., 2007).

Per quanto riguarda i vantaggi dell’amicizia cross-group di tipo esteso, innanzitutto essa è indipendente dall’opportunità del contatto ed è quindi molto utile in contesti dove vi è un’alta segregazione, risultando in questi contesti più efficace sugli atteggiamenti di quanto lo sia in contesti integrati. Come evidenziato da Paolini et al. (2007), mentre l’opportunità di contatto è associata ad un numero maggiore di amicizie cross-group dirette, essa non è invece collegata alle esperienze di amicizie cross-group estese. Ciò suggerisce che anche membri di comunità etnicamente omogenee o segregate possono avere, tramite contatto intergruppi di tipo vicario, miglioramenti nell’atteggiamento verso diversi outgroup. Inoltre, essa può essere applicata su larga scala, in quanto una singola amicizia tra un membro dell’ingroup ed uno dell’outgroup può influenzare gli atteggiamenti di molti altri individui dell’ingroup (Wright et al., 1997). Infine, non essendo necessario un contatto intergruppi diretto che coinvolga l’individuo, è molto più facile poterla applicare come strategia di riduzione del pregiudizio. È stato dimostrato (Cameron et al., 2006) che in alcuni casi basta raccontare delle storie su amicizie intergruppi (contatto immaginario) per raggiungere dei risultati; questo tipo di contatto risulta meno costoso e di rapida applicazione.

Il fatto che entrambe le amicizie cross-group abbiano vantaggi e svantaggi evidenzia la loro natura complementare: combinandole insieme si può ridurre il pregiudizio nella maggioranza dei contesti intergruppi. Nello specifico, l’amicizia cross group diretta va incoraggiata in contesti intergruppi di tipo misto, ovvero dove esistono opportunità concrete di contatto, mentre quella di tipo estesa dovrebbe essere utilizzata in contesti segregati. Inoltre, invece di utilizzarle separatamente in contesti differenti, per ottenere un’efficacia maggiore esse possono essere utilizzate in combinazione, come ci mostra lo studio di Paolini et al. (2007). In questo studio, l’amicizia cross group estesa può essere utilizzata per preparare le persone a future amicizie cross group di tipo diretto. Infatti non è facile stabilire amicizie cross-group dirette neanche in contesti integrati, in quanto vi è comunque la tendenza a formare amicizie con persone simili in termini di età, genere e razza. Inoltre, quando due gruppi hanno poche esperienze di contatto, l’ansia intergruppi può avere notevole rilevanza sia su come si realizzi il contatto sia sul modo in cui viene vissuto. L’amicizia cross group estesa, che consiste nell’osservare un comportamento positivo di un proprio simile, riduce paure ed inibizioni aumentando l’autoefficacia nell’intraprendere gli stessi comportamenti. In conclusione, l’amicizia cross group estesa può aumentare la probabilità che l’amicizia cross group diretta si sviluppi spontaneamente. Infine, l’amicizia cross group estesa, può anche portare ad un miglioramento negli atteggiamenti intergruppi ancor prima che il contatto diretto avvenga: se gli atteggiamenti sono già in qualche modo positivi, l’interazione può risultare più semplice, aver maggior successo e condurre ad un ulteriore miglioramento negli atteggiamenti verso l’altro gruppo (un po’ come avviene nella desensibilizzazione sistematica delle fobie).

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

I mediatori dell’amicizia cross-group estesa

I mediatori dell’amicizia cross-group estesa

 

Wright et al. (1997), propongono quattro meccanismi mediante cui l’amicizia cross-group estesa può ridurre il pregiudizio migliorando l’atteggiamento verso l’outgroup: la riduzione dell’ansia intergruppi, le norme dell’ingroup, le norme dell’outgroup e l’inclusione dell’outgroup nel sé.

La riduzione dell’ansia intergruppi

Come per le amicizie di tipo diretto, anche osservando una relazione positiva tra i membri dell’ingroup e dell’outgroup si possono ridurre le aspettative negative circa le interazioni future con questi. Inoltre, rispetto all’amicizia crossgroup diretta, l’amicizia cross-group estesa non porta ad interazioni concrete, per cui i partecipanti non risentono dell’ansia iniziale legata all’incontro con l’altro gruppo.

Le norme dell’ingroup

In questo caso, la riduzione del pregiudizio è collegata alla percezione di norme dell’ingroup positive verso l’outgroup, in quanto coinvolge l’osservazione di comportamenti positivi di un membro dell’ingroup che interagisce con un membro dell’outgroup.  Whight et al. (1997) notano inoltre come l’appartenenza al rispettivo gruppo è più saliente per chi osserva il contatto rispetto a chi è direttamente coinvolto nell’interazione, e ciò porta alla categorizzazione di sè come un membro intercambiabile del gruppo, altamente influenzato dai suoi principi e atteggiamenti (Spears, Doosje & Ellemers, 1999). In queste circostanze, gli altri membri del gruppo sono visti come una fonte importante di informazioni riguardanti le opinioni condivise dal gruppo. In conclusione, osservare un membro dell’ingroup comportarsi positivamente verso l’outgroup porta alla percezione che vi siano dei principi generalmente positivi dell’intero ingroup verso l’outgroup.

Le norme dell’outgroup 

In maniera analoga, l’amicizia cross-group estesa sviluppa la percezione che anche l’outgroup abbia delle norme positive riguardo alle interazioni con l’ingroup. Infatti, vedere un membro dell’outgroup comportarsi in maniera amichevole verso l’ingroup genera l’informazione che l’outgroup è interessato a relazioni intergruppi positive. Come si è detto, inoltre, l’appartenenza al gruppo è particolarmente saliente nell’amicizia cross-group estesa, e ciò incrementa la probabilità che la persona coinvolta venga vista come rappresentativa dell’intero gruppo e che le sue azioni e i suoi atteggiamenti riflettano i principi generali dell’outgroup (Brown & Hewstone, 2005). In accordo al principio di reciprocità, vi è la tendenza a farsi piacere le persone a cui si percepisce di piacere e, quindi, se la persona vede un membro dell’outgroup interessato ad una relazione positiva con lei è probabile che si reagisca in maniera analoga.

L’inclusione dell’outgroup in se stessi (IOS)

Da diversi studi è emerso che, quando avviene la categorizzazione di sé come membro di un gruppo l’ingroup viene incluso in se stessi, ovvero si crede che le caratteristiche dell’ingroup rappresentino anche le proprie (Tropp & Wright, 2001). Inoltre, vi è la tendenza a raggruppare le persone che si percepisce essere amici trattandoli come una singola unità cognitiva. Quando avvengono contemporaneamente questi due fenomeni, il membro dell’outgroup è percepito sovrapposto cognitivamente al membro dell’ingroup, diventando dunque parte anche di se stessi. Infine, per lo stesso processo è probabile che il membro dell’outgroup includa il proprio gruppo in se stesso, e quindi per l’osservatore cresce anche la misura in cui l’outgroup viene incluso in se stessi (Turner et. al., 2007). In definitiva, tramite una amicizia cross-group estesa è maggiormente probabile che l’outgroup venga trattato come se stessi (e quindi positivamente) condividendo risorse, sentendosi orgogliosi dei successi dell’altro e triste per i suoi insuccessi (Aron, Aron, Tudor & Nelson, 1991).

Tutti e quattro i meccanismi sono stati testati simultaneamente mediante due studi (Turner et al., 2007): il primo su 142 studenti bianchi delle scuole medie, il secondo su 120 studenti bianchi delle scuole superiori. In entrambi, sono stati esaminate le amicizie cross-group estese e gli atteggiamenti verso individui del sud-est asiatico. Sono stati misurati tramite diversi item l’ansia intergruppi (chiedendo ad esempio quanto si sentissero a proprio agio durante l’interazione con i membri dell’outgroup),le norme dell’ingroup (chiedendo ad esempio ai partecipanti quanto essi pensino che siano amichevoli i loro compagni bianchi con l’outgroup), le norme dell’outgroup (chiedendo ad esempio quanto pensano che ai membri dell’outgroup piacciano gli individui bianchi) e l’inclusione dell’outgroup in se stessi. Quest’ultima è stata misurato mediante la scala di inclusione (IOS) proposta da Aron et al. (1991), che utilizza una serie di coppie di cerchi che si sovrappongono in maniera crescente tra di loro. In questa scala, il primo cerchio rappresenta se stessi ed il secondo rappresenta i membri dell’outgroup: più i cerchi si sovrappongono e maggiore è l’inclusione dell’outgroup nel sé. In questi studi si è ipotizzato che alti livelli di vicinanza con l’amico dell’outgroup più stretto predicano atteggiamenti maggiormente positivi verso l’intero outgroup; inoltre, si è analizzato se i quattro processi medino la relazione tra amicizie cross-group estese e atteggiamento verso l’outgroup, e se ognuno di questi fattori abbia un ruolo di mediatore indipendente quando vengono controllate le altre tre variabili. Dai risultati è emerso che le amicizie cross-group di tipo esteso sono associate ad una minore ansia intergruppi, alla percezione di norme più positive sia riguardo all’ingroup che riguardo all’outgroup e ad una maggior inclusione dell’outgroup nel sé. A sua volta, questi quattro fattori sono associati ad un atteggiamento maggiormente positivo verso l’outgroup. Anche se non si può stabilire con certezza la direzione causale, gli autori presumono che siano le amicizie estese a ridurre il pregiudizio piuttosto che il contrario. Infine, viene evidenziato il ruolo di altri processi nella relazione tra contatto esteso e pregiudizio e viene sottolineato come, mentre l’amicizia cross-group diretta è fortemente legata all’opportunità di contatto tra i due gruppi, l’amicizia estesa non lo è. Riguardo agli altri processi di mediazione in relazione al contatto esteso, ne vengono esaminati in particolare due (Tam, Hewstone, Kenworthy & Cairns, 2009): la fiducia intergruppi e la rivelazione di sé all’altro. In questa ricerca, si evidenzia come sia il contatto a predire la fiducia piuttosto che il viceversa; inoltre, secondo quanto descritto in precedenza e in accordo con la teoria dell’apprendimento sociale, anche la rivelazione di sé all’altro media la relazione tra amicizia cross-group estea e atteggiamento verso l’outgroup.

Riguardo i fattori mediatori nelle amicizie cross-group, sono da citare due lavori condotti in contesti italiani considerando diversi rapporti intergruppi: quello tra eterosessuali e omosessuali (Capozza, Falvo, Trifiletti & Pagani, 2014) è quello tra italiani Settentrionali e italiani Meridionali (Capozza, Falvo, Favara & Trifiletti, 2013).

Nello studio di Capozza et al. (2014) si è testato se le amicizie cross-group dirette ed estese siano collegate ad una riduzione dell’infraumanizzazione e ad una umanizzazione dell’outgroup. Gli autori evidenziano come nello studio di questo fenomeno si considerino generalmente come proprietà unicamente umane le emozioni secondarie (cognitivamente complesse) e tratti umani come razionalità e consapevolezza. Si sono ipotizzati tre processi di mediazione primaria (IOS, norme di ingroup e outgroup) e tre mediatori secondari (ansia intergruppi, fiducia ed empatia verso l’outgroup). Essi sottolineano come l’inclusione dell’outgroup nel sé, nel caso di amicizia cross-group estesa, prenda la forma di un’inclusione transitiva: da un’iniziale sovrapposizione tra sé e il membro dell’ingroup, a una successiva sovrapposizione tra questi ed il suo partner nel contatto, e infine a un’incorporazione finale di quest’ultimo con l’intero outgroup. L’ipotesi è che l’IOS riduca l’infraumanizzazione dell’outgroup sia direttamente sia attraverso i mediatori secondari. Anche le norme dell’outgroup possono essere efficaci nella misura in cui i membri dell’outgroup sono percepiti come prototipici; gli effetti di tali norme dovrebbero essere mediati, nella relazione con l’infraumanizzazione, da empatia, fiducia e ansia intergruppi. Le norme dell’ingroup, nelle amicizie dirette, agiscono tramite il processo di “selfanchoring”, mentre in quelle vicarie possono portare alla conclusione che l’ingroup abbia delle norme favorevoli verso l’outgroup.

I partecipanti erano studenti universitari eterosessuali. Sono state misurate tramite diversi item: l’amicizia cross-group diretta ed estesa; i mediatori di primo livello (per l’IOS è stato utilizzato l’item grafico della scala d’inclusione dell’altro nel sé di Aron, Aron & Smollan,1992); i mediatori di secondo livello; le attribuzioni di umanità tramite quattro tratti unicamente umani (es. moralità) e quattro non unicamente umani (comune anche agli animali, es. istinto) in modo da analizzare diverse componenti del concetto di umanità. Le misure sull’umanità sono state sintetizzate in due indici, uno di infraumanizzazione (differenza tra ingroup e outgroup sui tratti unicamente umani) ed un altro di umanizzazione

(attribuzione di tratti unicamente umani all’outgroup). I dati hanno mostrano che avviene infraumanizzazione ma non deumanizzazione (ovvero i due gruppi risultano differenti solo per quanto riguarda i tratti unicamente umani). Solo il contatto esteso è associato ad una riduzione dell’infraumanizzazione attraverso la mediazione dell’IOS, il quale assieme alle norme dell’outgroup, costituisce un mediatore anche per l’umanizzazione dell’outgroup. I risultati mostrano quindi che il contatto esteso può essere collegato a minor infraumanizzazione tramite l’IOS, che riduce la distanza tra i due gruppi riguardo all’umanità percepita. Se si considera l’umanizazione, l’IOS, legata al contatto esteso, agisce tramite la riduzione dell’ansia, facendo percepire un minor bisogno di atteggiamenti aggressivi o difensivi verso l’outgroup. Per quanto riguarda l’amicizia cross-group diretta, essa è collegata solamente ad un incremento dell’empatia verso l’outgroup; si suppone che ciò sia dovuto al contesto dell’analisi (eterosessuali/omosessuali), in cui l’IOS è di difficile realizzazione nel contatto diretto.

Nel secondo studio (Capozza et al., 2013) viene analizzato l’effetto dell’amicizia cross-group, sia diretta che estesa, sull’umanizzazione dell’outgroup, considerando gli stessi mediatori di primo livello (norme ingroup, norme outgroup, IOS) e di secondo livello (ansia, empatia e fiducia) in un contesto notevolmente diverso, ovvero quello tra italiani Settentrionali e  Meridionali; vengono inoltre testati alcuni modelli alternativi. Capozza et. al. (2013) evidenziano che oltre ad attribuire più emozioni secondarie all’ingroup rispetto all’outgroup, può anche avvenire deumanizzazione di tipo animalistico o meccanicistico, assimilando l’outgroup ad animali o oggetti inanimati. Ansia, fiducia ed empatia dovrebbero essere mediatori emozionali secondari tra le amicizie (sia dirette che estese) ed un aumento dell’umanizzazione dell’outgroup.

Gli autori considerano l’ansia un mediatore secondario proprio perché di tipo emozionale, e quindi un antecedente più diretto di atteggiamenti, percezioni e comportamenti. I partecipanti erano, anche in questo caso, studenti universitari settentrionali, con genitori settentrionali, nati e residenti nel Nord Italia. Si sono usate le stesse misure dello studio precedente, con la differenza che l’IOS è stato rilevato anche attraverso un item costituito da una domanda sull’inclusione nella propria identità di quella meridionale. I risultati mostrano che l’IOS è generalmente moderato, e che mentre vengono attribuiti più tratti unicamente umani all’ingroup, quelli non unicamente umani vengono attribuiti in misura maggiore all’outgroup. Le analisi hanno mostrato che l’amicizia diretta predice l’IOS, che a sua volta predice l’umanizzazione tramite la mediazione di tutte e tre le emozioni ipotizzate. Invece, per l’amicizia estesa, i mediatori di primo livello sono solamente le norme dell’ingroup. Vengono inoltre testati due modelli alternativi: nel primo vengono invertiti i mediatori di primo e di secondo livello, mentre nel secondo si testa il modello originale di Wright et al. (1997) in cui la relazione tra contatto esteso e umanizzazione è mediata da ansia, IOS, norme ingroup e norme outgrop. Entrambi questi modelli, comunque, forniscono dei risultati peggiori. Gli autori concludono che l’amicizia cross-group diretta ed estesa è collegata ad una maggiore attribuzione di tratti unicamente umani all’outgroup e quindi ad una maggiore umanizzazione. Inoltre, solo l’IOS è un mediatore di primo livello significativo nel contatto diretto e solo le norme ingroup lo sono nel contatto esteso (gli autori ipotizzano che il membro dell’outgroup abbia un ruolo periferico e quindi venga limitato l’IOS). L’effetto trascurabile del contatto esteso sulle norme ingroup potrebbe dipendere dal contesto analizzato in cui i settentrionali sono consapevoli della loro presunta superiorità socioeconomica e si curano poco dell’atteggiamento dei Meridionali verso di loro. Viene confermato il ruolo dell’ansia come mediatore di secondo livello, che agisce tramite un incremento dell’IOS nel caso di amicizie dirette e mediante la percezione di norme ingroup favorevoli nelle esperienze vicarie. In particolare, ciò dimostra che in questa relazione i fattori cognitivi e quelli affettivi operano seguendo un ordine sequenziale. Infine, gli autori suggeriscono che in altri contesti intergruppi (con outgroup etnici, religiosi, razziali o stigmatizzati) i mediatori possano agire in maniera differente. In particolare, per gruppi stigmatizzati come obesi e disabili, l’IOS può essere un mediatore nel contatto esteso, ma non in quello diretto, come dimostrato nello studio precedente sulla relazione con gli omosessuali.

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

Amicizia cross-group diretta ed estesa

Amicizia cross-group diretta ed estesa

 

Vengono ora analizzate due particolari forme di contatto che mostrano effetti notevoli nella riduzione del pregiudizio: l’amicizia cross-group diretta, che si sviluppa tramite contatto diretto tra i membri dei due gruppi antagonisti, e l’amicizia cross- group estesa, esperienza vicaria che consiste invece nella sola conoscenza che un altro membro dell’ingroup ha un’amicizia con un membro dell’outgroup. Pettrigrew (1997) riformula l’ipotesi del contatto di Allport (1954), affermando che la ricerca sul contatto intergruppi doveva focalizzarsi, piuttosto che su contatti di breve durata, sull’efficacia delle relazioni strette a lungo termine nella riduzione del pregiudizio (Turner, Hewstone, Voci, Paolini & Christ, 2007).

L’autore aggiunge alle quattro condizioni di Allport una quinta condizione, ovvero che la situazione di contatto fornisca l’opportunità di un’amicizia tra i membri dei due gruppi. Questa condizione si basa sull’assunzione che l’amicizia può risultare particolarmente efficace per due motivi: i fattori associati al contatto intergruppi ottimale sono simili a quelli che favoriscono la nascita di un’amicizia interpersonale, e l’attrazione interpersonale è favorita da cooperazione, un fine comune, l’interdipendenza e uno status uguale. Di conseguenza, in un contesto intergruppi, l’amicizia può portare all’attrazione intergruppi. In secondo luogo, un contatto di alta qualità come l’amicizia, piacevole e confortevole, è associato ad una maggiore positività negli atteggiamenti verso l’outgroup (Voci & Hewstone, 2003). L’amicizia (Pettigrew & Tropp, 2006) risulta essere la condizione più forte, poiché nessuna delle quattro condizioni stabilite da Allport risultano essere essenziali (sono invece facilitanti) e poiché la sensazione di vicinanza interpersonale, che è la determinante primaria per un contatto cross-group efficace, è più probabile sotto le condizioni che determinano il sussistere dell’amicizia stessa. In realtà, erano già presenti nell’ipotesi del contatto di Allport (1954) e Amir (1969) alcuni riferimenti impliciti all’amicizia cross-group: gli autori avevano notato come contatti più intimi avessero un miglior impatto sul pregiudizio rispetto a quelli casuali e superficiali.

Ma perché l’amicizia è così efficace? Essa è un elemento molto importante nella vita sociale umana in quanto attiva funzioni personali e sociali critiche, e perciò quasi tutti sono motivati ad iniziare e far crescere questo tipo di relazioni.

In confronto alla semplice conoscenza, l’amicizia include una maggior percezione di coesione tra i partner, comportando maggiore apertura, fiducia, condivisione di segreti, promesse, commenti positivi, supporto e reciprocità (Davies, Wright, Aron & Comeau, 2013). Già Duck, nel 1983, aveva sottolineato diversi benefici dell’amicizia: il senso di appartenenza, l’integrità e la stabilità emotiva, l’opportunità di parlare di se stessi, l’assistenza e il supporto, la sicurezza di crescere, l’opportunità di aiutare e sentirsi utili ed il supporto alla personalità: l’amicizia infatti, ha un effetto potente sullo sviluppo di un senso di sé pieno, coerente e soddisfacente e ci permette di testare gli elementi della nostra identità, proprio perché gli amici sono a proprio agio nell’essere onesti a vicenda rispondendo ai nostri sforzi auto-presentativi e dandoci informazioni utili su chi siamo. Inoltre, essa ci aiuta a raggiungere i nostri obiettivi e a seguire le aspirazioni personali, per cui si tenderebbe a diventare amici di persone che possano aiutarci a diventare la persona che vorremmo essere. Essa ci dà quindi l’opportunità di crescere come individui e di avere vite più piene e soddisfacenti. Tutto ciò suggerisce che, quando l’amicizia si forma superando i confini di gruppo, essa risulta particolarmente efficace nell’alterare la comprensione individuale del proprio mondo sociale e personale; alcune ricerche recenti evidenziano come l’amicizia sia particolarmente efficace nel cambiare positivamente l’atteggiamento intergruppi.

Pettrigrew (1997) analizzò 3.800 partecipanti di gruppi maggioritari (provenienti da Francia, Inghilterra, Germania Ovest, Olanda), i quali riportavano il loro atteggiamento verso gruppi minoritari della propria nazione, e l’esistenza o meno di amicizie con individui di altre nazionalità, razze, culture, religioni o classi sociale. In tutti i casi, i partecipanti che avevano delle amicizie con membri dell’outgroup mostravano punteggi più bassi su cinque diverse misure di pregiudizio. L’effetto più rilevante delle amicizie con l’outgroup era sul pregiudizio affettivo (che misura quanto spesso si prova simpatia e ammirazione per l’outgroup), mentre i contatti di vicinanza o tra colleghi mostravano invece un impatto relativamente basso sul pregiudizio. Questo studio dimostra che vi è un legame tra amicizie intergruppi e riduzione del pregiudizio, anche se trattandosi di uno studio correlazionale non è chiaro se sia l’amicizia a ridurre il pregiudizio o il viceversa. Alcune analisi successive hanno però dimostrato che la relazione causale da amicizia cross-group a riduzione del pregiudizio è più forte rispetto alla relazione inversa. Pettigrew (1997) osservò, inoltre, che gli effetti dell’amicizia cross-group potevano essere generalizzati anche verso gruppi non coinvolti direttamente nel contatto (Van Laar, Levin, Sinclair & Sidanius, 2005).

Come evidenziato da Wright et al. (1997) nella loro ipotesi del contatto esteso, i benefici dell’amicizia cross-group possono essere estesi anche ad esperienze vicarie, ovvero alla conoscenza che un membro dell’ingroup ha degli amici appartenenti all’outgroup. Infatti, se questi ultimi vengono giudicati come amichevoli e favorevoli a rapporti con l’ingroup, le interazioni intergruppi possono essere maggiormente positive; inoltre, vedere un membro dell’ingroup mostrare tolleranza verso l’outgroup può influenzare gli atteggiamenti degli altri membri dell’ingroup verso l’outgroup, rendendoli più favorevoli. Sebbene la ricerca suggerisca che è necessario conoscere un membro dell’ingroup che ha un amico nell’outgroup, gli effetti positivi vanno oltre l’amicizia cross-group estesa, estendendosi ad altre forme di esperienze vicarie come, ad esempio, la conoscenza di membri dell’ingroup che hanno colleghi o conoscenti nell’outgroup, oppure l’esistenza di amicizie con membri non appartenenti all’ingroup che a loro volta hanno degli amici nell’outgroup di interesse. Quest’affermazione èconfermata dallo studio di Turner, Crisp e Lambert (2007), che mostra come anche il solo immaginare di avere un contatto amichevole con un membro dell’outgroup sia sufficiente a ridurre il pregiudizio (Crisp & Turner, 2012).

Alla base dell’ipotesi dell’amicizia cross-group estesa vi è un parallelismo con due teorie psicologiche molto diffuse. La prima è la teoria dell’apprendimento sociale (Bandura, 1977), secondo cui il comportamento umano è appreso prevalentemente mediante l’osservazione dei comportamenti altrui: l’amicizia cross-group estesa è infatti una forma di apprendimento per osservazione dove, osservando comportamenti appropriati verso un membro dell’outgroup, si pongono le basi per una successiva amicizia cross-group diretta. La seconda teoria a cui si fa riferimento nell’ipotesi dell’amiciza cross-group estesa è la teoria dell’equilibrio di Heider (1959), dove le varie relazioni tra entità diverse devono combinarsi armoniosamente in modo da trovare un equilibrio ben bilanciato. Lo squilibrio infatti produce tensioni negative e porta ad azioni per tentare di ristabilire l’equilibrio. Nel caso dell’amicizia cross-group estesa, lo stato sbilanciato sussiste se un individuo che ha una relazione positiva con l’ingroup e negativa con l’outgroup osserva un altro membro dell’ingroup avere un’amicizia stretta con un membro dell’outgroup (Figura 2). Così c’è una relazione positiva tra l’osservatore ed il membro dell’ingroup, un’altra relazione positiva tra il membro dell’ingroup e il membro dell’outgroup, ma una relazione negativa tra l’osservatore e l’outgroup generando, quindi, uno squilibrio. In accordo con Heider, tra le varie strategie per ristabilire l’equilibrio, è inclusa la rivalutazione da parte dell’osservatore del proprio atteggiamento verso i membri dell’outgroup. Sviluppando un atteggiamento positivo verso l’outgroup si ripristina, infatti, l’equilibrio naturale, e tutte e tre le relazioni diventano positive.

Figura 2 – Applicazione della teoria dell’equilibrio di Heider all’amicizia crossgroup estesa (da Turner et al., 2007)

Grazie a queste due teorie è possibile dunque comprendere gli aspetti psicologici specifici e l’efficacia potenziale dell’amicizia cross-group estesa nella riduzione del pregiudizio.

 

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

Neuropolitica: il cervello contro ogni forma di democrazia

Neuropolitica: il cervello contro ogni forma di democrazia.

 

“W la Democrazia!” è uno slogan che il nostro cervello non appoggerebbe mai. Credetemi.

Anzi, non credete a me, ma nell’evoluzione della specie.

Data questa stranissima introduzione, a qualcuno verrà spontaneo chiedersi “Ma cosa diavolo c’entra l’evoluzione umana con la democrazia politica!?”. QUI viene il bello.

Verso gli anni ottanta, il neuroscienziato statunitense Paul D. MacLean, sulla base di accurati studi sperimentali, elaborò il modello del “Cervello Trino” (the Triune Brain), uno dei più grandi contributi alla comprensione della struttura e dell’evoluzione del nostro sistema nervoso. MacLean sostiene che il nostro cervello sia costituito da tre specifiche sezioni, una più antica dell’altra: il cervello rettiliano, la più remota, ebbe origine fra i 500 e i 150 milioni di anni fa ed è sede degli istinti innati dell’essere umano; il sistema limbico è la regione intermedia, in cui risiedono le nostre emozioni biologiche; il neo-cortex è la parte che si è evoluta più recentemente, ed è sede della nostra razionalità. Si suppone che l’evoluzione del cervello rettiliano sia stata la prima; pertanto, essa avrà senza dubbio avuto una forte influenza sullosviluppo delle altre regioni. Se ci pensiamo, è come dire che gli istinti hanno sempre condizionato il nostro sviluppo, sin dalle nostre origini. E’ sorprendente tuttavia come questa teoria sia stata pienamente confermata a distanza di circa trent’anni. In base agli studi di David Moscrop, ricercatore dell’University of British Columbia, il cervello non è fatto per essere democratico. Egli afferma:

”Siamo spinti all’azione dai nostri cosiddetti cervelli primordiali”.

La moderna democrazia prevede che i cittadini agiscano in base alla propria razionalità, mentre il voto elettorale si basa esclusivamente sull’istinto. E’ evidente il conclamato paradosso; l’istinto è chiamato a decidere per una democrazia della ragione. Eppure è da anni che gli scienziati sostengono che circa il 95% della nostra attività cerebrale sia inconscia. Non pensate assolutamente che facciamo quel che facciamo perchè vogliamo davvero fare quel che stiamo facendo o vogliamo fare. Tanya Chartrand, docente di psicologia alla Duke University, è assolutamente convinta di questo:

”E’ errato pensare che abbiamo il pieno controllo di quel che facciamo. Non abbiamo le risorse mentali per elaborare tutto ciò che è nel nostro ambiente in modo consapevole, riusciamo a prestare attenzione solo a una piccola percentuale del contesto in cui ci troviamo. Gli stimoli però raggiungono il nostro cervello e, anche se in maniera inconsapevole, riusciamo ad elaborarne molto più di quanti non crediamo. Questa elaborazione non cosciente di fatto influenza le decisioni che prendiamo”

Ogni candidato che si rispetti sa che le preferenze politiche dei cittadini sono già ben che formate. Per questo motivo, l’obiettivo delle moderne propagande politiche non è quello di convincere le persone in una libera condivisione di opinioni, ma piuttosto stimolare gli istinti umani ripetendo e rafforzando gli stereotipi ideologici già esistenti. Il filosofo Joseph Heath accusa le pubblicità elettorali in quanto tentano in tutti i modi di agitare le reazioni viscerali tramite la stimolazione visiva. Se si colpiscono i sensi, la razionalità viene accecata e tolta di mezzo. Heath afferma che si ha l’erronea tendenza di concepire la razionalità come qualcosa situato nelle profondità del cervello. In realtà, come già previsto da MacLean, la ragione risiede nella superficie cerebrale, quella “più giovane”, mentre in fondo al cervello c’è l’istinto. Tutto torna!

Insomma, l’indole primordiale ha condizionato ogni nostra forma di consapevolezza. Questo è stato deciso dalla nostra evoluzione, non possiamo farci niente. Ciò consente di capire quanto l’inconscio possa essere molto più di una favola o una leggenda: esiste e manipola quello che noi chiamiamo coscienza. L’epoca moderna (finge di) non conosce(re) gli aspetti della nostra mente e ogni versante della società viene plasmato a prescindere dalla nostra natura. Lo stesso discorso può essere applicato alla politica come all’economia o alla religione.

 

©  Porfiri Gian Luca

 

 

Deumanizzazione: Strategie di riduzione

Deumanizzazione: Strategie di riduzione

Haslam e Loughnan (2014) evidenziano come combattere la deumanizzazione può non essere semplice, poiché molte delle sue manifestazioni sono legate a stereotipi e conflitti intergruppi di lunga data, possono essere inconscie e automatiche, e sono spesso rafforzate da motivazioni e bias difficili da sradicare,  come a proteggere l’identità dell’ingroup; spesso infine, sono rivolte verso “bersagli mobili”, in quanto la tendenza a giudicare umana qualsiasi caratteristica che distingua il proprio ingroup può portare alla deumanizzazione di tutti gli altri outgroup.

Nonostante queste difficoltà, vengono individuate due diverse strategie di riduzione della deumanizzazione: l’umanizzazione dei target sociali e la categorizzazione sovraordinata. Riguardo alla prima, viene sottolineata l’efficacia potenziale del contatto intergruppi: un contatto di alta qualità è stato associato a minori percezioni di deumanizzazione di minoranze nord Irlandesi (Tam et al., 2007), maniaci sessuali in un centro di riabilitazione (Viki, Fullerton, Raggett, Tait & Wiltshire, 2012) e immigrati ed Italiani Meridionali (Capozza, Trifiletti, Vezzali & Favara, 2013). Anche il contatto immaginario riduce la deumanizzazione in bambini italiani verso gli immigrati (Vezzali et al., 2012). La seconda strategia è quella di promuovere un’identità comune o sovraordinata, enfatizzando le similitudini e la presenza di un destino comune tra i gruppi e tralasciando i confini che li separano. In uno studio (Capozza et al., 2012) si mostra come l’effetto umanizzante del contatto è parzialmente mediato, facendo condividere ad Italiani e immigrati una singola identità di cittadini, e ad Italiani Settentrionali e Meridionali, una comune identità nazionale. Haslam e Loughnan (2014) suggeriscono però di utilizzare con cautela questa strategia, perché rendere saliente l’identità umana comune nei contesti intergruppi potrebbe, in alcuni casi, deviare la responsabilità collettiva o ridurre l’empatia verso i gruppi-vittima. Inoltre, rendere la categoria umana saliente potrebbe essere controproducente se questa viene etichettata in senso negativo, poiché ciò aumenterebbe il supporto a torture ed uso della forza riducendo simultaneamente i sensi di colpa. Infine Haslam e Loughnan (2014) individuano altri due metodi con potenziale efficacia nel ridurre la deumanizzazione: quello di enfatizzare le somiglianze tra esseri umani e animali, e la categorizzazione multipla in cui si forniscono informazioni più dettagliate riguardo alle differenze individuali all’interno dello stesso outgroup.

Nel caso dell’infraumanizzazione Leyens et al. (2007) effettuano una trattazione più completa delle strategie di riduzione, descrivendone quattro: contrasto delle tendenze essensialiste, affievolimento dei confini tra ingroup e outgroup, rafforzamento dei simboli comuni e contatti deprovincializzati. Riguardo all’essenzialismo, essi sostengono che le persone, sebbene in genere siano in difficoltà nello specificare l’essenza del proprio gruppo o siano addirittura inconsapevoli delle loro convinzioni sull’essenza dell’ingroup, spesso pensano e agiscono come se le differenze tra i gruppi costituissero dei muri invalicabili che prevengono la loro mescolanza. In base a questa affermazione, si suggerisce di enfatizzare in alcuni casi l’importanza della cultura e, in altri, di focalizzarsi invece sulla natura umana, nella descrizione dei diversi gruppi: questo contrasterebbe l’essenzialismo, porterebbe ad una riduzione degli effetti dell’infraumanizzazione e, nel lungo termine, potrebbe condurre a risultati ancora più ambiziosi come la fine delle giustificazioni per il razzismo. In accordo con quanto detto sulla deumanizzazione, si evidenzia inoltre come invece di enfatizzare le differenze e le dissimilarità tra gruppi si dovrebbe insistere sulla complementarietà e sull’universalismo, enfatizzando la comprensione, l’accettazione e l’interesse per il benessere di tutti gli esseri umani anche quelli con un modo di vivere diverso dal nostro. Per superare i confini intergruppi e ridurre i conflitti, può risultare importante anche promuovere un’identità trascendente comune, come evidenziato da Kelman (1999) nel conflitto tra Israeliani e Palestinesi: secondo l’autore, per riuscire a raggiungere la pace, questa identità trascendente non deve rimpiazzare l’identità tipica di ogni gruppo, ma si deve sviluppare parallelamente. Il mantenere la propria identità è importante per il bisogno della distintività psicologica postulata dalla teoria dell’identità sociale e dal modello della distintività ottimale. Anche Gaunt (2009) esamina la prospettiva di ricategategorizzazione partendo dal modello dell’identità comune dell’ingroup, che rende l’essenza dei gruppi quasi insignificante: egli sottolinea che, quando è possibile instaurare un’identità comune reale e quando ciò non costituisce una semplice coalizione contro un terzo gruppo, questo risulti particolarmente valido nel ridurre l’essenzialismo. Quindi, da un lato l’universalismo può impedire una visione erronea e razzista delle differenze tra gruppi, e dall’altro bisogna facilitare la flessibilità nell’appartenenza agli stessi, rendendo la differenziazione ingroup/ outgroup meno rigida: la cooperazione e l’identità comune possono essere usate entrambe per ridurre l’infraumanizzazione.

Riguardo ai simboli comuni, come già trattato, le emozioni secondarie rivestono per i membri dell’ingroup il ruolo di simbolo; l’interagire con un outgroup che esprime emozioni secondarie, e che tenta quindi di convincere l’ingroup di poter condividere gli stessi simboli può risultare controproducente, aumentandone il rifiuto. Tutto ciò è stato dimostrato sperimentalmente da Vaes, Paladino, Castelli, Leyens e Giovanazzi (2003) e può apparire come un paradosso, in quanto molte ricerchesull’acculturamento hanno mostrato che le società ospitanti preferiscono l’assimilazione dei nuovi membri, a patto che questi ultimi adottino valori e stili di vita dell’ingroup. Di conseguenza, non ci sarebbe un muro di differenze tra i gruppi, ma solo uno standard che appartiene all’ingroup e che deve essere rispettato. Il paradosso sta proprio nel fatto che esprimere queste somiglianze facilita l’accettazione e l’assimilazione, ma il possedere emozioni secondarie è invece un simbolo la cui unicità non può essere condivisa. Questa netta distinzione tra assimilazione ed unicità umana incondivisibile porta a pensare che è inutile combattere le convinzioni irrazionali come la piena umanità dell’ingroup cominciando da subito ad assumere la stessa prospettiva; i simboli non possono essere conquistati ma possono essere “donati”, e l’universalismo rende quelli irrazionali superflui. Per Leyens et al. (2007) quindi ci sono valori e simboli utili in quanto servono a distinguere il proprio ingroup, ma per abbattere i muri delle differenze tra i gruppi bisogna “sgonfiare” i credo essenzialistici ed i simboli irrazionali tramite strategie come l’universalismo ed i valori egalitari. Ovviamente non è facile questa condivisione dei simboli, e le somiglianze momentanee anche se rafforzate da valori egalitari possono non essere sufficienti a diffondere un’identità condivisa di tipo trascendente (Kelman, 1999).

Per quanto riguarda i contatti deprovincializzati, anche nel caso dell’infraumanizzazione, il contatto intergruppi risulta essere il miglior predittore di relazioni armoniose, specialmente quando è promosso dai gruppi dominanti e quando le condizioni sono quelle ottimali stabilite da Allport (1954): contatto informale, senza membri stereotipici degli outgroup, assenza di competizione e gerarchia, presenza di un supporto istituzionale. Pettigrew (1997) raccomanda anche un contatto deprovincializzato, in cui si riconosca il punto di vista dell’altro, che decentri la visione etnocentrica delle persone per accettare le specificità degli altri. La conoscenza, l’amicizia e la familiarità predicono l’umanizzazione dell’outgroup, e quindi il contatto intergruppi specialmente se deprovincializzato può combattere l’infraumanizzazione. Leyens et al. (2007) sottolineano che non è importante il contatto di per sé, ma la sua qualità: la sola conoscenza non è sufficiente a ridurre l’infraumanizzazione, ma deve essere accompagnata necessariamente da amicizia e similarità. Il contatto deve quindi rispettare i valori egalitari, altrimenti porta ad antagonismo, sfiducia, antipatia ed evitamento, che sono tutti potenziali fattori che promuovono l’infraumanizzazione. Una politica di successo basata su contatto ed amicizia intergruppi è rappresentata dal programma Erasmus, finalizzato alla diffusione di conoscenza e all’accettazione delle culture straniere: il progetto, inizialmente ristretto a studenti universitari che vivevano (per sei mesi o un anno) in un’università straniera, oggi coinvolge anche insegnanti e persone al di fuori dell’università ed è stato adottato da altre nazioni escluse dalla CE (come Svizzera e Stati Uniti).

In questo paragrafo sono state descritte diverse strategie di riduzione della deumanizzazione e dell’infraumanizzazione; vi è comunque una forte necessità di sperimentare anche altre strategie, stabilendo dei percorsi di umanizzazione diversi in base al target, alle caratteristichedi chi deumanizza, ai contesti dove ciò avviene e alle conseguenze che comporta (Haslam & Loughnan, 2014).

 

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

 

 

Le conseguenze di deumanizzazione e infraumanizzazione

Le conseguenze di deumanizzazione e infraumanizzazione

Secondo Haslam e Loughnan (2014), le conseguenze della deumanizzazione possono essere suddivise in quattro gruppi:

• la riduzione dei comportamenti pro sociali;

• l’incremento dei comportamenti antisociali;

• gli effetti sul giudizio morale;

• gli aspetti funzionali.

Per quanto concerne la riduzione dei comportamenti prosociali, essa può avvenire sia a livello individuale che collettivo. Vaes et al. (2002) hanno mostrato che le persone rispondono in maniera prosociale a coloro che si descrivono in termini di emozioni secondarie, poiché essi vengono percepiti come “più umani”.

In contrasto, i membri dell’ingroup tendono a discriminare i membri dell’outgroup (non fornendo loro alcun tipo di aiuto) perché li vedono come mancanti di emozioni unicamente umane. A livello collettivo ciò si manifesta con una minore propensione all’aiuto verso coloro che hanno subito atrocità, in quanto la percezione dell’outgroup come meno umano porta ad una minor empatia verso di esso e consente una maggior giustificazione per le loro sofferenze (Zebel, Zimmermann, Viki & Doosje, 2008). Inoltre, sia la deumanizzazione sia l’infraumanizzazione possono agire riducendo il perdono intergruppi: ciò è stato dimostrato in contesti come quello Nord Irlandese (Tam, Hewstone, Cairns, Tausch, Maio & Kenworthy, 2007), dove, in caso di infraumanizzazione, c’è una minore propensione al perdono dell’altro gruppo e, in particolare, eventuali scuse da parte dell’outgroup non vengono accolte se espresse in termini di emozioni secondarie (Haslam & Loughnan, 2014).

Gli effetti più evidenti della deumanizzazione sono sicuramente l’incremento degli atti antisociali, che riguardano soprattutto azioni violente ed aggressive. Ad esempio, ciò è stato rilevato nel bullismo nei bambini, che deumanizzando la propria vittima provano sia meno sensi di colpa precedenti sia meno rimorsi successivi ad un’eventuale aggressione. Anche percepire nemici e criminali come meno umani porta ad altre conseguenze negative, che possono andare da un maggior supporto ad azioni violente, ad una maggiore propensione alla tortura e ad azioni maggiormente punitive: ad esempio, la deumanizzazione dei criminali porta a sentenze dure e punitive indipendentemente dalla gravità del crimine commesso (Bastian, Jetten, Chen, Radke, Harding & Fasoli, 2013).

Come verrà trattato nel dettaglio nel capitolo 3, la deumanizzazione comporta effetti anche sul giudizio morale: in particolare, persone che sono percepite con un basso livello di agency (ovvero la capacità di autocontrollo e pianificazione) vengono giudicate mancanti di responsabilità morale, mentre a quelle con un basso livello di experience (ovvero la capacità di percepire e provare emozioni) vengono negati alcuni diritti umani come quello di essere protetti dalle aggressioni. Come evidenziato da Bastian e Haslam (2011), ciò dipende dalla percezione di umanità: le persone a cui mancano i tratti unicamente umani vengono viste come non giustificabili e meritevoli di punizione, mentre le persone a cui viene negata la natura umana vengono giudicate come meno degne di protezione e capaci di riabilitazione.

Le conseguenze viste finora sono tutte di natura negativa, ma ci sono casi in cui la deumanizzazione può anche risultare “vantaggiosa”, come è stato evidenziato da due studi in ambito medico. Il primo (Lammers & Stapel, 2011) fa riferimento a trattamenti più dolorosi ma più efficaci verso alcuni pazienti cui viene negata la natura umana; il secondo (Vaes & Muratore, 2013), basato anch’esso su pazienti fittizi, si riferisce, invece, ad una riduzione dei sintomi di burnout che sperimentano gli operatori sanitari che umanizzano in minor misura le sofferenze di un malato terminale. Ovviamente, queste affermazioni vanno prese con la dovuta cautela, poiché l’empatia e l’umanizzazione hanno effetti positivi e predominanti sul trattamento dei pazienti.

Anche Leyens et al. (2007) analizzano le conseguenze dell’infraumanizzazione: essa, soprattutto se associata ad elevata identificazione con il proprio gruppo, ha come conseguenza la riluttanza/negazione ad accettare i misfatti passati commessi dal proprio ingroup, perpetuando il rancore intergruppi ed interferendo sulla piena riconciliazione di gruppi precedentemente in conflitto.

L’outgroup viene infraumanizzato dall’ingroup solo se quest’ultimo è ritenuto responsabile delle sue sventure (Castano & Giner-Sorolla, 2006), portando quindi ad una giustificazione del triste destino delle altre nazioni. Inoltre l’infraumanizzazione, come si è detto, predice una minore propensione al perdono intergruppi, fattore cruciale per l’armonia. Il contatto intergruppi frequente e di buona qualità comunque, costituisce un fattore che può incidere positivamente su questo processo, in quanto più si entra in relazioni armoniose con l’outgroup, maggiore sarà la propensione a considerarlo come umano e quindi a perdonare i suoi membri.

Viene evidenziato anche come il legame tra l’infraumanizzazione e la moralità possa essere cruciale nel mantenere la discordia tra i gruppi: il fatto che le emozioni secondarie (positive e negative) vengano considerate proprie dell’ingroup fa sì che le persone possano considerare come simbolo di piena umanità anche quelle prettamente negative ed immorali (come odio e mancato rispetto), e quindi accettarle come caratteristiche dell’ingroup. Inoltre, diverse ricerche effettuate su Arabi, Israeliani ed Ebrei hanno suggerito che i membri dei gruppi dominanti hanno più difficoltà ad abbandonare l’infraumanizzazione rispetto a quelli di basso status. Ciò è importante perché, mentre la teoria di giustificazione del sistema (Jost & Banaji, 1994) postula che i gruppi di basso status accettano la loro posizione ed i valori del gruppo dominante, la teoria dell’identità sociale (Tajfel, 1981) propone alcune variabili che spiegano come e quando gli individui dei gruppi di basso status tentano di innalzare la propria posizione sociale. Tra queste variabili si distinguono strategie oggettive (quindi atti tangibili di cambiamento sociale come le rivolte) e strategie simboliche (cioè cambiamenti di mentalità con la potenzialità di generare azioni tangibili): ad esempio, membri di gruppi stigmatizzati possono cambiare il valore attribuito ad una dimensione. Tra le soluzioni simboliche di innalzamento del valore dell’ingroup gli autori includono, il fenomeno dell’infraumanizzazione, in quanto pensare che gli altri siano meno umani può condurre ad una identità sociale positiva. Per i gruppi di basso status l’infraumanizzazione può avere una serie di conseguenze reali (Leyens et al., 2007): credere in una superiorità fondata su un’unica essenza umana rafforza la coesione del gruppo, che si percepisce come più forte e capace di fronteggiare le minacce esterne, e incrementa l’identificazione, rendendo i membri più leali verso l’ingroup e meno propensi all’adozione di strategie personali come la mobilitazione individuale. Inoltre, secondo Leyens et al.(2007), può facilitare alcune condizioni che nel lungo termine possono portare ad azioni collettive. Così come le conseguenze dell’infraumanizzazione possono portare dei benefici a lungo termine sui gruppi di basso status, bisogna considerare il possibile effetto opposto sui gruppi ad alto status. La storia ci porta esempi di regni (come l’impero Romano, così convinto della propria essenza superiore da negare il potere emergente di gruppi opposti) che sono miseramente crollati proprio per aver considerato se stessi come gli unici detentori dell’essenza umana.

Infine Leyens et al. (2007) discutono del ruolo dei media, che spesso riportano le notizie in maniera infraumanizzante. Ciò porta naturalmente ad un circolo vizioso che conduce ad un incremento dell’infraumanizzazione, in particolare verso alcuni gruppi etnico/sociali o verso categorie di persone che hanno un particolare impatto mediatico, come i criminali.

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa

 

 

 

 

 

 

 

Quando le persone deumanizzano?

Quando le persone deumanizzano?

Questo aspetto, già trattato in questo capitolo per quanto riguarda l’infraumanizzazione, viene analizzato separatamente per il caso della deumanizzazione da Haslam e Loughnan (2014). Secondo tali autori le condizioni in cui si verifica la deumanizzazione sono molteplici, ma i fattori principali includono stati emozionali, motivazionali, cognitivi, e aspetti situazionali, sociali e strutturali.

Relativamente agli stati emozionali, la propensione al disgusto è associata alla tendenza alla deumanizzazione: gruppi che inducono disgusto sono più soggetti ad essere deumanizzati. Buckels e Trapnell (2013) evidenziano come un disgusto indotto sperimentalmente produca un’associazione implicita maggiore tra l’outgroup e gli animali, più di quanto possa indurre la tristezza o un umore neutro.

Per quanto riguarda gli stati motivazionali, quelli analizzati da Haslam e colleghi (2014) sono principalmente quattro: la connessione sociale, le motivazioni sessuali, il desiderio di equità morale ed i processi di protezione dell’ingroup. Lo studio della connessione sociale mostra che così come un bisogno sociale insoddisfatto porta all’attribuzione di mente ad entità non umane, persone con connessioni sociali numerose e soddisfacenti sono più soggette a deumanizzare outgroup distanti. Il ruolo delle motivazioni sessuali è studiato mediante la percezione che gli uomini hanno delle donne oggettivate, mostrando che le donne sessualizzate vengono più facilmente associate ad animali.

Relativamente al desiderio di equità morale, è stato dimostrato che c’è una tendenza maggiore alla deumanizzazione di outgroup che hanno una storia sofferta nel caso in cui al proprio ingroup siano state assegnate delle responsabilità: in questo caso, il negare umanità o moralità alle proprie vittime storiche evita il senso di colpa collettivo ed una percezione negativa dell’immagine del proprio ingroup. I processi di protezione dell’ingroup, infine, fanno sì che le persone tendano a giudicare anche gli attributi negativi del proprio ingroup come maggiormente umani, indipendentemente dal favoritismo verso l’ingroup; ciò rende il proprio gruppo maggiormente giustificabile (in quanto “umano”), e quest’effetto si intensifica se l’identità di gruppo è minacciata.

Riguardo ai fattori cognitivi, sono stati analizzati in particolare l’egocentrismo e “l’abstract construal” (come gli individui percepiscono, interpretano e comprendono il mondo attorno a loro) come moderatori dell’effetto interpersonale di auto-umanizzazione, nel quale gli altri sono visti meno umani di se stessi (Haslam & Bain, 2007). Gli aspetti situazionali fanno invece riferimento alla percezione di minaccia, che porta ad una tendenza maggiore alla deumanizzazione. Inoltre, la percezione di minaccia può moderare gli effetti della deumanizzazione e la conseguente tendenza all’aggressività. Ad esempio, nello studio di Viki, Osgood e Phillips (2013), i partecipanti che percepivano una maggiore minaccia nei Musulmani, e che quindi li deumanizzavano maggiormente, mostravano anche una maggiore tendenza alla tortura dei prigionieri di guerra. Anche la minaccia esistenziale della morte è coinvolta nell’infraumanizzazione, in quanto l’attribuzione preferenziale di attributi unicamente umani a sé e all’ingroup è un modo, secondo la teoria di gestione del terrore (Greenberg, Solomon & Pyszczynski, 1997), per combatterne la paura.

Infine, l’unico fattore sociale e strutturale che è stato analizzato è quello del potere, che è riscontrabile in vari ambiti tra cui quello medico (Lammers & Stapel, 2011): i medici che sperimentano una situazione di potere hanno infatti maggiore tendenza a deumanizzare pazienti, provando su di loro trattamenti più dolorosi, anche se più efficaci. Un altro esempio è nell’ambito scolastico, dove è stato osservato che studenti a cui sono stati assegnati ruoli di potere valutano i loro compagni come mancanti di tratti unicamente umani. E’ interessante notare come questo effetto non dipenda né dalla presenza di un rapporto gerarchico né dal tipo di attività (cooperativa o competitiva).

© La relazione tra amicizie dirette ed estese e attribuzioni di mente: Uno studio sul rapporto tra Meridionali e Settentrionali in Italia – Elisa Ragusa