L’esame testimoniale: la strategia delle indagini difensive

L’esame testimoniale: la strategia delle indagini difensive 

Su autorizzazione dell’autrice Dott.ssa Chiara Vercellini, tratto da http://www.psicologiagiuridica.com/

La strategia difensiva attuata, era improntata sul cercare di ricostruire l’ambiente familiare dell’imputato, le sue attività, il suo carattere e il suo modo di relazionarsi con gli altri, sia bambini che adulti, al fine di ridimensionare i fatti in oggetto.

L’ipotesi di fondo era che l’accusa fosse nata sia dal fraintendimento degli atteggiamenti dell’uomo, generatosi a causa dei diversi ambienti culturali di provenienza delle persone implicate nella vicenda, sia dai pettegolezzi che ruotavano intorno alla sua figura.

In particolare, le persone che erano entrate in contatto con il “clan” (i nuovi partner) nell’ultimo periodo, sostenevano di aver sempre avuto il sospetto che l’uomo avesse delle tendenze pedofile, a causa del fatto che, in occasione degli incontri e delle feste, trascorreva gran parte del tempo con i bambini, e a causa del suo modo di comportarsi con loro (contatto fisico, ecc).

In più, il suo atteggiamento, molto “aperto”, poteva aver generato delle confusioni, poiché si discostava molto dal modo di comportarsi degli altri adulti, appartenenti e non, al “clan”.

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L’esame testimoniale dalla teoria alla pratica: un caso

L’esame testimoniale dalla teoria alla pratica: un caso

Su autorizzazione dell’autrice Dott.ssa Chiara Vercellini, tratto da http://www.psicologiagiuridica.com/

Si esaminerà, adesso, quale può essere, in concreto, la consulenza che lo psicologo può fornire all’avvocato in sede di indagini difensive, in virtù della sua specifica preparazione e delle teorie di riferimento, prendendo spunto da un caso reale.

Il caso

Il caso in oggetto ha luogo in una grande città del nord Italia. Si tratta di difendere un uomo dall’accusa di presunto abuso sessuale nei confronti di minori.

La persona indagata è un uomo sposato, con tre figlie (due in età scolare e una molto piccola) ed è molto conosciuto nella sua città, dove è assiduo frequentatore degli ambienti artistici. Questa persona ha un carattere molto particolare. Viene descritto, da tutti coloro che lo conoscono, come estremista e provocatore, a tal punto da suscitare l’insorgere di polemiche in diverse occasioni. Un’altra delle sue caratteristiche è la particolare concezione, molto aperta, che ha della famiglia. Infatti, frequenta assiduamente diversi amici e conoscenti con le rispettive famiglie, tutte persone che appartengono al suo ambiente lavorativo, al punto tale da creare un vero e proprio “clan”, che racchiude il suo e tutti questi altri nuclei familiari.

L’organizzazione di questa “famiglia allargata” è caratterizzata da continue frequentazioni reciproche, dalla partecipazione ad eventi più o meno mondani e dall’organizzazione di varie feste e gite tutti insieme. Anche gli altri nuclei sono composti da coppie con figli di età simile alle figlie del presunto abusante, tant’è che, sovente, tutti i bambini si ritrovavano per giocare o fare il bagno tutti insieme, sempre, però, sotto la responsabilità di un adulto. A questo gruppo di ragazzini, spesso, si aggregavano le compagne di scuola della primogenita dell’uomo e in molte occasioni era proprio quest’ultimo ad occuparsi della sorveglianza dei bambini, giocando sempre con loro e, come modalità di relazione, prediligeva il contatto fisico. Quindi, li prendeva in braccio, giocavano a far la lotta, li abbracciava, ecc. Insomma, dimostrava un comportamento e degli atteggiamenti molto simili e in sintonia con quelli dei bambini, a tal punto che, spesso, egli stesso veniva definito dai conoscenti come “un bambinone.

Anche durante lo svolgimento delle feste, l’uomo passava parecchio tempo in compagnia dei piccini, divertendosi con loro.

Tutta la vicenda ha inizio fra il 2004 e il 2005. Le compagne di scuola della primogenita dell’uomo che frequentavano la sua casa, avevano conosciuto anche tutti gli altri bambini figli degli amici di famiglia, ma non facevano parte del “clan” di cui si è parlato prima. Appartenevano, cioè, ad un mondo e ad una cultura diversi.

Accadde che, un giorno, una di queste bambine, raccontando ai genitori le attività di gioco fatte a casa dell’amica, narrò che avevano fatto il bagno tutti insieme e parlò anche di alcuni “toccamenti”, da parte del papà dell’amichetta. La madre, preoccupata, ne parlò con delle amiche e tutte insieme si recarono in un centro specializzato per l’abuso e il maltrattamento dei minori, dove le operatrici dissero loro che era probabile che la bimba avesse frainteso la situazione, poiché conoscevano la famiglia in questione e ne conoscevano le abitudini molto “aperte”. In parte tranquillizzata da ciò, la signora decise di non intraprendere nessuna azione legale, ma preferì diminuire la frequenza delle frequentazioni della figlia a casa della compagna di scuola, cercando, inoltre, di fare in modo che, nelle occasioni di incontro, ci fosse sempre anche un altro adulto presente, oltre all’uomo. La vicenda sembrava chiusa qui.

Tuttavia, nel marzo 2007, la primogenita dell’indagato cambiò scuola, cambiando, di conseguenza, compagni e giro di amicizie. Le vecchie compagne, però, la ricordavano ancora e un giorno, durante l’intervallo, parlando con una maestra, cominciarono a raccontare, dei tempi trascorsi a casa dell’amica, tirando nuovamente in ballo i famosi “toccamenti”, ad opera del papà della ragazzina, che sarebbero accaduti mentre giocavano, studiavano o dormivano. A questo punto, la maestra fu costretta denunciare il fatto.

Si deve aggiungere, inoltre, che molte delle coppie del “clan”, più o meno nello stesso periodo, divorziarono o si separarono, e i genitori rimasti soli cominciarono a frequentare dei nuovi partner, che però erano esterni a quell’ambiente e non ne condividevano il particolare stile di vita.

 

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Esame testimoniale: scoprire le menzogne tramite il comportamento non verbale

Esame testimoniale: scoprire le menzogne tramite il comportamento non verbale

Su autorizzazione dell’autrice Dott.ssa Chiara Vercellini, tratto da http://www.psicologiagiuridica.com/

L’analisi degli indizi non verbali e paralinguistici è un altro metodo per tentare di scoprire chi mente.

Per esempio, il Facial action coding system, ideato dallo psicologo Paul Ekman, è un sistema che rivela i cambiamenti dell’espressione mimica in relazione a differenti contrazioni e distensioni dei muscoli facciali, basandosi sugli studi che sostengono che esistono combinazioni compatibili con la verità e combinazioni compatibili con la menzogna.

Riguardo ai segnali paralinguistici, si può notare che fu lo stesso Freud ad indicare che, talvolta, il fenomeno del lapsus può essere indicatore di menzogna, mentre Jung sfruttò il metodo delle libere associazioni nell’investigazione. Altri indicatori possono essere il tono di voce, l’accentuazione, il ritmo del discorso e simili (Rossi, Zappalà, 2005).

Il comportamento non verbale, invece, comprende la mimica facciale e corporea, la direzione dello sguardo, l’aspetto fisico, la postura, la gestualità, i movimenti del corpo.

Esso esprime molto più facilmente la “verità” interiore, poiché è impossibile scegliere arbitrariamente tutti i gesti che si compiono, poiché questi vengono espressi in modo diretto, spontaneo ed involontario (Lavorino, 2000).

È possibile, quindi, affermare che il comportamento non verbale “non mente” ed un osservatore attento può, attraverso i gesti, decidere se le parole possono essere più o meno attendibili (Gulotta, 2008, Rossi, Zappalà, 2005).

Sebbene i segnali indicanti che un soggetto sta mentendo varino da persona a persona, attraverso recenti studi e molteplici ricerche, è stato possibile stilare una lista di quelli che sono gli indici di menzogna, che si concretizzano in:

    • diminuzione: dello sguardo verso l’interlocutore, dei movimenti delle mani e delle dita (se il soggetto deve compiere uno sforzo cognitivo per mantenere la coerenza delle risposte), dei movimenti di piedi e gambe (se i movimenti rallentano e si irrigidiscono perché le domande poste sono sempre più specifiche e implicano un maggior impiego del canale cognitivi)
    • aumento dei sorrisi, dei gesti di adattamento, dei toccamenti delle labbra, dei toccamenti del colletto (eterosessuali), dei toccamenti delle dita (donne e omosessuali), della sudorazione delle mani, dello stato di agitazione, dei movimenti delle mani e delle dita (se il soggetto è nervoso per la paura di essere scoperto), dei movimenti di piedi e gambe (se individuo è teso e scarica la tensione con il movimento di tali arti), dei movimenti delle braccia, dei movimenti del corpo (Gulotta, 2008). Si deve anche sottolineare che le possibilità di smascherare una persona che sta mentendo aumentano se è stato possibile esaminare anticipatamente il normale stile comunicativo sincero del soggetto in questione. Per fare ciò, è possibile, eventualmente, porre una serie di “domande test” (la cui risposta si sa per certo essere vera), al fine di avere un parametro di confronto (Lavorino, 2000).

 

 

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Esame testimoniale: scoprire le menzogne tramite le risposte fisiologiche

Esame testimoniale: scoprire le menzogne tramite le risposte fisiologiche

Su autorizzazione dell’autrice Dott.ssa Chiara Vercellini, tratto da http://www.psicologiagiuridica.com/

Sicuramente lo strumento più conosciuto per rilevare le menzogne, analizzando le risposte fisiologiche, è il poligrafo, o macchina della verità, uno strumento che registra i cambiamenti fisiologici (frequenza del respiro, pressione arteriosa, battito cardiaco e sudorazione).

Esso non rileva direttamente la menzogna, ma solamente segni di alterazione neurovegetativa e cambiamenti fisiologici prodotti in maniera principale dalle emozioni.

Altri strumenti sono: il Voice stress analyzer, che rivela i cambiamenti della voce umana in relazione ad una maggiore tensione delle corde vocali in corso di stress emotivo e che sono compatibili con la menzogna; la Rilevazione termica del viso (effettuata con una speciale telecamera che riprende le immagini termiche del viso), che si basa sull’evidenza che mentire modifica la circolazione del sangue del viso, facendo affluire più sangue nelle zone perioculari, cosa non rilevabile ad occhio nudo; e la P300, un software collegato ad elettrodi che analizza, tramite algoritmi aritmetici, le memorie pregresse di un soggetto durante un interrogatorio.

Queste strumentazioni, tuttavia, sono poco utilizzate in ambito giudiziario ed i loro risultati, di norma non vengono presentati nelle aule di tribunale, dove, peraltro, non sarebbero comunque ammessi, poiché considerati troppo fallaci ed a rischio di “falsi positivi”, cioè possono segnalare una menzogna anche quando si sta dicendo la verità, ma si è comunque emotivamente alterati per altri motivi.

 

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Esame testimoniale: scoprire le menzogne tramite il contenuto verbale

Esame testimoniale: scoprire le menzogne tramite il contenuto verbale

Su autorizzazione dell’autrice Dott.ssa Chiara Vercellini, tratto da http://www.psicologiagiuridica.com/

L’analisi del contenuto verbale della comunicazione può fornire utili indicazioni per rivelare le menzogne. Esistono delle scale di valutazione che sono state create proprio con questo scopo:

    • la già citata Statement validity assessment, una metodologia psicologica utilizzata per valutare la credibilità delle dichiarazioni;
    • il Reality monitorig, una tecnica usata analizzare i racconti e la ricchezza dei dettagli che contengono;
    • lo Scientific content analysis, che è una tecnica di analisi scientifica del testo scritto, in grado di valutare se esso corrisponda alla verità oppure alla menzogna;
    • e il Verbal Inquiry Effective Witness, un questionario che viene utilizzato nelle indagini verbali nei confronti dei testimoni, per verificare il grado di attendibilità e veridicità delle loro dichiarazioni.

Ci sono anche dei test psicologici che possono offrire indicazioni utili per rilevare simulazioni e menzogne: il Rorschach, il disegno della figura umana, il Dissimulation Index di Gough e il test della Bender (Rossi, Zappalà, 2005).

Inoltre, dagli studi effettuati in materia, dagli anni Ottanta fino ai più recenti, emerge che le dichiarazioni false sono solitamente più brevi di quelle vere, sono generiche, contengono pochi riferimenti a persone, luoghi o tempi, tendono ad un uso generalizzato di termini generici (“tutto”, “ogni”, “nessuno”, “niente”), contengono pochi riferimenti alla propria persona, sono più ricche lessicalmente perché più ponderate.

Per quel che riguarda il contenuto, si può dire che il racconto è scarsamente plausibile, la produzione non è strutturata, c’è un basso numero di dettagli visivi, uditivi, di spazio e di tempo (Reality Monitoring), l’intervistato sembra passivo, incerto, poco coinvolto, non cooperativo, tendente a formulare molte frasi negative ed è possibile riscontrare ambivalenza del soggetto verso il contenuto, (Rossi, Zappalà, Valentini, Monzani, 2005).

In più, la menzogna è anche indicata da (Gulotta, 2008):

    • diminuzione: del numero di frasi in cui il soggetto afferma di aver avuto la possibilità di commettere reato, della qualità dei dettagli (batteria CBCA), della struttura logica (batteria CBCA), delle operazioni cognitive (Reality Monitoring), della velocità dell’eloquio, del numero di frasi pronunciate, della riproduzione di conversazione (batteria CBCA), dei dettagli uditivi (Reality Monitoring) 
    • aumento: del tono di voce, del tono di voce lagnoso, del tempo di latenza, delle esitazioni dell’eloquio, del numero di frasi brevi, della descrizione di scambi interattivi (batteria CBCA), delle correzioni spontanee (batteria CBCA), dei dubbi circa la propria memoria (batteria CBCA), del numero delle informazioni irrilevanti, del numero delle dichiarazioni negative, degli errori nell’eloquio, del numero delle risposte indirette, del numero delle frasi con cui il soggetto prende distanza dal reato, del livello di gentilezza e condiscendenza, del numero di termini evasivi.

 

 

 

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Esame testimoniale: scoprire le menzogne

Esame testimoniale: scoprire le menzogne

Su autorizzazione dell’autrice Dott.ssa Chiara Vercellini, tratto da http://www.psicologiagiuridica.com/

Uno dei punti cardine dell’attività investigativa è, per l’appunto, smascherare le menzogne. Si deve, però, precisare che “mentire non significa dire il falso ed essere sincero non significa dire il vero” (Gulotta, 2008). Infatti, facendo riferimento al “quadrato della veridizione di Greimas”, si deduce che dire la verità significa che ciò che si dichiara è realmente accaduto (ciò che è quel che sembra), mentre mentire significa dire ciò che si crede non vero (ciò che non è ciò che sembra); si può, inoltre, aggiungere che il segreto è “ciò che non sembra ciò che è” e la falsità è “ciò che non sembra e non è”. Per chiarire con degli esempi, se un testimone accusa qualcuno di omicidio perché lo ha visto accoltellare una persona, egli può essere sincero e dire la verità (l’omicidio è effettivamente stato commesso dalla persona indicata), ma anche essere sincero e dire il falso (la persona, in realtà, stava pugnalando un cadavere. Ergo, non ha commesso omicidio). Ma si può anche mentire dicendo una cosa falsa (si assiste ad un furto e lo si nega), oppure mentire, ma dicendo una cosa vera (pur avendo assistito al fatto, si nega che una persona abbia rubato un portafoglio, ma questo, in realtà, era di proprietà della persona indicata) (De Cataldo Neuburger e Gulotta, 1996; Gulotta, 2000 e 2008).

È plausibile affermare che la persona che intende mentire non sia in grado di controllare tutto ciò che accade nella sua mente e nel suo corpo durante l’interrogatorio, motivo per cui chi interroga deve prestare la massima attenzione sia al canale verbale (ciò che il soggetto dice), sia al canale comportamentale (il modo con cui lo dice), in modo da rilevare eventuali discrepanze che possano far sospettare una menzogna (Lavorino, 2000). Infatti, gli studi in materia dimostrano che quando i messaggi verbali e non verbali che una persona trasmette sono discordi in maniera contraddittoria, tendenzialmente si considerano più affidabili quelli non verbali, in quanto più difficilmente manipolabili (Rossi, Zappalà, 2005; Gulotta, De Cataldo, 1996). La menzogna, in ogni caso, dovrà, poi, essere successivamente provata e verificata nel contraddittorio dell’interrogatorio.

Sono stati elaborati, nel corso degli anni, diversi sistemi, strumenti e indizi per rilevare le menzogne, che si basano sull’analisi del contenuto dell’eloquio, sulle risposte fisiologiche e sulla valutazione del comportamento non verbale.

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La Testimonianza: Il ruolo dell’intervistatore

La Testimonianza:Il ruolo dell’intervistatore

Su autorizzazione dell’autrice Dott.ssa Chiara Vercellini, tratto da http://www.psicologiagiuridica.com/

Da diverse ricerche (per esempio, Kassin S.M.J., Ellsworth e Smith) è emerso che la conduzione adeguata di un colloquio facilita le indagini, poiché permette di ottenere più informazioni sull’evento, senza distorcere il ricordo dei testimoni, creando eventualmente le condizioni favorevoli per portare un sospettato a confessare il crimine commesso oppure a fornire dettagli attendibili riguardo alla dinamica dell’evento o al coinvolgimento di terze persone (Gulotta, 2008). Ne consegue che saper porre domande nel modo giusto è un requisito fondamentale per la conduzione delle interviste e le conoscenze della psicologia forniscono un valido contributo nella conduzione dei colloqui con il testimone, il presunto autore di reato e la vittima (Picozzi, Zappalà, 2005).

Una delle principali difficoltà della raccolta delle informazioni deriva dalla situazione di dipendenza del testimone nei confronti di chi conduce il colloquio. Spesso, infatti, le persone, di fronte ad una figura “autoritaria”, assumono, inconsapevolmente, uno stato emotivo che può facilitare la suggestione, favorire lo stress o la paura di non essere creduti (Cannaviccii, 2006; Gulotta, 2008). Si tratta di fattori che influenzano l’attendibilità della testimonianza ed è, quindi, necessario, per l’intervistatore, conoscerli (Gulotta, 2003).

Pertanto, per condurre un’intervista che sia efficace, è necessario predisporre il contesto, affinché risulti informale ed amichevole, mettendo il testimone a proprio agio e dandogli la sensazione di non venir giudicato (De Leo, Scali, Caso, 2005; Gulotta, 2008). È indicato il colloquiare con calma e con serenità, ragionando e riflettendo. Agire con aggressività o violenza, fino ad intimorire il soggetto, non serve, sia perché vietato dalla legge, sia perché ai fini delle strategie psicologiche che si vogliono utilizzare, è controproducente (Cannavicci, 2006).

La persona ascoltata, a qualsiasi titolo, deve essere invitata ad esporre spontaneamente quello che sa, per ottenere una deposizione non influenzata dalle domande e dalle suggestioni. Le domande di chiarimento, per colmare le lacune e per precisare meglio i fatti descritti potranno essere rivolte in un secondo momento. Sarebbe meglio, per l’interrogante, usare un basso numero di parole e formulare le domande in maniera accurata, verificandone la comprensione da parte del soggetto e, allo stesso tempo, controllare di aver compreso realmente le risposte. Vanno chiarire le regole del colloquio, per evitare che il soggetto cerchi di compiacere l’intervistatore, inventando o cercando di indovinare ed è utile sviluppare strategie per intensificare il desiderio di comunicare. È opportuno ricercare ipotesi alternative, anziché cercare semplicemente di confermare l’idea iniziale, per non condizionare il racconto o ignorare gli elementi che non si accordano alla teoria di partenza. È anche importane cercare di controllare il proprio comportamento non verbale e, ad ogni modo, dimostrare un’attenzione vigile, mantenendo il controllo oculare (Gulotta, 2008). È, comunque, positivo sviluppare uno stile personale, tenendo in considerazione gli obiettivi e i limiti imposti dalla legge, eventualmente al fine di poter creare idonei atti processuali.

Infine, vista l’importanza che rivestono le testimonianze come fonte di prova, si ravvisa la necessità di utilizzare delle tecniche che consentano di valutare e migliorare la validità delle dichiarazioni (Gulotta, 2008). Fra le diverse proposte esistenti, una delle modalità più conosciute ed efficaci per interrogare è “l’intervista cognitiva”. Si tratta di una tecnica investigativa, simile all’interrogatorio, attraverso la quale vengono utilizzate strategie di recupero guidato delle informazioni, cioè particolari procedure create dagli psicologi sperimentali per migliorare la rievocazione della memoria episodica. Un altro strumento che può essere impiegato è la “Statement validity assessment”, che esamina le dichiarazioni degli adulti e si compone di un’intervista strutturata, di un’analisi del contenuto basata su dei criteri e di una lista di controllo della validità.

Inoltre, durante il colloquio, è utile osservare attentamente gli atteggiamenti ed il comportamento non verbale del soggetto intervistato (ad esempio, le reazioni insolite o l’ostentata indifferenza e tranquillità, oppure la mimica, il pallore, il rossore, i tremori, ecc), sia in assenza di stimoli che in risposta alle domande, per poterne ricavare indicazioni sul carattere del soggetto ed avere dei riferimenti sul colloquio in corso: tanto più una domanda ottiene una risposta mimica e non verbale, tanto più indica un punto che colpisce il soggetto ed è un utile elemento (Cannavicci, 2006). Si tratta del campo applicativo della cinesica, cioè la disciplina che studia il linguaggio dei gesti, cioè quel linguaggio inconsapevole, naturale e direttamente collegato con lo stato psicologico e, di conseguenza, con lo stato emotivo.

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La Testimonianza: l’attendibilità

La Testimonianza: l’attendibilità

Su autorizzazione dell’autrice Dott.ssa Chiara Vercellini, tratto da http://www.psicologiagiuridica.com/

L’attendibilità di una testimonianza fa riferimento sia alla sua accuratezza (aspetti percettivi, cognitivi e riproduttivi), sia alla sua credibilità (aspetti motivazionali, interesse personale, desiderabilità sociale, voglia di compiacere, pregiudizi) (Gulotta, 2008). 

Per quel che riguarda, l’accuratezza della testimonianza, è necessario tenere in considerazione il rapporto che sussiste fra la realtà oggettiva, cioè ciò che si è veramente verificato, e la ricostruzione soggettiva dei fatti compiuta dal soggetto, cioè ciò che egli ritiene di aver percepito (Loftus, 1999; Gulotta 1987 e 2002; De Cataldo, 1988; Cavedon, 1992; Mazzoni, 1997 e 2000); mentre, per quel che riguarda la credibilità, si deve far riferimento al rapporto tra la realtà soggettiva e la realtà riferita, tenendo in considerazione gli aspetti motivazionali, l’interesse personale, la desiderabilità sociale, la voglia di compiacere e i pregiudizi (Gulotta, 2000).

Proprio questo, infatti, rappresenta uno dei maggiori problemi relativi alla testimonianza e all’investigazione, poiché esse riguardano non tanto quello che è successo, ma quello che viene raccontato di ciò che è successo (Gulotta, 2008, Rossi, Zappalà, 2004).

Poiché, dunque, il ricordo di un evento è, in realtà, la sua ricostruzione, è necessario esaminare sia i fattori che intercorrono prima dell’evento, sia quelli costituenti le fasi del processo mnestico e, infine, le azioni ed i processi che accadono dopo l’evento e che potrebbero alterarne la ritenzione ed il recupero (Petruccelli, Petruccelli, 2004).

In particolare, utilizzando il quadrato semiologico di Greimas, si evince che la testimonianza dipende dal rapporto fra il dire ed il sapere, per cui, testimoniare significa “dire e sapere”, essere reticente significa “sapere e non dire”, ignorare significa “non sapere e non dire” ed errare significa “dire e non sapere” (Gulotta 2000, 2008).

 

 

 

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La testimonianza e i fattori di influenza

La testimonianza e i fattori di influenza

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La testimonianza 

Il processo testimoniale è un evento complesso che consiste nell’esposizione e nella rappresentazione dei fatti vissuti, osservati, o riferiti (Lavorino, 2000). Questo processo si verifica attraverso quattro funzioni psicologiche di base: la fissazione, che è quello stadio in cui lo stimolo arriva al sistema nervoso centrale; la ritenzione, che consiste nella conservazione dello stimolo così percepito; la rievocazione, cioè il richiamare alla memoria il materiale ritenuto ed infine, il riconoscimento, cioè l’identificazione di tale materiale.

Schacter (1996) sostiene che il processo di codifica e il ricordo sono inseparabili, poiché “si ricorda soltanto ciò che si è codificato e ciò che viene codificato dipende da chi siamo, dalle nostre esperienze passate, dalle nostre conoscenze, dai nostri bisogni”.

I fattori di influenza

La testimonianza dipende dalla memoria e da molti altri fattori, meccanismi e processi psicologici, sia esterni che interni al soggetto, i quali possono distorcerne il contenuto, in misura più o meno rilevante (Rossi, 2005). Esserne a conoscenza è l’unico modo per eliminarli o ridurli o, quanto meno, tenerne conto nella valutazione della testimonianza.

Schematizzando (Gulotta, 2008), si può dire che essi possono essere così suddivisi:

    • durante la codifica: la durata dell’esposizione, la qualità percettiva dell’evento, la distintività dell’evento, l’attenzione allocata, l’intenzionalità della memorizzazione, la profondità dell’elaborazione, i processi costruttivi, lo stress e gli stati emotivi;
    • durante l’immagazzinamento: il passaggio del tempo dalla percezione all’evento, l’organizzazione gerarchica, le ripetute narrazioni e rievocazioni dell’evento, le informazioni successive alla codifica dell’evento, l’impianto di false memorie, gli indizi per il recupero, il contesto, i processi ricostruttivi;
    • durante il monitoraggio: il contenuto della memoria, la fluidità percettiva, la fluidità di richiamo;
    • durante il controllo: la motivazione e i fattori pragmatici, la formulazione delle domande, l’utilizzo di domande suggestive, la rievocazione e il riconoscimento, la sensibilità al controllo, lo stato mentale.

Lavorino (2000), d’altra parte, sostiene che gli elementi discriminanti della testimonianza sono sette e che essi devono essere valutati e considerati:

    1. l’errore di memoria o altre condizioni psico-fisiopatologiche: è sufficiente un’interferenza o un’alterazione in una fase della memoria perché essa venga distorta
    1. l’inadeguatezza percettiva: per fattori fisici, fisiologici o cognitivi
    1. la distorsione causata dalle variabili soggettive: aderenza alla realtà; soggetto suggestionabile; assenza o presenza di patologie di varia natura; caratteristiche delle singole culture, razze o genere; capacità cognitiva; capacità espressiva e del linguaggio; capacità ed efficienza mestica; coinvolgimento personale ed emotivo nel fatto criminoso; coinvolgimento personale nell’indagine, in quanto schierato o con pregiudizio; efficienza dell’organismo nell’ambito delle attività fisiche e psichiche; motivazioni della testimonianza e ruolo nella vicenda; resistenza allo stress fisico e psicologico; tipo di personalità e sicurezza personale
    1. le variabili del percorso testimoniale: azioni esterne, eventi casuali, eventi interconnessi, eventi obbliganti, eventi del procedimento investigativo e giudiziario, scambio di idee e considerazioni con terzi, possibilità che le variabili ambientali post testimonianza possano aver interferito sulla testimonianza stessa e quindi averla distorta (azione dei media, presa d’atto delle implicazioni, conseguenze sugli altri e sui rapporti con gli altri, effetti di feed-back, effetti sulle relazioni familiari e sociali, variazioni dello stile di vita)
    1. le variabili del contesto: il contesto (ambiente, territorio, posizione, atteggiamenti, comportamenti, metodiche interlocutorie, clima psicologico, ecc) in cui avviene la testimonianza; l’obbligo civico e legale di non tacere o omettere nulla e “di dire tutta la verità”, con il conseguente bisogno del teste di voler dare l’impressione di essere attendibile e credibile; l’obbligo di non dire cose contrastanti con ciò che è già stato assodato e che è agli atti (il timore di contrastare con le tesi investigative); la minaccia della sanzione o di una persecuzione da parte dell’autorità; l’impegno sociale e civico che contrasta con la mentalità, le tradizioni e l’ideologia del soggetto; la responsabilità sociale e legale; le conseguenze penali, sociali, economiche e psicologiche sugli altri di quel che si dichiara; le reazioni dell’ambiente familiare, di lavoro, di amicizie e di interessi
    1. la tipologia della menzogna: può essere causata da fattori psicologici, fattori evolutivi, fattori socio-culturali, come,per esempio, ammettere un’emozione indicandone una falsa causa al fine di sviare i sospetti, esporre la verità in maniera così esagerata o umoristica con lo scopo di trarre in inganno il destinatario, dissimulare a metà ammettendo solo una parte di verità per sviare l’interesse dell’interlocutore da ciò che viene celato, dire la verità ma in modo da lasciare intendere l’esatto contrario
    1. la possibilità di bugia psicopatologica o mitomania: il bugiardo patologico è un soggetto insicuro che, per gestire la relazione con l’altro, può agire solo in termini fantastici alterando la realtà dei fatti: si parte dal semplice nevrotico fino alla patologia grave, che compromette la capacità di discernimento fra realtà oggettiva e proprie produzioni fantastiche. Il mitomane, invece, altera i fatti con lo scopo di mettersi al centro dell’attenzione, mantenendo, però, intatto il contatto con la realtà.

Riassumendo, si può, quindi, affermare che la qualità della testimonianza dipende dall’interazione tra il contenuto della memoria, il contenuto dell’evento su cui si rendono dichiarazioni e i processi decisionali relativi a cosa, come e perchè si riferisce (Mazzoni, 2003).

 

 

 

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La psicologia della testimonianza

La psicologia della testimonianza

Su autorizzazione dell’autrice Dott.ssa Chiara Vercellini, tratto da http://www.psicologiagiuridica.com/

Si è detto che la testimonianza rappresenta una delle principali fonti di prova all’interno del processo penale e che il suo scopo è chiarire i fatti oggetto di indagine.

Nel 1939, Stern definì la testimonianza come “la riproduzione verbale o scritta di contenuti mnemonici, che fanno riferimento ad una particolare esperienza o ad un certo evento esperito”.  A livello teorico, inoltre, è possibile sostenere che l’intervista investigativa è “il mezzo attraverso il quale due o più persone danno luogo a uno spazio comunicativo, generalmente co-regolato dai parlanti, in cui la qualità della comunicazione dipende da fattori come la relazione in gioco e la situazione contingente” (De Leo, Scali e Caso, 2005).

Le interviste e i colloqui hanno luogo, durante la fase investigativa, in diversi momenti e coinvolgono non solo i testimoni, che rappresentano uno dei ruoli chiave di ogni processo penale, ma anche le vittime e i sospettati.

Lo studio psicologico del processo testimoniale, di conseguenza, offre una specifica utilità legata alla possibilità di conoscere le fonti di interferenza e le deformazioni più frequenti, che possono generare discrepanze tra la realtà obiettiva dei fatti e la loro rievocazione da parte del soggetto.  Difatti, la testimonianza è condizionata da vari processi psichici, che entrano in azione quando il futuro testimone si trova ad osservare, oppure viene a conoscenza di un fatto, e agiscono anche durante la rievocazione del fatto stesso.

È utile, infatti, specificare che è molto diverso aver osservato direttamente un fatto (testimonianza di primo grado) ed esserne venuti a conoscenza indirettamente, magari attraverso narrazioni di altri (testimonianza di secondo grado). In quest’ultimo caso, il soggetto, in genere, espone la rappresentazione che si è fatto di quanto è accaduto, sulla base della narrazione udita, deformando, quindi, il fatto che gli è stato riferito.

 

 

 

© L’assistenza del consulente psicologo alle indagini difensive dell’avvocato: l’esame testimoniale – Dott.ssa Chiara Vercellini