Emozioni e Ambiente: come ci sentiamo nello spazio che viviamo
Emozioni e Ambiente: come ci sentiamo nello spazio che viviamo
Articolo tratto da: www.sinapsyche.it
Lo spazio in cui viviamo influenza tanto i nostri comportamenti quanto le nostre emozioni, tutti abbiamo fatto esperienza di quel senso di pace e serenità che ci dona fare una passeggiata in mezzo alla natura, oppure quella sensazione di energia e voglia di far festa che proviamo quando ci troviamo in uno chalet lungo la spiaggia circondati da tanti ombrelloni colorati e musica che sa di estate.
Per iniziare, diamo una rapida spolverata al concetto di emozione. Si tratta di uno stato che prevede la presenza di quattro componenti: una cognitiva, una affettiva, una fisiologica ed una comportamentale. Facciamo un esempio nel caso della paura, avremo una valutazione della situazione (componente cognitiva) come pericolosa -leone in avvicinamento! -, il desiderio di evitare tale pericolo (componente affettiva), l’aumento dei battiti cardiaci (componente fisiologica) e, non ultimo, il tentativo di fuggire (componente comportamentale). Le emozioni sono legate a comportamenti fondamentali per l’adattamento all’ambiente, come le risposte attacco-fuga, la ricerca di aiuto e la riproduzione, solo per fare alcuni esempi. Insieme all’esperienza soggettiva si ha anche la manifestazione esteriore dello stato vissuto, estremamente funzionale alla comunicazione ed allo scambio interpersonale.
Le emozioni classicamente riconosciute sono sei: paura, gioia, tristezza, disgusto, rabbia e sorpresa,
a cui si aggiungono poi altre emozioni complesse come imbarazzo, disprezzo, gelosia e così via. Generalmente l’emozione prevede uno stato intenso e di breve durata che la distingue dai concetti di umore e stato d’animo, anche se, di fatto, non è sempre così semplice e netta la distinzione. In questa sede tuttavia parleremo di emozioni in senso lato, senza approfondire ulteriormente i presupposti teorici, che, seppur molto interessanti, richiederebbero molto spazio (Baroni, 2012).
Dopo questo breve chiarimento sul concetto di emozione, cerchiamo ora di applicarlo all’esperienza dello spazio e dell’ambiente. Secondo il modello di Russell e Lanius (1984) sarebbe possibile posizionare le varie etichette linguistiche attribuibili ad uno stimolo ambientale su un piano cartesiano, per intenderci, potete immaginare di porre sull’asse orizzontale la dimensione “spiacevole-piacevole” e sull’asse verticale invece “soporifero-attivante” e poi posizionare i vari aggettivi come: attivante, interessante, noioso, tetro, tranquillo, riposante e così via.
Ancor più interessante, a mio parere, è il modello proposto da Stephen Kaplan, Rachel Kaplan e colleghi dove vengono considerate quattro dimensioni fondamentali per la valutazione affettiva di un luogo: coerenza, leggibilità, complessità e mistero. Da questo punto di vista, perché uno spazio risulti affettivamente positivo e piacevole dovrebbe soddisfare le condizioni di coerenza con i nostri schemi mentali, di comprensibilità e di facilità per l’orientamento, ed inoltre dovrebbe essere tanto complesso da stimolare la nostra curiosità e il nostro desiderio di esplorazione ma non troppo, col rischio di andare a scapito della leggibilità.
La sensazione di mistero stimolerebbe infatti il nostro desiderio di scoprire e di fare nuove conoscenze, permettendo così di soddisfare un piacere tanto universale quanto primitivo, quello di conoscere cose nuove.
Se guardiamo alla storia evolutiva dell’essere umano e dei luoghi che ha abitato possiamo riconoscere la tendenza a scegliere di stabilirsi generalmente in luoghi rialzati, in grado di favorire un’ampia visuale e, allo stesso tempo protetti. Osservando questi aspetti Appleton (1975) ha così formulato l’ipotesi secondo cui la preferenza per i luoghi dipenderebbe proprio da due componenti fondamentali: prospect (ampia visuale) e refuge (possibilità di nascondersi, di stare al sicuro). Potremmo in questo caso dedurre che le persone si sentano protette ed al sicuro quando si trovano in un ambiente con queste caratteristiche.
Immaginiamo ora di essere alla scoperta di una nuova città e, dopo una lunga passeggiata, ci fermiamo per sorseggiare uno spritz proprio nella piazza principale, quanto ci piacerà quella piazza? Da cosa dipenderà il nostro giudizio? Secondo Purcell (1986;1987) tutto dipende da quanto lo stimolo ambientale che abbiamo di fronte, in questo caso una piazza cittadina, si discosti dal modello prototipico che abbiamo in mente, cioè dallo schema mentale che attiviamo in quel momento, in altre parole a quanto si avvicina alla nostra idea di piazza. Secondo l’autore vi sarebbe un grado ottimale di discrepanza dal protototipo per cui lo stimolo sarebbe vissuto come abbastanza nuovo e attivante, perciò non dovrebbe essere troppo simile, altrimenti risulterebbe troppo prevedibile e noioso ma neanche troppo distante, altrimenti verrebbe frustrata la nostra necessità di comprensione. A tale proposito, sembrerebbe che la somiglianza con il prototipo sia un fattore che influenzi diversamente il giudizio di piacevolezza in base all’età: in una ricerca di Falchero e Baroni (1995) è infatti emerso che, mentre il giudizio dei giovani sembra accreditare la teoria di Purcell, le persone più anziane tendano a preferire gli stimoli più vicini al loro prototipo.
Come per l’età, vi sono altri aspetti legati alle caratteristiche personali che influenzano quello che si prova davanti ad uno stimolo ambientale: i ricordi passati, le motivazioni presenti, il gusto personale e certamente ulteriori variabili situazionali.
Sempre l’età ad esempio, sembra essere un fattore discriminante nella preferenza degli stimoli ambientali per quanto riguarda il “principio di realtà”, con l’aumentare dell’età cioè, sulla valutazione estetica prevarrebbe quella funzionale, del “se dovessi viverci”, e ancora, sembra che i bambini tendano a preferire luoghi in cui è presente acqua in misura maggiore rispetto alle altre fasce di età, ciò potrebbe essere dovuto al fatto che i bimbi siano ancora strettamente legati ad una valutazione primitiva funzionale alla sopravvivenza. Un ulteriore aspetto da considerare è la personalità, in particolare rispetto alla posizione di ciascun individuo rispetto alla dimensione “sensation seeking”: i “sensation seekers” (cercatori di sensazioni”) sarebbero più attratti da ambienti attivanti e complessi perché terreno fertile per potenziali nuove ed emozionanti avventure, mentre i “sensation avoiders” (“evitatori di sensazioni”) preferirebbero ambienti più prevedibili e meno attivanti in quanto più propensi alla tranquillità (Baroni, 2012).
Per concludere vorrei riportare un estratto dal libro “Cromosofia” di Ingrid Fetell Lee, è un pò lungo ma credo che ne valga assolutamente la pena. Qui la stessa autrice, in uno dei suoi tanti viaggi alla scoperta della bellezza e della felicità che certi luoghi possono infondere, arriva fino a Tokyo per esplorare uno straordinario loft progettato da due talentuosi ed originali architetti, Arakawa e Gins : “Arakawa e Gins credono che l’architettura abbia un effetto sul corpo analogo a quello dei farmaci, quindi hanno predisposto le istruzioni” per soggiornare all’interno di quell’appartamento. “L’unico oggetto che somigliava vagamente ad un mobile era un’amaca in un angolo. Dal nucleo centrale si irradiavano diverse ‘stanze’, vocabolo che metto tra virgolette perché solo una somigliava a ciò che voi e io potremmo riconoscere come tale. La più semplice era la camera da letto, un cubo in tenui sfumature di marrone (…). La seconda era un cilindro giallo, una sorta di bagno senza porte, con una doccia cilindrica che sembrava un teletrasporto, e un pavimento gibboso su cui dovevi arrampicarti per raggiungere la toilette. La terza stanza era una sfera vuota, rossa all’esterno e laccata all’interno di un vivido giallo girasole. Nessuna superficie era incolore, nessuna parete o colonna era priva di un tocco di arancione o di viola. In seguito appresi che Arakawa voleva che da ogni angolazione fossero visibili almeno sei colori. E poi c’era il pavimento. Immaginate delle dune di sabbia modellate dal vento e ammonticchiate qua e là, e su tutta la superficie dei piccoli grumi, come una pelle d’oca gigante. Non era un pavimento su cui camminare, ma piuttosto su cui arrampicarsi, trovando e ritrovando il proprio equilibrio ad ogni passo. Aggirandomi per il loft, infatti, mi resi conto di quanto dessi per scontate le superfici piatte. Ma sentirsi un po’ scombussolati, sbilanciati, faceva parte del gioco, spiegava la brochure, e il tutto serviva a uno scopo più alto. (…) Dal loro punto di vista, i pavimenti piatti e le pareti bianche delle nostre case intorpidiscono i sensi e muscoli, portandoli all’atrofia. Per contrastare questo fenomeno propongono la provocatoria teoria del reversible destiny, secondo cui è possibile prevenire il declino e differire la morte vivendo in ambienti stimolanti che sfidino costantemente il corpo. (…) Per sfruttare al massimo la mia notte nel loft decisi di aprire le istruzioni. Vi trovai trentadue carte numerate. Ne presi una caso che diceva (..) ‘ogni mese gira nel loft immaginando di essere un animale diverso’. Per seguire le istruzioni dovetti abbandonare tutte le mie riserve di persona adulta, e in seguito appresi che l’intento dei due designers era esattamente quello (…) i bambini hanno una grande intimità con il mondo, mettono tutto in bocca. Il reversible destiny è in parte il tentativo di ri-suscitare la meraviglia infantile per un mondo pieno di sensazioni nuove. (…) anche solo lavarmi i denti era un’impresa: il pavimento inclinato mi allontanava dal lavandino e dovevo aggrapparmi al muro per non scivolare via. Era una faticaccia, ma era anche molto più divertente di un appartamento normale. Shingo Tsuji, un uomo che ha vissuto per quattro anni in uno dei loft reversible destiny, dice che un suo amico lo descrive come ‘ un posto in cui non si può mai essere veramente tristi o arrabbiati’.
© Emozioni e ambiente: come ci sentiamo nello spazio che viviamo – Dott.ssa Martina Mancinelli