Il valore strategico della motivazione in azienda: dalle Relazioni Umane alle Risorse Umane

Il valore strategico della motivazione in azienda: dalle Relazioni Umane alle  Risorse Umane

Dalle critiche successive all’opera di Mayo si è visto che l’effetto della Scuola delle Relazioni Umane sull’organizzazione del lavoro non era stato dirompente.

Queste teorie vanno progressivamente in crisi nel momento in cui si prende coscienza che gli interessi umani dei dipendenti sono intrinsecamente contrapposti a quelli delle aziende organizzate in modo tradizionale.

L’unico modo per superare il contrasto poteva allora essere il ripensamento dell’organizzazione del lavoro, in modo che le mansioni, arricchite di contenuti intelligenti, avrebbero stimolato le motivazioni dei dipendenti e garantito una reale crescita psicologica e intellettuale.

A partire dalla metà degli anni ‘50, si andava pertanto configurando una situazione sociale che rendeva la teoria del lavoro di Taylor necessariamente da superare, a causa della necessaria riprogettazione del sistema organizzativo di fronte all’incalzare di un elevato tasso di obsolescenza tecnologica e dei prodotti.

In più il benessere economico verificatosi in maniera crescente a partire dal dopoguerra, i miglioramenti nell’ampiezza e nella qualità della formazione, l’erosione dei modelli tradizionali di autorità, hanno ridotto l’importanza della soddisfazione dei bisogni elementari, ponendo invece l’accento verso la soddisfazione dei bisogni di ordine superiore, come quelli di “autorealizzazione” e “autodeterminazione”.

Si affaccia in questo scenario la corrente delle neo-relazioni umane la quale ha cercato, invece, di integrare l’uomo nell’organizzazione, modificando le strutture formali in modo che queste siano realmente rispondenti ai bisogni dei lavoratori.

Viene attuato così un rovesciamento delle prospettive nei confronti delle teorie classiche e della corrente delle Relazioni Umane: per accrescere l’efficacia dell’organizzazione, non è più l’individuo che deve adattarsi ad essa, spinto da incentivi finanziari o relazionali, ma spetta all’organizzazione modificare le proprie strutture formali per soddisfare i bisogni di appartenenza, di stima e di realizzazione dell’individuo.

I tentativi teorici più avanguardisti nel superamento del taylorismo si sostanziano in una grande scuola del pensiero organizzativo: quella motivazionalista.

La Scuola comprende un gruppo di studiosi sociali che, soprattutto in America, nel periodo 1960-70, cercano un superamento del taylorismo su un piano volontaristico, ossia nella realizzazione della personalità.

I meriti principali di tali autori sono quelli di aver saputo interpretare le esigenze del loro tempo, dando voce alle migliaia di operai che avevano bisogno di sentirsi uomini e persone anche nel lavoro alla catena di montaggio.

Ancora, l’aver affermato apertamente che i lavori svolti in autonomia e piena responsabilità procurano soddisfazione e migliorano la produttività. D’altro canto, i modelli motivazionali, si sono caratterizzati per un’attenzione, quasi esclusiva, alla dimensione psicologica dei soggetti  e alle dinamiche microsociali (ciò che rappresenta il loro maggiore limite), e hanno comunque avuto una bassa efficacia nel modificare concretamente l’organizzazione del lavoro.

Argyris è l’autore che testimonia la transizione dalle Relazioni Umane alle teorie motivazionali. Argyris, infatti, afferma che l’organizzazione moderna del lavoro (quindi la teoria tayloristica e le teorie ad essa legate) comprime troppo la personalità del singolo lavoratore e non favorisce la crescita della sua individualità .

Il fatto di eseguire continuamente ordini e di svolgere un lavoro per niente creativo ma solo esecutivo, non sviluppa la fantasia e la creatività del soggetto, comprimendone l’indipendenza, la capacità di ricerca e di adattamento, la capacità di programmare il proprio futuro, di assumere responsabilità e di conoscere le potenzialità del proprio ego. I sistemi di gestione vengono quindi ritenuti responsabili delle frustrazioni e della demotivazione, a causa della struttura rigidamente formale dell’organizzazione, di una direzione autoritaria, di sistemi di controllo ristretti come quelli budgetari, i piani di incentivi e l’analisi dei tempi e dei metodi.

Dalla razionalità aziendale discendono conseguenze incompatibili con lo sviluppo della maturazione personale: Argyris individua tali conseguenze proprio in quei principi che la scuola classica ha indicato come i cardini fondamentali di un’organizzazione “razionale” del lavoro.

La specializzazione dei compiti, ad esempio, se da un lato aumenta il rendimento lavorativo, dall’altro frena la naturale ricerca umana della novità e sviluppa solo “poche e superficiali capacità” , mentre le altre sono condannate ad una lenta atrofia.

In sintesi, Argyris ritiene che le teorie classiche, quelle delle Relazioni Umane e delle neo-relazioni umane si sono avvalse di una concezione quasi deterministica del fattore umano: l’uomo è considerato sottomesso passivamente alle pressioni dell’organizzazione.

Ognuna di queste teorie auspica un tipo di stimolo (finanziario, relazionale o motivazionale) per scatenare i comportamenti desiderati e raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione

Finché le aziende resteranno organizzate in modo scientifico, incomberà sempre il dilemma tra perseguire i fini aziendali, sacrificando l’integrità psicologica dei lavoratori, oppure salvaguardare i lavoratori rinunciando a massimizzare i profitti aziendali.

La soluzione che in più occasioni e scritti  propone Argyris, consiste nel creare una dirigenza più sensibile e più democratica, ma nel promuovere la nascita di gruppi informali che si autogestiscano il lavoro discutendo fra loro e trovando le migliori soluzioni, per rendere il lavoro più piacevole.

Naturalmente tale proposta è un po’ debole ed in seguito la sua teoria si è evoluta. La debolezza consiste nel fatto che c’è un rinvio troppo ottimistico ad una presunta democrazia di base che non sempre si riscontra nella realtà quotidiana.

Nella terza fase di sviluppo delle Relazioni Umane (fine anni ‘60), si consolidano, con una maggiore attenzione ai problemi di implementazione ed in una prospettiva sistemica e di pianificazione, le diverse tecniche del personale: sistemi di valutazione, di programmazione delle carriere, di pianificazione retributiva (fasce retributive, dinamica retributiva individuale, i “fringe benefits”).

Si avverte, contestualmente, una diffusa esigenza di coniugare i processi di cambiamento organizzativo, con le politiche di crescita del personale e di collegare la dinamica retributiva dei quadri e dei dirigenti alla performance aziendale ed individuale; la quarta fase di sviluppo della corrente di Mayo (negli anni ‘70) è stata profondamente influenzata dalla diffusione delle teorie e dei modelli organizzativi di matrice “sistemico-situazionale” .

Esse applicano allo studio delle organizzazioni i fondamenti della teoria dei sistemi, sulla base della considerazione che un’organizzazione va intesa come un sistema (insieme di elementi in reciproca relazione tra loro, organizzati per la realizzazione di un fine) complesso (ovvero a sua volta costituito da più sub-sistemi tra loro interagenti) e aperto (nel senso che scambia risorse e restituisce risultati con l’ambiente che lo circonda).

Una più ottimale predisposizione della mansione può pertanto consentire il raggiungimento di prestazioni di livello superiore, qualora preveda la necessaria integrazione reciproca tra fattori tecnologici e fattori umani della mansione stessa, in cui sono contenuti gli aspetti legati alla motivazione ed ai rapporti sociali tra l’individuo e l’organizzazione. Un tale cambiamento di rotta è possibile scorgerlo, in fase primordiale, già a partire dagli anni ‘50 ad opera della Teoria dei sistemi socio-tecnici di Trist, elaborata da un gruppo di ricercatori del Tavistock Institute in Inghilterra e successivamente, trova una più decisa affermazione negli anni ‘70, con la Teoria dei sistemi aperti  e quella del sistema organizzativo globale.

La riflessione muove da un’analisi dell’attività lavorativa intesa appunto come “sistema sociotecnico” all’interno della quale tutte le persone impiegate nella produzione costituiscono il “subsistema sociale”, mentre le macchine e le altre strutture costituiscono il “subsistema tenico”.

L’organizzazione efficiente nasce dalla capacità di individuare le migliori modalità possibili per far interagire i due subsistemi e armonizzare le varie componenti.

Negli ultimi decenni il ruolo e l’importanza delle persone all’interno delle organizzazioni è stato progressivamente oggetto di un processo di continua e straordinaria rivalutazione, tanto da assumere il ruolo di vero protagonista delle fortune (o meno) dell’attività dell’organizzazione stessa.

Mantenere collaboratori validi all’interno della propria azienda richiede però forti doti motivazionali. Si ritiene infatti che il lavoro debba essere sempre più un “piacere” piuttosto che un “dovere”, con il conseguente insorgere del rifiuto per i lavori di routine o meno graditi. Queste considerazioni, seppur attuali, erano tuttavia state oggetto di approfondimento già qualche decennio prima.

Nel corso degli anni ‘70, l’Occidente industrializzato venne invaso dai prodotti industriali giapponesi (automobili, radio e televisori, prodotti fotografici) .

Ci si rese conto e si scoprì che tali successi produttivi e di vendita erano legati ad un’organizzazione del lavoro molto innovativa, che di fatto aveva definitivamente superato il modello fordista. Lo studio approfondito della produzione giapponese porta gli occidentali a comprendere che i risultati raggiunti sono il frutto certamente di una grande capacità di lavoro e di disciplina in fabbrica, ma alla base vi è un nuovo modello di organizzazione produttiva avviato già nell’immediato dopoguerra nella fabbrica di automobili Toyota e poi perfezionato, il così detto “modello giapponese”.

Con questa espressione si intende un insieme di modelli organizzativi del lavoro in fabbrica, che trasformano alcuni limiti dello sviluppo industriale classico in risorse innovative.

Di questi vari tentativi il più riuscito è il modello organizzativo che venne attuato alla Toyota nel periodo 1948-60, sotto la direzione di Tsjichi Ohno e che prende il nome di “toyotismo”.

La caratteristica essenziale è innanzitutto la forte riduzione del magazzino sia in entrata che in uscita . A sua volta il prodotto finale doveva arrivare al termine della catena di montaggio senza alcun difetto ed in questa maniera essere rapidamente portato fuori dallo stabilimento per la vendita. Per ottenere tutto ciò (avere i prodotti nel momento in cui servono) è necessaria una stretta collaborazione all’interno dell’azienda, ma anche al di fuori della stessa.

Un’altra caratteristica molto importante è quindi il coinvolgimento dei dipendenti e dei fornitori, ma anche il primato della “qualità totale”.

In realtà il segreto di questo modello risiede nell’enfasi posta sulla creazione di valori aziendali condivisi (quella che viene chiamata la “corporate culture”), sui processi di socializzazione ed internalizzazione della conoscenza attraverso la frequente fluttuazione di informazioni dal top management ai gruppi di produzione, sul caos creativo attraverso la sovrapposizione delle mansioni.

Nel modello giapponese, infatti, le mansioni hanno confini poco precisi ed i dipendenti sono sollecitati a partecipare alle decisioni riguardanti la produzione. Gli operai hanno il diritto-dovere di interrompere il flusso produttivo ogni qualvolta notano anomalie o difetti. Inoltre gli operai vengono preparati ad affrontare nuove situazioni lavorative e, pur mantenendo una specializzazione, sono abituati ad essere polivalenti.

La collaborazione ed i suggerimenti vengono sollecitati ed espressamente richiesti anche ai fornitori esterni rispetto all’azienda ed ai venditori dei prodotti finiti.

Le nuove richieste ed i nuovi suggerimenti possono diventare nuovi stimoli per modificare i prodotti.

Tali modifiche possono essere effettuate con estrema rapidità in quanto tutta l’officina ed il ciclo produttivo è stato impostato per facilitare e non ostacolare i continui aggiornamenti e miglioramenti.

In definitiva, il perno centrale su cui si fondano le tecniche di motivazione del personale, nel modello giapponese, è costituito da un elevato coinvolgimento e partecipazione attiva agli obiettivi aziendali.

Dopo gli anni della cosiddetta “scoperta” del modello giapponese in Occidente vi furono dei tentativi di applicazione. Negli anni ‘80 e ‘90 in varie fabbriche automobilistiche si tenta un aggiornamento delle strutture organizzative.

Il problema principale da superare era quello di acquisire il consenso degli operai ad una produzione più intensa ma anche più responsabile, in presenza di conflitti sindacali o di una manodopera non abituata da decenni ad essere considerata autonoma e responsabile sul lavoro.

In tale contesto, la funzione del personale, che nel passato aveva svolto prevalentemente le attività di amministrazione e gestione dei rapporti contrattuali di lavoro, allarga le proprie attività allo sviluppo organizzativo e del personale, enfatizzandone la valenza economica e collegandolo con il processo di pianificazione strategica e di budgeting.

All’inizio degli anni ‘80 la perdita di competitività delle imprese americane e il successo delle aziende giapponesi ha sollevato l’importanza delle “Risorse Umane”.

Si afferma così la scuola americana dello Human Resource Management basata su un modello teorico contingente: non esiste una scelta ottima, ma è importante la coerenza con la strategia e l’ambiente organizzativo.

Le organizzazioni e la gestione del personale vengono a configurarsi sempre più come sistemi complessi di conoscenze. La quantità e la qualità delle risorse umane disponibili condizionano la formazione e la realizzazione della strategia aziendale, così come le scelte organizzative orientano le politiche di gestione delle risorse umane verso modalità e obiettivi coerenti con la strategia. Il rilievo strategico attribuibile alle politiche di gestione delle risorse umane e alla costante ricerca della motivazione in ambito lavorativo, costituiranno da questo periodo in poi un punto fermo.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

L’approccio delle Relazioni Umane

L’approccio delle Relazioni Umane

I problemi che le teorie classiche lasciavano irrisolti, ed in particolar modo l’alienazione che si respirava nell’ambiente di lavoro, ispirarono diverse ricerche nel campo della psicologia industriale e della sociologia del lavoro.

Questi studi, dati gli orari e i ritmi massacranti imposti dalla fabbrica di stampo tayloristico, si focalizzarono sull’analisi della fatica, sia da un punto di vista fisico che psicologico, e sulle ripercussioni che la monotonia del lavoro poteva avere sulle spinte motivazionali .

Un gruppo di ricercatori, che diede un notevole impulso all’approfondimento di queste tematiche, è rappresentato da tre autori inglesi: Wyatt, Fraser e Stock . In seguito al loro contributo è possibile affermare che la noia sul lavoro è massima quando bisogna effettuare un compito particolarmente ripetitivo e che al tempo stesso non consente distrazioni. I tre autori proposero alle direzioni aziendali alcune innovazioni per eliminare la noia e diminuire la monotonia: la rotazione delle attività fra gli operai; il non isolamento del singolo operaio nell’ambiente di lavoro; l’introduzione di pause nel turno di lavoro; la retribuzione a giornata e non a cottimo.

Queste raccomandazioni e suggerimenti, come si vede, sono in contrasto con il modello taylorista e soprattutto con la catena di montaggio del modello fordista , mettendo in relazione la motivazione con una maggiore “umanizzazione” dell’ambiente e dei rapporti di lavoro, e non con incentivi economici.

Nel corso degli anni ‘50, l’attenzione a questi temi si sviluppa ulteriormente per effetto della diffusione della Scuola delle Relazioni Umane e delle teorie di Elton Mayo, che godette di grande seguito ed influenza. Gli studi condotti da una squadra di ricercatori diretta da Elton Mayo, furono preceduti da un lavoro di analisi e sperimentazione condotto dalla stessa direzione aziendale della Western Electric Company, sul rapporto fra luminosità e rendimento operaio.

L’ipotesi era che, aumentando l’intensità luminosa, doveva crescere la produttività.

Vennero organizzati un gruppo sperimentale ed un gruppo di controllo. Al termine dell’esperimento venne fuori che la produzione era aumentata sia nel gruppo sottoposto alle variazioni di intensità luminosa che nell’altro, dove era stata lasciata la stessa intensità. Si provò a diminuire la luce e la produzione continuò ad aumentare anche se in forma non molto elevata. I risultati misero in crisi i dirigenti della compagnia , i quali intuirono che vi erano in questo comportamento importanti fattori umani da valutare e perciò venne richiesta una consulenza scientifica esterna alla fabbrica.

A questo punto entrò in gioco Mayo e la sua squadra, con un programma che fu molto lungo (durò cinque anni) ed ambizioso. Nel corso di questo lungo periodo, furono condotte varie modifiche per verificare l’effetto di alcuni cambiamenti ambientali sulla produzione degli operai.

Tali modifiche si possono riassumere in  riduzione complessiva dell’orario, introduzione di una pausa lavorativa e poi di una seconda pausa, reintroduzione delle condizioni di partenza, introduzione di pause diverse dalle prime e possibilità di poter effettuare una rapida colazione.

I ricercatori notarono subito che la produzione aumentò fin dall’inizio e tendenzialmente continuò sempre a crescere. Gli autori della ricerca, ed in particolare gli assistenti di Mayo, Reetthlisberger e Dickson, affermarono che l’aumento del rendimento operaio dipendeva soprattutto dall’instaurarsi di rapporti amichevoli e positivi; buoni risultati vennero infatti forniti dalle pause di riposo (la produzione aumentava sempre dopo una breve pausa); l’incentivo economico non ebbe una grande rilevanza. Scopo della ricerca fu quindi quello di verificare le dinamiche informali nell’ambito di un gruppo di lavoro in rapporto all’andamento della produzione, concentrandosi quindi sulla funzione del fattore interazionale nella produttività aziendale .

Un attacco più frontale al taylorismo si ha ad opera di alcuni studiosi di matrice marxista come Braverman, Burawoy e Roy , che collegano le problematiche motivazionali all’alienazione operaia, causata dalla mancanza di padronanza sui mezzi di produzione, legata anche all’ambiente di lavoro ed al fragile legame fra l’operaio e la propria azienda. Secondo Blauner , un altro fattore determinante è poi “l’autoestraneazione”, ovvero l’isolamento del soggetto nel posto del lavoro, il sentirsi isolato pur appartenendo ad una squadra o ad una catena di montaggio. Secondo le ultime revisioni della teoria marxista  la fabbrica ha invece sempre più bisogno di operai che siano disponibili a comprendere le nuove tecnologie e per fare questo c’è bisogno di maggiore collaborazione adesione e consenso.

Pertanto il progresso tecnologico non tende a far aumentare il conflitto nelle fabbriche, né crea una generale de-qualificazione del lavoro umano. Al contrario l’inserimento dell’automazione, della robotica e del computer in fabbrica ha obbligato il capitalista ad aumentare la collaborazione con i propri dipendenti, in quanto dipende soprattutto dalle capacità tecniche e dalla intelligenza di questi operai altamente qualificati il buon funzionamento del sistema.

Secondo Touraine , con la diffusione delle macchine automatizzate molta manodopera diventa superflua e quindi aumenta la disoccupazione (e questo rappresenta l’aspetto negativo); nel contempo l’operaio, sempre più tecnico, si libera di molti lavori routinari e soprattutto di molti lavori pesanti . La fase acuta del taylorismo comincia ad essere superata ed una nuova fase del lavoro, divenuto ora più coinvolgente ed intrinsecamente motivante perché denso di contenuti e significati, inizia ad intravedersi: la tecnologia è il motore principale di tali trasformazioni, innescando un rovesciamento del rapporto uomo-macchina.

Un altro autore che ha una linea meno dura di quella marxista, ma allo stesso tempo rivoluzionaria per le ulteriori considerazioni sul fattore umano nell’organizzazione del lavoro, è il sociologo Barnard. Egli, delinea le funzioni del moderno dirigente industriale , inserendo tale figura in un disegno teorico più ampio che sinteticamente lo stesso Barnard chiama “sistema cooperativo”, ovvero una azienda nella quale la collaborazione necessaria fra proprietà, dirigenti, capi reparto ed operai non è più lasciata al caso e alla buona volontà, ma viene vista come parte integrante e strutturale della stessa. Inoltre, la convinzione profonda di Barnard è che nel campo del lavoro, pur essendo importanti gli incentivi materiali (quindi lo stipendio, il salario, il cottimo) sono altrettanto importanti gli incentivi non materiali (prestigio, soddisfazioni morali, onorificenze, promozioni).

Il passo in avanti che compie rispetto a Mayo è che, mentre il fondatore delle Relazioni Umane poneva l’accento soprattutto sui rapporti informali nel piccolo gruppo, Barnard ritiene importante formalizzare questi incentivi e renderli il più possibile espliciti. Affinché ciò si possa realizzare è necessario fondare la vita giornaliera dell’azienda su norme formali e riconosciute e non su aspetti paternalistici; la persuasione e gli incentivi morali non debbono essere una concessione o un omaggio casuale legato alla bontà del proprietario o del dirigente, ma una ricerca continua di consenso e di incentivazione, utilizzando di volta in volta sia gli incentivi economici che quelli morali e non strettamente economici.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

Il Piano delle Performance: uno strumento organizzativo

IL PIANO DELLA PERFORMANCE : UNO STRUMENTO ORGANIZZATIVO

Scritto da Roberto Russo.

Tratto da www.robertorusso.it

Il D.Lgs. n. 150/ 2009 permette di avviare progetti di innovazione organizzativa che, prendendo in considerazione le novità introdotte dal decreto, vogliono impiegarle quali opportunità per incrementare il valore pubblico prodotto.

Si tratta, in un’ottica di miglioramento continuo e di eccellenza gestionale, di ottimizzare la performance dell’ente, rendendola, nel modo più efficace possibile, misurabile e trasparente.

Il progetto di innovazione amministrativa dovrebbe essere avviato al fine di individuare un modello di misurazione della performance che non abbia la presunzione di essere perfetto ma che il più idoneo per l’ente che lo utilizza e le caratteristiche del contesto in cui si trova ad agire.

Mettere a punto il Piano della performance é lo strumento per migliorare la performance, orientare comportamenti organizzativi, compiere scelte e mettere in campo azioni efficaci rispetto ai bisogni dei cittadini.

La realizzazione del piano della performance deve quindi intendersi all’interno di un progetto più ampio di cui il piano ne è il punto essenziale, quale documento che scaturisce e allo stesso tempo sintetizza un processo sia culturale sia tecnico.

Il progetto deve portare a nuove e innovative modalità di lavoro interno e opportunità di confronto con gli altri enti a livello nazionale ed europeo.

Nodo centrale del progetto è quello di individuare le dimensioni di misurazione della performance. Un passo importante e decisivo è quello di confrontare e allineare gli ambiti di misurazione della performance proposti dal D.Lgs. n. 150/2009, di cui all’art. 8, con le dimensioni che l’ente è in grado di monitorare o di cui si sente la necessità di disporre.

In particolare, bisogna chiedersi se le diverse dimensioni della performance sono presidiate adeguatamente dagli strumenti manageriali di cui l’ente è dotato, quali strumenti utilizzare per misurare la performance nella diverse fasi di attuazione del programma di mandato del sindaco, se gli strumenti di gestione del ciclo di sviluppo del personale supportano adeguatamente il riconoscimento del merito in relazione alla performance di ente, infine quali strumenti potenziare o introdurre per rendere conto e coinvolgere i differenti portatori d’interesse.

Calare le dimensioni della performance all’interno dell’ente deve fare riflettere su alcuni punti circa le condizioni per realizzare un efficace piano della performance che sia in grado di accompagnare una azione amministrativa efficace e di miglioramento gestionale: selezionare indicatori di risultato e valori attesi significativi per i cittadini e che esprimano il livello di attuazione del programma di mandato del sindaco e il livello di miglioramento della performance; programmare e monitorare le condizioni interne per attuare quanto programmato attraverso le scelte organizzative, lo sviluppo professionale, la motivazione e il coinvolgimento del personale, la comunicazione interna, l’uso del sistema dei premi e delle risorse; prevedere e monitorare il livello di comunicazione e il grado di coinvolgimento effettivo nel processo decisionale, della capacità` di rendicontazione ai cittadini (sviluppo consapevole di una funzione di rendicontazioneper categorie di destinatari).

Il Piano della Perfomance

Partendo dagli ambiti di misurazione e valutazione della performance proposti dalla riforma del D.Lgs.n. 150/2009 , dalle indicazioni derivanti dalla delibera Civit 104/2010 e da una lettura sistematica degli strumenti già in essere presso gli enti abbiamo messo a punto un modello di rappresentazione della performance che prevede 5 ambiti di misurazione e valutazione della performance (Moduli).

Gli ambiti di rappresentazione della performance sono:

MODULO I: STRATEGIA E SUA ATTUAZIONE

La performance in questo ambito è intesa quale capacità dell’ente di attuare i programmi e i progetti dell’amministrazione, facendo riferimento in particolare ai contenuti delle linee programmatiche e del programma di mandato del sindaco.

Il Piano Perfomance illustra i programmi e i progetti di programmazione pluriennale esprimendo così la mission che caratterizza l’attività degli organi di indirizzo.

Il Piano illustra inoltre i risultati di questo ambito tenendo monitorato lo stato di avanzamento di programmi e progetti e i risultati conseguiti rispetto a quanto programmato.

La prima parte del Piano della Performance monitora l’attuazione delle politiche dell’amministrazione attivate per la soddisfazione dei bisogni della collettività. Questo ambito di misurazione della performance è strutturato per programmi e progetti definiti dagli organi di indirizzo.

Il grado di realizzazione della strategia del piano performance è alimentato da file specifici di progetto che illustrano obiettivi, indicatori e definisce i parametri per il monitoraggio. Per livelli sempre maggiori di dettaglio, è possibile così visualizzare di quali obiettivi si compone il progetto e qual è la tempistica di realizzazione. Gli indicatori di performance sono individuati in modo da rendere possibile l’attivita` di acquisizione di informazioni. Per rendere rilevante il processo di misurazione, ciascun indicatore viene collegato ad un obiettivo del progetto ed è selezionato in modo da indurre comportamenti adeguati degli obiettivi da raggiungere.

Per ciascun indicatore viene stabilito un risultato e gli scostamenti periodici.

MODULO II: ANALISI SERVIZI

La performance dell’ente non è alimentata solo dal livello di attuazione della strategia, ma anche dalla quantità e qualità dei servizi erogati.

Il livello di performance è pertanto determinato dallo stock di servizi che l’ente eroga ai cittadini e alla città e che caratterizzano l’azione del comune rispetto ad utenti e portatori d’interesse.

Le informazioni che caratterizzano questo aspetto della performance sono principalmente relative alle quantità e le qualità di servizi erogati.

Il Piano Performance dei servizi si alimenta attraverso specifici file di servizio.

La performance monitorata attraverso i file dei servizi è composta da indicatori relativi a: quantità e qualità di ciascun servizio, grado di efficienza della sua erogazione, e la soddisfazione espressa dagli utenti . Per ciascun indicatore è evidenziato il valore ottenuto dall’ente (stato), il valore che si vuole raggiungere (target), il confronto dei livelli raggiunti nel tempo dall’ente (trend). Dove è possibile vengono evidenziati i risultati raggiunti da altri enti in un ottica di parametro di riferimento ottimale nel tempo (benchmark).

MODULO III: SITUAZIONE ECONOMICA- FINANZIARIA-PATRIMONIALE

La performance in questo ambito è delineata dallo stato di salute dell’ente negli aspetti, economico-fi-nanziari, organizzativi e delle relazioni interne all’ente e verso soggetti esterni ad esso.

Lo stato di salute dell’ente monitora la capacità dell’ente di svolgere le sue attività garantendo un utilizzo equilibrato di risorse finanziarie di cui dispone e del personale, oltre che la qualità ed il livello di relazioni che intrattiene con portato d’interesse, enti ed istituzioni.

Questo ambito della performance tiene monitorati i livelli di efficienza nell’impiego delle risorse, il livello di innovazione dell’organizzazione e delle competenze professionali dei dipendenti, lo sviluppo qualitativo e quantitativo delle relazioni con cittadini, utenti e altri enti territoriali e nazionali, anche attraverso lo sviluppo di forme di partecipazione e collaborazione.

Si tratta , attraverso la predisposizione di un cruscotto composto da diversi indicatori e dei relativi scostamenti, di evidenziare:

— la salute economico – finanziaria e patrimoniale;

— la salute delle relazioni;

— la salute organizzativa.

Partendo dai valori di sintesi e` possibile approfondire le valutazioni delle singole aree.

MODULO IV: SODDISFAZIONE DELLA DOMANDA

La misurazione della performance di questo ambito monitora le ricadute dell’attività dell’ente (realizzazione della strategia ed erogazione del portafoglio servizi) sull’ambiente esterno e la sua adeguatezza nel rispondere ai bisogni espressi dal territorio.

I risultati sono monitorati e confrontati rispetto a quanto ci si propone di realizzare in modo da verificare se gli impatti previsti si sono effettivamente realizzati. In questo ambito sono evidenti ricadute sugli impatti che difficilmente possono dipendere solo dalle azioni poste in essere dall’amministrazione. Ma il tenore degli impatti è tale che non ci si può comunque esimersi dal monitorarne i livelli.

MODULO V: BENCHMARK

Tale ambito attraversa i quattro precedenti e definisce i soggetti esterni e i rispettivi parametri rispetto ai quali l’ente intende confrontarsi.

Questo permette all’ente di verificare il suo posizionamento rispetto ad enti simili per dimensioni, caratteristiche e attività, e individuare rispetto a questi punti di forza e criticità.

Il livello di performance di ente è pensato perché sia dato dai livelli di performance raggiunto da ciascuno dei cinque ambiti.

A sua volta ciascun ambito si alimenta di file che monitorano la performance realizzata per ciascun progetto, servizio, impatto ecc.

Per ciascuno di questi ambiti sono definiti obiettivi da realizzare, indicatori di performance per l’acquisizione delle informazioni, i target e i rispettivi valori quali risultati che si intendono raggiungere per specifici periodi di tempo. Il modello del piano performance è pensato per stadi sempre maggiori di dettaglio in modo da favorire una consultazione semplice ed intuitiva.

Dall’applicazione di questo modello di misurazione della performance si dovrà migliorare l’individuazione di progetti e obiettivi efficaci e coerenti, rendere più efficiente il loro raggiungimento, orientare i comportamenti organizzativi dei dipendenti, e ottenere così migliori risultati. La rappresentazione dei contenuti è stata pensata al fine di comunicare in modo semplice ma esauriente l’azione dell’amministrazione a portatori d’interesse e cittadini.

Un altro lavoro urgente da fare, anziché, riguarda l’individuazione standard per il confronto tra gli enti su servizi, prodotti e costi ed anche l’avvio di un ragionamento sui livelli essenziali dei servizi.`

CONOSCERE PER DECIDERE : LA PIANIFICAZIONE ECONTROLLO DELLA GESTIONE

Il sistema di misurazione delle performance viene alimentato, dal punto di vista delle informazioni, pre-valentemente dal sistema integrato di pianificazione e controllo.

Un sistema integrato di pianificazione e controllo è lo strumento di governo attraverso il quale è possibile tradurre il Programma elettorale del sindaco in azioni concrete da compiere.

Così il programma elettorale non rimane “il libro dei sogni”, ma viene calato nella realtà gestionale dell’ente orientandola al raggiungimento degli obiettivi di mandato condivisi e alla realizzazione degli impegni presi e delle promesse sulla base delle quali il Sindaco ha ottenuto la fiducia da parte dei cittadini che lo hanno eletto.

I principali attori interessati e coinvolti da questo processo sono sindaco, assessori, direttore generale e dirigenti dell’ente. Un ulteriore elemento cruciale e imprescindibile è una buona comunicazione interna di supporto all’intero processo.

I tradizionali documenti di pianificazione, programmazione e controllo che i Comuni hanno a disposizione e che ogni anno elaborano o dovrebbero elaborare (Bilancio, Piano triennale dei lavori pubblici, Piano esecutivo di gestione, Piano dettagliato degli obiettivi, Bilancio sociale) vanno affrontati e vissuti promuovendone la semplificazione e l’integrazione, e quindi non come meri adempienti formali, ma in una nuova ottica di sburocratizzazione, leggendoli nell’ambito della loro valenza e significato anche pluriennale dando ad essi coerenza, facendone una lettura non solo contabile, mettendoli a sistema evitando duplicazioni e inutili appesantimenti.

Questo approccio costituisce il primo passo per entrare nell’ottica di una nuova cultura dell’ente nel trattare queste tematiche: in tal modo è possibile alimentare un sistema di pianificazione, programmazione e controllo coerente ed integrato e dare la possibilità al sindaco e alla giunta di controllare periodicamente lo stato di avanzamento nell’attuazione del proprio programma amministrativo valutando anche l’efficacia sociale delle politiche intraprese.

I principi ispiratori che stanno alla base dell’intero processo sono il coinvolgimento e la partecipazione dei dipendenti, dei cittadini e dei portatori di interessi nella programmazione degli interventi e nella valutazione dei risultati. Ciò diventa possibile attraverso lo sviluppo di strumenti di misurazione e rendicontazione dei risultati orientati non solo verso l’interno dell’ente, ma anche verso l’esterno.

Partendo quindi dal programma amministrativo del sindaco e dalle linee programmatiche approvate dal Consiglio comunale, assessori e dirigenti, in un lavoro congiunto che mira a conciliare idee e fattibilità, traducono le linee di indirizzo politico in azioni concrete da svolgere per dare attuazione agli impegni elettorali presi nei confronti della città.

E indispensabile una riscrittura condivisa del programma di mandato in chiave progettuale per individuare risultati, tempi, risorse e modalità di realizzazione in una logica di programmazione operativa.

I “programmi”e “progetti”costituiscono la struttura della programmazione dell’ente e saranno utilizzati per l’elaborazione della Relazione previsionale e programmatica in modo da creare un diretto collegamento tra Programma di mandato e Relazione previsionale e programmatica.

Attraverso le “attività ”si assicurerà il collegamento alla programmazione annuale: gli obiettivi di P.e.g. (piano esecutivo di gestione) saranno definiti in modo coerente, orientato e finalizzato alla realizzazione dei programmi e progetti del Programma di mandato.

Dal punto di vista metodologico, le azioni costituiscono l’anello di congiunzione tra programmi e progetti pluriennali contenuti nel piano di mandato del Sindaco e gli obiettivi annuali affidati dalla giunta ai dirigenti con ilPiano esecutivo di gestione.

Ogni obiettivo inserito nel Peg è collegato all’attività di riferimento, ogni attività a sua volta è finalizzata alla realizzazione dei progetti e i progetti mirano alla attuazione dei programmi del sindaco.

Il processo di formazione del Peg si articola attraverso momenti strutturati che, a partire dal mese di luglio, vedono coinvolti assessori e dirigenti insieme nell’elaborazione del bilancio di previsione dell’anno successivo e, in parallelo, del Peg.

Tale percorso di “negoziazione”si sviluppa attraverso passaggi successivi che prevedono la definizione di obiettivi annuali orientati all’attuazione di programmi, progetti e azioni del piano di mandato; gli obiettivi vengono affidati ai dirigenti insieme alle risorse umane, strumentali e finanziarie necessarie al loro raggiungimento.

Il processo sopra descritto di formazione del Peg in parallelo con il bilancio di previsione dell’ente si conclude entro il mese di dicembre con l’approvazione da parte del Consiglio comunale del bilancio di previsione; la giunta comunale, nella prima seduta

utile successiva all’approvazione del bilancio di previsione, approva il piano esecutivo di gestione per l’anno successivo. Il Peg rappresenta quindi lo strumento attraverso il quale si guida la relazione tra giunta e dirigenti esplicitando le responsabilità dei diversi attori: il livello politico definisce obiettivi e assegna risorse, il livello gestionale produce risultati; tale relazione costituisce un punto nevralgico di fondamentale importanza e va governata attraverso processi partecipati in cui le persone coinvolte parlano, si ascoltano e si confrontano per giungere a soluzioni condivise. La conclusione di questo percorso di approvazione dei documenti entro il mese di dicembre.

Con proprio atto successivo, il direttore generale approva il Piano dettagliato degli obiettivi nel quale obiettivi di sviluppo, obiettivi di miglioramento e attività strutturali previsti nel Peg vengono dettagliati attraverso l’indicazione delle attività da porre in essere, la definizione di indicatori di risultato, l’indicazione di eventuali centri di costo collegati che condividono lo stesso obiettivo, di capitoli di entrata e spesa assegnati per il raggiungimento dell’obiettivo, del personale assegnato e del collegamento con le azioni, i progetti e i programmi del Piano di mandato.

Viene così creato un collegamento coerente fra quanto previsto a livello di indirizzo strategico e gli interventi intrapresi dai settori del comune a livello gestionale. Con tale sistema, i responsabili gestionali svolgono le attività di programmazione dettagliando gli obiettivi mediante l’indicazione delle attività da intraprendere, la quantificazione delle risorse necessarie e l’individuazione degli indicatori nel Piano dettagliato degli obiettivi (controllo di gestione).

Il risultato immediato è che risulta garantito il grado di coerenza fra i programmi e progetti pluriennali in-dividuati dall’amministrazione e le azioni intraprese, ogni anno, dalla struttura operativa per la realizzazione del programma del sindaco.

Lo stato di avanzamento nella realizzazione concreta del Piano di mandato assume anche una valenza di trasparenza verso l’esterno, infatti potrà essere evidenziato ogni anno nella pubblicazione di documenti di rendicontazione ed in particolare del Bilancio sociale del comune, che è il documento di rendicontazione che consente ai cittadini e agli altri soggetti interessati di verificare che ciò che era stato promesso sia stato realizzato in tempo e bene e che consente agli amministratori di verificare lo stato di attuazione degli impegni politici e di valutarne l’attualità rispetto alle necessità del territorio.

Ogni attività monitorata nel bilancio sociale è ricondotta ai programmi del piano di mandato utilizzato per la pianificazione strategica. In questo modo si rende unitario e coerente tutto il sistema di pianificazione strategica e programmazione pluriennale e annuale che altrimenti sarebbe frammentato e articolato su più documenti che non dialogano tra loro rischiando la “burocratizzazione”degli strumenti di programmazione.

Si ottiene così coerenza tra pianificazione strategica e controllo di gestione, facendo interagire in un’unica direzione gli organi politici con il loro ruolo di indirizzo e controllo e la dirigenza per quanto attiene alla gestione e attuazione degli indirizzi politici.

Strutturato in questo modo il sistema di pianificazione, programmazione e controllo consente inoltre di rendere conto dell’azione amministrativa ai cittadini in modo coerente e trasparente.

Un sistema del genere, rispetto alla sfida della misurazione della perfomance nelle diverse accezioni di performance di ente, organizzativa ed individuale, svolge un ruolo fondamentale in quanto costituisce la base dati dalla quale attingere e collegare tra loro, sistematizzandole, gran parte delle informazioni necessarie.

CONCLUSIONI

Pensiamo che il complesso contesto normativo del D.Lgs. n. 150/2009 (riforma Brunetta), sia da affrontare in modo attivo cercando di coglierne gli spunti e le opportunità, per sostenere un percorso di qualificazione gestionale che deve essere vissuto come voluto e non come atto dovuto.

 

© IL PIANO DELLA PERFORMANCE : UNO STRUMENTO ORGANIZZATIVO – Roberto Russo

 

 

 

 

Il concetto di motivazione nella visione tayloristica

Il concetto di motivazione nella visione tayloristica

I primi tentativi di miglioramento delle prestazioni lavorative non prendevano in considerazione le variabili legate agli aspetti motivanti, ma erano caratterizzati da un’enfasi sulla pura strumentalità del lavoro, in conseguenza “dell’assorbimento sempre maggiore dell’uomo nella sua interezza nel sistema economico”, e nella svalutazione di tutte le attività e propensioni umane diverse da quelle economiche.

Tale approccio, sviluppatosi già agli inizi del ‘900, si fonda principalmente sui contributi dello Scientific Management e in primo luogo di Taylor , che parte dal presupposto che “la snaturazione razionalizzata del lavoro è il migliore o l’unico modo di raggiungere gli obiettivi tipici dei modelli culturali allora prevalenti di alta produzione e basso costo”.

Il loro fine era pertanto quello di mobilitare in modo ottimale le risorse materiali ed umane dell’organizzazione, inserendo razionalità e prevedibilità, in un contesto produttivo caratterizzato da metodi di lavoro molto empirici e da una direzione dove prevalevano le decisioni personali e l’arbitrio, ma che doveva affrontare adeguatamente le nuove sfide poste dalla produzione di massa.

I criteri maggiormente utilizzati nella progettazione delle mansioni non potevano che essere quelli della massima specializzazione, della massima ripetitività e del minimo tempo di addestramento, ottenendo così la limitazione sia del numero di compiti elementari, sia delle loro variazioni all’interno di una stessa mansione.

La specializzazione e la divisione del lavoro nascono dall’esigenza di dividere le attività lavorative che non possono essere svolte da un solo soggetto o che non è conveniente affidare ad un solo lavoratore.

In altri termini, essa si presenta come una soluzione opportuna quando ci si accorge che l’accentramento di queste attività in un solo individuo produrrebbe inefficienze (sprechi di risorse) e risultati non soddisfacenti.

In una situazione del genere ci troviamo di fronte ad un compito, o un’attività, di natura collettiva, la quale per definizione richiede l’intervento di più soggetti. In quest’ottica, è quindi necessario suddividere il compito, assegnarlo ai diversi soggetti, in modo da massimizzare le prestazioni di ciascuno e quelle del gruppo di persone, unico responsabile del compito collettivo.

I lavoratori che partecipano alla realizzazione di un’attività collettiva si troveranno così a svolgere compiti frazionati e parziali ed avranno bisogno del contributo degli altri membri del gruppo, se vorranno realizzare l’attività collettiva alla quale partecipano.

Nell’organizzazione scientifica del lavoro, il soggetto non ha un ruolo attivo nel determinare la propria mansione, ma “esegue” semplicemente i compiti rigidamente assegnati, ai fini di una maggiore efficienza produttiva .

Per questi fini si ritenevano anzi necessari dei veri e propri gruppi di lavoro che dovevano occuparsi della misurazione di tempi e metodi.

Essi, infatti, dovevano scomporre i singoli movimenti ed eliminarne le fasi superflue, ricomporre il lavoro stabilendo quali debbano essere le attività e gli utensili da utilizzare, fissare il tempo teorico di effettuazione di quella determinata fase lavorativa in modo da migliorare la tempistica globale.

È chiaro come in un’organizzazione siffatta il lavoro poteva facilmente diventare alienante, perdendo quel fascino e quella soddisfazione che invece dava, ad esempio, il lavoro artigianale in cui il soggetto poteva esprimere le proprie capacità e la propria arte creativa.

Così le teorie organizzative tayloristiche postulavano una struttura motivazionale del lavoratore limitata solo ai motivi economici.

In questa fase i modelli di gestione del personale erano basati sui sistemi di incentivazione della manodopera (cottimi), ancorati ad una rigida predeterminazione dei tempi.

Il coinvolgimento del lavoratore veniva quindi garantito, oltre che con i sistemi di incentivazione monetaria, con una rigorosa applicazione delle norme contrattuali e dei regolamenti interni.

Pertanto non si possono individuare elementi motivanti in una siffatta organizzazione del lavoro, se non quelli associati ad una progressione dei sistemi di incentivazione al crescere della produttività.

In definitiva, per avere un livello di motivazione elevato in un’organizzazione scientifica, bisogna accettare almeno due postulati delle teorie tayloristiche, che risultano tuttavia inverosimili sia dal punto di vista economico che umano:

    • la produttività del lavoro deve essere sempre crescente affinché la rimodulazione degli schemi organizzativi porti a maggiori prestazioni e impegno sul lavoro il soggetto trae soddisfazione sul lavoro solo da incentivi di natura economica.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

Le origini della motivazione ed il suo significato

VERSO UNA TEORIA DELLA MOTIVAZIONE: Le origini della motivazione ed il suo significato

La conoscenza dei processi motivazionali costituisce una delle problematiche fondamentali sia nell’ambito della gestione delle risorse umane, sia, in modo più esteso, nella comprensione dei comportamenti di natura organizzativa. I quesiti che più frequentemente vengono posti da questo settore disciplinare si possono condensare in una generica domanda del tipo “perché la gente fa quel che fa?”. La prima risposta che viene in mente è che il comportamento umano è guidato da scopi, ossia ci si comporta in una certa maniera perché si vuole raggiungere un qualche risultato. Le ragioni, o gli scopi, che appaiono dirigere il comportamento, sono quindi i motivi, mentre i risultati che il comportamento sembra diretto a raggiungere sono gli obiettivi. Questa idea della motivazione è tuttavia tanto semplice e lineare quanto incompleta e fuorviante .

Nel caso della motivazione al lavoro, si tratta di analizzare la moltitudine di fattori, non esclusivamente interni alla persona, in grado di far comprendere le dinamiche insite nel dispiegamento delle energie psicofisiche nell’attività professionale, ma anche nell’intensità e persistenza di questo investimento di risorse.

La conoscenza della struttura motivazionale degli individui e dei relativi meccanismi comportamentali è indispensabile per una gestione consapevole del sistema organizzativo aziendale.

Va quindi indagato il processo attraverso il quale l’individuo canalizza l’energia verso il raggiungimento di un “metaincentivo”, ossia di un incentivo strumentale al soddisfacimento di determinati bisogni.

Etimologicamente il termine “motivazione” (dal latino motus) indica un movimento, quindi il dirigersi di un soggetto verso un oggetto desiderato, verso uno scopo: la dinamica del desiderio implicauna spinta, che può essere interpretata come bisogno o pulsione da soddisfare, oppure in un senso più profondo, come tensione sostenuta da aspettative, obiettivi, emozioni.

Tale tensione appare da un lato connessa alle modalità per cui un soggetto decide che cosa per lui ha senso e che cosa non lo ha, dall’altro è legata alle attribuzioni di valore dominanti in un determinato contesto (gruppo, famiglia, comunità scolastica, lavoro, istituzioni, ambiente socio-culturale).

Già dalla definizione che si ricava da una prospettiva etimologica emerge la complessità teorica del problema della motivazione. Essa si può definire in via preliminare come un costrutto multifattoriale, poiché entrano infatti in gioco diversi aspetti, interrelati ed interagenti tra loro: aspetti emotivi, cognitivi, biologici, psicologici, contestuali, sistemico-relazionali, etc.

Tra le varie componenti, come è facile intuire, si istituiscono relazioni circolari, tanto che non è facile isolare un aspetto dall’altro: per l’analisi del problema, dunque, si ritiene opportuno utilizzare un’ottica multi e trans-disciplinare, in modo da cogliere l’intero fenomeno nella sua complessità.

Esistono differenti modellistiche motivazionali, che risentono dell’influenza di diversi orientamenti. Gli elementi teorici sull’argomento vengono pertanto presi minuziosamente in esame e con essi le principali teorie di gestione delle risorse umane e di psicologia del lavoro, di cui vengono tratteggiate nel testo le linee essenziali.

Ognuna di queste teorie va presa nella dovuta considerazione, in quanto coglie degli aspetti inevitabilmente parziali, ma anche complementari agli altri, nel determinare i tratti dell’elemento chiave che costituisce oggi l’obiettivo di ogni responsabile di gestione: la motivazione del personale.

La riflessione teorica su ciò che spinge all’azione nei contesti organizzati ha origine profonda. La dottrina dominante, già dai tempi di Platone e Aristotele fino a tutto il Medio Evo, e probabilmente ancora oggi riletta in chiave moderna, asserisce che il soggetto controlla il comportamento, e che gli esseri umani sono liberi di scegliere che cosa fare. Benché le decisioni possano essere influenzate da stimoli esterni e da bisogni e desideri interni, le azioni sono controllate dalla ragione. La filosofia edonistica, inoltre, ci dice che la finalità di tali azioni è la ricerca di stati che procurano piacere e soddisfazione . Questa concezione è nota come dottrina del libero arbitrio e può farsi rientrare all’interno dei modelli intellettualistici in cui la motivazione viene vista come “tendenza dominante” della soggettività cosciente, ossia come libera volontà.

Tuttavia sia la teoria del piacere, sia la massimizzazione del profitto in ambito economico, concezioni cardine della teoria d’impresa, non danno ragione del perché, a parità di condizioni, una persona sia portata ad agire ed un’altra a rinunciare. Già al tempo di Platone, infatti, vi erano persone contrarie all’idea del libero arbitrio. Il filosofo greco

Democrito sosteneva ad esempio che “in natura tutti gli eventi risultano da concatenazioni inflessibili e che, se si conoscessero tutte le leggi di causa ed effetto, sarebbe possibile predire il comportamento della gente non meno che i moti degli oggetti inanimati”.

Un siffatto orientamento è noto col nome di Determinismo ed ebbe un profonda sperimentazione scientifica con l’Origine della specie di Charles Darwin.

Secondo Darwin se gli esseri umani e gli animali hanno la stessa origine da un punto di vista genetico e sono perciò strettamente connessi biologicamente, sembra ragionevole assumere cheil comportamento umano, al pari del comportamento animale, è soggetto alle stesse leggi di causa ed effetto.

Tale linea di pensiero, inquadrabile fra i modelli biologici, in definitiva relega la motivazione ad un semplice “stato organico di bisogno” che tende al ristabilimento dell’omeòstasi  di base, col conseguente arresto della stimolazione. Quindi il processo motivazionale che porta l’individuo ad agire originerebbe da uno stato interiore di non equilibrio. Questo stato deriva dalla consapevolezza di dover soddisfare un bisogno, segnalata da manifestazioni di tensione o attesa.

Ne consegue l’attivazione di comportamenti e mezzi idonei a soddisfare il bisogno. Quest’ultimo, se pienamente soddisfatto ristabilirà uno stato di equilibrio, altrimenti permarranno stati di tensione residui.

In un’altra direzione vanno i modelli psico-socio-antropologici, di ispirazione positivista, secondo i quali la motivazione è il risultato della azione di matrice culturale e sociale, intesa come insieme di reazioni all’ambiente apprese durante l’evoluzione, all’interno di una sorta di “personalità di base”. Il comportamentista Skinner, come si vedrà, sostiene ad esempio che “una volta specificato in che modo l’ambiente determina il comportamento, si è detto tutto quel che c’è da dire sulla motivazione”. Secondo Skinner, infatti, buona parte del comportamento è controllata da politici, pubblicitari e altri manipolatori sociali, che limitano la completa realizzazione del potenziale umano.

Il concetto di motivazione che scaturisce dai modelli istintivisti sembra invece  essere quasi di derivazione cibernetica; essa, infatti, viene vista come un “istinto” di origine si umana, ma costituito da una o più forze automatiche ed inconsapevoli, intrinseche alla costituzione del soggetto, non apprese, o al massimo modificate dalle abitudini apprese (come gli “istinti ed abiti” di James, le “hormé” di McDougall, i “meccanismi innati di sganciamento” di Lorenz, fino ad arrivare ai motivi inconsci di Freud e alle scuole “oggettive” del behaviourismo americano o della riflessologia russa che addirittura eliminano il concetto stesso  di motivazione dalle loro concezioni).

Infine, i modelli psicosociali, sviluppano un concetto di motivazione come bisogno di sentirsi in sintonia col gruppo di riferimento, di dare e ricevere i diversi segnali di appartenenza. L’importanza di questi approcci deriva dall’aver introdotto, tra le altre cose, l’influenza del gruppo, dell’effetto apprendimento e la sua azione di rinforzo sulla motivazione.

Come si può notare, i diversi filoni focalizzano ognuno un aspetto diverso della problematica inerente la motivazione, proponendone differenti significati originari che poco si prestano ad una loro riaggregazione sincretica e condivisa, rimanendo inesorabilmente parziali. Sintetizzando infatti, si può affermare che la loro metodologia di analisi, poiché si è polarizzata verso uno dei due estremi (analiticità o sinteticità), ha fornito in tal modo un’interpretazione non esaustiva del fenomeno motivazione. In particolare, hanno fallito “in eccesso” quei modelli che hanno creduto di poter risolvere il problema della motivazione proponendo liste più o meno lunghe di “motivi fondamentali”, integrate con i motivi acquisiti dall’esterno, ma che non riescono a superare una classificazione di tipo puramente descrittivo; “in difetto” quelli che hanno ricondotto tutte le motivazioni allo schema semplicistico della riduzione ad un solo bisogno fisiologico, primario, capace di dare origine a tutti i motivi secondari attraverso un processo di condizionamento. Questa teoria si rifà necessariamente al concetto di riflesso condizionato, ma non si adatta nemmeno a spiegare tutte le motivazioni riscontrabili nell’animale, pertanto è impensabile che possa spiegare la ricchezza e la qualità dei motivi propriamente umani. Tale osservazione vale, per tutte le teorie così dette ”moniste” della motivazione, che cioè pongono in una sola  variabile l’origine di tutti i motivi.

In questa sede verranno invece esaminate le più rappresentative teorie della motivazione umana applicabili in ambito aziendale; da quelle chiaramente collegate ai fondamentali bisogni biologici, a quelle che sembrano specificamente  umane e molto distanti da qualunque ovvio bisogno biologico. Ognuno di questi approcci è sia espressione che prodotto del proprio tempo e prende in esame l’organizzazione da prospettive diverse che portano ad accentuare problematiche specifiche.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

 

 

Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane: Introduzione

Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane

INTRODUZIONE

Il presente lavoro ha l’obiettivo analizzare la motivazione nella sua dimensione di fattore strategico di successo delle politiche di gestione del personale, attraverso un confronto fra teoria e pratica, per una più completa comprensione delle dinamiche motivazionali in azienda.

Il percorso di analisi vede pertanto tre parti intimamente correlate da una sequenza cronologica: si evidenzieranno infatti prima gli aspetti teorici collegati al concetto di motivazione, poi quelli concettuali, immediatamente derivanti dai primi e che hanno rilevanza in termini di metodologia gestionale e, nella terza parte, un’esemplificazione di tipo applicativo, riguardante i supporti informatici alla gestione del personale.

Il primo capitolo è così finalizzato alla costruzione di un quadro di riferimento teorico, inquadrando l’oggetto del lavoro all’interno del dibattito scientifico relativo all’argomento prescelto e più in senso lato alle correlate tematiche organizzative, passando poi in rassegna alcune ipotesi interpretative che esprimono una posizione valutativa, confermativa o critica, rispetto al  quadro di riferimento che si è analizzato.

Si vogliono in questa maniera evidenziare le capacità richieste ai lavoratori e ai manager per l’ottenimento dell’efficacia e dell’efficienza nel mutato contesto ambientale, in cui regna la dinamicità e l’elevata tensione competitiva.

A tal fine, si enuncia un significato di motivazione che colga tutti gli aspetti possibili, soprattutto quelli che hanno conseguenze sul piano manageriale, esplorando la possibilità di elaborare una teoria sintetica e identificando alcune linee-guida nell’ambito del quadro di riferimento teorico, che assorbano il maggior numero possibile di punti di forza e di osservazione delle esposte teorie, senza peraltro essere manifestamente inapplicabili a livello pratico.

Questo tentativo servirà a suggerire la definizione di un’idea, di una integrazione concettuale o di una applicazione concreta, da esplorare tramite un proposta di indagine empirica nella terza parte.

A conclusione del tentativo di costruire un’impalcatura teorica il più completa possibile e quindi di pratico utilizzo, si ritiene opportuno analizzare le più importanti pratiche manageriali per gestire la motivazione, fornendo “alcuni strumenti del mestiere”, derivanti dalla precedente riflessione teorica, di utile impiego per il controllo dei processi di motivazione trasversalmente nei vari aspetti della  gestione aziendale.

Tali concetti saranno quindi il risultato di una elaborazione in cui si manterrà un costante collegamento con l’orientamento dottrinale che li ha generati, combinata con i metodi recentemente più utilizzati dalla prassi aziendale; si considera pertantointeressante fornire, a supporto di una maggiore esemplificazione dei concetti stessi, l’analisi di un relativo caso aziendale proveniente o da un’intervista diretta, o esaminando il materiale didattico reperito (dispense, brochure, atti di convegni, etc).

L’elemento comune alle varie leve proposte, parte dalla constatazione che la prassi manageriale si sta recentemente orientando verso una gestione delle risorse umane che, dalla tradizionale direzione per obiettivi, non più considerata efficacemente incentivante, si sposta alla direzione per desideri, primo fra tutti quello di svolgere un ruolo attivo nell’elaborazione-esecuzione della strategia aziendale.

L’ultima parte del lavoro, dal taglio estremamente pratico, ha l’obiettivo di passare in rassegna alcuni strumenti informatici che permettono di monitorare gli aspetti gestionali precedentemente discussi. Si parlerà quindi  del valore aggiunto dell’innovazione tecnologica applicata alle risorse umane (e-human resource management).

Per quanto attiene alla parte di indagine sperimentale questa riguarderà le conseguenze dell’azione di alcune leve motivazionali, poste come variabili indipendenti, e l’analisi della motivazione come variabile di risposta, valutandone l’andamento attraverso dei parametri che ne spieghino le dinamiche.

Risulta evidente come in questo caso la ricerca si dovrà svolgere in un ambito in cui il settore di impiego, il contesto economico-sociale e gli strumenti informativi di ricerca dovranno risultare omogenei, per cui una buona soluzione appare essere quella di svolgere tale analisi fra le varie filiali (previo consenso degli interessati) di un franchising molto diffuso sul territorio: FRIMM-Group. Si avrà così la possibilità di avere un campione di indagine abbastanza elevato, con procedure e processi informativi confrontabili e soprattutto di fornire una più estensiva esemplificazione dell’utilizzo di uno dei software indicati, che viene utilizzato dalla rete di agenzie immobiliari.

Verrà quindi testata un’ipotesi di validazione delle politiche di incentivazione all’interno della rete di agenzie immobiliari Frimm-Group, servendosi, a mo di esemplificazione, dell’ausilio dello strumento informatico prescelto, traendo le conclusioni sulla fondatezza e sulla coerenza delle pratiche attualmente utilizzate dal franchising per gestire la motivazione dei collaboratori.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

Valutazione delle performance: ruolo della voce strumentale e non-strumentale nella giustizia distributiva e procedurale

Il ruolo della voce strumentale e non-strumentale nel modulare la giustizia distributiva e procedurale nella valutazione della performance.

Abstract

La presente relazione ha lo scopo di analizzare l’articolo di Koorsgard e Roberson (1995), che illustra il ruolo della variabile “voce”, ovvero la possibilità degli esaminati di esprimere la propria opinione durante il processo di presa di decisione, nel modulare la percezione della giustizia distributiva e procedurale. L’analisi procederà individuando le implicazioni pratiche dello studio nella decisione delle procedure da adottare.

1) Introduzione

Recentemente è stato dimostrato che la giustizia distributiva, definita come la percezione dell’equità di distribuzione delle risorse, e la giustizia procedurale, ovvero la percezione dell’equità delle procedure usate per prendere delle decisioni, sono indipendentemente associate alle attitudini verso la decisione e l’organizzazione (Folger, 1987).

Nei termini della selezione la giustizia distributiva può essere definita come la percezione dell’imparzialità del valutatore nel prendere la decisione finale, e quindi, della distribuzione delle stesse risorse nella decisione dei risultati del processo di selezione, o più semplicemente, è legata alla condizione di essere o meno assunti. La giustizia procedurale, invece, fa un passo indietro nel processo, e identifica la percezione del candidato riguardo le procedure utilizzate nel corso della selezione. In particolare, la giustizia sarà percepita, più che dall’equità della decisione in sè, dalla correttezza della procedura utilizzata. Questo significa che la procedura andrà ad influenzare le attitudini verso la decisione finale.

Secondo Leventhal (1980) i soggetti solitamente valutano la giustizia procedurale con un sistema di valutazione che fa riferimento alle soddisfazione, o alla violazione, di alcune regole. Gilliland (1993) individua dieci regole, ovvero:

    1. la connessione con il compito
    1. la possibilità di mostrare le proprie capacità
    1. l’opportunità di avere una seconda chance
    1. la coerenza
    1. la presenza di feedback
    1. la conoscenza delle informazioni
    1. la corretteza
    1. l’adeguatezza del trattamento
    1. la comunicazione a due vie
    1. l’adeguatezza delle domande

La presente relazione vuole soffermarsi in particolare su due di queste: ovvero la comunicazione a due vie e la presenza di un feedback finale.

Ci sono, infatti, delle variabili che intervengono in questi processi e sono ingrado di modulare la percezione dei candidati circa la giustizia procedurale e distributiva, una di queste è la “voce”, che verrà illustrata più approfonditamente nel prossimo paragrafo, per avere un giusto frame teorico di riferimento completo.

La voce può essere definita come la possibilità di far sentire la propria opinione e attraverso di essa, sperare di avere almeno una possibilità di influenzare le decisioni prese dall’alto.

L’importanza di questo processo è lampante e può essere ricercata persino nel senso comune, in quanto nessuno riterrebbe giusto essere giudicato senza prima essere ascoltato. Diventa quindi rilevante la parte giocata dalla voce nella considerazione che il giudicato avrà, non solo riguardo la decisione finale, ma anche riguardo alla correttezza dei procedimenti attraverso i quali la decisione è stata presa, oltre che modificare la sua disposizione verso chi lo giudica.

Nel contesto della valutazione delle prestazioni, le analisi prese in considerazione assumono particolare rilevanza, sia nella progettazione dell’intervento valutativo che dello svolgimento dello stesso, come sarà illustrato nelle conclusioni.

2) La giustizia procedurale nella valutazione delle performance: il ruolo della voce strumentale e non-strumentale nella discussione della valutazione della performance, di Korsgaard, M.; Roberson, L., (1995).

2.1 Quadro teorico di riferimento

Sono molte le variabili che sono state ipotizzate come causa di una percezione di equità più o meno forte, e una di queste è la variabile “voce”.

Con questo nome si intende indicare la possibilità per i subordinati che subiranno la decisione, di offrire informazioni utili per la presa di decisione. Nonostante il suo peso sia consistente, rimangono dubbi circa cosa si intenda per “voce” nella valutazione delle performance. La voce è una forma di partecipazione subordinata, citata spesso come un mezzo per aumentare la soddisfazione con il processo di apprendimento.

Attualmente, ci sono due ragioni per le quali la voce viene valutata, l’effetto strumentale e l’effetto non strumentale.

La spiegazione strumentale dell’effetto della voce, asserisce che la voce porti alla percezione di controllo indiretto sulle decisioni dove il controllo diretto sarebbe impossibile (Shapiro, 1993; Thibaut e Walker, 1975). Questo significa che la voce influenza le attitudini delle persone riguardo una decisione perché in qualche modo, esse avvertono di aver avuto una possibilità di influenzare la decisione.

Ovviamente, per dimostrare l’effetto strumentale è necessario che la percezione di avere un influenza vada oltre la mera possibilità di esprimere la propria opinione.

Nella spiegazione non-strumentale la voce viene considerata intrinsecamente, che influenzi o meno la decisione finale. Questo significa che la voce è una cosa desiderata per se stessa, e per questo genera attitudini favorevoli. Questo tipo di voce è tenuta in considerazione perché indicativa dello status di una persona all’interno del gruppo o dell’organizzazione. La distinzione chiave fra i due meccanismi di voce è la percezione del potenziale di influenza, che non tiene di fatto in conto il reale impatto della voce sulla decisione finale. Di fatto, le ricerche condotte “nora non sono riuscite a dimostrare la dominanza di un meccanismo sull’altro (Shapiro, 1993).

Concettualmente, la voce strumentale e non-strumentale sembrano essere connesse. La voce non strumentale, la mera opportunità di essere ascoltati, a prescindere dalle conseguenza, è una condizione necessaria per la percezione della voce strumentale, i potenziale di influenza che si ottiene esprimendo la propria opinione. Di conseguenza, per distinguere tra le due, è necessario dimostrare l’effetto della voce non-strumentale attraverso l’effetto del potenziale percepito di poter influenzare qualcuno (Shapiro, 1993).

Il duplice meccanismo della voce potrebbe avere un impatto sulla giustizia distributiva e procedurale.

L’effetto non strumentale della voce, ad esempio, che indica lo status di una persona, potrebbe avere rilevanza maggiore sulle relazioni a lungo termine con il manager, piuttosto che sulla decisione immediata (Lind e Tayler, 1988).

L’effetto strumentale, per contro, potrebbe essere legato maggiormente alla decisione della specifica situazione.

Integrando in questo modo i due principi si può comprendere meglio il legame fra la giustizia procedurale e quella distributiva.

Secondo Folger (1987), la percezione dell’equità delle procedure impatta la percezione della giustizia dei risultati.

Il meccanismo strumentale della voce può spiegare questo collegamento: la voce nelle procedure di decisione permette di avere un modo indiretto per controllare o assicurare una decisione più equa. In aggiunta a questo, la voce genera attitudini positive in quanto viene desiderata di per se stessa, ottenendo quindi , sullo stato d’animo verso chi prende la decisione, un effetto diretto, attraverso la voce non-strumentale, e indiretto, attraverso la voce strumentale.

3. Obiettivi

Gli obiettivi della ricerca presa in esame sono di esaminare e comparare le due possibile spiegazioni date alla voce nella valutazione della performance. L’influenza di queste due componenti sulla giustizia procedurale vengono esaminate, controllando parallelamente l’influsso sulla giustizia distributiva.

Le conseguenze attese sono che la giustizia procedurale, misurata attraverso la percezione della voce strumentale e non, sarà relazionata unicamente alle attitudini verso il management. Inoltre, gli autori ipotizzano che la percezione della voce strumentale non strumentale sarà relazionata alle posizioni circa la valutazione e verso il manager che effettua la valutazione.

4. Metodo

Partecipanti e setting

I dati che vengono riportati nell’articolo preso in considerazione, sono stati raccolti come parte di uno studio più grande che riguardava le attitudini verso la valutazione delle performance.

I partecipanti sono 168 manager impiegati in tre divisioni di un’organizzazione.

L’età media è di 37,6 anni e la media degli anni passati nell’organizzazione è di 11,4.

La politica della compagnia verso la valutazione della performance coinvolgeva valutazioni annuali dei manager da parte dei loro superiori, usando un modello standard e un incontro tra manager e superiori per rivedere insieme le valutazioni. Il modello standard era costituito da tre sezioni: una valutazione del raggiungimento degli obiettivi, commenti aperti, e punteggi su sei diverse dimensioni del management. Inoltre, il modello conteneva una valutazione complessiva delle performance basato su queste valutazioni.

Gli avanzamenti di carriera erano determinai dalla valutazione complessiva delle performance. Interviste di valutazione annuali venivano condotte durante l’arco dell’anno. I dati a cui fa riferimento l’articolo erano stati raccolti poco dopo queste valutazioni.

Misure predittive

Voce: vengono usate due misure di voce subordinata nella sessione di valutazione. strumentale e non strumentale.

La voce strumentale è riferita alla percezione dei manager di potenziale influenza sul processo di valutazione La voce non strumentale è riferita ai contributi dei manager alla discussione della valutazione.

La valutazione della voce non strumentale presenta una sfida in quanto la partecipazione nella discussione di valutazione potrebbe rappresentare una forma di influenza indiretta.

La misura delle due, per tanto, è stata misurata con una correlazione non uguale a zero tra la voce strumentale e non strumentale.

Giustizia distributiva: quattro item sono stati dedicati allo studio della percezione di giustizia distributiva, basandosi sull’affermazione (Folger, 1987; Greenberg, 1986) della stessa come un assenso con, e una percezione di, equità nei punteggi attribuiti dai superiori alle performance.

Criteri di misura

Soddisfazione per le valutazioni: due item misuravano la soddisfazione per le valutazioni.

Fiducia nei manager: la posizione dei partecipanti verso i loro superiori è stata valutata nei termini del livello di “ducia nei loro superiori.

5. Risultati

I risultati indicano che l’ipotesi che ci siano due meccanismi di voce, è stata parzialmente supportata dal fatto che entrambe le componenti della voce erano legate alla soddisfazione per la valutazione finale. La percezione della voce strumentale e non strumentale si è dimostrata predittiva della soddisfazione per la valutazione ricevuta.

La fiducia, invece, si è dimostrata relazionata solo con la voce non strumentale, invece che per entrambe come atteso.

L’impatto delle componenti della voce su soddisfazione e fiducia è risultato simile all’impatto differenziale della giustizia procedurale e distributiva sulla soddisfazione e sulla fiducia.

Questo indica che la voce può avere due scopi, influenzando sia le differenti percezioni di equità che le diverse posizioni verso i superiori. La distinzione fra le varie conseguenze dell’equità è quindi una funzione chiave per comprendere più a fondo l’importanza che la voce ha sugli individui.

Alcune inconsistenze sono state riscontrate tra i risultati dell’articolo e la letteratura presa in considerazione. In particolare, Folger e Konovsky(1989) avevano concluso che la giustizia procedurale fosse maggiormente relazionata alle posizioni verso il management rispetto alla giustizia distributiva

La ricerca sulla partecipazione nella valutazione della performance ha prodotto effetti poco chiari, a cause del mancato riconoscimento della complessità del fenomeno (Pasmore e Fagans, 1992).

Le scoperte dello studio preso in considerazione in questa relazione possono essere di aiuto per chiarire in parte questa complessità: nei risultati, infatti è evidente come la “partecipazione” possa circoscrivere la voce strumentale e non-strumentale, pur evidenziando come le due non siano intercambiabili negli effetti che producono.

6. Implicazioni pratiche

Alla luce dello studio preso in considerazione è possibile evidenziare una serie di implicazioni pratiche che si possono adottare durante la decisione della procedura da adottare per effettuare una valutazione delle prestazioni. In particolare, sarà possibile disegnare interventi ad hoc, variandoli in base ai risultati desiderati.

Se le procedure intendono intensificare la considerazione e migliorare le attitudini verso il management e l’organizzazione, allora la partecipazione, la voce sia strumentale che non, può essere utilizzata in modo pertinente. Questo tipo di procedure deve essere utilizzata attentamente, perché se viene ridotta l’aspettativa di poter avere un’influenza, ma questa aspettativa non viene realizzata, gli impiegati potrebbero essere ancora più risentiti di come sarebbero stati se non fosse stata data loro la possibilità di esprimersi (Cohen, 1985; Folger 1986). Le ricerche svolte hanno inoltre dimostrato che l’opinione espressa da un individuo dovrebbe essere riconosciuta e tenuta in considerazione da chi prende la decisione, in modo che l’effetto della voce possa essere efficace (Tyler, 1987).

Shapiro (1993), ha identificato le azioni manageriali dividendole tra strumentali e non strumentali, come ad esempio esprimere le opinioni degli impiegati ai superiori, o considerando e loro opinioni verbalmente, che aumentano la positività della percezione della considerazione che gli impiegati ritengono che le loro opinioni possano aver avuto.

In particolare, nel caso si voglia inserire la voce all’interno di un processo di valutzione, si possono ritenere più valide alcune procedure di testing rispetto ad altre, procedure che prevedano un contatto tra valutatore e valutato. Esempi validi di procedure adatte possono essere l’intervista, che più delle altre prevede un faccia a faccia con l’intervistato e permette quindi di dargli modo di esprimere le proprie opinioni ed avere così la percezione di avere un influsso sul processo di valutazione. Più in generale, però è possibile applicare questo metodo a molteplici metodologie di testing, a patto di prevedere uno scambio diretto tra valutatore e valutato, e che prevedano una parte finale di restituzione, che tenga in conto quanto detto dal valutato durante i colloqui valutativi.

7. Conclusioni

La voce si è dimostrata essere un’importante interveniente nei processi di percezione della giustizia procedurale e distributiva. Sia l’uso strumentale che l’uso non strumentale possono arricchire il processo di valutazione, parallelamente per le parti in gioco. Se dal punto di vista della dirigenza, la voce è un valido strumento per accrescere il commitment verso l’organizzazione, la considerazione che i valutati hanno dei valutatori; dal punto di vista dei valutati può essere utile perché permette di accrescere la soddisfazione e la percezione di giustizia distributiva e procedurale.

L’uso non-strumentale della voce, può aumentare la soddisfazione rispetto all’organizzazione, ai manager e al processo di valutazione.

Per quanto riguarda l’uso strumentale della voce, i soggetti che notano la discrepanza tra le aspettative che avevano prima di essere valutati e la valutazione che hanno ricevuto possono modificare la loro autostima, la loro sensazione di autoefficacia. L’inclusione, nella presentazione dei risultati, dell’opinione espressa durante la valutazione, opinione che può anche essere non condivisa, ma che viene presa in seria considerazione, può essere uno strumento valido per diminuire la discrepanza tra le aspettative del candidato e i risultati, o perlomeno può spiegare in modo più accurato il perché della discrepanza, nel caso ci sia.

Questo può a sua volta trasformarsi per il candidato in un utile strumento per la crescita personale, che lo aiuti nel processo di auto-miglioramento, contemporaneamente aumentando l’efficacia del processo di valutazione.

Bibliografia

  • Cohen, R.L. (1985). Procedural justice and participation. Human relations, 38(7): 634-663.
  • Folger, R. (1986). Rethinking equity theory: A referent condition model. Pp. 145-162 in H. W.
  • Bierhoff, R.L. Cohen and J. Greenberg (Eds.), Justice in social relations. New York: Plenum.
  • Folger, R. (1987). Distributive and procedural justice in the workplace. Social Justice Research, 1(2): 143- 159.
  • Gilliland, S. W. (1993). The perceived fairness of selection systems: An organizational perspective. Academy of Management Review, 18 (4). 694-734.
  • Greenberg J. (1986). Determinants of perceived fairness of performance evaluations. Journal of Applied Psychology, 71: 34-342.
  • Korsgaard, M.A., Roberson, L. (1995). Procedural Justice in Performance Evaluation: the Role of Instrumental and Non-instrumental Voice in Performance Appraisal Discussionn. Journal of Management, 18 (4). 657-669.
  • Leventhal, G.S. (1980). What Should Be Done with Equity ?eory? New Approaches to the Study of Faimess in Social Relationships. In: K.J. Gergen, M.S. Greenbers, and R.H. Willis, eds., Social Exchange: Advances in theory and Research. New York: Plenum.
  • Shapiro, D. (1993). Reconciling theoretical differences among procedural justice research by reevaluating what it means to have one’s views “considered”: Implications for third party managers. Pp. 51-78 in R. Cropanzano (Ed.), Justice in the workplace: Approaching famess in human resource managemet. Hillsdale, NJ: Erlbaum.
  • Thibaut, J.W. & Walker, L. (1975). Procedural justice: A psychological analysis. Hillsdale, NJ: Erlbaum.
  • Tyler, T.R. (1987). Conditions leading to value expressive effects in judgments of procedural justice: A test of four models. Journal of Personality and Social Psychology, 52: 333-344.

    © Il ruolo della voce strumentale e non-strumentale nel modulare la giustizia distributiva e procedurale nella valutazione della performance. – Anna Rosso

Employability come costrutto psico sociale

Employability come costrutto psico sociale a tre dimensioni

Diversi studi precedenti al modello di Fugate e collaboratori (2004) hanno descritto l’employability a partire da svariate caratteristiche. Alcuni autori hanno sottolineato diversi aspetti dell’employability, alcuni di questi di lì a poco avrebbero preso le forme e i contorni del modello psicosociale di Fugate e collaboratori.

Ci si riferisce nello specifico a tutti quegli studi sul costrutto che sono andati ad indagare dimensioni come la proattività, (Crant, 2000) la personalità proattiva (Bateman e Crant 1993). il livello di iniziativa personale (Frese e Fay, 2001),  l’energia, la socializzazione proattiva (Saks e Ashforth, 1997) ecc.

La proattività migliora le performance (Crant, 1995) e promuove la possibilità di raggiungere gli obiettivi di carriera (Seibert, Crant, e Kraimer, 1999) riducendo i livelli di incertezza e ansia (Saks & Ashforth, 1996).

Wanberg and Kammeyer-Mueller (2000) confermano come la socializzazione proattiva incrementi la job satisfaction e riduca l’intenzione di cambiare lavoro.

L’espressione pratica del costrutto employability è concentrata nella sigla KSAO che corrisponde a:

·    acquisizione di conoscenze (k);
·    skills (s);
·    abilità (a);
·    unite al altri tipi di conoscenze (o) .

Le parole chiave che hanno caratterizzano la natura dell’employability sono state la proattività (Crant, 2001) e il livello di changeable (Chan, 2000), entrambe preziose per venire incontro ai continui sviluppi del mondo lavorativo.

Alla luce di tutte queste considerazioni Fugate, Kinicki e Ashforth, nel 2004, pensarono che ci fossero le basi necessarie per lavorare sull’employability e di collegare molte di queste caratteristiche a un tipo di costrutto che fosse psico-sociale e multidimensionale.

Gli stessi autori proposero che concepire l’employabilitiy come costrutto centrato sulla persona avrebbe facilitato la comprensione delle modalità in cui i lavoratori possono promuovere migliori livelli di adattamento, a fronte della miriade di cambiamenti necessari nell’odierno mercato del lavoro.

Il loro contributo è attualmente un punto di riferimento nel Journal of Vocational Behavior; l’ employability è definita come costrutto psicosociale comprendente tre dimensioni:

(1) capacità di adattamento;
(2) identità di carriera;
(3) capitale umano e sociale.


a) La capacità di adattamento

La capacità di adattamento o adattabilità è il primo aspetto proposto da Fugate e collaboratori nel 2004 per descrivere in maniera multidimensionale il costrutto dell’employability.

L’adattabilità si riferisce al benessere e alla capacità di cambiare atteggiamenti e condotte anche alla luce dell’insicurezza delle carriere e della continua modificazione delle domande lavorative (Fugate et al., 2004).

Il concetto di adattabilità è molto vicino a quello di flessibilità e rappresenta una preziosa risorsa per il lavoratore odierno, immerso in un contesto incerto e in continuo mutamento  (Hall 2002).

Il lavoratore che ha un alto livello di adattabilità presenta maggiore tolleranza di fronte all’ambiguità e all’incertezza del lavoro e mostra livelli inferiori di ansia di fronte ai cambiamenti organizzativi (O’Connell (in Press)).

Collegato al costrutto dell’adattabilità c’è la componente della proattività. In accordo con la visione di Crant (1993) i tipi di personalità proattiva hanno la propensione ad affrontare al meglio i cambiamenti e gli sviluppi che riguardano il contesto lavorativo e hanno una migliore gestione delle situazioni di difficoltà e di quelle che implicano restrizioni e impedimenti.

Gli individui dotati di personalità proattiva hanno migliori capacità di identificazione e di sviluppo delle proprie opportunità anche quando si parla di ricercare le informazioni necessarie al proprio sviluppo. Essi mostrano maggiore controllo sulle situazioni, perseveranza, capacità di self-direction e migliore abilità di fronteggiamento delle situazioni di difficoltà. (Bateman & Crant, 1993; Crant, 2000; Seibert et al., 1999; Seibert, Kraimer, & Crant, 2001; Thompson, 2005).

Sono rintracciabili cinque differenze individuali che descrivono dettagliatamente l’adattabilità: (1) l’ottimismo, (2) la propensione ad apprendere, (3) l’apertura al cambiamento, (4) il locus of control interno e (5) una buona self efficacy (Fugate 2004).

    1. L’ottimismo sul posto di lavoro porta i lavoratori a percepire il cambiamento come una sfida, una esperienza di apprendimento preziosa per crescere professionalmente (Stokes, 1996). Gli individui ottimisti hanno aspettative positive riguardo gli eventi  futuri e mostrano maggiore sicurezza nelle proprie abilità (Judge e altri., 1999; Peterson, 2000), essi hanno una visione migliore delle opportunità lavorative e mostrano maggiore persistenza e incisività nel raggiungimento dei loro obiettivi (Carver & Scheier, 1994).
    1. La propensione ad apprendere è fondamentale per l’adattabilità (Ashford & Taylor,1990; Hall & Mirvis, 1995; London e Smither, 1999); gli sforzi profusi dai lavoratori con alti livelli di employability sono spesso finalizzati al raggiungimento di informazioni e opportunità di sviluppo personale. Le conseguenze associate alle proprie azioni fungono da feedback per l’individuo che sperimenta sulla propria pelle le situazioni, valutando i suoi sforzi e le sue possibilità e adattandosi via via a questi (Ashford e Taylor, 1990). L’apprendimento continuo è una determinante importante soprattutto in riferimento al successo di carriera (Hall & Mirvis, 1995; London & Smither, 1999), inoltre le attitudini, le motivazioni e le disposizioni personali rispetto all’apprendimento contribuiscono nel chiarificare l’adattabilità e l’employability in genere.
    1. L’apertura al cambiamento è un altro aspetto importante per descrivere l’adattabilità del lavoratore; essa favorisce le possibilità di sviluppo personale e di apprendimento  continuo; l’esibizione di flessibilità permette di affrontare al meglio i cambiamenti e le situazioni di incertezza (Digman, 1990). L’apertura al cambiamento è  positivamente associata con una buona capacità di fronteggiare situazioni poco familiari o sconosciute, essa inoltre incrementa le personali abilità di affrontare una varietà  di occupazioni diverse (Barrick e Mount, 1991; Costa e McCrae,1992).
    1. Un altro aspetto centrale nell’adattabilità del lavoratore è il locus of control. Gli individui che   mostrano un locus of control interno sono predisposti a pensare che le cause dei loro successi (o insuccessi), delle proprie scelte e risultati (professionali e non) siano dettate dal controllo sui propri  comportamenti (Rotter, 1966; Spector, 1988). Gli individui con locus of control interno sono più adattabili ed employable perchè risultano maggiormente flessibili e protattivi a fronte di transizioni legate alla vita lavorativa e perchè sono capaci di pianificare meglio le situazioni di incertezza. Essi inoltre risultano più resistenti ai sacrifici e agli sforzi, questo li rende più forti di fronte alle difficoltà della vita lavorativa (Gould 1979).
    1. L’ultimo aspetto trattato è quello della self efficacy, considerata centrale dell’adattabilità.

 

Essa rappresenta l’insieme di percezioni sulla propria abilità individuale e fa riferimento principalmente alla convinzione di essere capaci di raggiungere determinati obiettivi.

Coloro che mostrano alti livelli di self efficacy  hanno una maggiore probabilità di raggiungere i propri obiettivi, di fronteggiare le sfide e le difficoltà della vita in modo migliore (Judge, Erez, e Bono, 1998, p. 170).

Ricerche in merito alla percezione di controllo mostrano che il desiderio di ottenere un senso di controllo guida gli individui verso una riduzione delle loro incertezze e ad attuare migliori strategie di fronteggiamento dei problemi a fronte di cambiamenti organizzativi (Fugate, Kinicki, e Scheck, 2002).

Possedere alti livelli di self efficacy favorisce l’adattabilità personale al lavoro; diversi studi hanno confermato che alti livelli di self efficacy promuovono alta job satisfaction e job performance (Judge e Bono, 2001).

Così come gli altri fattori presentati riguardanti l’adattività, anche la self efficacy promuove l’identificazione e la realizzazione di opportunità di carriera. L’individuo è maggiormente employable (e adattabile) se è capace di plasmare le sue caratteristiche personali in funzione alle domande di sviluppo ed evoluzione dell’organizzazione (Chan, 2000).

L’adattamento ai cambiamenti nella domanda di lavoro costituisce un processo attivo per il lavoratore, colui che mostra migliori livelli di attività anche per quanto riguarda gli sforzi sostenuti, possiede un migliore livello di adattamento (Ashford e Taylor 1990).

Per mantenere un alto livello di adattabilità i lavoratori devono mantenere tre condizioni :

    1. alto livello di feedback sul proprio lavoro e gli sviluppi del lavoro
    1. mantenere alti livelli interni di adattabilità come ad es. l’ottimismo e la self efficacy,
    1. Mantenere alti livelli di mobilità  (Fugate e altri 2004). Allargando i postulati di  Ashford e Taylor, Fugate introduce l’identità di carriera all’interno del costrutto employability.

 

b) L’identità di carriera

L’identità di carriera è presa in considerazione per descrivere il modo in cui l’individuo si sviluppa professionalmente a fronte delle sue ambizioni e motivazioni; parafrasando Fugate l’identità di carriera costituisce “ciò che gli individui sono” e “chi vorrebbero essere” (Ashforth & Fugate, 2001). Per le persone maggiormente employable avere una forte identità di carriera provvede a dare direzione ed energia al proprio percorso. L’identità di carriera rappresenta il modo in cui gli individui si definiscono e si vedono nel loro contesto lavorativo e può essere inteso come una sorta di “bussola cognitiva” usata per navigare all’interno delle opportunità di carriera (Fugate et al. 2004). E’ in questo senso che la career identity può essere intesa come capacità di orientamento e progettualità a fronte della complessità delle opportunità lavorative; essa riflette abilità di ‘Knowing-why’ e si riferisce alle motivazioni che spingono a intraprendere un certo tipo di lavoro (il perchè), ai significati che si danno ad esso e ai valori individuali che entrano in gioco. Considerando che il locus of control esterno non spiega  in maniera significativa le traiettorie di carriera è preferibile riferirsi a questa come all’uso di una “bussola di carriera interna” che è importante per la definizione della direzionalità del proprio percorso e specialmente per la ricerca individuale di opportunità che vadano anche al di fuori dei confini dell’organizzazione. Hall, Briscoe, e Kram (1997) suggeriscono che , in un contesto di sviluppo così frenetico come quello attuale resta importante tenere ben separata la propria identità da quella dell’organizzazione e sottolineano come sia importante avere una visione della propria carriera allargata e non dipendente dall’organizzazione, una visione individuale che tenga conto delle proprie motivazioni e dei propri interessi. Nei periodi di disoccupazione l’identità di carriera costituisce un aspetto molto importante che può garantire all’individuo di riuscire a porsi determinati obiettivi e può portarlo a prendere delle decisioni adeguate per quanto riguarda le proprie opportunità. L’identità di carriera è legata alla progettualità dell’individuo e alla sua capacità di conoscere sempre la propria identità lavorativa.

3) Capitale umano e sociale

Capitale umano e sociale costituiscono la terza dimensione del costrutto employability. Se si parla di  capitale sociale ci si riferisce alla possibilità di usufruire (da parte dell’individuo) di reti sociali in grado di favorire le possibilità di occupazione; il capitale sociale contribuisce ad incrementare la quantità di informazioni relative alle opportunità di carriera  (Adler e Kwon, 2002) e a incrementare il supporto sociale nei confronti dell’individuo (Seibert, Kraimer, e Liden,2001). In tal modo coloro che hanno un livello di network migliore posseggono maggiori possibilità di trovare un’occupazione e di sviluppare i propri obiettivi di carriera. Le reti sociali a disposizione del lavoratore sono importanti e possono fungere da supporto sociale per l’individuo, esse servono a migliorare le condizioni stressanti causate dal lavoro e dai periodi diinoccupazione.

Nei contesti di lavoro il livello di informazione influisce positivamente sulle opportunità di carriera (Burt, 1997a, 1997b; Portes, 1998) e sul raggiungimento delle proprie aspirazioni occupazionali . La grandezza del network (Seibert e altri, 2001) e la sua incisività (Higgins e Kram, 2001) sono due importanti caratteristiche che determinano il potenziale dell’informazione e la determinante di successo dei cosidetti “legami deboli” (La Rosa 2002). Come concettualizzato dal sociologo Fukuyama i legami deboli rappresentano l’insieme di conoscenze e relazioni interpersonali che permettono all’individuo di accedere al mondo del lavoro attraverso canali informali. Dalle formulazioni di Fukuyama si evince come i legami deboli abbiano effettivamente una forte influenza nell’accesso al mondo del lavoro, ciò penalizza di certo i canali formali di ricerca dell’occupazione,  come ad es i centri per l’impiego, i bandi pubblici di concorso e tutte le strutture statali (e non) predisposte al matching candidato-lavoro.  Alcuni autori sottolinearono come i top manager trovavano per di più lavoro attraverso reti di accesso informali e che il capitale sociale era importante per il raggiungimento del lavoro. Insieme al capitale sociale, quello umano ha un ruolo importante nella descrizione del costrutto pisco-sociale dell’employability. Esso si riferisce all’influenza che certe variabili hanno sull’avanzamento di carriera, tra queste l’età e il livello di scolarizzazione (Wanberg, Watt, e Rumsey, 1996), le esperienze di lavoro e formative (Becker, 1975), le performance ottenute nelle organizzazioni (Forbes e Piercy, 1991), l’intelligenza emotiva (Wong e Law, 2002), le abilità cognitive (Tharenou, 1997). Tra le variabili appena elencate il livello di scolarizzazione e l’esperienza lavorativa sarebbero i predittori più forti per l’avanzamento di carriera (Judge, Cable, Boudreau, e Bretz, 1995; Kirchmeyer,1998; Tharenou, Latimer, e Conroy, 1994). Il capitale umano è legato alle abilità di “know-how”, competenze che si riferiscono a conoscenze collegate con la carriera e ad abilità che si costruiscono tramite apprendimento continuo e sviluppo nelle attività professionali. Considerati i continui cambiamenti dell’attuale mondo del lavoro, l’esperienza costituisce un aspetto molto importate per il lavoratore il quale deve esser capace di sviluppare la portabilità di tali abilità (Anderson, 2001) attraverso l’edificazione di un proprio portfolio di abilità e conoscenze, figlio del passaggio da un organizzazione all’altra. Il capitale umano in tal senso è legato allo sviluppo di committment da parte del lavoratore al fine di promuovere un apprendimento continuo al lavoro (Becker, 1975; London & Smither, 1999), tali condizioni non fanno altro che promuovere lo sviluppo e l’innalzamento dell’employability. Investendo sull’apprendimento “on the job” gli individui hanno la possibilità di sviluppare il loro capitale umano, edificando così il loro livello di employability.

 

Lavoro flessibile e job insecurity: l’incertezza lavorativa avanza alla luce di un fenomeno eterogeneo – © Dr. Pierluigi Lido