La misurazione del livello di motivazione

La misurazione del livello di motivazione

Conclusa la trattazione teorica si intende a questo punto fornire un’elencazione di alcuni strumenti operativi, di uso quotidiano nella pratica manageriale, ma implicitamente suggeriti, come si è avuto modo di vedere, dalla speculazione sul tema della motivazione. Le leve operative verranno proposte in una sequenza che rispecchia l’iter cronologico del percorso tipico di una risorsa all’interno dell’azienda. Si va dall’assunzione, all’inserimento nel team, dalle politiche di incentivazione fino alla gestione globale e alla sua uscita (outplacement). In ogni fase, infatti, ci sono diversi aspetti da tenere in considerazione che impattano sulla motivazione in ambito lavorativo.

In questa prima sezione si vogliono approfondire le dinamiche motivazionali inerenti l’ingresso della risorsa all’interno dell’organizzazione, ma anche la problematica della rilevazione della motivazione in qualsiasi momento in cui la risorsa sia già operante nel contesto aziendale. Spesso le aziende traggono il livello di motivazione solo in seguito ai risultati dell’attività lavorativa di un singolo soggetto, ma in realtà, a parità di motivazione, soggetti diversi, o lo stesso soggetto in diverse attività, possono generare prestazioni molto differenti. Va detto che tali differenze in parte dipendono dalle condizioni esterne, dalle difficoltà e dagli imprevisti, dal grado d’incertezza del compito e dell’ambiente lavorativo; tuttavia, per una parte importante dipendono dalle caratteristiche strutturali del lavoratore stesso, dalle risorse che può mobilitare al suo interno, da ciò che è capace di fare, praticamente da quelle che vengono chiamate le sue competenze.

Nella definizione delle competenze esistono vari approcci, che privilegiano, secondo i diversi punti di vista, gli aspetti cognitivi e d’apprendimento, i saperi legati all’esercizio del ruolo e della professione, o gli aspetti d’esercizio delle competenze derivanti dalle caratteristiche del contesto di riferimento. Secondo Nelson e Winter  “la competenza è la capacità di dar luogo ad una sequenza regolare di comportamento coordinato, efficace rispetto agli obiettivi, dato il contesto in cui ha luogo”. Levati e Saraò  definiscono la competenza come “sistema di schemi cognitivi e comportamenti operativi, intrinseci di un individuo, causalmente correlati al successo sul lavoro o a una prestazione efficace, composta di motivazioni, immagine di sé, conoscenze e abilità”. In questa sede quindi il concetto di competenza va inteso in senso allargato, poiché deve tenere conto non solo delle capacità tecniche, necessarie allo svolgimento di una data attività, ma anche di quegli attributi intrinseci alla persona che consentono di mantenere un interesse vivo verso il lavoro, motivando il soggetto ad impegnarsi. Deriva da ciò l’impossibilità di analizzare le competenze prendendo in esame solo la posizione organizzativa: occorre infatti assumere come oggetto di analisi anche le qualità e le risorse individuali del soggetto al lavoro, opportunamente contestualizzate e confrontate. Si parla in questo caso di “attitudini”. Queste sono il risultato di un processo in cui partendo dall’analisi della posizione, si individuano i comportamenti necessari, stendendo un profilo tipo, in modo evidenziare eventuali predittori del comportamento performante.

La centralità assunta dal concetto di competenza professionale ha determinato uno stravolgimento delle modalità consolidate di intendere le qualifiche, le performances e i relativi modi di valutarle e certificarle. I diplomi e le qualifiche, tradizionalmente visti e utilizzati come parametri di valutazione della preparazione delle persone e talvolta intesi come determinanti del successo nel lavoro, hanno perso queste loro funzioni; la loro utilità è ora limitata al dire quali conoscenze sono possedute da un dato individuo e al massimo il modo come costui ne ha gestito l’acquisizione in un determinato contesto formativo. Poco rivelano in relazione al suo comportamento in un contesto lavorativo, dove entrano in gioco le competenze. Per far fronte a questi fabbisogni informativi, la valutazione della motivazione strettamente se non esclusivamente imperniata sul “sapere“ o, al massimo, sul “saper fare“, non è più sufficiente, in quanto poco risponde alle nuove logiche legate al “saper essere”. Dovranno essere analizzate quindi sia le conoscenze e le esperienze passate, ma anche le capacità  attualmente esprimibili e gli atteggiamenti. Sintetizzando si può dire che le competenze sono quell’insieme di abilità necessarie all’esercizio di un’attività lavorativa e la padronanza dei comportamenti basati su conoscenze (sapere e saper fare) e attitudini (saper essere). In sostanza, sono degli attributi intrinseci alla persona, ma significativi e strategici per la sua specifica mansione, in quanto correlati con la performance in compiti e atteggiamenti ben definiti. Si può quindi analizzare la competenza sotto due diversi aspetti che dipendono dalle finalità con cui si vogliono analizzare le risorse umane, a seconda, cioè, se si vogliono comparare tra di loro o se si vogliono comparare con un modello teorico di competenze previste per quel dato compito:

    1. Valutando il primo aspetto il principio guida è scoprire profili di competenze che si correlano alle prestazioni più elevate, dove il contenuto e i parametri della prestazione desiderata sono dati. Una delle finalità seguite da queste analisi delle competenze generali e standardizzate, è quindi definire tipi di competenze sufficientemente astratte e indipendenti dallo specifico contenuto del lavoro, per poter comparare delle competenze generiche, richieste anche in diverse posizioni lavorative, ma che sono chiaramente correlate a performance di livello superiore. In altre parole la competenza è data da conoscenze e abilità che, sulla scorta dell’esperienza pregressa, sembrano poter assicurare specifici livelli di qualità nell’esercizio di qualsiasi professione di riferimento e vengono assunti come indicatori  di un modello predittivo di performances future. Per supportare queste analisi la soluzione è costruire elenchi dei possibili contenuti delle competenze, dai quali si possa dedurre il livello di motivazione e coinvolgimento al lavoro (autonomia, affidabilità, capacità di pianificazione, di visione allargata, di gestione della complessità, di stabilità emotiva, di problem solving, etc.). Un limite di queste classificazioni è che l’elenco potrebbe continuare in linea di principio all’infinito. Inoltre è una visione della competenza che può essere da un lato troppo ampia, perchè prevede una serie indifferenziata di elementi tutti potenzialmente importanti, dall’altro troppo ristretta  rispetto ai possibili elementi costitutivi della competenza stessa ai quali è riferibile una specifica mansione.
    1. Per queste ragioni un secondo aspetto di valutazione è quello di analizzare le competenze lavorative in modo contestualizzato, partendo dal presupposto che le conoscenze applicabili nell’attività di lavoro concreta, costituiscono gran parte delle competenze che un soggetto può e deve esprimere. La finalità in questo caso è quella di tracciare i contorni delle competenze che servono per una data mansione, ed elaborare un modello di competenza performante, che tuttavia poco dice sul livello motivazionale del soggetto.

Lo step successivo sarà quello di capire il grado di profondità e incorporazione delle suddette competenze nella risorsa umana. Spencer & Spencer  propongono l’immagine dell’iceberg o delle scatole cinesi per rappresentare l’idea che le competenze abbiano degli strati “sommersi”, che non possono essere visti nemmeno dagli attori che le posseggono; e che esse racchiudano un “nocciolo duro” molto difficile da disgiungere dall’identità del soggetto stesso e da cambiare. Il set di competenze ha quindi una struttura stratificata, analoga a quella della conoscenza. Lo strato più profondo o nocciolo delle competenze (sotto la linea di galleggiamento) è costituito dai tratti, dalle doti della persona, dalle sue motivazioni intrinseche, e dalla personalità, cioè da ciò che si è capaci di fare per dotazione fisica ed emotiva, e  per dotazione culturale. Una componente più esterna (sopra la linea di galleggiamento), visibile e facile da analizzare è identificata nelle skills o abilità. Esse sono capacità apprese in modo esperienziale, diretto o tramite osservazione. Esse sono largamente identificabili con le conoscenze tacite richieste dalla mansione specifica, ovvero esempi di situazioni lavorative “tipo”. La preparazione professionale è vista come lo strato più codificabile, più facilmente modificabile e trasferibile delle competenze, attraverso la formazione (conoscenze esplicite).

La distinzione tra risorse comparabili o specifiche ad un compito non è comunque  solo una questione di approccio. Componenti generiche possono essere più o meno presenti in un modello di competenza. Tuttavia se una competenza è molto  specifica rispetto ad un uso o attività, la differenza tra il valore dei servizi resi in quell’attività rispetto al migliore impiego alternativo è molto elevata. Ciò significa che nella fase di inserimento, l’analisi della motivazione verso l’espletamento di un lavoro, non può che concentrarsi sulle competenze generiche, mancando ancora il dato esperienziale sul quale poter giudicare come il soggetto ha effettivamente messo in campo le sue qualità. Viceversa, nel caso la risorsa sia già operante, bisogna analizzare il suo livello di motivazione, contestualizzando le competenze generiche in pratiche effettivamente necessarie alla mansione, che ne può richiedere alcune e tralasciarne delle altre. Questa puntualizzazione può apparire ovvia, ma nella prassi manageriale spesso si confondono i due tipi di competenza, nei diversi momenti in cui vengono analizzate le risorse, o si ritiene che tutte le competenze servono per il ruolo in questione. Inoltre si basa su un modello teorico delle competenze, largamente accettato in dottrina, in cui si suppone che la prestazione lavorativa deriva dal reciproco concorrere delle capacità e delle motivazioni del lavoratore:

PRESTAZIONE =  CAPACITA’  x  MOTIVAZIONE

Il modello evidenzia come la qualità di una prestazione lavorativa dipende dalla competenza della persona rispetto al compito che è chiamata a svolgere (il Sapere), dalla motivazione a raggiungere l’obiettivo (il Volere), a cui si possono aggiungere le risorse tecnologiche, finanziarie, informative e umane che l’organizzazione gli mette a disposizione per lo svolgimento di quel compito (il Potere).

Per prefigurare le performance future, si dovranno quindi raffrontare le capacità realmente messe in campo nella mansione specifica, osservabili con comportamenti o risultati visibili, con le motivazioni rilevabili prima di introdurre la risorsa in azienda, verificando che queste coincidano con quelle ricavabili dal modello teorico di competenze previste per quel determinato ruolo, in una logica di anticipazione dei fabbisogni professionali nel medio periodo. Vanno inoltre distinte le competenze di base (informatiche, linguistiche, etc.) da quelle tecnico-professionali. A queste si possono aggiungere le competenze trasversali che fungono da collegamento fra la competenza tecnico-professionale e le competenze generiche facenti parte della personalità dell’individuo, nel senso che possono essere messe in atto sia per attività semplici, sia per attività complesse. Esse riguardano prevalentemente il rapporto che la persona ha con l’ambiente di lavoro, il modo di affrontare i compiti da svolgere, gli aspetti emotivi delle relazioni lavorative (lavorare in gruppo, sviluppare soluzioni creative, negoziare). Si parla infatti di competenze extra-role, che sono osservabili in comportamenti intenzionali definiti “pro-sociali” o “pro-attivi”. Le competenze trasversali o “aspecifiche” sono inoltre definite come le abilità relative al saper mettere in atto strategie efficienti per utilizzare le risorse possedute (conoscenze, valori, motivazioni), coerentemente con le esigenze del compito (comportamento lavorativo atteso, condizioni di esercizio, ambiente, organizzazione) . La valutazione della motivazione, infine, non è un fatto isolato, ma deve introdursi in un “ciclo della prestazione” che passa attraverso tre aree distinte di intervento. Una fase iniziale di pianificazione che si realizza con l’accordo sugli obiettivi di lavoro e di sviluppo personale del collaboratore. Il manager deve definire con il proprio collaboratore le aspettative che ha dalla sua funzione, intendendo per aspettative una chiara definizione degli obiettivi annuali e anche dei comportamenti attesi .

Una fase intermedia che comprende, in genere, l’intero anno di lavoro, durante la quale si svolgono incontri vari di monitoraggio. Il manager svolge colloqui sistematici con il proprio collaboratore, non solo legati alle contingenze del lavoro ma anche alla comunicazione delle osservazioni sui suoi comportamenti e sullo stato di avanzamento dei suoi obiettivi. Il numero degli incontri non può essere programmato a priori, in quanto dipende dalle occasioni in cui è possibile comunicare esempi comportamentali significativi per lo sviluppo del collaboratore. Il colloquio di monitoraggio ha una duplice finalità: sviluppare il dipendente e motivarlo: pertanto anche la gratificazione come il rimprovero costruttivo fanno parte del monitoraggio. Il manager deve sentirsi ed essere percepito come partner della performance del collaboratore e non come spettatore passivo. Il suo ruolo non può essere limitato al processo finale di valutazione bensì al piano completo della performance, altrimenti si creerebbe un’immagine di arbitro, più o meno oggettivo nei giudizi, non coinvolto e corresponsabile di quei risultati.

Il ciclo della performance si conclude con la discussione formale dei risultati e la valutazione del collaboratore, attraverso una fase formale nella quale si presenta e si discute su un rapporto scritto. Questa fase di formalizzazione del giudizio è sicuramente la più delicata e rischiosa, ma sarà sicuramente più facile quanto più sarà percepita come naturale corollario di un anno di monitoraggio.

Nei prossimi paragrafi si tratteranno distintamente la fase iniziale e la fase intermedia della misurazione del livello motivazionale.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

L’influenza degli altri soggetti

L’influenza degli altri soggetti

La considerazione delle aspettative e del processo di motivazione interna, pur non potendo descrivere il processo di motivazione nella sua interezza, fornisce comunque utili suggerimenti ed implicazioni che hanno una grande rilevanza per i manager. Innanzitutto è necessario scoprire quali risultati particolari sono apprezzati da ogni lavoratore, creando un collegamento diretto ed esplicito tra i vari livelli di prestazione e i rispettivi risultati in termini di ricompense.

Le aspettative che generano motivazione nei dipendenti, infatti, non sprigioneranno il loro effetto se i soggetti non sperimenteranno un chiaro nesso fra prestazione e risultato. A questo fine sarà opportuno specificare quali comportamenti specifici costituiscono un buon livello di prestazione, così che il soggetto potrà valutare se ne è all’altezza. In secondo luogo bisogna capire se esistono aspettative contrastanti, incoraggiate anche da altre persone e soggetti di influenza, interni o esterni all’organizzazione, la cui incompatibilità non è percepita dal dipendente.

Se altrimenti fosse percepita, egli si orienterebbe in modo più netto verso una specifica scelta che, pur contrastando con altre, avrà la combinazione migliore di probabilità di successo e valore soggettivo. Un’altro aspetto importante che la teoria delle aspettative vuole evidenziare riguarda la progettazione dei compiti, delle mansioni e dei ruoli.

Questa attività va fatta in modo che ogni individuo, proprio perché ha aspettative e desideri diversi, avrà l’opportunità di soddisfare i propri bisogni mentre lavora; per questa ragione la ricompensa non potrà che essere personalizzata, in quanto inequivocabilmente associata a diversi livelli di impegno-prestazione, e sufficientemente alta da far percepire l’effettivo raggiungimento del risultato. È altresì importante sottolineare come in effetti una tale attività di differenziazione compensativa, sia difficile da mettere in pratica senza provocare un senso di ingiustizia o inequità, quando non degenera in favoritismi e nepotismo.

Quest’ultimo aspetto, ma anche la circostanza che la formazione delle aspettative possa essere influenzata da altri soggetti, sono stati pienamente colti da alcuni approcci socio-relazionali che focalizzano l’importanza della Giustizia Organizzativa, dell’Equità e dell’Apprendimento Cooperativo , ciò che completa il sistema dei fattori interagenti nel modello del contratto psicologico. Già la teoria di Bandura , come si è discusso, ha contribuito in modo determinante a dare una visione sistemica dell’azienda, perché, oltre al ruolo del dipendente e del manager nel processo motivazionale, introduce il ruolo indiretto degli altri soggetti e dell’ambiente organizzativo in cui l’individuo è inserito. In altre parole il dipendente può correggere i propri comportamenti non solo in risposta a pressioni esterne esercitate sulla sua persona, ma anche in base a come percepisce i cambiamenti intervenuti in altri soggetti, conseguenti all’azione di fattori esterni su loro interagenti. Non è necessario cioè, sperimentare in prima persona le conseguenze.

È possibile invece tesorizzare l’esperienza di altri e sviluppare a propria volta uno schema di comportamento preventivo, sul modello del comportamento osservato in altre persone,  utilizzabile in situazioni analoghe. La teoria dell’apprendimento sociale coglie quindi un aspetto molto importante del comportamento organizzativo che si rileva frequentemente e che ha un forte impatto nel processo di formazione delle proprie aspettative. È innegabile infatti che i dipendenti modificano il proprio comportamento in funzione delle conseguenze in termini di premi, punizioni e altri accadimenti derivanti dai passati comportamenti dei colleghi, soprattutto quelli aventi una mansione analoga, poichè si sentono indirettamente interessati. Il soggetto potrebbe infatti non essere il destinatario di tali accadimenti solo temporaneamente, perché ad esempio l’organizzazione non ha ancora rilevato gli effetti del suo comportamento.

Se quindi percepisce che un comportamento simile di un collega ha destato riprovazione, o che un comportamento differente ha generato approvazione, modificherà di conseguenza il proprio comportamento e se non lo fa, inevitabilmente si modificheranno le aspettative correlate al proprio comportamento attuale. In base alla teoria di Bandura si può pertanto dividere il processo diapprendimento in due fasi.

    1. Una prima fase in cui il dipendente, attraverso un’osservazione del proprio ambiente organizzativo e dei soggetti di riferimento, confronta le conseguenze del proprio comportamento con quelle del comportamento di altri. Nel caso differiscano, valuta se le conseguenze del comportamento di altri sono in qualche modo associate alle possibili conseguenze future potenzialmente legate al suo comportamento attuale. Se si trova questo nesso ciò avrà intanto come effetto quello di modificare le aspettative del dipendente. Ossia il soggetto si convincerà che il suo comportamento attuale, prima o poi, porterà a conseguenze analoghe già sperimentate da un altro soggetto con la stessa struttura comportamentale, e non alle conseguenze che aveva ipotizzato fino ad ora.
    1. Una seconda fase, eventuale, perché dipende da quanto le conseguenze osservate influiscono nella propria sfera di interessi, nella quale il dipendente può modificare gli atteggiamenti verso l’organizzazione, o mettere in pratica comportamenti in ambito lavorativo finalizzati a ricercare le conseguenze desiderate o evitare quelle indesiderate, così da assecondare l’input fornitogli dalla modificazione delle aspettative.

Le ricerche estensive e gli approcci successivi alla teoria delle aspettative, invece, pur approvandone la fondatezza e la struttura del modello motivazionale, si distanziano fortemente in quanto trascurano in modo netto il problema dei fattori psicologici interni, concentrandosi invece sul ruolo dei fattori esterni come le ricompense, i compiti, le mete e soprattutto l’influenza di altre persone. E anche quando utilizzano come modello base di processo motivazionale quello delle aspettative, riconducono all’influenza dei fattori esterni suindicati la formazione delle aspettative stesse, non riconoscendo al soggetto un contributo attivo nel crearle.

Queste teorie ipotizzano che la motivazione è influenzata dalle percezioni su come si viene trattati al lavoro. Ciò che contribuisce in modo determinante a motivare una persona non risiede nell’ambito delle pulsioni interne, ma è da riferire al contesto delle relazioni interpersonali, a ciò che gli altri fanno e le permettono di fare. La diversità, come si è visto, è un valore, ma lo è anche l’uguaglianza. Per arrivare a trattare ogni persona secondo le sue necessità, bisogna prima rispondere al bisogno di equità che le persone manifestano. Si distingue inoltre fra giustizia distributiva e giustizia procedurale .

La prima si riferisce a quanto le persone ritengono di essere trattati in modo equo in relazione ai risultati del lavoro, al loro impegno e ai loro sforzi.

Si ipotizza quindi che i lavoratori sono motivati a mantenere rapporti equi e a modificarli, se percepiscono di essere trattati iniquamente, in modo da riequilibrare la situazione organizzativa. potrebbero ad esempio abbassare il livello di sforzo, o richiedere un aumento, o se si sente lui il privilegiato, impegnarsi in lavori meno appaganti. O ancora richiedere un maggiore impegno a chi si ritiene essere privilegiato. Infine potrebbe risolvere queste conflittualità, mediante distorsioni psicologiche, tese ad esempio a gonfiare il valore del suo lavoro, o sgonfiare quello del privilegiato.

Il problema della giustizia procedurale si riferisce invece al livello di equità percepito rispetto al management, relativamente alle decisioni che quotidianamente vengono prese, ma che inevitabilmente riguardano anche il lavoratore. In alcuni casi possono, tra l’altro essere ingiuste, non venendo applicate (o venendo disapplicate nei fatti), perché ad esempio porta a conseguenze ritenute sfavorevoli. Questo senso di ingiustizia, può essere fortemente limitato se si da la possibilità far presenti le proprie argomentazioni e giustificare il proprio dissenso, prima che la decisione venga presa. Ma dipende anche da quanto si sia trattati con rispetto, dignità o dal grado di influenza che si può avere nel processo decisionale. È evidente come le percezioni di giustizia organizzativa influenzino il processo motivazionale, e come le reazioni del lavoratore possano essere ben inquadrate all’interno dalla logica di prestazione-controprestazione del contratto psicologico.

Conclusa la trattazione delle varie teorie, si analizzeranno le più importanti pratiche manageriali per gestire la motivazione, fornendo “alcuni strumenti del mestiere”, derivanti dalla precedente riflessione teorica, di utile impiego per il controllo dei processi di motivazione trasversalmente nei vari aspetti della  gestione aziendale. Tali concetti saranno quindi il risultato di una elaborazione in cui si manterrà un costante collegamento con l’orientamento dottrinale che li ha generati, combinata con i metodi recentemente più utilizzati dalla prassi aziendale.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

L’auto-motivazione e l’auto-determinazione

L’auto-motivazione e l’auto-determinazione

Il paradigma comportamentista, anche a causa del suo riduzionismo, comincia a entrare in crisi già alla fine degli anni ’60, come si è già discusso ad opera del costruttivismo, cioè la riscoperta della mediazione cognitiva (e di tutte le sue implicazioni) tra lo stimolo e la risposta, a scapito di una analisi esclusivamente focalizzata sul comportamento osservabile. Più che analisi del comportamento, bisogna invece parlare di analisi della condotta lavorativa, ridando all’azione cosciente del soggetto un ruolo quantomeno paritario rispetto alle ricompense estrinseche, nel garantire il funzionamento del processo motivazionale.

Inoltre,  viene evidenziata in questa prospettiva l’importanza nel processo motivazionale delle ricompense intrinseche e della soddisfazione lavorativa.

L’organizzazione, infatti, può solo fornire al dipendente l’opportunità di incanalare verso gli obiettivi aziendali le proprie energie (motivazione a partecipare), ma ciò dipende esclusivamente dal suo impegno morale e dal livello di contributo che vuole fornire (motivazione a produrre).

Le prospettive più recenti, in definitiva, mettono fortemente in discussione l’idea che il rinforzo possa essere considerato una fonte motivazionale primaria: tuttavia, non si può disconoscere che la motivazione abbia anche una componente estrinseca, come il desiderio di essere approvati, o riconosciuti competenti. Per dare quindi una spiegazione più chiara del rapporto che sussiste fra comportamenti e incentivi nello schema del contratto psicologico, bisogna ipotizzare una distinzione fra motivazioni “estrinseche”ed “intrinseche”, se non addirittura una dicotomia.

Deci , con la sua teoria dell’Auto-Determinazione, dimostra in alcune ricerche che solo quando il lavoratore si impegna in un’attività che ritiene veramente interessante, riesce ad esprimere una motivazione autonoma e totalmente intenzionale, in quanto sperimenta la possibilità di una scelta. Viceversa, l’uso di rinforzi esterni, venendo vissuti come una sorta di pressione, innesca un meccanismo inconscio di regolazione che si risolve in una motivazione controllata. Secondo Harter, invece, il lavoratore, ottenendo rinforzi positivi, interiorizza un sistema di “autogratificazione” che gli consente di padroneggiare maggiormente le strategie finalizzate al raggiungimento di determinati obiettivi.

È come se si “autosomministra” delle ricompense le quali non sono altro che delle sensazioni positive per aver portato a termine il proprio compito, da cui scaturisce un senso di autonomia e di crescita interiore. Con l’incremento di questo processo diminuisce il bisogno di gratificazione esterna ed aumenta la motivazione grazie alla percezione della propria competenza e del proprio controllo sull’ambiente.

In altre parole le ricompense possono abbassare la qualità delle prestazioni, specie quando si tratta di lavori creativi, risultando inoltre inutili nel caso i comportamenti non siano facilmente osservabili.

Alcune ricerche condotte da Harter hanno rilevato che offrire premi o rinforzi estrinseci per l’impegno nelle attività può minare alla motivazione intrinseca, tranne nel caso in cui effettivamente è difficile trovarne (ad esempio in una catena di montaggio). I teorici della motivazione intrinseca  danno ragione di tale effetto spiegandolo con il  cosiddetto “principio di svalutazione”, in base al quale una legittimazione particolarmente rilevante per il comportamento di un individuo finisce per svalutare tutte le altre: così, un soggetto può in origine percepire un interesse intrinseco derivante dall’eseguire un compito, ma, se per il comportamento è offerto un premio estrinseco desiderato, l’interesse intrinseco è svalutato.

Tali scoperte, chiamando in causa la diffusa convinzione che il denaro sia un modo efficace ed anche necessario per motivare le persone, confermano le tesi di un filone di studi centrato sul concetto di Human Agency (o agentività). Con questo termine ci si riferisce alla facoltà dell’uomo di agire attivamente sull’ambiente lavorativo, di generare azioni mirate al conseguimento di scopi desiderati e di monitorare (mediante autoregolazione) la propria condotta, utilizzando le guide cognitive e gli auto-incentivi che gli sono propri, per modificarla.

Lo stesso Bandura dimostra nelle sue più recenti ricerche che la motivazione è direttamente influenzata dalle convinzioni dell’individuo circa il suo valore, le sue abilità o competenze, gli obiettivi e le aspettative di successo o insuccesso e i sentimenti positivi o negativi che derivano dal processo di autovalutazione. Secondo Bandura la percezione che una persona ha di sé deriva da quattro fonti: le performances precedenti, l’osservazione dell’esecuzione da parte di un altro, la persuasione e le proprie reazioni psicofisiologiche ed emotive. Più che da schemi di rinforzo, la motivazione viene in primo luogo influenzata da fattori di auto-efficacia, auto-stima e self-confidence (crederci).

Tra l’altro gli individui possono non soffrire perdite nella percezione del proprio valore se già si giudicano inefficaci in talune attività, che comunque non reputano essenziali (ad esempio spegnere un macchinario a fine turno). Le prestazioni inoltre sono socialmente definite in termini di “comportamento richiesto” o in termini di “risultato”. Il dipendente, secondo Bandurra, utilizza tutta una serie di tecniche per incanalare la propria automotivazione all’interno di queste due dimensioni. Regola il proprio senso di auto-efficacia sperimentando direttamente il ruolo e creando dei modelli di successo per ottenere i risultati attesi (modelling). Solo nei casi di grande stabilità del contesto lavorativo, inoltre, il lavoratore ricava queste informazioni osservando i colleghi performanti (sperimentazione vicaria). L’automotivazione, quindi, deriva da una percezione di auto-efficacia, cioè dalla tendenza a percepire sé come persona capace di scegliere e mettere in atto, di fronte a certe situazioni, i comportamenti più adeguati tra quelli disponibili. Il positive thinking nel lavoro (pensare positivo) è infatti una componente fondamentale dell’automotivazione. Esso si può intendere come la percezione di competenza, ovvero come tendenza a valutare positivamente le proprie capacità e skills rilevanti rispetto ad un’area specifica di attività.

In sintesi la teoria dell’apprendimento sociale pone l’accento sul concetto di “determinismo reciproco”, intendendo con questo termine la circostanza in base alla quale i fattori personali (come le aspettative, le intenzioni, le percezioni e le rappresentazioni mentali) e i fattori situazionali interagiscono tra di loro e risultano codeterminanti. Si è visto poi che l’automotivazione non viene intaccata quando a un insuccesso non si da valore.

La considerazione simultanea del valore di una conseguenza e del modo di formarsi le aspettative, è alla base di una teoria che da un grande contributo nel chiarire le modalità con cui il comportamento del lavoratore attiva il processo decisionale. Si tratta della Teoria dell’Aspettativa-Valenza a d opera di Vroom . In base a questa teoria, come nel caso dell’automotivazione, gli individui orientano i propri sforzi verso quelle attività che ritengono portino a risultati desiderabili. Il concetto principale è quindi quello di aspettativa, cioè la stima sulla probabilità che un determinato evento si realizzi. L’aspettativa dipende però sia dalla stima dello sforzo che il lavoratore ritiene necessario per ottenere una certa performance, sia il giudizio sull’efficacia di tali performance, ossia su quanto queste materialmente portino a delle conseguenze sperate . Il fatto di considerare variabili come le aspettative ed i valori consente a questa teoria di cogliere le differenze, in termini di attrattività dei risultati, insite nella struttura mentale di ogni soggetto e che condizioneranno di conseguenza i loro comportamenti. Ai fini dell’analisi della motivazione, quindi, ciò che è importante non è l’effettiva correlazione tra impegno e prestazione, ma la correlazione che la persona coinvolta pensa che esista. Questo fatto dipende dalla convinzione che l’impegno e la prestazione non sempre sono direttamente collegati o almeno non lo sono oggettivamente. Si è visto come la fiducia in se stessi può essere un elemento determinante.

La teoria dell’aspettativa-valenza è quindi una teoria focalizzata sul processo, ma, facendo riferimento al concetto di aspettative, rimanda ad un parallelo approfondimento degli aspetti personali e psicologici che modellano il formarsi delle aspettative stesse dell’individuo. In questo senso è una teoria che fa in qualche modo da collante fra l’approccio del contenuto e quello del processo, condividendone però entrambi i limiti interpretativi. Pertanto se si vogliono utilizzare le ipotesi del modello di Vroom, accettando tutte le conseguenze che la sua validazione inevitabilmente comporta, ci si addentrerebbe più che altro in un’analisi introspettiva e non del processo di motivazione. Il risultato è lo sforamento del campo di indagine iniziale della teoria, disattendendo le relative finalità di ricerca.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

La motivazione rivelata attraverso l’osservazione comportamentale

La motivazione rivelata attraverso l’osservazione comportamentale

 

Nel paragrafo precedente si è visto come il sistema di definizione degli obiettivi sia un momento fondamentale del processo motivazionale, in accordo al modello di base del contratto psicologico. Si è visto inoltre come sia importante che quest’attività sia il risultato di una mediazione degli obiettivi aziendali con quelli dei lavoratori. Questi ultimi, tuttavia, non possono essere pienamente conosciuti dal management, ne sono frequenti in azienda dei momenti dedicati alla loro esplicitazione, fatti salvi alcuni contesti aziendali in cui viene praticata una politica attiva dell’ascolto. Un modo che spesso si ritiene invece utile, per comprendere verso quali valori è orientato il lavoratore, consiste nel monitorare il suo comportamento sul lavoro e gli eventuali scostamenti derivanti dal cambiamento di alcune variabili organizzative.

Un approccio che su questa linea ha fornito molti spunti è stato quello comportamentale. Come lo stesso termine suggerisce il focus, in questo caso, è sui fattori che influenzano il comportamento, e quindi anche il comportamento performante (prestazione), bypassando l’analisi della motivazione in se stessa, ritenuta semplicemente uno degli strumenti di cui si serve il comportamento per raggiungere un determinato scopo. Risulta chiaro come secondo questa visione il concetto di motivazione si allontana ancora di più da quello di auto-motivazione, non essendo più uno strumento di cui dispone e di cui ne determina l’insorgere o ne controlla l’influenza sul comportamento (questo sicuramente è uno dei maggiori limiti di questo approccio, come si vedrà nel prossimo paragrafo). Riconduce invece la motivazione di ogni comportamento ad una forza attivabile dall’apprendimento secondo un modello “stimolo-risposta”. Si pone dunque il problema della motivazione estrinseca e dell’influenza delle gratificazioni esterne da parte del manager. Con il comportamentismo, come si è detto, diventano oggetto d’indagine scientifica i comportamenti organizzativi, ma a condizione che sia possibile tradurre le loro dinamiche in “comportamenti osservabili”, ossia valutarle come risposte a condizioni di stimolo chiaramente ed inequivocabilmente individuabili da un osservatore esterno.

Il primo comportamentismo, che può farsi risalire ad autori come Watson, McDouglas e Skinner , si fondava addirittura sul concetto di “riflesso condizionato” e di istinto, come una disposizione innata ad agire e a prestare attenzione a specifici comportamenti utili alla sopravvivenza e al benessere. Una sorta di “imprinting” o di tendenza istintiva che si manifesta in una sequenza comportamentale e adattiva di fronte a specifici stimoli. La motivazione, dunque, è un comportamento finalizzato, ma istintuale, perché caratterizzato da aspettative e capacità di previsione innate. I comportamenti e le competenze innate possono emergere grazie all’interazione con specifici stimoli attivatori o con circostanze ambientali adeguate , che, mettendo in azione la motivazione attraverso un segnale emozionale, rompono uno stato di equilibrio interno.

Questo approccio in definitiva nega la motivazione come forza autonoma, dal momento che lo stato naturale dell’individuo sarebbe l’equilibrio o l’inattività.

Alcuni approcci, anzi, volendo tradurre le concezioni originali in strumenti applicativo-gestionali, forniscono addirittura una serie di procedure per influenzare in modo diretto il comportamento sul lavoro. Si fa riferimento agli studi sulla modifica del comportamento organizzativo di Luthans e Kreitner, o alla Teoria sociale dell’apprendimento di Bandura . Insito nel concetto di apprendimento è il processo mediante il quale i comportamenti si ripetono o meno a seconda delle conseguenze del comportamento precedente, che va sotto il nome di “condizionamento attivo” o “condizionamento operante”. Tornando all’approccio originale di Luthans, si menzionano gli step necessari per modificare il comportamento, da lui ipotizzati nello studio sopra citato assieme a Kreitner :

    1.  Identificare i comportamenti critici. Si tratta di capire quali comportamenti non sono adeguati e andrebbero cambiati e quali comportamenti utili invece non sono stati messi in atto. Si devono identificare comportamenti osservabili, quindi, il presentimento di una motivazione non sufficiente, non costituisce di per se un comportamento da evitare, se non è accompagnato da segnali evidenti. Di contro, atteggiamenti quali il venire sistematicamente in ritardo, o il commettere un numero eccessivo di errori, potrebbero costituire modi di fare evidenzianti una mancanza di motivazione. La loro rilevanza, inoltre, deriva dal fatto che influiscono tangibilmente sia sulla prestazione individuale che su quella dell’intera organizzazione.
    1. Misurare la frequenza. È necessario avere un’idea della ripetitività dell’atteggiamento per due motivi. In primo luogo si ha una conferma dell’esistenza effettiva di uno stato di insoddisfazione o de-motivazione; inoltre si può capire quale è lo stato attuale delle cose, prima di qualsiasi intervento, in modo da valutare a posteriori, con maggiore precisione, gli eventuali effetti generati dal cambiamento.
    1. Effettuare un’analisi funzionale. Quest’analisi è finalizzata a tentare di comprendere il comportamento in esame, in tutte le sue sfaccettature, in modo da facilitare le azioni correttive. Un aspetto da comprendere è se l’atteggiamento critico è correlato ad un altro in maniera costante. Se ad esempio il soggetto arriva in ritardo solo quando si sa che il dirigente responsabile arriva in ritardo, si evidenzia una correlazione in quanto il ritardo del dirigente precede sistematicamente quello del dipendente.
    1. Sviluppare ed attuare una strategia di intervento. La fase successiva riguarda la predisposizione di una strategia da utilizzare per influenzare la prestazione sul lavoro. Il manager di solito usa azioni di rafforzamento di un comportamento sperato o che esaltino l’inopportunità di un comportamento indesiderato.
    1. Valutare gli effetti dell’intervento. Ci sono diversi modi più o meno scientifici utilizzati per valutare le conseguenze in termini di modificazione del comportamento organizzativo. L’analisi della prestazione, di cui si parlerà nel prossimo capitolo, e la già menzionata direzione per obiettivi ne sono un esempio.

Altrettanto importante, se si vuole che gli effetti permangano, è quello di fornire in modo adeguato l’informazione di ritorno (feedback) relativa al miglioramento della performance. Ciò può avvenire o rendendola pubblica, attraverso elogi, encomi e premi, o individualmente, con un colloquio privato.

Le strategie che si prefiggono di modellare il comportamento del soggetto sul lavoro sono alla base delle idee scaturite da vari autori, le cui tesi confluiscono in un più generale schema di pensiero che va sotto il nome di Teoria dei rinforzi. I principi fondamentali della teoria del rinforzo si basano sul neo-comportamentismo skinneriano  e sulla ideologia del condizionamento operante, ma accoglie anche influssi di orientamenti anglosassoni come il “New Behaviour Generator” e il “Future Pacing”, che hanno individuato l’importanza della ripetizione mentale, ovvero del processo di preparazione mentale, attraverso l’immaginazione, per rispondere o agire nel modo in cui si dovrebbe agire in una determinata situazione futura . Il suo assunto di base, infatti, è che un soggetto è portato ad impegnarsi in un compito o in un’attività se tale comportamento in passato è stato premiato (con lodi, complimenti, un buon voto, un regalo, l’approvazione sociale) o se un comportamento alternativo è stato punito (con un rimprovero, un segno palese di disapprovazione, un voto insufficiente). In altre parole, gratifiche e ricompense sono rinforzi che aumentano la probabilità dei comportamenti perchè stabilizzano le motivazioni; esistono però anche rinforzi negativi, che mirano a demotivare il comportamento oggetto di punizione e quindi ne riducono la probabilità, lo indeboliscono, ne diminuiscono l’intensità o la frequenza . Se invece un comportamento non viene più rinforzato, lo si demotiva fino a farlo estinguere. Inoltre, il comportamento desiderato tende a mantenersi stabile se il rinforzo è dato in maniera continuativa. Ciò non significa che un comportamento debba essere rinforzato ogni volta che si manifesta; anzi, per i teorici di questa prospettiva la modalità più efficace è quella del “rinforzo intermittente”, ciò dato alcune volte, a caso, senza regola fissa (ad esempio lodare alcune ma non tutte le azioni corrette di un lavoratore. Ma per essere motivante, il rinforzo deve essere contingente alla prestazione, cioè temporalmente vicino al comportamento, e specifico, cioè relativo ad un preciso e determinato aspetto della prestazione. I rinforzi, poi, possono avere effetti paradossali, come diminuire la volontà dei lavoratori di impegnarsi in compiti difficili o in attività sfidanti, abbassare l’autostima, o spingere i soggetti a non svolgere attività quando queste non sono oggetto di una valutazione corretta. La lode e la critica, infatti, possono avere effetti inaspettati a causa del loro legame con le attribuzioni di sforzo, dal momento che di solito si tende a percepire lo sforzo e l’abilità come inversamente collegati . Rinforzi generici, come le lodi “bravo”, “bene”, disorientano il lavoratore, il quale non comprende quale aspetto del suo comportamento ha effettivamente soddisfatto il suo responsabile. Il rinforzo deve infine essere credibile, cioè non contraddetto da atteggiamenti  paraverbali o non verbali .

 

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

Il ruolo del manager

Il ruolo del manager

Oltre alla struttura del processo motivazionale, descrivibile attraverso il contratto psicologico fra lavoratore e azienda, uno degli elementi fondamentali del processo di motivazione è l’insieme degli obiettivi e degli incentivi che permettono di far scattare, o meno, l’azione orientata del lavoratore, ciò che introduce il ruolo attivo del manager. La focalizzazione verso questa dimensione del processo di motivazione trova un fondamento teorico in Likert, il quale, in varie ricerche empiriche, confuta la tesi secondo cui il maggior rendimento dipenda unicamente dal grado di soddisfazione soggettiva dei dipendenti e dal loro atteggiamento più o meno favorevole nei confronti dell’azienda . In questi contesti lavorativi, sono pertanto i principi gestionali a fare la differenza, nel momento in cui si basano su una leadership “amichevole”, una rete di comunicazione efficace e l’utilizzo dei gruppi di lavoro. Così, il rendimento è tanto maggiore quanto minore è la pressione esercitata dall’alto per ottenerlo, se il controllo gerarchico è più distaccato e se le reazioni in caso di errori non sono punitive ma orientate ad una comprensione amichevole dei motivi. Il capo ideale per Likert è quindi quello che riesce a conciliare il rispetto dell’autonomia dei propri dipendenti con continui e collaborativi scambi di idee. Likert, in base all’osservazione empirica dei diversi stili direttivi adottati in numerose aziende, presenta quattro modelli generali di management che definisce: autoritario-sfruttatorio, autoritario-benevolo (o paternalistico), consultivo e partecipativo di gruppo. Passando progressivamente dal modello autoritario-sfruttatorio a quello partecipativo si ha secondo Likert una progressiva democratizzazione, un più vasto coinvolgimento dei dipendenti, una maggiore responsabilizzazione e pertanto anche risultati qualitativamente superiori.

L’auspicio di un management partecipativo come quello ipotizzato da Likert, non è l’unico approccio che considera la centralità del manager per il corretto funzionamento del processo motivazionale. McGregor, ad esempio, rielaborò la teoria di Maslow applicandola al management. Egli rilevò che il comportamento del dirigente si modifica in relazione alla concezione che egli ha dell’uomo, distinguendolo in due modalità alle quali diede il nome di Teoria X e di Teoria Y . Nel primo caso il dirigente ritenendo che l’uomo non ama lavorare ed è di natura indolente, pigro, portato a fare il meno possibile, esercita una leadership caratterizzata dall’autorità, dalla supervisione diretta, dal ricorso a punizioni, perché solo in questo modo possono essere raggiunti gli obiettivi organizzativi. Questa situazione è tipica dell’organizzazione tradizionale, di stampo tayloristico, con il suo processo decisionale centralizzato, il rapporto piramidale superiore-subalterno e il controllo esterno del lavoro, ma si è sviluppata in base a determinate ipotesi sulla natura e sulla motivazione umana. La Teoria X parte cioè dall’idea che la maggior parte delle persone ritengano il lavoro in se per se implicitamente sgradevole, preferiscano essere guidate, non siano interessate ad assumersi responsabilità e la motivazione si verifica solo ai livelli fisiologici e di sicurezza. A tale filosofia si accompagna la convinzione che la gente sia motivata dal denaro e dalla minaccia di punizioni. Dopo aver descritto la Teoria X, McGregor mise in discussione la correttezza di questa concezione della natura umana e, quindi, l’adeguatezza e l’efficacia delle teorie di management basate su di essa, in molte situazioni odierne. Attingendo ampiamente dalla gerarchia dei bisogni di Maslow, McGregor giunse alla conclusione che le ipotesi della Teoria X sulla natura umana se applicate universalmente, appaiono di frequente infondate, e che le impostazioni di management che si sviluppano sulla base di tali ipotesi non riescono a motivare adeguatamente le persone. Il management fondato sull’imposizione e il controllo può fallire, secondo McGregor, perché si tratta di un metodo discutibile per motivare le persone, i cui bisogni fisiologici e di sicurezza sono ragionevolmente soddisfatti e i cui bisogni sociali, di stima e autorealizzazione stanno assumendo un ruolo determinante. I programmi di incentivazione individuale forniscono ad esempio un tentativo di controllare il comportamento . McGregor riteneva quindi che il management avesse bisogno di prassi basate su una comprensione più precisa della natura e della motivazione umane. Questa convinzione lo portò a sviluppare una teoria alternativa sul comportamento umano, detta appunto Teoria Y. La teoria ipotizza che la gente non sia, di natura, pigra e infida, e postula al contrario che le persone possano essere sostanzialmente autodisciplinate e creative nel lavoro se opportunamente motivate. Secondo la teoria Y, infatti, le persone amano lavorare, in quanto la soddisfazione sul lavoro è un valore importante, sono in grado di autogestirsi ed autodirigersi, sono responsabili ed attivi ed amano esprimere la loro capacità creativa nella risoluzione dei problemi. Anzi, secondo questo approccio, il lavoro è ritenuto naturale come il gioco, se le condizioni lo permettono. Un compito fondamentale del management dovrebbe quindi essere quello di liberare questo potenziale negli individui. In questo caso il dirigente ricorre alla delega, esercita una supervisione generale e ricorre ad incentivi positivi, elogi e riconoscimenti per orientare gli obiettivi dei lavoratori .

Nella teoria appena esposta si è potuto notare come la definizione degli obiettivi sia una delle componenti più strategiche e allo stesso tempo più delicate dell’attività manageriale. La focalizzazione sugli obiettivi e sulle modalità con cui il manager deve strutturarli per far funzionare lo schema del contratto psicologico, era tuttavia già stata presa in considerazione dall’attività speculativa di Locke nella sua Teoria del Goal-setting . Tale teoria fornisce un valido sistema di norme a supporto di un orientamento gestionale molto in voga negli ultimi decenni, la “Direzione per Obiettivi”. Con questa accezione si intende la modalità di esercizio dell’autorità manageriale basata sulla delega e su un sistema ordinato di parametri-obiettivo che orientano il comportamento e le decisioni dei componenti di un’organizzazione, al fine di responsabilizzarli e coinvolgerli in un personale progetto lavorativo. L’attività con cui il manager fissa gli obiettivi, infatti, ha una doppia valenza, strategica e operativa. Da un punto di vista strategico essa si inserisce in quelle politiche di “goal commitment”  (coinvolgimento verso la finalizzazione) protese all’incontro delle aspirazioni del lavoratore e al raggiungimento della “soddisfazione lavorativa”. Da un punto di vista operativo, invece, gli obiettivi possono essere concepiti come livelli di performance specificati a priori (e quindi una scala di misurazione del grado di raggiungimento della soddisfazione lavorativa stessa). Conseguentemente è necessaria una mole minore di informazioni. Uno svantaggio di questo processo è la regolazione della cosiddetta “tensione ottimale” nel raggiungerli, che Locke cerca di superare fornendo tutta una serie di suggerimenti. Innanzitutto gli obiettivi vanno distinti in obiettivi a lungo termine (garantire una redditività mensile del 12%) e obiettivi prossimali (rapportare settimanalmente alla Direzione Commerciale, modificare il portafoglio prodotti). Questi ultimi non sono altro che dei sub-obiettivi strumentali agli obiettivi di lungo raggio, e sono importantissimi perché svolgono una funzione di feed-back che consente di passare ad una fase successiva. La mancanza di un feed-back, può infatti annullare gli effetti positivi derivanti dall’assegnazione di obiettivi impegnativi e stimolanti. Gli obiettivi difficili, invece sono di per se più ambiziosi e motivanti, ma, come si è visto con Atkinson, se non sono proporzionati alle reali capacità o risorse dell’individuo, vengono abbandonati. Inoltre la performance dipende anche dal grado di precisione di un obiettivo (scala di misurazione e specificazione del livello da raggiungere su tale scala). Ad esempio, un obiettivo del tipo “fai del tuo meglio” non è assolutamente motivante perché in pratica non si riferisce ad alcun comportamento specifico, ed in ogni caso è un obiettivo implicito, scontato, normalmente accettato in ambito lavorativo come valore positivo. Gli obiettivi specifici, poi, consentono un feed-back e garantiscono performance più elevate perché in essi può essere convogliata la totalità delle risorse, mentre un obiettivo generico (che poi non è altro che la somma di una serie di obiettivi intermedi non ben specificati) assorbe tutte le risorse in maniera indistinta, che vengono impiegate per realizzare i vari sub-obiettivi, ma senza una chiara relazione di causa-effetto di essi con l’obiettivo finale. Ciò genera inevitabilmente inefficienze come duplicazioni, distrazioni, accavallamenti, conflittualità, effetti contrapposti e alla lunga l’abbandono dell’obiettivo. Il lavoratore deve quindi poter disporre delle informazioni necessarie a raggiungere gli obiettivi, cosa che si può ottenere solo con un’effettiva possibilità di scelta sul modo di raggiungerli e di strutturare i propri compiti. Il manager deve pertanto garantire la partecipazione e la condivisione sugli obiettivi. Gli obiettivi “autodeterminati” possono essere più bassi di quelli che fisserebbero gli altri, ma quantomeno è prevedibile che vengano accettati con maggior convinzione ed impegno. Locke infine, in uno studio condotto con altri ricercatori , dimostra che l’inclusione dei dipendenti nella definizione degli obiettivi ha un valore fortemente strategico perché può consentire di raggiungere obiettivi difficili ma non impossibili, essendo stati già vagliati da chi materialmente dovrà perseguirli ed esaminati nei loro aspetti specifici, così da renderli facilmente comprensibili.

Al di la delle varie teorie, occorre in questa sede sottolineare come il ruolo del manager, di per sè molto difficile, deve essere riconsiderato alla luce della funzione strategica che, come si è visto, le politiche di incentivazione assumono nel processo motivazionale. Il manager, infatti, è la persona responsabile di un risultato rispetto al quale non ha un rapporto diretto, ma mediato attraverso altre risorse (persone e/o strumenti). Gli si richiede quindi un’alta attitudine leaderistica e motivante, indispensabile per infondere forza al mandato organizzativo ed ai collaboratori che lo devono condividere

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

Il processo di motivazione

Il processo di motivazione

Fino ad ora si è visto che nello studio “classico” alla motivazione, per rendere conto della condotta lavorativa, si è data enfasi soprattutto a fattori motivazionali di tipo interno quali i bisogni. Si tratta di approcci che hanno messo in risalto la natura dei processi cognitivi, e i fattori personali e ambientali capaci di influenzare, in modo indifferenziato, le scelte e le condotte lavorative concrete. Le teorie motivazionali centrate riduzionisticamente sui bisogni, tuttavia, corrono il rischio di essere parziali, poiché spiegano la grande complessità degli aspetti motivazionali semplicemente elencando i bisogni, gli scopi e gli incentivi che sono alla base del comportamento lavorativo di qualsiasi soggetto. Non si prende cioè in considerazione la differenza tra le persone.

Inevitabilmente, partendo da questi presupposti, si poteva con facilità giungere alla conclusione dell’esistenza di un’unica soluzione ottimale per motivare qualsiasi soggetto, indistintamente. In realtà l’esperienza quotidiana dimostra che la personalità degli individui è molto più differenziata e complessa di quanto presuppongono le teorie del contenuto.

In secondo luogo non si riflette sul fatto che ogni persona è si portatrice di un vasto potenziale di bisogni, inclinazioni e capacità, ma la loro espressione è largamente influenzata dalle situazioni. Queste possono essere sia occasioni di opportunità che di vincoli e incidono sul funzionamento e sullo sviluppo delle personalità individuali, in relazione a come vengono percepite e affrontate.

I più recenti contributi di spiegazione della motivazione al lavoro danno così importanza anche agli aspetti “processuali”, rintracciabili, fra l’altro, nella relazione persona-contesto lavorativo e a fenomeni e meccanismi organizzativi concepiti come intermediari di tale rapporto.

Un approccio alternativo e complementare consiste quindi nell’esaminare sia i processi psicologici coinvolti nella motivazione, sia quelli di interazione con il sistema aziendale.

In altre parole le teorie del processo si propongono di spiegare la scelta, l’intensità, la persistenza di una determinata strategia comportamentale lavorativa. Ciò avrà come conseguenza non la possibilità di trovare una soluzione valida per motivare qualsiasi tipo di persona, ma di fornire un quadro concettuale per comprendere come un qualsiasi individuo mette in luce le proprie esigenze motivazionali, le quali saranno sicuramente diverse da quelle di ogni altro. In definitiva viene più realisticamente riconosciuto dalle teorie del processo che le persone hanno differenti tipi di bisogni, desideri ed obiettivi, soprattutto alla luce del diverso condizionamento fornito dalle pressioni aziendali; in altre parole ciò che rappresenta un forte incentivo per un individuo, può essere un fattore demotivante, se non negativo per l’altro. Corollari a questo approccio saranno quindi la maggiore complessità di analisi e una limitata capacità interpretativa del comportamento organizzativo, ma senza la pretesa di poter generare delle soluzioni universali applicabili a chiunque. Esso consentirà casomai soluzioni ad hoc, accomunate però solo dalla necessaria considerazione della diversità di ogni individuo e dell’influenza dell’ambiente di riferimento.

Riprendendo più nello specifico le caratteristiche del processo motivazionale, sintetizzando si può dire che esso è composto principalmente da quattro elementi:

    • Una struttura di funzionamento
    • L’insieme dei comportamenti personali
    • Gli incentivi verso cui si orientano i comportamenti
    • I fattori che influenzano il funzionamento del processo.

Nei successivi paragrafi si focalizzerà l’attenzione sui suddetti elementi.

Uno schema concettuale, ormai diffusamente accettato in letteratura, che coglie in pieno le interrelazioni fra il lavoratore e l’azienda, descrivendo la struttura del processo motivazionale nella sua completezza, è quello del contratto psicologico. Con tale termine si intende l’accordo più o meno informale che regola ciò che le persone danno e ricevono in un’organizzazione, ossia le reciproche e mutue aspettative fra lavoratore e azienda. Come detto, queste aspettative non vengono formalizzate in un vero e proprio accordo, ma il loro avverarsi risulta parimenti tacito e consensuale, in quanto è sottointeso nella naturale prassi di prestazione-controprestazione del rapporto lavorativo.

Il contratto psicologico ha solitamente una dimensione “pubblica”, nel senso che è composto dai comportamenti che è normale attendersi per il fatto di essere titolari di uno specifico ruolo. Per un commerciale, ad esempio, realizzare X proposte contrattuali mensilmente, o garantire X giri visite giornalmente ai clienti. Essendo però un concetto virtuale il contratto psicologico è spesso caratterizzato da confini “reali”, ossia da contenuti che esulano dalle abilità richieste dal ruolo, ma sono in ogni caso importanti nella pratica affinché lo sforzo del lavoratore raggiunga in modo globale gli obiettivi aziendali, anche quelli non strettamente correlabili all’azione del lavoratore. Per un impiegato potrebbero ad esempio riguardare il lavorare nei festivi, o il portarsi del lavoro a casa, per far fronte a tempistiche aziendali ridotte. È proprio quest’area del contratto psicologico che genera problemi nella motivazione del collaboratore, avendo quasi sempre confini vaghi, imprecisi o dal contenuto arbitrario. Il contratto psicologico, infatti, va simbolicamente pensato come un elastico che se eccessivamente tirato, si spezza, dal momento che l’area reale è talmente espansa da essere troppo grande rispetto all’area pubblica, demotivando il dipendente.

È così di fondamentale importanza per il lavoratore mantenere un rapporto coerente tra il proprio progetto professionale ed il contratto psicologico sottoscritto con l’azienda, sviluppando un monitoraggio delle possibili “devianze“ o dell’inadeguatezza dei confini in seguito a certi cambiamenti, in modo da rilevarle tempestivamente ed intervenire al più presto. Allo stesso modo l’azienda deve negoziare il contratto psicologico fin dall’inizio del rapporto lavorativo, consentendo al lavoratore di valutare se si ritiene idoneo al ruolo o se si possa sentire a suo agio in quel contesto organizzativo. Sia l’azienda che il collaboratore devono attentamente esaminare il contenuto del contratto in termini di conoscenze, esperienze, livelli di coinvolgimento, obiettivi, emotività e principi morali. Devono inoltre assicurarsi che ci sia complementarietà fra le procedure organizzative e il contratto psicologico, ossia che i mezzi di cui dispone il lavoratore non siano in contrasto con i suoi obiettivi, altrimenti i confini possono essere deboli, oltre che fonte di attriti e demotivazione.

Pertanto, nel caso di tensioni, anche se non manifestamente palesate, è auspicabile che le parti facciano subito un’analisi delle proprie percezioni del contratto psicologico, lo scompongano nelle sue parti e ne confrontino i risultati giungendo ad identificare o meno la presenza di possibili azioni correttive concretamente attuabili. Inoltre va riconosciuta l’impossibilità che tutti i membri condividano perfettamente i valori e le aspettative del contratto psicologico.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

Le teorie psicologiche del bisogno

Le teorie psicologiche del bisogno

Si ritiene a questo punto importante fornire alcuni contributi che, pur allargando la prospettiva di analisi dal punto di vista disciplinare, consentono di delineare un quadro più completo del fenomeno motivazionale all’interno dell’ottica da cui si è partiti, quella del marketing interno. Verranno pertanto passate in rassegna le più importanti teorie psicologiche utilizzate classicamente dal marketing per comprendere le motivazioni di fenomeni come l’acquisto, il consumo, la preferenza, etc. La loro trattazione servirà a capire, con i dovuti adattamenti, quali sono gli elementi che caratterizzano le motivazioni del cliente interno verso il prodotto “azienda”, o verso il “consumo” di lavoro. Le teorie psicologiche centrate sulla soddisfazione dei bisogni colgono in parte questi aspetti.

Si deve alle Teorie pulsionali e a quelle psico-analitiche di Freud l’aver individuato nei processi di regolazione emozionale, tipici dell’uomo, la spiegazione della motivazione umana. A questo fine viene fatta una importante distinzione fra motivazioni (o bisogni) consce e motivazioni inconsce. Secondo Freud, infatti, ogni comportamento è motivato, anche se il soggetto non ne è sempre consapevole. La teoria freudiana, inoltre, individua nella ricerca dell’equilibrio delle energie pulsionali il motore primo dell’agire umano. Ogni soggetto, quindi, entrando in contatto con l’ambiente, percepisce, attraverso delle pulsioni, dei bisogni istintivi di tipo biologico (ovvero il famoso stato dell’ IO), che spesso non possono essere soddisfatti in modo socialmente accettabile. Esiste invece un modello etico di comportamento mediamente accettato (che Freud chiama ID), per cui il soggetto ricerca mezzi più sottili per ottenere il soddisfacimento sperato, reprimendo in parte l’istinto originario, ciò che però è causa di tensioni interiori e frustrazioni.  In definitiva Freud insegna che non sempre l’individuo é in grado di identificare quali siano le reali motivazioni che lo spingono a percepire un certo bisogno e ad agire conseguentemente per la sua soddisfazione, essendo infatti le azioni la risultante di un comportamento complesso, ossia di un’elaborazione interiore derivante dal bilanciamento di istinti primordiali e socialmente accettabili (SUPER-IO). È questo un elemento di collegamento con la teoria di McClelland, in cui la motivazione alla riuscita risultava dall’incontro di un bisogno di potere e un bisogno di aderenza al contesto sociale. A livello manageriale, quindi, il problema che bisogna porsi non è tanto quello di capire il perché di certi comportamenti del lavoratore. E’ necessario invece essere coscienti che qualora si cerca di orientare il lavoratore verso determinati comportamenti o modi di essere, affinché ciò avvenga, si devono fornire delle “razionalizzazioni” socialmente o eticamente accettabili, in termini di comportamenti, per raggiungere i fini richiesti. Potrebbe così non essere molto efficace convincere un lavoratore a fare dello straordinario, promettendo una maggiore tolleranza ad esempio sull’orario di entrata, se egli è inserito in un contesto in cui si rispettano rigorosamente gli orari di lavoro, la puntualità è un valore molto forte e chi fa dello straordinario viene tacciato come “servilista”. Oppure, facendo leva su un presunto bisogno di realizzazione, promettere un nuovo ruolo con maggiori responsabilità, in un’altra filiale dell’azienda, se questo viene socialmente ritenuto un sorta di “allontanamento” dal centro di comando.

La teoria freudiana fornisce uno schema di massima per comprendere le modalità di interazione tra il soggetto e l’ambiente sociale in cui è inserito. Le motivazioni primarie che Freud considera sono molto limitate, essendo semplicemente di natura pulsionale, dando una visione molto riduttiva dell’attitudine cosciente-razionale dell’individuo e del suo riconosciuto bisogno di “autoporsi”. Altri orientamenti di matrice Cognitivista permettono invece di analizzare i meccanismi individuali di partecipazione attiva alla costruzione della realtà e quindi anche dell’esperienza lavorativa. Pertanto una visione di questo tipo prende anche il nome di Costruttivismo. Tali orientamenti esaltano la componente consapevole della motivazione umana, avendo come oggetto di studio i meccanismi interni di regolazione che presiedono alla ricerca, all’elaborazione ed alla generazione di informazioni e significati utili al raggiungimento di determinati scopi (cioè la cognizione) e alla soddisfazione di bisogni.

Fra le teorie che abbracciano questi intendimenti spiccano innanzitutto le Teorie del Risveglio, più note come Arousal theory. Queste teorie ritengono infatti che la motivazione è sostenuta non solo da un bisogno di mantenere una situazione di quiete, ma anche da un bisogno di romperla e di ripristinarla nuovamente. Diversamente dalle teorie pulsionali, secondo le teorie dell’arousal il cervello non è fisiologicamente inerte e la sua attività naturale consiste in un processo di motivazione autogenerata. La motivazione è vista come un’energia che origina da un conflitto e viene liberata nel momento in cui il conflitto viene risolto, ossia quando gli obiettivi vengono raggiunti. La demotivazione è invece intesa come la risoluzione del conflitto, uno stato di distensione e rilassatezza del sistema, cosa che non può durare mai troppo tempo. Ogni volta che viene soddisfatto un obiettivo si crea un altro conflitto che pone di nuovo in tensione il sistema e conduce al desiderio di liberare l’energia e di eseguire l’azione, quindi alla motivazione. In definitiva, i comportamenti motivati sono generati da una rottura dell’equilibrio omeostatico, che permette di raggiungere i livelli di attivazione ottimali  per innescare gli schemi di azione, favorendo buoneprestazioni comportamentali e la soddisfazione dei bisogni. Le teorie dell’arousal hanno sottolineato come il benessere individuale, unico motore delle motivazioni, proviene allo stesso modo da due fonti: il piacere inerente alla riduzione delle tensioni e orientato al confort, ed il piacere provocato dagli stimoli che combattono la noia grazie a fattori (antiomeostatici) quali la novità, il cambiamento, l’incertezza, il rischio etc. In ambito manageriale questi concetti possono avere una duplice chiave di lettura. Innanzitutto dalle teorie dell’arousal discende che la mansione di un lavoratore, affinché fornisca un livello di motivazione adeguato, ovvero non troppo destabilizzante, deve avere entrambe le caratteristiche: il confort e la novità. In secondo luogo le modalità di incentivazione e i sistemi retributivi devono tenere conto di ambedue i bisogni. Lo stipendio, per esempio, dovrebbe prevedere una base costante, per soddisfare il bisogno di confort del lavoratore, ed una base variabile, correlata alle performance, per soddisfare il bisogno di rischio .

Altre teorie costruttiviste, focalizzate invece su come le caratteristiche della personalità influenzano i processi motivazionali, sono le teorie della Gestalt (letteralmente “forma”) che partono dall’assunto secondo cui l’essere umano va inteso come un sistema aperto nei confronti del suo ambiente. La strutturazione della personalità è quindi funzione di fattori individuali (lo “spazio vitale”) e ambientali (“la zona di frontiera”). Il maggiore rappresentante di questa corrente fu Lewin con la sua Teoria del Campo Psicologico. L’ambiente psicologico va pertanto distinto da quello reale perché corrisponde alla rappresentazione soggettiva che l’individuo ha degli eventi esterni. Il concetto di “campo” è il costrutto fondamentale. Per campo si intende tutto ciò che è presente nel soggetto in un dato momento e che ne determina l’azione, il sentire, il conoscere, il modo di pensare e di utilizzare la passata esperienza. Il campo si costruisce dinamicamente attraverso un sistema di “valenze”, cioè di forze di attrazione e repulsione, il cui segno e la cui intensità dipendono direttamente dallo stato dei bisogni di un certo individuo ad un momento dato. L’incidenza dei bisogni sulla condotta va analizzata nella varietà di situazioni dell’ambiente psicologico, attraverso un principio di contemporaneità secondo il quale ogni comportamento, e ogni mutamento nel campo psicologico, dipendono solo dalla configurazione del campo in quel dato momento.

In definitiva, Lewin dà origine ad un nuovo modello esplicativo della motivazione umana, facendola derivare dallo stato di tensione interna e di rappresentazione mentale che spinge verso la realizzazione di un proposito (approccio fenomenologico). Egli, cioè, si focalizza sulle strutture di comportamento e di pensiero risultanti dall’interiorizzazione progressiva delle azioni, di cui però il soggetto stesso non facilmente prende coscienza. Essendo quindi difficile risalire al campo psicologico di un lavoratore, non se ne potrà dedurne il comportamento, e, viceversa, dall’osservazione del comportamento non sarà agevole dedurre l’insieme delle proprietà del campo. Da queste considerazioni risulta chiaro il limite applicativo delle teorie della Gestalt, che comunque conserva la sua validità in alcuni ambiti. Oltre al diffuso impiego che ne è stato fatto nella comunicazione pubblicitaria, hanno infatti introdotto una visione del lavoratore come uno “stratega motivato” il quale sceglie di volta in volta una gamma di strategie cognitive (configurazioni) a sua disposizione, che meglio risponde ai suoi scopi dettati da motivazioni e necessità .

Su altre problematiche di natura percettiva si inserisce l’analisi che della motivazione fa la Teoria della Dissonanza Cognitiva. Questa teoria fu sviluppata da Festinger, il quale asserisce che quando esiste una discrepanza fra le credenze e le azioni di un soggetto, questi agirà per risolvere i conflitti che possono derivare da tali discrepanze . Ciò avviene tramite un processo di “astrazione selettiva” da parte del soggetto, una sorta di cancellazione di parti dell’esperienza per focalizzare l’attenzione su ciò che sembra confermare il suo modello del mondo. A questo segue un processo di “inferenza arbitraria”, cioè una conclusione totalmente soggettiva, un presupposto, un postulato che viene dato per scontato e che può servire a mantenere la coerenza con sé stessi eliminando in tal modo il disagio. Ad esempio, un inaspettato risultato positivo, a fronte di una radicata convinzione di non riuscire, invece di produrre uno stato di benessere, può provocare disfunzioni percettive al lavoratore e ridurre la sua motivazione, poiché sente che “i conti non tornano” e pertanto vive, paradossalmente, una situazione di disagio. In altre parole la motivazione dipende anche dal bisogno di coerenza rilevabile nella maggior parte dei soggetti. Se un soggetto, ad esempio, investe molte energie sul lavoro, ma il suo impegno non viene adeguatamente valorizzato, nasconderà sicuramente delle intenzioni di cambiamento latenti finalizzate a mantenere il suo approccio “professionale” al lavoro. Mediterà di andar via o si impegnerà in progetti che, seppur meno coinvolgenti, non gli faranno correre il rischio di ritenere vano il suo sforzo. Allo stesso modo, se si propone ad un soggetto un ruolo che non lo soddisfa o che ritiene dequalificante, potrebbe stranamente svolgerlo al meglio ed essere motivato ad apprendere il più possibile, soprattutto in modo autonomo, così da evitare i colleghi (anche per un semplice suggerimento), per non correre il rischio di dover parlare del suo lavoro e confrontarsi, deprimendo così, tuttavia, le sue capacità relazionali. L’implicazione della teoria di Festinger è che qualora sia possibile creare un appropriato ammontare di disequilibrio, questo porterà a cambiamenti nei modelli di pensiero dell’individuo, che a loro volta porteranno all’azione e a modifiche comportamentali. Spesso, infatti, può essere utile cercare delle aree di conflitto nel soggetto al fine di creare uno stato di “ansia” o di necessità di soluzione. Per far ciò bisogna far emergere nel soggetto che non aderisce al comportamento richiesto, quella dissonanza che si instaura tra la sua scelta e le possibili utilità che egli, non effettuando la scelta proposta, ha rifiutato. Va da sé che deve trattarsi di un comportamento non problematico, ovvero non deve violare nessun principio o valore della persona, e inoltre bisogna fornirgli dei meccanismi per eliminare la dissonanza in modo definitivo, una volta attivato il comportamento.

Un altro bisogno psicologicamente determinante ai fini della motivazione, è quello di individuare la causa che controlla il destino del soggetto: il locus of control. Questo concetto, elaborato da  Rotter , è una dimensione della personalità che riguarda l’attribuzione al sé o meno di risultati ed effetti del proprio agire, la percezione di auto efficacia derivante dal percepirsi come persona capace di scegliere e mettere in atto, di fronte a certe situazioni, i comportamenti più adeguati tra quelli disponibili. Dal punto di vista attribuzionale, il locus of control ha effetti su quella dimensione della motivazione che precedentemente è stata definita come “tendenza al successo”. Caratteristica della tendenza al successo è infatti l’attribuzione del successo all’impegno e alle buone capacità personali (cause personali), e dell’insuccesso a un impegno insufficiente o inadeguato. Rotter, integrando la sua teoria con quella attribuzionista di Weiner, sviluppa la metafora dell’ ”uomo pedina” (vittima di cause sovrastanti e caratterizzato da locus of control esterno) e quella dell’ ”uomo agente” (che assume su di sé anche avvenimenti non riconducibili alla sua sfera di responsabilità e caratterizzato da un locus of control interno). Tra questi due poli si rilevano infiniti gradi intermedi. Nell’attribuire le determinanti del successo o dell’insuccesso, il lavoratore solitamente distingue fra cause interne ed esterne, stabili o instabili, controllabili o non. È quindi una dimensione fondamentale, una volta compreso come agisce nel lavoratore, per orientare in modo corretto le azioni tese allo sviluppo della motivazione. Ad esempio, elevati gradi di formalizzazione dovuti a un forte controllo interno e all’impiego di regole, direttive, procedure, ordini di servizio, possono essere molto frustranti per lavoratori con un forte locus of control interno. Questi, infatti, hanno una maggiore indipendenza, capacità di adattamento e di gestire lo stress, mostrano la necessità di partecipare alle decisioni e controllare l’ambiente esterno. Il risultato sarebbe pertanto una  reazione di ostilità che culminerebbe probabilmente nell’abbandono dell’organizzazione. Viceversa, coloro che hanno un forte locus of control esterno, possono invece reagire negativamente nei confronti di un’eccessiva destrutturazione e mancanza di guida, in presenza di delega sugli obiettivi, attività per progetto e azioni tese al coinvolgimento organizzativo. Possono quindi porre resistenza ai tentativi di arricchimento della mansione e aumento dell’autonomia decisionale.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

Il concetto di bisogno di Maslow

Il concetto di bisogno: Maslow e le rielaborazioni successive

 

Probabilmente la più conosciuta teoria motivazionale centrata sui bisogni è quella della Piramide dei bisogni elaborata da Maslow , il quale ha fornito una categorizzazione delle principali necessità umane, ponendole all’interno di una struttura gerarchica, dai bisogni più immaturi e primitivi, a quelli più maturi e caratteristici di civiltà evolute. Egli asserisce che gli individui soddisfano i loro bisogni in senso ascendente e che i bisogni di ogni livello devono essere soddisfatti, quantomeno parzialmente, affinché i bisogni di livello superiore possano manifestarsi.

L’ordine gerarchico di questi bisogni stabilisce anche l’ordine di priorità nella loro soddisfazione: l’implicazione pratica di questa concezione è che un dato elemento può servire a motivare un individuo soltanto se riesce a soddisfare il livello ancora insoddisfatto nella gerarchia dei bisogni individuali .

 Un aspetto importante sottolineato da Maslow è che il soddisfacimento di un bisogno, rende poco sensibile una persona ad ulteriori stimoli di quel tipo e lo porta, anzi, a cercare di soddisfare bisogni di livello più alto.

Ciò indica la necessità di modulare lo stile di management e la definizione degli obiettivi e degli incentivi, in base al livello di soddisfacimento dei bisogni della persona considerata in quella data fase storica. All’analisi di Maslow bisogna accreditare il cambiamento di rotta innescato dall’avvento della psicologia umanistica, istituzionalizzata da Maslow attraverso la fondazione nel 1962 dell’American Association for Humanistic Psychology, la quale più che una teoria sistematica della personalità umana appare più come un insieme di orientamenti. L’elemento  comune di tali orientamenti è l’aver accentuato la “tendenza attualizzante” di ogni soggetto, intesa come capacità del lavoratore di tutelare la propria sopravvivenza, attraverso il soddisfacimento dei bisogni primari, e promuovere il proprio sviluppo, soddisfacendo i bisogni di ordine superiore. Nell’analisi di Maslow è infatti insito il concetto di “cambiamento evolutivo”.

I tentativi di rivedere in modo più approfondito e critico la teoria di Maslow, viziata però da un’eccessiva semplificazione, nonché le successive rielaborazioni, per quanto più affinate e realistiche, non possono non condividere alcune incongruenze sostanziali con l’analisi maslowiana, essendo una sua promanazione o al massimo un tentativo di sintetizzazione.

In primo luogo, da un punto di vista manageriale, vanno rilevati possibili elementi di contrasto fra il processo evolutivo del lavoratore e quello del contesto aziendale in cui è inserito. La pianificazione strategica, che si muove in un’ottica di lungo termine, non può non tener conto della necessaria aderenza tra la tecnologia impiegata e la struttura organizzativa. Affinché ciò si verifichi occorre che ci siano condizioni standard o comunque comportamenti prevedibili in risposta ad improvvise richieste di cambiamento.

Tuttavia il progresso psicologico dell’uomo è diretto a raggiungere condizioni organizzative di autonomia ed indipendenza, in cui si possa esercitare il controllo della propria sfera di influenza. Bisogna pertanto tener conto che esiste un conflitto di base tra l’accrescimento psicologico, i bisogni dell’uomo e le esigenze dell’organizzazione. Questo aspetto è quindi uno degli anelli mancanti della teoria maslowiana. Il modello di Maslow si presta inoltre a diverse altre critiche. Innanzitutto è fortemente centrato sul meccanismo di autodeterminazione dell’individuo, facendo risalire le spinte motivazionali esclusivamente a fattori interni. Viene così ignorato un principio base universalmente riconosciuto non solo dagli psicologi: per capire a fondo il comportamento, non si può prescindere dal fatto che esso risulta essere la determinante dell’interazione tra l’individuo, con le sue peculiarità e suoi schemi mentali, e le caratteristiche ambientali. Inoltre non è detto che le persone soddisfino i loro bisogni, soprattutto quelli di livello più alto, attraverso la propria mansione o occupazione. Ciò potrebbe infatti avvenire attraverso un hobby, o tramite l’iscrizione a un club, o ancora finalizzando un proprio progetto personale, etc. Un manager che volesse utilizzare il modello della gerarchia dei bisogni, dovrebbe quindi essere un abile psicologo, o comunque raccogliere informazioni su tutte le aree dell’esistenza in cui la gente ricerca il soddisfacimento dei bisogni a vari livelli, e ciò è ovviamente improponibile.

Un altro aspetto sicuramente criticabile è la rigidità dello schema che spiega il comportamento dell’individuo. Maslow ipotizza infatti che lo sviluppo professionale dell’individuo avviene in un percorso di soddisfazione dei bisogni, secondo un iter a senso unico ascendente e per di più graduale. Di conseguenza non prende in considerazione la possibilità che inizialmente, il soggetto, si trovi in una posizione differente da quella in cui ha la necessità di soddisfare i bisogni esistenziali. Inoltre il soggetto può mettere in atto comportamenti finalizzati alla soddisfazione di bisogni seguendo un percorso diverso da quello ascendente. Ancora, non è detto che una persona permanga sempre allo stesso livello fintantoché il relativo bisogno non venga soddisfatto. Allo stesso modo non è detto che un soggetto sia motivato dalla soddisfazione esclusiva di un unico tipo di bisogno. E anche quando si tenda alla soddisfazione di un unico tipo di bisogno, ciò può essere il risultato di svariate motivazioni, anche conflittuali tra loro. Quindi, se è vero che alcuni bisogni sono percepiti come più “imperiosi” di altri (un uomo che debba dedicare la maggior parte del tempo a procurarsi cibo e acqua non si darà molto da fare per scrivere musica o leggere un libro), è altrettanto vero, tuttavia, che la motivazione ad autorealizzarsi possa in alcuni casi avere temporaneamente il sopravvento sulle necessità primarie dell’individuo, come ad esempio, il dormire. Basti pensare a un lavoratore che pur di conquistare un avanzamento di carriera lavora come un forsennato, isolandosi e non avendo nessun tipo di relazione sociale, pur in presenza di esplicita disapprovazione da parte dei colleghi.

In base a tali critiche si deduce che lo schema di analisi della motivazione di un individuo, deve sì focalizzarsi sulla necessaria soddisfazione delle varie  categorie di bisogni identificate da Maslow (per la verità un po’ generiche), ma non può avere a priori una struttura gerarchica, ne evidenziare una dinamica prevedibile. Queste semplici considerazioni, facilmente desumibili dall’osservazione del mutevole comportamento umano, riducono drasticamente la portata dell’approccio di Maslow, sia in termini di valore predittivo, sia a livello applicativo. Inoltre egli non ha fornito dei riferimenti empirici che consentissero di definire operativamente i vari bisogni attraverso concetti concreti. Senza considerare, poi, che la teoria è difficile da mettere in pratica, dal momento che non offre precisi strumenti manageriali di leverage  sui dipendenti, anche perché lo stesso bisogno, a seconda del soggetto, può essere soddisfatto in maniera diversa. Ad esempio, il bisogno di stima per uno può essere efficacemente soddisfatto con un riconoscimento formale, per un altro con un avanzamento di carriera, per un altro ancora con apprezzamenti informali, o benefit e così via.

Su queste evidenze, si basò la successiva modificazione della teoria maslowiana adopera di Alderfer , attraverso la sua nota Teoria E.R.C., in cui accorpa i cinque livelli di bisogno in tre livelli definiti “esistenziali”, “relazionali” e “di crescita”. I primi racchiudono i bisogni fisiologici e di sicurezza, i secondi quelli sociali o di appartenenza, i bisogni di crescita, infine, includono quelli di stima e di autorealizzazione. Ad una prima osservazione questo schema sembra non più che un semplice tentativo di raggruppare le categorie dei bisogni di Maslow, in categorie più generali e omnicomprensive. In realtà, l’innovazione principale risiede nell’idea di “continuum” tra i diversi livelli, in contrapposizione alla gerarchia maslowiana, basata su un meccanismo di soddisfazione-progressione, al quale Alderfer integra un meccanismo di frustrazione-regressione, che l’idea di scala o di piramide già implicitamente conteneva. In altre parole la teoria E.R.C. riconosce che l’ordine di importanza delle tre categorie può variare da persona a persona. In conclusione, lo schema teorico di Alderfer comprende un concetto molto importante, utile soprattutto nella comprensione di una situazione lavorativa come quella attuale, caratterizzata da elevata flessibilità, instabilità ed indeterminatezza; il fatto cioè che da uno stato ci si può spostare verso qualsiasi altro non necessariamente nel verso indicato da Maslow ed in modo continuo.

Come precedentemente accennato, l’intuizione di Maslow, relativa alla compresenza di fattori di base e fattori realmente motivanti, ha ispirato una rielaborazione nota come teoria dei Fattori Duali, ad opera di Herzberg , il quale effettuò un’indagine su 200 contabili ed assistenti tecnici negli Stati Uniti . L’analisi complessiva dei dati raccolti indicò che i fattori che maggiormente contribuivano a generare soddisfazione, chiamati da Herzberg “fattori motivanti”, erano quelli inerenti al compito lavorativo in se stesso, mentre i fattori di insoddisfazione, chiamati “fattori igienici”, si collegavano al contesto ambientale del lavoro ed alla sua retribuzione. Questa teoria sfida quindi una convinzione radicata sul modo in cui il livello di soddisfazione influenza il livello di motivazione e la prestazione. Secondo questa erronea convinzione, infatti, se una persona è insoddisfatta di qualche aspetto del proprio lavoro (ad esempio la retribuzione), si deve modificare tale aspetto (ad esempio tramite un aumento) per accrescere il livello di soddisfazione, e quindi anche di motivazione e prestazione.

Accade spesso, infatti, che vengano adottati interventi finalizzati a migliorare il clima interno come ad esempio il miglioramento dell’ergonomia e dell’insonorizzazione degli uffici, la razionalizzazione della turnistica e del piano ferie, o addirittura sforzi economici come gli aumenti retributivi, senza ottenere alcun effetto in termini di motivazione. Ciò accade in quanto le politiche di cui sopra agiscono su elementi non insoddisfattori, che influiscono sulla qualità della vita ma hanno scarsi effetti e per di più di breve durata. Herzberg, invece, dimostra che tutto ciò che riguarda l’ambiente del lavoro non può produrre una effettiva soddisfazione; i relativi miglioramenti possono portare solo ad una diminuzione dell’insoddisfazione, che non si tradurrà nella comparsa di una soddisfazione positiva.

Per avere una soddisfazione positiva occorre agire su altri fattori riguardanti la natura stessa del lavoro e le motivazioni soggettive del lavoratore nell’eseguirlo. Soddisfazione ed insoddisfazione non sono dunque valori positivi e negativi posti su un’unica dimensione, cioè non sono l’una l’opposto dell’altra, ma danno luogo a due dimensioni distinte che si muovono su due piani paralleli.

In definitiva, i fattori igienici creano insoddisfazione o malcontento se sono assenti, ma, se sono presenti, riducono il livello di insoddisfazione senza con  ciò aumentare il livello di motivazione. Questi fattori servono quindi ad accertarsi se un dipendente è soddisfatto, incoraggiando, quando presenti, la permanenza all’interno dell’organizzazione . I fattori motivanti, invece, migliorano effettivamente la prestazione poiché modificano la natura stessa del lavoro, rendendolo maggiormente stimolante e intrinsecamente gratificante. Questi elementi appagano dei bisogni superiori e portano la persona ad una maggiore produttività . La loro assenza non crea insoddisfazione, ma non consente di fare quel “passo in più” al dipendente in termini di motivazione. Di conseguenza le motivazioni non possono essere trovate che nel lavoro stesso, ossia nella soddisfazione intrinseca al lavoro.

Un ulteriore affinamento dell’analisi dei bisogni si ha con McClelland, il quale introduce una nuova tipologia di bisogno per spiegare il fenomeno motivazionale: il “bisogno di successo”. Per diversi anni, infatti, gli scienziati del comportamento avevano osservato che alcune persone esprimevano un’intensa ambizione verso il successo, un concetto leggermente diverso dalla autorealizzazione maslowiana. Altri soggetti, invece, forse la maggioranza, non sembravano essere interessati, secondo gli studiosi, al successo. Si osservava in particolare che nelle organizzazioni esistono differenze significative tra le prestazioni medie e quelle eccellenti, e che quest’ultime non sono caratterizzate solo da maggiori conoscenze, ma hanno notevole rilevanza le caratteristiche individuali quali motivazione e persistenza nel perseguire in modo determinante il successo. Questo fenomeno ha affascinato McClelland tanto che per oltre venti anni lui e i suoi colleghi dell’Università di Harvard hanno analizzato l’ambizione al successo. Anche Atkinson analizza la dimensione del successo elaborando una teoria  secondo cui la motivazione nasce dall’esigenza di misurare le proprie abilità attraverso il raggiungimento di successi in attività valutate come importanti. Essa riprende, come si vedrà nel prossimo paragrafo, il concetto di conflitto introdotto da Lewin, aggiungendo una nuova componente che è quella emotiva.Secondo Atkinson, infatti, la motivazione dipende da due componenti o tendenze motivazionali contrapposte, speculari e potenzialmente conflittuali: ossia la tendenza al successo, definita anche come speranza di riuscita, ed una tendenza ad evitare il fallimento, definita altrimenti come paura dell’insuccesso. Di conseguenza, l’inclinazione di ciascuno al conseguimento delle proprie mete, rende stimolanti compiti proporzionati alle proprie risorse, non troppo difficili, perché produrrebbero rinunce, non troppo facili perché non stimolanti. Mentre la tendenza al successo porta a volere affrontare i compiti e quindi alla motivazione, la tendenza a evitare il fallimento porta ad un atteggiamento di ritiro o fuga nei confronti delle situazioni, alla poca persistenza, alla noia ed al disinteresse e quindi alla demotivazione .

Tornando a McClelland, egli dimostra stretti legami di correlazione tra motivazione al successo e rendimento. Tale correlazione si può spiegare tramite i processi di autostima, derivanti da esperienze pregresse positive di realizzazione e successo. Questo tipo di relazione ha natura circolare :

Viene quindi presa in considerazione la dimensione affettiva della motivazione, caratterizzata da una reazionedi anticipazione della finalità e basata su associazioni di piacere e dolore stabilitesi in passato, per cui l’individuo è disposto a compiere uno sforzo per raggiungere o evitare un particolare stato. Ogni persona presenta uno di questi motivi che McClelland raggruppa in tre grandi categorie:

    • Bisogno di potere (tipico dei politici e dei top manager); riflette il bisogno di imporsi all’attenzione altrui, di stabilire, mantenere o ristabilire il proprio prestigio o potere.
    • Bisogno di successo (tipico dell’imprenditore); è l’importanza attribuita da una persona alla riuscita di una intenzione, la cui intensità e importanza possono derivare da esperienze positive (ad esempio nella scuola o nei primi lavori) che sono state particolarmente gratificanti tanto da giustificare una continua ricerca del successo (nell’università o in campo professionale).
    • Bisogno di affiliazione (tipico dei giocatori, degli impiegati); questo “motive” è collegato al bisogno di socialità/appartenenza, tipico di Maslow, e cioè al bisogno di interazione sociale e di stabilire, mantenere e promuovere relazioni affettive con altre persone.

In definitiva, McClelland parte dalla “motivazione alla riuscita” e giunge a descrivere tre tipi di motivazioni: a riuscire ed evitare il fallimento; ad affiliarsi e ad evitare l’isolamento; al potere e ad evitare la dipendenza. Anche in questo caso, ad una prima osservazione, la triade dei bisogni sembrerebbe non più che una semplice riaggregazione dei bisogni appartenenti alla scala di Maslow. L’elemento innovativo è l’aver capito che il bisogno di autorealizzarsi, ossia il bisogno di successo, sta in mezzo agli altri due tipi di bisogni, quello di affiliazione e quello di potere. In altre parole la motivazione al successo si declina tra due poli opposti, ossia è mediata da una tendenza individuale che ritiene strumentale, ai fini della riuscita, l’imporsi sugli altri, e da una tendenza sociale che legittima il successo solo nella misura in cui si realizza all’interno di valori condivisi dalla collettività.

Sul piano applicativo, poi, attraverso queste categorie McClelland descrive le principali caratteristiche che un soggetto solitamente esplicita nel lavoro, suggerendo indirettamente come allineare, laddove sia possibile, le necessità dell’individuo ai requisiti della mansione.

Una persona con un alto bisogno di affiliazione, ad esempio, può non gradire del tutto una grande dose di autonomia, poiché ciò potrebbe portarlo ad un relativo isolamento e all’impossibilità di interagire e di condividere obiettivi ed emozioni con i suoi colleghi. Probabilmente la loro collocazione ottimale è all’interno di quei ruoli in cui possono esprimere la loro capacità di stabilire relazioni positive con gli altri e di integrarsi. O ancora quei ruoli in cui è richiesta una certa capacità di coordinarsi con altri soggetti e in cui si ha l’opportunità di sentirsi parte di un team. Il lavoratore con un alto bisogno di potere sarà frustrato e indispettirà probabilmente i suoi colleghi di lavoro, se messo in una posizione che, seppur desiderabile in termini di clima lavorativo, non gli consente l’opportunità di avanzare, o di sentirsi padrone del destino altrui. Soggetti che hanno un alto bisogno di realizzazione saranno soddisfatti col loro lavoro qualora gli si proponga un ruolo in cui sia facilmente evidenziabile il loro contributo ed il loro merito.

Un’altra caratteristica molto importante, da  tenere in considerazione quando si voglia responsabilizzare questa tipologia di collaboratore, è che essi tendono a porsi degli obiettivi moderatamente difficili e potenzialmente realizzabili. Nella biologia questo fenomeno è conosciuto come il “principio del sovraccarico ” e si legittima in quanto nel bisogno di successo è insito parallelamente anche un bisogno di evitare il fallimento, che porta il soggetto a cercare situazioni in cui è probabile raggiungere il successo stesso . D’altra parte, quando il loro successo dipende in parte da altri, la loro attività può essere meno efficace. Spesso, infatti, non capiscono le necessità di affiliazione degli altri e pongono un’enfasi eccessiva sulla produttività, invitando incessantemente i colleghi a focalizzarsi univocamente sul lavoro, finendo con il frustrarli e impedendo di elevare il loro potenziale. I collaboratori orientati al successo, in definitiva, pur essendo molto importanti per la loro funzione di traino, possono non essere adatti per ruoli di responsabilità, coordinamento  o di gestione del gruppo.

 

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

La gestione per processi e l’internal customer satisfaction

La gestione per processi e l’internal customer satisfaction

L’accezione che è stata data finora di marketing interno, ha visto il cliente finale come il fulcro su cui far ruotare un sistema innovativo di gestione delle risorse umane in azienda.

Tuttavia questa visione rischia di far vedere le risorse umane pur sempre come uno strumento, un mezzo per raggiungere l’obiettivo finale di soddisfazione del cliente esterno.

Tale obiettivo è stato  proprio quello che ha ispirato le nuove pratiche manageriali della “gestione per processi”, fondate sul Business Process Improvement e sul Business Process Reengineering .

Se da un lato questi orientamenti hanno opportunamente sottolineato l’importanza del miglioramento continuo, recependo pienamente la cultura giapponese del Total Quality Management, dall’altro si sono caratterizzati per un’attenzione esclusiva sul cliente finale e sulle problematiche tecnico-produttive interne, trascurando parzialmente gli aspetti di miglioramento delle politiche del personale.

La gestione per processi, infatti, ha come finalità la riduzione dei tempi e dei costi del processo, oltre al miglioramento dell’esecuzione del processo e del suo output.

In altre parole il focus è sul cliente e l’oggetto del miglioramento è il processo, solo in parte vengono invece previsti interventi sulle variabili organizzative, come la riduzione dei livelli gerarchici e la ridefinizione delle mansioni.

L’obiettivo, in definitiva, è rappresentato dal miglioramento della qualità del prodotto/servizio erogato, sia internamente che esternamente, grazie all’incremento di efficienza interna e al maggiore coordinamento di tutte le parti dell’organizzazione rispetto agli obiettivi generali d’impresa.

Non sempre, tuttavia, queste finalità assicurano un maggiore coinvolgimento delle persone, e un migliore allineamento fra obiettivi delle persone e obiettivi dell’impresa.

Ciò, ad esempio, significa avere personale di assistenza più coinvolto e dunque più gentile nei confronti del cliente, o personale di front-line più motivato a contribuire attivamente al raggiungimento della massima qualità nei momenti critici.

In questa sede si vuole invece evidenziare che l’impresa presenta al suo interno la prima delle caratteristiche di un mercato: l’esistenza di processi di scambio e, quindi, di un cliente (interno e non solo esterno).

La visione che deve permeare l’intera organizzazione è quella di soddisfare innanzitutto i bisogni del cliente interno, in quanto primo e più importante fruitore del valore creato dall’azienda, in un’ottica di internal customer satisfaction.

Tradizionalmente, infatti, gli studi di marketing interno hanno circoscritto la loro attenzione ai rapporti tra impresa e dipendente, intesi in senso aggregato, ed hanno formulato proposte strategiche ed operative relative a tale ambito.

Una più attenta valutazione della varietà di processi di scambio che interessano l’impresa, induce ad osservare come questi avvengano anche tra le unità di servizi interni e i soggetti interni stessi.

E’ possibile, dunque, introdurre una articolazione dell’internal customer satisfaction su due dimensioni: quella del marketing interno dell’impresa verso i dipendenti, e quella del marketing dei servizi interni verso  i soggetti appartenenti alle altre unità interne, ognuna delle quali ha specifici obiettivi.

La prima dimensione, come intuitivo, fa riferimento al rapporto globalmente esistente tra l’impresa e i suoi dipendenti, ossia alle azioni che l’impresa può attivare per migliorare le relazioni di scambio con i propri dipendenti.

In questa prospettiva del marketing interno essi sono pertanto visti come i clienti dell’impresa, che essa deve soddisfare, e l’obiettivo consiste nell’individuazione di metodi, logiche e strumenti innovativi in grado di migliorare la soddisfazione del suo cliente interno, in termini di miglioramento della relazione tra impresa e dipendente, con conseguente riduzione del turnover e ottenimento di fiducia e fedeltà nei confronti dell’impresa da parte delle risorse umane che possiedono competenze strategiche.

Ciò consente all’impresa, ad esempio, di riuscire a trattenere le risorse umane migliori anche nel caso di cessioni o acquisizioni, o più in generale in momenti di crisi, nonché riuscire ad attirare a sé le risorse umane più interessanti.

La seconda dimensione del marketing interno fa riferimento al rapporto esistente tra unità di servizi interni all’impresa, e alle azioni che ogni fornitore interno può attivare per migliorare le relazioni di scambio con i propri clienti interni.

A questo secondo livello, va quindi operata una ridefinizione del ruolo dei servizi interni, per ottenere un maggiore coordinamento di tutte le parti dell’organizzazione rispetto agli obiettivi generali dell’impresa, laddove questi siano il risultato e l’integrazione degli obiettivi parziali delle singole unità.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

L’importanza dei bisogni: il marketing interno

L’importanza dei bisogni: il marketing interno

 

Sino a qualche anno fa un errore comune, dal punto di vista della gestione manageriale, è stato quello di pensare al marketing come ad una funzione completamente rivolta all’esterno: il mercato. Molto trascurato è stato invece il versante interno.

I nuovi orientamenti di marketing  propongono una visione del prodotto-servizio come un insieme di asset tangibili ed intangibili, o comunque come il risultato di un più ampio processo di creazione del valore.

Va da se che uno degli asset principali che il prodotto-servizio deve contenere è proprio la componente di lavoro, intesa in un’accezione allargata, ossia la dose di entusiasmo, energia, precisione, empatia, conoscenza e passione immessa dal lavoratore.

Parimenti ogni prodotto-servizio dovrebbe incorporare una quota di valore-lavoro, concetto questo da interpretare non da un punto di vista contabile, ne marxianamente inteso, ma come valore del lavoro, ossia insieme di condizioni di lavoro ottimali a determinare l’eccellenza del prodotto-servizio stesso.

Le tendenze pioneristiche del marketing hanno coniato l’espressione di prosumer , per indicare che oggi il cliente dovrebbe essere sempre più partecipe della realizzazione di un bene attraverso l’esplicitazione delle sue esigenze, tanto da dover essere allo stesso tempo consumatore e produttore.

Simmetricamente è possibile affermare che il lavoratore, per meglio comprendere le esigenze del cliente, dovrebbe immedesimarsi egli stesso nella figura dell’utente, fornendo così all’azienda una sorta di testing continuo sull’appropriatezza della configurazione dei benefit che si vogliono offrire al cliente finale (il modello giapponese, come si è visto, insegna).

Il  processo osmotico di valore fra l’azienda e i suoi clienti andrebbe pertanto presidiato su una dimensione globale, che prenda cioè in considerazione non solo i bisogni degli utenti finali del prodotto-servizio, ma anche e soprattutto i bisogni e le motivazioni degli utenti intermedi del prodotto “azienda”. Una volta soddisfatto il cliente interno (lavoratore), si saranno costruite le basi per una efficace soddisfazione del cliente esterno.

Per questi motivi accanto alla tradizionale visione del marketing mix, che prevede l’impiego di quattro leve di marketing (le famose “quattro P”, ossia product, price, place, promotion), si fa sempre più strada una visione a cinque P, in cui l’elemento innovativo è people , ovvero l’attenzione verso le persone.

Oggi si parla quindi di marketing interno, intendendo l’insieme delle attività finalizzate a creare e mantenere una cultura aziendale in cui ogni risorsa umana è al servizio del cliente.

È ormai ampiamente riconosciuto come le Risorse Umane interne all’impresa rivestano un ruolo centrale per ottenere vantaggi nel mercato finale.

Ciò in conseguenza della loro importanza nell’accrescere la soddisfazione del cliente, tramite la valorizzazione delle componenti relazionali dello scambio  e, per tale via, nel contribuire alla creazione di fiducia e fedeltà del cliente esterno, risorsa fondamentale per il successo di un’azienda; ecco perché è importante il marketing interno.

L’internal marketing  mira quindi ad accelerare lo scambio di informazioni e a rendere partecipi i lavoratori, avvalendosi di due fattori: motivazione e coinvolgimento.

Le persone possono così esprimere le proprie considerazioni o raccontare esperienze utili, condividendo le informazioni e proponendo nuove tematiche da approfondire.

Soprattutto nel settore dei servizi, o nelle aree di realizzazione di un prodotto che richiedono l’innesto di servizi aggiunti (quali la logistica, la ricerca dei fornitori, la progettazione, la R&S, gli ordini, la commercializzazione, il post-vendita, etc.) l’idea base del marketing interno è di mettere tutto il personale in grado di dare un contributo al miglioramento del marketing esterno, attraverso una interazione con il cliente che aggiunga valore al prodotto-servizio e l’abbattimento delle barriere interfunzionali.

In tale prospettiva il personale riveste il duplice ruolo di erogatore e fruitore di una prestazione orientata alla massima qualità, in quanto è chiamato a proporre soluzioni sempre nuove. Per raggiungere questo obiettivo, il coinvolgimento del personale nelle strategie aziendali è di vitale importanza.

La disponibilità a condividere le informazioni e la propensione all’interazione sono delle caratteristiche innate nelle persone, pertanto va stimolata la loro espressione con strumenti ad hoc. Il soggetto è chiamato comprendere i vantaggi ottenibili dall’utilizzo di questo strumento e deve sentirsi attore principale in questo processo.

La motivazione di ogni singolo crea così nuovi input costruttivi, portando ad un miglioramento crescente che il collaboratore percepisce essere creato in parte da lui stesso.

In definitiva, l’implementazione di un sistema di marketing interno consente notevoli vantaggi. Innanzitutto riduce drasticamente il time-to-market .

Viene inoltre aumentata la produttività e la collaborazione, dando vita a sinergie, stimolando la manifestazione delle “skill” (qualità personali), di idee nuove e di suggerimenti costruttivi.

Forse l’aspetto più importante è però che un sistema di internal marketing permette il monitoraggio del livello di soddisfazione delle persone verso l’azienda, in quanto è un modo per ascoltare i colleghi e saggiare la condivisione spontanea alle decisioni aziendali, rappresentando una bussola motivazionale per il top management.

L’importanza di un approccio di marketing nella gestione delle risorse interne, suggerisce infine l’analisi dell’oggetto verso cui è tradizionalmente orientato il marketing esterno: il bisogno del cliente.

Come il cliente esterno, anche quello interno ha dei bisogni che devono essere rilevati dal marketing strategico, e successivamente soddisfati attraverso il marketing operativo.

Allo stesso modo dell’approccio classico di marketing, anche in questo caso il problema principale è individuare i valori ricercati dal soggetto che viene in contatto con l’azienda, per poi tradurli in concetti di prodotto (posizione lavorativa) adatti alle sue attese.

Il motivo che spinge alla redazione di questa sezione poggia sulle considerazioni fatte nell’introduzione, riguardanti le recenti tendenze in ambito manageriale rivolte alla soddisfazione delle risorse umane, in conseguenza delle quali è possibile individuare un percorso metodologico di analisi che, come il marketing classico, ponga al centro il consumatore, in questo caso consumatore di occasioni di impiego, cioè il lavoratore.

Quest’approccio, trova tra l’altro una ulteriore giustificazione concettuale dalla tendenza, sempre più riconosciuta in ambito manageriale, dell’impiego di una gestione per processi, il cui punto fondamentale è la relazione del tipo fornitore-cliente tra un soggetto è un alto, tra un’area e un’altra, secondo una logica di reciproco servizio e di soddisfazione dei reciproci bisogni. È quanto si evidenzierà nel prossimo paragrafo.

Generalmente al concetto di bisogno viene comunque attribuita una funzione motivazionale, nel senso che esso viene ritenuto come un’esigenza avvertita da un soggetto, collettivo o individuale, di entrare in possesso di risorse, materiali o immateriali, per conquistare uno stato di maggior benessere o per superare una situazione di malessere. Il concetto di bisogno che così emerge si presta tuttavia a molteplici interpretazioni, tante quanti sono i significati che si attribuiscono al concetto di benessere.

Si prenderà pertanto in considerazione, nei successivi pargrafi, il contributo che i teorici hanno dato nel definire la nozione di benessere in un’ottica di marketing, mettendo in luce la struttura pluridimensionale delle motivazioni alla base dei diversi comportamenti.

Tali teorie sono focalizzate esplicitamente sul contenuto della dimensione motivazionale, dal momento che cercano di sviluppare una comprensione dei bisogni fondamentali dell’uomo, o dei fattori ad essi associati, che determinano le scelte di azione o non-azione nel contesto lavorativo.

L’approccio maggiormente utilizzato è stato quello di compilare un elenco di bisogni descrittivi del fenomeno motivazionale nei suoi molteplici aspetti. Si passeranno pertanto brevemente in rassegna le teorie motivazionali del marketing rivolto al consumatore e quelle della psicologia dell’acquisto, con i dovuti adattamenti, dato che è mutato il soggetto di analisi, e il concetto di bisogno. Tale percorso includerà anche la trattazione della theory of planned behavior di Ajzen, relativamente recente, molto importante nell’interpretazione dei processi decisionali, nella progettazione delle mansioni e nella previsione del comportamento organizzativo.

Concluderà la sezione un altrettanto breve accenno di un approccio alla motivazione molto in voga al momento, pur essendo assolutamente poco diffuso, se non nell’ambiente anglosassone, perchè ancora scarsamente codificato all’interno di un quadro teorico di riferimento, nonostante il suo estremo rilievo di natura pratica: la Programmazione Neuro-Linguistica (PNL) e le sue nuove tecniche del cambiamento, dello sviluppo personale e della comunicazione.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo