L’incentivazione del personale

L’incentivazione del personale

Il mondo del lavoro, si sta spostando verso la meritocrazia, riconoscendo che la crescita e lo sviluppo delle aziende, pubblica o privata che sia, è legata alla capacità e volontà di alcuni dipendenti di offrire un contributo di elevata professionalità nel lavoro.

L’azienda deve essere in grado di riconoscere e gratificare queste persone ed i loro sforzi, in caso contrario rischia di trasmette la sensazione che impegnarsi nel lavoro, essere creativi e propositivi, avere un approccio positivo nei rapporti di lavoro, tutto questo non abbia alcun valore. In quest’ottica assume un ruolo fondamentale il supervisore, il quale è costantemente a contatto con il proprio personale e deve saperlo osservare, guidare, stimolare e apprezzarne le qualità ed i meriti, ma soprattutto deve riconoscere coloro che eccellono da coloro che si limitano ad offrire una prestazione standard.

Non è quindi sufficiente progettare una organizzazione o identificare le competenze che i membri devono possedere, ma bisogna anche definire un sistema di misure e incentivi che assicuri un corretto orientamento delle risorse verso le performance attese. Solo armonizzando il modello organizzativo, le caratteristiche e le aspirazioni dei singoli individui e il sistema di incentivazione, il tutto impostato su di un nuovo modo di gestire incertezza e complessità e di comprendere il valore effettivamente generato, consentirà alle aziende di trattenere le risorse migliori.

I sistemi di incentivazione, si devono innanzitutto basare su metriche che misurino gli indicatori legati effettivamente al valore generato .

Questi sistemi di incentivazione devono inoltre essere coerenti con le attese ed il sistema di valori dell’individuo.

Non sempre la dimensione economica coglie questi fattori. In molti contesti ci sono altri benefici considerati di grande valore, che possono farsi risalire a quell’insieme di ricompense “intangibili” come per esempio un miglior uso del tempo libero, oppure il poter avere riconoscibilità sociale come individuo e non solo come dipendente dell’azienda.

In questa sede, prima ancora di trattare le leve operative a supporto dell’attività di incentivazione, si vuole porre l’attenzione sul ruolo del manager e della sua generale azione incentivante, come primo e fondamentale passo di un più ampio sistema di motivazione.

A questo scopo appare appropriato delinare i contorni di una delle figure che riassumo la competenza motivazionale del manager: il coach o counselor. Le peculiarità di questa figura vengono desunte da una nostra intervista effettuata al dott. Francesco Scimò, un coach professionista e trainer di PNL, componente dell’American Behavioural Terapist Association e ideatore di una sintesi di tecniche di apprendimento denominato “learning revolution”.

Riassumendo lo scopo di un coach è quello di fornire una serie di competenze sull’utilizzo delle risorse che già ci sono, perchè la persona possa fare le proprie scelte, e nell’affrontarle sentirsi e sapersi con un bagaglio di risorse molto superiori. “Non siamo chiamati a sostituirci alla testa delle persone, cerchiamo invece di dare la possibilità a ognuno di arrivarci da se, con i propri mezzi, in modo molto veloce”, dice infatti il dott. Scimò, cosicché tra counselor e dipendente sussiste un rapporto paritario in cui quest’ultimo è attivamente alla ricerca di consulenza per migliorare le proprie relazioni con sé stesso e con il mondo.

Il presupposto che costituisce il rapporto di counseling è quindi che, chi chiede aiuto ha già in sé le risorse necessarie per superare i propri problemi, ed il counselor si propone semplicemente di creare le condizioni per farle emergere, in una frase “aiutando la persona ad aiutarsi”.

Il coaching, inoltre, è una forma di aiuto, di suggerimento, di formazione, finalizzata a ristrutturare i momenti di crisi e i vincoli in opportunità, i problemi in occasione di crescita, trasformando i punti deboli e le credenze limitanti in punti di forza e in credenze potenzianti e motivanti. Alcune persone in determinati momenti della loro vita soffrono infatti per la sensazione d’essere paralizzate, non avvertono nessuna possibilità di azionarsi, non hanno nessuna possibilità di azione, sperimentando la condizione esistenziale di non aver nessun potere rispetto a se stessi e alle possibilità di scelta che gli si presentano . Si apre a questo proposito il campo di azione del counselor che aiuta il lavoratore ad ampliare la gamma di opzioni nelle scelte delle proprie azioni.

Ci si propone, in sostanza, di favorire un processo non innescarlo, perchè se non è innescato da se, nessuno può farlo, perchè la vera motivazione non è indotta dall’esterno.

Dice infatti il dott. Scimò “le persone che riconoscono la figura del coach non sono inferiori, ma semplicemente hanno un obiettivo spesso non chiaro, e vogliono una volta chiaritolo raggiungerlo con facilità, ossia con un rapporto positivo tra emozione che può dare alla fine, emozione che si mette nel mezzo e emozioni a cui si rinuncia inevitabilmente facendo delle scelte. Ognuno ha comunque la dignità di scegliere di non fare assolutamente nulla col talento che ha.”. Inoltre il coaching aiuta a gestire positivamente le proprie energie, sviluppare la creatività, allargare gli orizzonti, rendere partecipi gli altri, farli sentire inseriti in un meccanismo, in una catena. Il coach deve quindi osservare e sentire empaticamente l’altra persona, sviluppando l’ascolto attivo.

Dice ancora il trainer intervistato “ognuno di noi è motivatore e può fare la differenza in determinati momenti e contesti a chi già opera,  indipendentemente dalla scala gerarchica. Questa attività va quindi va fatta all’esterno, nel senso sia di formare i formatori che i formandi, piantando delle microbombe che possano esplodere verso numero più ampio di soggetti. Non è una consulenza finalizzata all’individuo che rimane dentro l’individuo, deve invece portare i frutti all’interno dell’organizzazione  e generare degli effetti diffusi”. Un coach, pertanto, aiuta un imprenditore che, a sua volta, può diventare coach lui stesso.

La figura di coach, infine, mette al centro il percorso di crescita e di maturazione, di conoscenza di sé, condizione fondamentale per gestirsi in maniera consapevole, forte, progettuale rispetto al lavoro. Egli realizza questi intenti attraverso quello che viene chiamato un bilanciamento delle competenze. Il “bilancio orientativo“ o “bilancio delle competenze”  è in grado di favorire l‘autoconoscenza, accrescere la padronanza e promuovere lo sviluppo di risorse metacognitive. Ë una pratica volontaria, attiva, accompagnata, un metodo di analisi e di autoanalisi assistita delle capacità, delle competenze (non certificate, cioè dimostrate o acquisite al di fuori dei percorsi formativi istituzionali), delle attitudini, delle aspirazioni professionali e del potenziale di un individuo, finalizzato alla messa a punto da parte dell’individuo stesso di un proprio progetto di sviluppo professionale.

Dal prossimo paragrafo, oltre al ruolo del manager, si prendono in considerazione leve gestionali che fanno capo all’azienda nel suo complesso. Si prenderà in considerazione il concetto di coinvolgimento, che riconduce alla presa di coscienza della necessità che il singolo o il gruppo partecipino alla definizione degli obiettivi, esprimendo i propri e integrandoli con quelli aziendali, definiti in sede di pianificazione strategica.

Andrà ancora sottolineato come, affinché il coinvolgimento sia effettivo, oltre alla definizione degli obiettivi è indispensabile monitorare il deployment degli obiettivi stessi, cioè il loro tangibile raggiungimento attraverso dei piani di azione concreti.

In questa parte si analizzeranno quindi le problematiche legate ai sistemi di valorizzazione come la job evaluation, la skill evaluation, il compensation e benefit, e ai sistemi di retribuzione, tra cui la seniority, il job enrichment, il job enlargement, la pay per performance, le stock option, etc, ed inoltre si parlerà della relazione fra i differenti programmi di incentivi e il tempo di ritorno, in termini di prestazione, dei loro effetti. Per chiudere il quadro degli strumenti che consentono di mantenere un coinvolgimento elevato si accennerà alle tematiche dello stress management ed infine si proporranno delle metodologie per misurare le conseguenze di un mancato coinvolgimento (people dissatisfaction), circostanza che prelude a “costi di attrito” e la perdita di valore conseguente al turnover.

 

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

 

 

I conflitti e i rapporti di clan: il team linkage

I conflitti e i rapporti di clan: il team linkage

 

Finora ci si è concentrati sul versante del contenuto della vita di gruppo, che invece si contraddistingue anche per un forte elemento relazionale.

La contiguità fisica, ad esempio, è un elemento che caratterizza il gruppo.

Ci si vede faccia a faccia, si verificano situazioni di simpatia-antipatia, di prevaricazione-disponibilità, di protagonismo-emarginazione, di confronto-scontro, di cooperazione-competizione; tutto ciò determina una rete comunicativo-relazionale molto complessa che richiede la decodifica  contestuale di molteplici messaggi, tra loro anche contraddittori o divergenti.

La trasmissione della conoscenza e lo scambio di idee non sono quindi processi semplici e lineari perché avvengono, all’interno di un circuito comunicativo complesso in cui giocano un ruolo importante anche le situazioni conflittuali; queste vanno governate con competenza e con sensibilità se non si vuole correre il rischio che queste sopravanzino rispetto alla regolare vita di gruppo.

Spesso, poi, soprattutto all’interno del team o dell’area in cui si opera, possono nascere dei gruppi informali, virtuali che si fanno portatori dei propri interessi, delle proprie legittime aspettative e dei propri diritti, fino a convergere verso un comune modo di pensare, una sorta di “clan”, a cui è naturale aderire.

Questo fenomeno è comprensibile e condivisibile, poiché crea una barriera difensiva contro il potere decisionale che in certi casi non agisce in maniera da assicurare la giusta partecipazione ed il coinvolgimento di tutti.

Tuttavia può portare a situazioni in cui si ha una visione distorta dell’organizzazione, a dei filtri di giudizio e ad un irrigidimento comportamentale.

L’individuazione di queste problematiche sideve principalmente a Ouchi, il cui pensiero rappresenta una sorta di combinazione fra il modello giapponese di management, improntato ai principi della qualità, della coesione sul lavoro e dell’identificazione con l’azienda, e il modello americano, che ha nella figura del “manager motivante” il suo pilastro dogmatico .

Secondo Ouchi, in presenza di tali situazioni, compito del diretto responsabile sarà intervenire per correggere tali comportamenti e re-indirizzarli secondo quelle che sono le strategie aziendali e il comune fine.

In definitiva il manager deve contribuire a rafforzare il livello di motivazione delle persone definendo attentamente i compiti di ognuno, in base alle specifiche aspettative di coinvolgimento, e stabilendo degli obiettivi che consentano a tutti i collaboratori di sentirsi alla fine vincenti, in modo complementare fra di loro .

Come si è visto nei precedenti paragrafi, la facilitazione sociale del gruppo influisce altamente sui risultati di apprendimento del gruppo stesso a condizione che al suo interno sia prevalente una struttura cooperativa degli scopi da conseguire e i singoli membri non siano considerati dei potenziali concorrenti, ma piuttosto come risorse utili o necessarie per raggiungere gli scopi stessi collegialmente discussi e decisi.

E’ proprio questo momento preliminare di negoziazione che permette la risoluzione dei conflitti e il successivo avvio del lavoro comune in un clima cooperativo. In altre parole, è di fondamentale importanza costruire un clima generale di sostegno emotivo, nel quale i soggetti si sentano sufficientemente sicuri di poter mettere in discussione le idee e le posizioni altrui senza essere attaccati aggressivamente o colpevolizzati. Le controversie su queste idee, anzi, vanno valutate come contributi positivi e come strumenti efficaci per progredire.

Le situazioni conflittuali che il gruppo sperimenta non vanno nascoste o peggio, lasciate covare sotto la cenere di una illusoria normalità, ma devono essere valutate esplicitamente e, per quanto possibile, risolte; infatti se i conflitti diventano espliciti diventa possibile anche controllarli, impedendo così il deterioramento delle relazioni e l’efficacia del lavoro all’interno del gruppo.

Qualunque sia la loro forma, le tensioni generano malessere e l’atteggiamento spontaneo sarebbe quello di sopprimerle o di negarle, come se fossero intrinsecamente negative. In realtà gli studi sulle relazioni umane  mettono in luce che la frequenza di attriti e conflitti si correla non tanto con il malessere che viene vissuto quanto piuttosto con il numero di conflitti che rimangono irrisolti o che sono stati affrontati con metodi inadeguati.

Certo, la differenza di posizioni non si può negare, ma va vista semplicemente come una delle componenti dell’identità personale e relazionale.

Un fondamentale strumento di integrazione potrebbe essere la realizzazione di “diversity team”, ovvero dei gruppi costituiti secondo le logiche del lavoro di un team multietnico, in cui affiancare risorse culturalmente molto diverse e con diverse abilità (come spesso si fa ad esempio, con chi ha particolari competenze di tipo informatico) per il raggiungimento di un medesimo obiettivo prefissato. Gli aspetti di limite di una cultura, infatti, possono essere in modo complementare i punti di forza di un’altra.

Si è detto come le politiche di diffusione della mission e il raggruppamento delle attività interdipendenti nella stessa unità organizzativa può favorire la comunicazione e il reciproco adattamento fra i membri dell’unità, obbligando a condividere risorse comuni e dando luogo a indici comuni di prestazione, che influiscono positivamente sulla motivazione “di gruppo” e “fra gruppi”.

A questi Majer aggiunge anche i conflitti interpersonali fra il lavoratore e l’azienda .

Ciò pone inevitabilmente il problema del coordinamento e delle strategie finalizzate alla permanenza di un clima coeso all’interno del gruppo, ravvisabile nella tolleranza reciproca e nella convivenza armonica. I conflitti in un gruppo sono comunque da considerare una “fisiologica” situazione di lavoro, poiché generano un arricchimento dei reciproci punti di vista, ma solo nella misura in cui si riescono a minimizzare i conflitti negativi, come gli scontri di tipo relazionale per problemi di potere, che portano ad uno stallo della motivazione.

 

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

Le caratteristiche dimensionali: il benchmarking interno

Le caratteristiche dimensionali: il benchmarking interno

Per la maggioranza delle persone il lavoro si attua all’interno di un’organizzazione che può assumere diverse configurazioni.

Si va infatti dalla grande multinazionale all’impresa di servizio pubblico, dall’azienda di medie dimensioni alla piccola azienda di poche persone quasi sempre a base familiare. Le diverse peculiarità dei vari assetti organizzativi impongono necessariamente differenti stili direzionali e la considerazione che differenti saranno, di conseguenza, le leve motivazionali e i fattori determinanti ai fini dell’efficacia interna. E’ quindi importante esaminare la natura delle organizzazioni e le correlazioni principali esistenti tra le caratteristiche di un’organizzazione ed il comportamento sul lavoro .

L’ipotesi di base, in questo caso, è che l’aumento dimensionale è legato al maggiore necessario ricorso all’organizzazione delle attività in gruppo, assegnando a ciascuno un proprio ruolo. Questa circostanza fa emergere, dunque, fra i membri del gruppo fenomeni di dipendenza, (esprimibili in termini di relazioni, legami, collegamenti, scambi e transazioni) che devono essere regolati e governati, se si vuole avere successo nel perseguimento dei propri scopi e obiettivi. La regolazione o governo delle dipendenze produce il fabbisogno di coordinamento, colonna portante di qualsiasi fenomeno organizzativo. Il coordinamento consiste, pertanto, nelle attività di regolazione e governo delle dipendenze che portano un gruppo di attori specializzati e interdipendenti, ad ottenere uno o più obiettivi comuni nello svolgimento di un’attività collettiva.

In una situazione siffatta, si ritiene possibile che nascano dei meccanismi di regolazione della  motivazione derivanti da fenomeni di “mutuo aggiustamento” e di “uniformizzazione delle performance”.

In altre parole con l’aumento dimensionale, si accrescono le possibilità di confronto delle proprie prestazioni con altri membri che hanno funzioni analoghe, se non con altri team facenti parte dello stesso gruppo. Si parla, in questo caso, di benchmarking interno, ossia un approccio sistemico e continuo  che avviene tra unità operative della stessa azienda, per identificare gli standard di prestazione, confrontare se stessi con questi e identificare le prassi che permettono di diventare il nuovo standard di riferimento .

In Auchan, il colosso distributivo francese, vengono periodicamente affissi dei cartelli in cui viene visualizzato l’andamento reddituale di ogni reparto dell’ipermercato e lo scostamento dalla redditività attesa, in modo da facilitare il confronto fra i vari responsabili di reparto e di settore. Un’attività di benchmarking interno, può addirittura permeare in alcuni casi il sistema contabile di riferimento. È il caso della STmicroeletronic, la multinazionale leader nella realizzazione di microprocessori, che nello stabilire le performance di ogni sito produttivo,confronta i costi effettivamente sostenuti (actual) con i costi standard relativi al miglior sito produttivo fra quelli presenti sulle filiali sparse in tutto il mondo.

Come si è visto nella trattazione teorica del processo motivazionale, in definitiva, si osserva spesso che, più che dall’esperienza, si impara per imitazione, dai modelli, comportamenti, bisogni, con cui si viene a contatto, al punto che spesso il confronto con gli altri fornisce una visione più chiara dei motivi e dei fini. Inoltre il confronto con gli altri aiuta a formulare una valutazione positiva o negativa di sé. Nell’attività intesa a motivare, bisogna tenere presente questi elementi di interazione tra i diversi comportamenti individuali.

Un altro fattore chiave che influenza i processi motivazionali all’interno di un gruppo, e a cascata dei singoli componenti, è il clima organizzativo, inteso come l’atmosfera derivante da diverse componenti: lo stile direzionale, il livello di collaborazione e di relazionalità fra i membri, il grado di autonomia decisionale, la struttura organizzativa, etc. L’interazione di questi elementi determina il background sociale all’interno del quale viene svolta l’attività dell’individuo.

L’importanza di questo aspetto diviene via via sempre maggiore al crescere delle dimensioni aziendali, dei livelli gerarchici e delle strutture decisionali. Diversamente dalle piccole imprese, nelle quali il soggetto è l’artefice principale del clima stesso, in contesti più grandi la molteplicità di fattori in gioco e l’interrelazione con diversi soggetti fanno sì che l’individuo più che altro lo subisca.

Sono comunque necessarie alcune precisazioni qualora si ritenga che il clima organizzativo sia una leva manageriale in grado di agire sui processi motivazionali, sulla prestazione e sulla soddisfazione dei collaboratori. Innanzitutto se viene considerata una variabile esogena e si voglia determinare a posteriori, non è affatto agevole la sua misurazione.

Se è infatti chiaro che alcuni aspetti della realtà oggettiva, come ad esempio la struttura organizzativa, contribuiscono a formare un determinato clima organizzativo, è altrettanto evidente che esso è in parte un fenomeno soggettivo e personale, nel senso che è rappresentato dal clima percepito dal singolo dipendente, attraverso la sua opinione e la sua interpretazione psicologica degli aspetti situazionali che formano il contesto in cui lavora, tanto che individui con differente esperienza e capacità di sintesi possono avere schemi conoscitivi diversi e quindi percezioni diverse della medesima situazione organizzativa.

Assieme al concetto di clima organizzativo va pertanto considerato quello di clima psicologico, con la conseguenza che il clima organizzativo è funzione di ambedue le variabili, l’individuo e l’organizzazione, e dipende dalla loro interazione.

Queste stesse considerazioni vanno fatte qualora si voglia disegnare a priori una determinata configurazione del clima organizzativo, utilizzandolo come leva direzionale applicabile ad un gruppo nella sua unitarietà, e solo dopo aver verificato l’omogeneità delle strutture percettive dei singoli membri.

A questo proposito risulta di notevole importanza, se non determinante, la coerenza del clima organizzativo con i valori espressi dalla vision e con il messaggio che vuole comunicare la mission di un gruppo, oltre che dell’azienda nel complesso, in quanto elementi di unificazione e responsabilizzazione dei soggetti appartenenti al gruppo verso l’esterno.

In caso contrario si vivrebbe una situazione organizzativa in cui il dipendente vive una sorta di “doppia personalità lavorativa”, quella effettiva o comunque da lui stesso avvertita, e quella di team member che viene percepita in modo difforme all’esterno.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

Il gruppo e la motivazione

Il gruppo e la motivazione

In questa sezione si ritiene utile approfondire la dimensione organizzativa in cui è inserita l’attività del lavoratore, e più in generale il suo rapportarsi con entità come il gruppo e il team, alle quali l’individuo non solo reagisce, ma vi prende parte mediante le quotidiane interazioni contenute nei processi lavorativi coordinati.

In una società fatta di continue relazioni con organizzazioni di tipo diverso, oltre a quella lavorativa, non si può infatti prescindere dal comprendere le modalità soggettive di percepire il gruppo e la pluralità di rapporti all’interno di esso.

L’organizzazione, quindi, non è qualcosa di separato e di contrapposto agli uomini, bensì è il prodotto di modelli ricorrenti di interazioni che si ricostituiscono proprio attraverso le interazioni quotidiane.

L’importanza di tali rapporti e delle loro conseguenze in termini di motivazione, è stata evidenziata dalla Zucchermaglio, la quale definisce le organizzazioni come insieme di “comunità di pratiche” e non semplicemente come insieme di individui .

Tali comunità sono caratterizzate da tre dimensioni.

    1. Un impegno reciproco (mutual engagement), ciò significa che l’appartenenza alla comunità è data solo dalla condivisione di uno stesso impegno.
    1. L’impresa comune (a joint enterprise) che tende a evidenziare l’aspetto della negoziazione, essenziale perché si possa parlare di una comunità di pratiche. Ma avere degli obiettivi comuni non è tanto il punto di partenza quanto il risultato di un processo di interazione negoziale che ha origine da un impegno reciprocamente condiviso.
    1. Infine, il repertorio condiviso (a shared repertoire) che sottolinea la centralità della costruzione collettiva di risorse per la sussistenza e replicazione della organizzazione.

Per molte persone, inoltre, le organizzazioni sono fonte di self-identity (identificazione di se stessi) e di supporto emozionale, ma anche delle mini-società che hanno loro propri e distintivi modelli culturali.

All’interno delle organizzazioni, infatti, un individuo “entra in contatto con le storie che le persone raccontano su quello che fanno, con le regole e le procedure formali, con i codici informali di comportamento, le norme di abbigliamento, i rituali, i compiti, i sistemi salariali, il gergo e gli scherzi che sono compresi solo da chi vi è all’interno” .

Tutti questi elementi contribuiscono a configurare un senso di appartenenza che ha dei fortissimi influssi sulle dinamiche motivazionali, noto nella prassi manageriale con il termine di cittadinanza organizzativa o di personalità organizzativa. Con questi termini si intende l’effetto positivo dell’influenza sociale sul comportamento lavorativo, influenza che, come si è visto parlando di groupthink, può anche essere negativa, portando a fenomeni come il conformismo e l’inerzia sociale. In particolare ci si riferisce a quelle forme di altruismo, di coscienziosità , di cortesia, di supporto e di aiuto reciproco, che spesso si formano fra i componenti del gruppo a titolo puramente gratuito e senza secondi fini.

Comportamenti organizzativi questi, non espressamente richiesti dal ruolo formale ma che, se presenti, risultano funzionali alla positiva realizzazione dei compiti, costituendo inoltre un forte indicatore del grado di soddisfazione del lavoro, di motivazione dell’individuo al lavoro e all’organizzazione. Tali comportamenti possono essere rilevati direttamente attraverso delle “analisi di clima”, di cui si parlerà nel prosieguo, o indirettamente valutando, per esempio, il turnover, l’assenteismo o la produttività. Una persona motivata al lavoro e all’organizzazione avrà un basso tasso di assenteismo sul posto di lavoro e, verosimilmente, avrà una produttività medio-alta.

Volendo approfondire le dinamiche motivazionali all’interno dei gruppi, bisogna poi indagare la percezione di ciò che accomuna i membri di un gruppo. Potrebbero condividere un’attività, o una condizione, o uno scopo, o una qualità, con diversi  livelli di consapevolezza. Conseguentemente varia la delimitazione di ciò che costituisce  oggetto di interesse per il lavoratore.

Per esempio, l’influenza che viene esercitata su un  individuo per il fatto di appartenere a un certo gruppo può essere molto forte in alcuni casi, come per la nazionalità o l’etnia. Molti comportamenti della persona possono essere spiegati dal fatto di avere una determinata nazionalità, quindi abitudini, linguaggi, gusti, valori, in breve una certa cultura. In altri casi l’essere membro del gruppo influenza il comportamento solo in certi momenti e superficialmente: chi partecipa a un progetto lavorativo ne rispetta i termini e le scadenze, ma una volta giunto al termine le sue motivazioni cambiano. Infine ci sono situazioni in cui può essere considerata quasi nulla l’influenza esercitata sull’individuo dal fatto di essere membro di un gruppo, in special modo se quest’appartenenza non è soggettivamente percepita: chi sta aspettando l’autobus può non sentirsi affatto accomunato agli altri, insieme ai quali eventualmente si trovi. In tale situazione, potrebbe diventare di preminente interesse osservare l’influenza che deriva non già dall’appartenenza al gruppo ma dal comportamento di ognuno degli altri individui (si ricordi l’apprendimento sociale di Bandura). Posto quindi che, come si è detto, esistono diversi criteri di concettualizzazione del gruppo, e sempre rimanendo nella prospettiva del soggetto che ne è membro, può essere adottata in sintesi la seguente definizione di Lewin: “un gruppo è un insieme dinamico, costituito da individui che si percepiscono vicendevolmente come più o meno interdipendenti per qualche aspetto” .

Il gruppo esiste, pertanto, quando gli individui divengono consapevoli che, in qualche modo, il loro destino è collegato a quello del gruppo; è proprio il concetto di “interdipendenza del destino” che Lewin vuole far emergere nel frammento sopra menzionato. Nel gruppo di lavoro, oltre alla interdipendenza del destino emerge un altro aspetto caratterizzante, che si può definire “interdipendenza del compito” , quando cioè esiste un obiettivo da raggiungere, un compito da assolvere, tale che irisultati di ciascun membro hanno implicazioni per i risultati degli altri.

Questa interdipendenza può essere definita “positiva”, quando dà luogo all’instaurarsi di sentimenti di cooperazione e coesione tra i membri, favorendo una migliore prestazione del gruppo; oppure “negativa”, quando prevale la competizione che conduce a insicurezza, riduzione della coesione e peggioramento della prestazione complessiva.

In definitiva, va distinta la “motivazione al lavoro” dalla “motivazione al lavoro di gruppo” che non sempre coesistono e che invece sono estremamente necessarie ambedue nel caso del team working. La seconda caratteristica implica che il lavoratore abbia ben sviluppate competenze soprattutto di tipo relazionale e attitudine alla socializzazione delle informazioni, dei programmi e degli obiettivi condivisi.

Nel prossimo pargrafo si analizzerà la forza con cui alcuni concetti come la vision, la mission e l’organigramma, laddove efficacemente esplicitati, riescono a creare una coesione, fornendo delle spinte motivazionali di fondo. Nell’approfondimento di queste tematiche, muovendosi da un approccio contingente, si ritiene di fare ricorso al concetto di adattamento organizzativo attraverso la nozione  di equifinalità, all’interno della teoria sistematica dell’organizzazione. Nel secondo paragrafo si ritiene importante esaminare la natura delle organizzazioni e le correlazioni esistenti tra le caratteristiche di un’organizzazione ed il comportamento sul lavoro, approfondendo le relazioni tra struttura  e motivazione.

In questa sezione si vuole quindi evidenziare come le azioni manageriali tese all’accrescimento della motivazione devono essere orientate coerentemente con la forma organizzativa che gli fa da scenario, dal momento che, più aumenta la dimensione aziendale, più aumenta il numero di soggetti con funzioni analoghe e pertanto diventa misurabile su più vasta scala l’effetto dei fattori incentivanti. Aumenta anche la possibilità di confrontare le prestazioni di mansioni omogenee.

Difatti, considerando una specifica funzione e rilevando quello che si può definire il livello di prestazione standard associato alla data mansione, si possono individuare due prospettive di osservazione: una relativa al rendimento medio sotto il quale la prestazione sarà valutata non il linea con quella di gruppo e per questo considerata dall’individuo come il livello minimo di sopravvivenza all’interno dell’organizzazione. L’altra che evidenzia come  il superamento dello standard,  generando di per sé un riconoscimento interiore, conduca a quelle dinamiche motivazionali finalizzate all’uniformarsi ad un livello di prestazione superiore.

Si evidenzia così come il sentiero di sviluppo aziendale si deve muovere attraverso l’emulazione delle migliori prestazioni e azioni di benchmarking interno, senza tuttavia nascondere l’eventualità che questo orientamento possa portare a  conflitti organizzativi. Infine, nel terzo paragrafo, si accennerà alla eventualità di fenomeni quali i rapporti di clan che possono alterare l’organicità e  l’effetto unificante delle politiche di incentivazione finalizzate alla coesione del gruppo, rendendo così necessarie azioni di team linkage.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

La soddisfazione ed il performance management

L’analisi a posteriori: la soddisfazione ed il performance management

Nel valutare la probabilità che un soggetto sia predisposto a una determinata mansione, accanto alla motivazione, si deve anche considerare un qualcosa che va oltre: l’intenzione volitiva.

La motivazione è il processo attraverso il quale si arriva a decidere di agire in un certo modo, la volizione è il processo in base al quale le intenzioni si attuano. Se l’analisi a priori può in qualche modo risalire alla motivazione che un soggetto ha nello svolgere un determinato lavoro, non può tuttavia spingersi fino ad indagare la dimensione volitiva, ossia se effettivamente verrà messo in atto il comportamento organizzativo richiesto dalla mansione.

Le unità di analisi diventano quindi il comportamento e il raggiungimento degli obiettivi, quali azioni coerenti all’atteggiamento intenzionale, che tramuta la volontà in azione conseguente.

In questo caso, per ogni posizione/ruolo vengono indicati quali siano i comportamenti organizzativi attesi ed i fattori a cui questi comportamenti rimandano; per ogni fattore il valutatore deve precisare in che misura esso è presente nel soggetto esaminato, tenendo conto solamente di ciò che la persona ha effettivamente fatto nel periodo considerato e non delle sue capacità potenziali.

In definitiva, l’analisi a posteriori, intende ricavare “indirettamente” la presenza o meno della motivazione nello svolgere un lavoro da variabili come lo sforzo, cioè la capacità di guidare e canalizzare l’attenzione in direzione di uno scopo, la perseveranza, cioè la conservazione della motivazione finché non è stato raggiunto l’obiettivo e la resistenza, che si manifesta di fronte agli ostacoli, agli imprevisti, agli insuccessi .

Con questo tipo di analisi, come si è visto, viene indagata quell’area della motivazione che rende attuali e presenti i valori o i motivi che il soggetto stesso ha interiorizzato, portandoli verso la definizione di un’intenzione, e la decisione di impegnarsi in maniera adeguata per raggiungerla.

Secondo una visione più restrittiva , invece, un obiettivo di prestazione è un risultato aziendalmente rilevante e atteso nei confronti del titolare di una posizione, che deve essere riferito ad un arco temporale predeterminato, deve essere derivato dalle aree di risultato di cui la posizione è responsabile e deve essere misurabile in termini di livello di conseguimento, grazie a specifici criteri di misurazione. In una accezione più moderna, riferibile alle pratiche manageriali definite di performance management , la valutazione delle prestazioni è una tecnica di analisi a posteriori, finalizzata a individuare tutte le competenze che il soggetto è riuscito a mettere in campo.

Per questo motivo, l’analisi deve riferirsi all’individuazione delle competenze tecniche necessarie allo svolgimento dell’attività, ma anche di altre competenze (come quelle trasversali), che sono parimenti strategiche per raggiungere l’obiettivo.

In questa prospettiva, le unità di analisi da indagare si possono infatti scindere in task performance, ossia le attività professionali e tecniche richieste proprio per lo svolgimento della mansione; contextual performance, individuabile nei comportamenti che vanno al di là dello svolgimento dei propri compiti, riferibili a tutte quelle azioni pro-attive che aumentano l’efficacia organizzativa o migliorano il clima lavorativo; ethical performance, che riguarda il fare le cose “eticamente corrette”, ossia perseguire realmente gli obiettivi dell’azienda .

Sintetizzando, per essere corretta, la valutazione della prestazione deve concentrarsi esclusivamente sui comportamenti e sui risultati, ossia su criteri legati alla mansione, all’efficacia della prestazione lavorativa, non sul carattere o aspetti strettamente personali, dovendo essere svolta almeno ogni sei o dodici mesi.

La valutazione dell’attività lavorativa o job evaluation, è inoltre un procedimento con cui ciascuna posizione o ruolo precedentemente descritto, viene confrontato con altri allo scopo di stabilirne il valore relativo, con l’obiettivo di permettere la formazione di un equo piano retributivo, nel quale posizioni/ruoli aventi pari valutazione debbono avere anche pari retribuzione, indipendentemente dall’area o settore aziendale presso cui sono svolte.

L’implementazione di un valido ed efficace programma di valutazione della prestazione lavorativa, poi, deve consentire che ognuno in azienda sia in grado di valutare correttamente la qualità del proprio lavoro, in modo da restare in linea con gli obiettivi programmati.

Per questo motivo è necessario che vengano sviluppati, come routine di ogni mansione, tre importanti feedback. Il primo è il feedback proveniente dalle altre persone. Le valutazioni annuali, come quelle quadrimestrali o mensili, sono troppo generiche. Un feedback immediato e specifico rappresenta uno degli strumenti più efficaci per aiutare i lavoratori a migliorare la propria performance, consentendo anche di condurre tutto il gruppo in maniera armoniosa e continua. In ogni caso, bisognerebbe imparare a trattenersi da un’eccessiva presenza quando il lavoro si svolge correttamente, poiché se si esagera, il feedback può interferire troppo nel lavoro delle persone .

Focalizzarsi solo sui fatti presenta innumerevoli vantaggi: non si invade la personalità, si è più specifici ed oggettivi, si è meno influenzati da opinioni e sensazioni, si migliora la comunicazione e la presa di coscienza.

Ricorrere all’esempio comportamentale e comunicare attraverso fatti, permette così di evitare possibili generalizzazioni, ma soprattutto di evitare i giudizi. La seconda fonte di informazioni è rappresentata dal feedback proveniente dal lavoro stesso.

Alcune mansioni hanno al loro interno un sistema di misurazione della performance, anche se molte altre ne sono prive. Il successo di alcune recenti tecniche manageriali, come il TQM, è dovuto in parte al fatto che esse aiutano l’organizzazione a quantificare le performances dell’azienda. Qualunque sia la tecnica impiegata, è responsabilità del manager comunicare a tutti le proprie aspettative in modo chiaro, in modo tale che i lavoratori possano in qualunque momento verificare se la propria attività è in linea con gli obiettivi. Infine il feedback può derivare anche dagli standard che ogni individuo sa di poter raggiungere. Un vero lavoratore performante è colui che sa sviluppare un proprio metro di misura con cui stabilire la bontà del proprio operato, al di là dei parametri esterni.

Questo approccio  si basa essenzialmente sulla esperienza maturata nel tempo svolgendo una determinata mansione, che permette alle persone di formulare un giudizio personale circa il livello del lavoro svolto in modo naturale ed intuitivo.

Trasmettere ai lavoratori questo genere di approccio non è semplice; la migliore strategia è pertanto quella di definire gli standard ad una singola persona in modo chiaro, far si che questa li applichi al lavoro in modo tale che tutte le altre possano riconoscerli e prenderli come esempio. In molti casi questa prassi può richiedere che una data attività debba essere ripetuta più volte, entro determinati intervalli di tempo, finché l’esecuzione non diventa perfetta.

Il processo di valutazione delle performance nasconde delle insidie che devono essere gestite per non minare l’efficacia dello strumento .

Un primo comune ostacolo è uno scarso orientamento aziendale al personale, o scarso orientamento del singolo manager.

Spesso il lavoro è concepito in visione tayloristica con dettagliati mansionari, procedure e con un forte orientamento al compito. Questa visione del lavoro tende a trascurare le caratteristiche della risorsa umana, la cui produttività non è prestabilita, ma può variare notevolmente in funzione della sua motivazione.

Altro ostacolo molto frequente è la motivazione del manager al quieto vivere, pertanto il desiderio di non complicarsi la vita con valutazioni negative. In questo contesto nasce il “buonismo” che rappresenta una distorsione sistematica ad una valutazione oggettiva. Il manager non si accorge di essere latitante nell’assolvere una sua precisa responsabilità, preferisce camuffare la realtà dichiarando che tutti sono bravissimi, o limitandosi a commenti generici inficiati da un eccessivo criticismo, che non entrano nel merito delle questioni.

    • Il falso obiettivo di un capo è di essere amato dai propri collaboratori.
    • Il vero obiettivo è quello di creare un clima di fiducia e di reciproca stima professionale.

Una grossa difficoltà dei valutatori, derivante dal non volere assumere un ruolo, poco esaltante, di colui che giudica altre persone, è infatti comunicare una valutazione negativa della prestazione per paura di demotivare il collaboratore, o di dover iniziare forti discussioni e creare tensioni.

Ma ciò può essere evitato se si riesce a legare la performance negativa ad un piano di sviluppo personale.

Il capo credibile fa percepire che è interessato alla crescita del collaboratore, utilizza il rimprovero costruttivo, quale strumento di crescita. Il capo credibile usa il “noi” parlando di problemi.

Raramente dice: “Tu hai sbagliato!”, bensì “Noi abbiamo sbagliato!”. Ma non lo fa solo per una pratica manieristica, ma perché si sente genuinamente responsabile degli errori del proprio collaboratore.

Se il superiore non si costruisce questa credibilità, per quanto abile nei colloqui, rischierà sempre di essere vissuto come un antagonista nel lavoro. La valutazione delle prestazioni presenta poi il grande rischio della soggettività del valutatore, il quale tende, anche involontariamente, ad usare metri di valutazione squisitamente personali. In genere si tende ad avere alte aspettative su aree comportamentali dove si è più forti. Ad esempio un manager molto analitico darà molto peso alla capacità analitica dei propri collaboratori. Per ovviare a questa distorsione di soggettività, è opportuno sviluppare e condividere una cultura aziendale o di reparto o di Ripartizione.

La cultura condivisa diventa un metro oggettivo di valutazione della prestazione. Se ad esempio l’azienda condivide una forte cultura del lavoro in team, ogni manager darà un gran peso al senso di collaborazione dei suoi collaboratori, alla capacità di fare team, di scambiarsi informazioni, di aiutarsi spontaneamente, etc. Quest’aspetto culturale diventa pertanto un parametro oggettivo di valutazione del personale. La cultura comportamentale attesa è data dal complesso dei comportamenti che un leader, o meglio un’azienda intende vedere praticati. Molto spesso, infine, la valutazione delle prestazioni è intesa come uno strumento per distribuire eventuali premi che l’azienda mette annualmente a disposizione dei propri dipendenti. Quando nelle aziende si consolida questa visione, la gestione stessa del processo diventa molto difficile e piena di ostacoli, risolvendosi in una scarsa propensione del collaboratore ad accettare una valutazione che andrà direttamente ad influire sul proprio portafoglio.

In questo caso valutare significa creare le condizioni per un conflitto. Altre volte viene vissuta come strumento per avviare un processo meritocratico in azienda.

Si arriva infine ad un’altra drammatica percezione, osservata in diversi contesti, dove la valutazione viene percepita come strumento per distinguere i bravi collaboratori da quelli scarsi. La valutazione delle prestazioni professionali non va comunque meramente intesa come uno strumento per attivare “premi o punizioni”, ma costituisce in primo luogo un fondamentale strumento di  conoscenza e definizione della realtà organizzativa. Inoltre è soprattutto uno strumento che completa la definizione dei ruoli, la rende più aderente alle concrete esigenze e condizioni di funzionamento delle strutture, consentendo di meglio governare e gestire l’adattamento dinamico dell’organizzazione rispetto al reale contesto operativo. In sintesi, la valutazione delle prestazioni è uno strumento di sviluppo del personale basata sul riconoscimento delle capacità, dei risultati del singolo e sulla possibilità di migliorare le sue prestazioni.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

 

 

La misurazione del livello di motivazione

La misurazione del livello di motivazione

Conclusa la trattazione teorica si intende a questo punto fornire un’elencazione di alcuni strumenti operativi, di uso quotidiano nella pratica manageriale, ma implicitamente suggeriti, come si è avuto modo di vedere, dalla speculazione sul tema della motivazione. Le leve operative verranno proposte in una sequenza che rispecchia l’iter cronologico del percorso tipico di una risorsa all’interno dell’azienda. Si va dall’assunzione, all’inserimento nel team, dalle politiche di incentivazione fino alla gestione globale e alla sua uscita (outplacement). In ogni fase, infatti, ci sono diversi aspetti da tenere in considerazione che impattano sulla motivazione in ambito lavorativo.

In questa prima sezione si vogliono approfondire le dinamiche motivazionali inerenti l’ingresso della risorsa all’interno dell’organizzazione, ma anche la problematica della rilevazione della motivazione in qualsiasi momento in cui la risorsa sia già operante nel contesto aziendale. Spesso le aziende traggono il livello di motivazione solo in seguito ai risultati dell’attività lavorativa di un singolo soggetto, ma in realtà, a parità di motivazione, soggetti diversi, o lo stesso soggetto in diverse attività, possono generare prestazioni molto differenti. Va detto che tali differenze in parte dipendono dalle condizioni esterne, dalle difficoltà e dagli imprevisti, dal grado d’incertezza del compito e dell’ambiente lavorativo; tuttavia, per una parte importante dipendono dalle caratteristiche strutturali del lavoratore stesso, dalle risorse che può mobilitare al suo interno, da ciò che è capace di fare, praticamente da quelle che vengono chiamate le sue competenze.

Nella definizione delle competenze esistono vari approcci, che privilegiano, secondo i diversi punti di vista, gli aspetti cognitivi e d’apprendimento, i saperi legati all’esercizio del ruolo e della professione, o gli aspetti d’esercizio delle competenze derivanti dalle caratteristiche del contesto di riferimento. Secondo Nelson e Winter  “la competenza è la capacità di dar luogo ad una sequenza regolare di comportamento coordinato, efficace rispetto agli obiettivi, dato il contesto in cui ha luogo”. Levati e Saraò  definiscono la competenza come “sistema di schemi cognitivi e comportamenti operativi, intrinseci di un individuo, causalmente correlati al successo sul lavoro o a una prestazione efficace, composta di motivazioni, immagine di sé, conoscenze e abilità”. In questa sede quindi il concetto di competenza va inteso in senso allargato, poiché deve tenere conto non solo delle capacità tecniche, necessarie allo svolgimento di una data attività, ma anche di quegli attributi intrinseci alla persona che consentono di mantenere un interesse vivo verso il lavoro, motivando il soggetto ad impegnarsi. Deriva da ciò l’impossibilità di analizzare le competenze prendendo in esame solo la posizione organizzativa: occorre infatti assumere come oggetto di analisi anche le qualità e le risorse individuali del soggetto al lavoro, opportunamente contestualizzate e confrontate. Si parla in questo caso di “attitudini”. Queste sono il risultato di un processo in cui partendo dall’analisi della posizione, si individuano i comportamenti necessari, stendendo un profilo tipo, in modo evidenziare eventuali predittori del comportamento performante.

La centralità assunta dal concetto di competenza professionale ha determinato uno stravolgimento delle modalità consolidate di intendere le qualifiche, le performances e i relativi modi di valutarle e certificarle. I diplomi e le qualifiche, tradizionalmente visti e utilizzati come parametri di valutazione della preparazione delle persone e talvolta intesi come determinanti del successo nel lavoro, hanno perso queste loro funzioni; la loro utilità è ora limitata al dire quali conoscenze sono possedute da un dato individuo e al massimo il modo come costui ne ha gestito l’acquisizione in un determinato contesto formativo. Poco rivelano in relazione al suo comportamento in un contesto lavorativo, dove entrano in gioco le competenze. Per far fronte a questi fabbisogni informativi, la valutazione della motivazione strettamente se non esclusivamente imperniata sul “sapere“ o, al massimo, sul “saper fare“, non è più sufficiente, in quanto poco risponde alle nuove logiche legate al “saper essere”. Dovranno essere analizzate quindi sia le conoscenze e le esperienze passate, ma anche le capacità  attualmente esprimibili e gli atteggiamenti. Sintetizzando si può dire che le competenze sono quell’insieme di abilità necessarie all’esercizio di un’attività lavorativa e la padronanza dei comportamenti basati su conoscenze (sapere e saper fare) e attitudini (saper essere). In sostanza, sono degli attributi intrinseci alla persona, ma significativi e strategici per la sua specifica mansione, in quanto correlati con la performance in compiti e atteggiamenti ben definiti. Si può quindi analizzare la competenza sotto due diversi aspetti che dipendono dalle finalità con cui si vogliono analizzare le risorse umane, a seconda, cioè, se si vogliono comparare tra di loro o se si vogliono comparare con un modello teorico di competenze previste per quel dato compito:

    1. Valutando il primo aspetto il principio guida è scoprire profili di competenze che si correlano alle prestazioni più elevate, dove il contenuto e i parametri della prestazione desiderata sono dati. Una delle finalità seguite da queste analisi delle competenze generali e standardizzate, è quindi definire tipi di competenze sufficientemente astratte e indipendenti dallo specifico contenuto del lavoro, per poter comparare delle competenze generiche, richieste anche in diverse posizioni lavorative, ma che sono chiaramente correlate a performance di livello superiore. In altre parole la competenza è data da conoscenze e abilità che, sulla scorta dell’esperienza pregressa, sembrano poter assicurare specifici livelli di qualità nell’esercizio di qualsiasi professione di riferimento e vengono assunti come indicatori  di un modello predittivo di performances future. Per supportare queste analisi la soluzione è costruire elenchi dei possibili contenuti delle competenze, dai quali si possa dedurre il livello di motivazione e coinvolgimento al lavoro (autonomia, affidabilità, capacità di pianificazione, di visione allargata, di gestione della complessità, di stabilità emotiva, di problem solving, etc.). Un limite di queste classificazioni è che l’elenco potrebbe continuare in linea di principio all’infinito. Inoltre è una visione della competenza che può essere da un lato troppo ampia, perchè prevede una serie indifferenziata di elementi tutti potenzialmente importanti, dall’altro troppo ristretta  rispetto ai possibili elementi costitutivi della competenza stessa ai quali è riferibile una specifica mansione.
    1. Per queste ragioni un secondo aspetto di valutazione è quello di analizzare le competenze lavorative in modo contestualizzato, partendo dal presupposto che le conoscenze applicabili nell’attività di lavoro concreta, costituiscono gran parte delle competenze che un soggetto può e deve esprimere. La finalità in questo caso è quella di tracciare i contorni delle competenze che servono per una data mansione, ed elaborare un modello di competenza performante, che tuttavia poco dice sul livello motivazionale del soggetto.

Lo step successivo sarà quello di capire il grado di profondità e incorporazione delle suddette competenze nella risorsa umana. Spencer & Spencer  propongono l’immagine dell’iceberg o delle scatole cinesi per rappresentare l’idea che le competenze abbiano degli strati “sommersi”, che non possono essere visti nemmeno dagli attori che le posseggono; e che esse racchiudano un “nocciolo duro” molto difficile da disgiungere dall’identità del soggetto stesso e da cambiare. Il set di competenze ha quindi una struttura stratificata, analoga a quella della conoscenza. Lo strato più profondo o nocciolo delle competenze (sotto la linea di galleggiamento) è costituito dai tratti, dalle doti della persona, dalle sue motivazioni intrinseche, e dalla personalità, cioè da ciò che si è capaci di fare per dotazione fisica ed emotiva, e  per dotazione culturale. Una componente più esterna (sopra la linea di galleggiamento), visibile e facile da analizzare è identificata nelle skills o abilità. Esse sono capacità apprese in modo esperienziale, diretto o tramite osservazione. Esse sono largamente identificabili con le conoscenze tacite richieste dalla mansione specifica, ovvero esempi di situazioni lavorative “tipo”. La preparazione professionale è vista come lo strato più codificabile, più facilmente modificabile e trasferibile delle competenze, attraverso la formazione (conoscenze esplicite).

La distinzione tra risorse comparabili o specifiche ad un compito non è comunque  solo una questione di approccio. Componenti generiche possono essere più o meno presenti in un modello di competenza. Tuttavia se una competenza è molto  specifica rispetto ad un uso o attività, la differenza tra il valore dei servizi resi in quell’attività rispetto al migliore impiego alternativo è molto elevata. Ciò significa che nella fase di inserimento, l’analisi della motivazione verso l’espletamento di un lavoro, non può che concentrarsi sulle competenze generiche, mancando ancora il dato esperienziale sul quale poter giudicare come il soggetto ha effettivamente messo in campo le sue qualità. Viceversa, nel caso la risorsa sia già operante, bisogna analizzare il suo livello di motivazione, contestualizzando le competenze generiche in pratiche effettivamente necessarie alla mansione, che ne può richiedere alcune e tralasciarne delle altre. Questa puntualizzazione può apparire ovvia, ma nella prassi manageriale spesso si confondono i due tipi di competenza, nei diversi momenti in cui vengono analizzate le risorse, o si ritiene che tutte le competenze servono per il ruolo in questione. Inoltre si basa su un modello teorico delle competenze, largamente accettato in dottrina, in cui si suppone che la prestazione lavorativa deriva dal reciproco concorrere delle capacità e delle motivazioni del lavoratore:

PRESTAZIONE =  CAPACITA’  x  MOTIVAZIONE

Il modello evidenzia come la qualità di una prestazione lavorativa dipende dalla competenza della persona rispetto al compito che è chiamata a svolgere (il Sapere), dalla motivazione a raggiungere l’obiettivo (il Volere), a cui si possono aggiungere le risorse tecnologiche, finanziarie, informative e umane che l’organizzazione gli mette a disposizione per lo svolgimento di quel compito (il Potere).

Per prefigurare le performance future, si dovranno quindi raffrontare le capacità realmente messe in campo nella mansione specifica, osservabili con comportamenti o risultati visibili, con le motivazioni rilevabili prima di introdurre la risorsa in azienda, verificando che queste coincidano con quelle ricavabili dal modello teorico di competenze previste per quel determinato ruolo, in una logica di anticipazione dei fabbisogni professionali nel medio periodo. Vanno inoltre distinte le competenze di base (informatiche, linguistiche, etc.) da quelle tecnico-professionali. A queste si possono aggiungere le competenze trasversali che fungono da collegamento fra la competenza tecnico-professionale e le competenze generiche facenti parte della personalità dell’individuo, nel senso che possono essere messe in atto sia per attività semplici, sia per attività complesse. Esse riguardano prevalentemente il rapporto che la persona ha con l’ambiente di lavoro, il modo di affrontare i compiti da svolgere, gli aspetti emotivi delle relazioni lavorative (lavorare in gruppo, sviluppare soluzioni creative, negoziare). Si parla infatti di competenze extra-role, che sono osservabili in comportamenti intenzionali definiti “pro-sociali” o “pro-attivi”. Le competenze trasversali o “aspecifiche” sono inoltre definite come le abilità relative al saper mettere in atto strategie efficienti per utilizzare le risorse possedute (conoscenze, valori, motivazioni), coerentemente con le esigenze del compito (comportamento lavorativo atteso, condizioni di esercizio, ambiente, organizzazione) . La valutazione della motivazione, infine, non è un fatto isolato, ma deve introdursi in un “ciclo della prestazione” che passa attraverso tre aree distinte di intervento. Una fase iniziale di pianificazione che si realizza con l’accordo sugli obiettivi di lavoro e di sviluppo personale del collaboratore. Il manager deve definire con il proprio collaboratore le aspettative che ha dalla sua funzione, intendendo per aspettative una chiara definizione degli obiettivi annuali e anche dei comportamenti attesi .

Una fase intermedia che comprende, in genere, l’intero anno di lavoro, durante la quale si svolgono incontri vari di monitoraggio. Il manager svolge colloqui sistematici con il proprio collaboratore, non solo legati alle contingenze del lavoro ma anche alla comunicazione delle osservazioni sui suoi comportamenti e sullo stato di avanzamento dei suoi obiettivi. Il numero degli incontri non può essere programmato a priori, in quanto dipende dalle occasioni in cui è possibile comunicare esempi comportamentali significativi per lo sviluppo del collaboratore. Il colloquio di monitoraggio ha una duplice finalità: sviluppare il dipendente e motivarlo: pertanto anche la gratificazione come il rimprovero costruttivo fanno parte del monitoraggio. Il manager deve sentirsi ed essere percepito come partner della performance del collaboratore e non come spettatore passivo. Il suo ruolo non può essere limitato al processo finale di valutazione bensì al piano completo della performance, altrimenti si creerebbe un’immagine di arbitro, più o meno oggettivo nei giudizi, non coinvolto e corresponsabile di quei risultati.

Il ciclo della performance si conclude con la discussione formale dei risultati e la valutazione del collaboratore, attraverso una fase formale nella quale si presenta e si discute su un rapporto scritto. Questa fase di formalizzazione del giudizio è sicuramente la più delicata e rischiosa, ma sarà sicuramente più facile quanto più sarà percepita come naturale corollario di un anno di monitoraggio.

Nei prossimi paragrafi si tratteranno distintamente la fase iniziale e la fase intermedia della misurazione del livello motivazionale.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

L’influenza degli altri soggetti

L’influenza degli altri soggetti

La considerazione delle aspettative e del processo di motivazione interna, pur non potendo descrivere il processo di motivazione nella sua interezza, fornisce comunque utili suggerimenti ed implicazioni che hanno una grande rilevanza per i manager. Innanzitutto è necessario scoprire quali risultati particolari sono apprezzati da ogni lavoratore, creando un collegamento diretto ed esplicito tra i vari livelli di prestazione e i rispettivi risultati in termini di ricompense.

Le aspettative che generano motivazione nei dipendenti, infatti, non sprigioneranno il loro effetto se i soggetti non sperimenteranno un chiaro nesso fra prestazione e risultato. A questo fine sarà opportuno specificare quali comportamenti specifici costituiscono un buon livello di prestazione, così che il soggetto potrà valutare se ne è all’altezza. In secondo luogo bisogna capire se esistono aspettative contrastanti, incoraggiate anche da altre persone e soggetti di influenza, interni o esterni all’organizzazione, la cui incompatibilità non è percepita dal dipendente.

Se altrimenti fosse percepita, egli si orienterebbe in modo più netto verso una specifica scelta che, pur contrastando con altre, avrà la combinazione migliore di probabilità di successo e valore soggettivo. Un’altro aspetto importante che la teoria delle aspettative vuole evidenziare riguarda la progettazione dei compiti, delle mansioni e dei ruoli.

Questa attività va fatta in modo che ogni individuo, proprio perché ha aspettative e desideri diversi, avrà l’opportunità di soddisfare i propri bisogni mentre lavora; per questa ragione la ricompensa non potrà che essere personalizzata, in quanto inequivocabilmente associata a diversi livelli di impegno-prestazione, e sufficientemente alta da far percepire l’effettivo raggiungimento del risultato. È altresì importante sottolineare come in effetti una tale attività di differenziazione compensativa, sia difficile da mettere in pratica senza provocare un senso di ingiustizia o inequità, quando non degenera in favoritismi e nepotismo.

Quest’ultimo aspetto, ma anche la circostanza che la formazione delle aspettative possa essere influenzata da altri soggetti, sono stati pienamente colti da alcuni approcci socio-relazionali che focalizzano l’importanza della Giustizia Organizzativa, dell’Equità e dell’Apprendimento Cooperativo , ciò che completa il sistema dei fattori interagenti nel modello del contratto psicologico. Già la teoria di Bandura , come si è discusso, ha contribuito in modo determinante a dare una visione sistemica dell’azienda, perché, oltre al ruolo del dipendente e del manager nel processo motivazionale, introduce il ruolo indiretto degli altri soggetti e dell’ambiente organizzativo in cui l’individuo è inserito. In altre parole il dipendente può correggere i propri comportamenti non solo in risposta a pressioni esterne esercitate sulla sua persona, ma anche in base a come percepisce i cambiamenti intervenuti in altri soggetti, conseguenti all’azione di fattori esterni su loro interagenti. Non è necessario cioè, sperimentare in prima persona le conseguenze.

È possibile invece tesorizzare l’esperienza di altri e sviluppare a propria volta uno schema di comportamento preventivo, sul modello del comportamento osservato in altre persone,  utilizzabile in situazioni analoghe. La teoria dell’apprendimento sociale coglie quindi un aspetto molto importante del comportamento organizzativo che si rileva frequentemente e che ha un forte impatto nel processo di formazione delle proprie aspettative. È innegabile infatti che i dipendenti modificano il proprio comportamento in funzione delle conseguenze in termini di premi, punizioni e altri accadimenti derivanti dai passati comportamenti dei colleghi, soprattutto quelli aventi una mansione analoga, poichè si sentono indirettamente interessati. Il soggetto potrebbe infatti non essere il destinatario di tali accadimenti solo temporaneamente, perché ad esempio l’organizzazione non ha ancora rilevato gli effetti del suo comportamento.

Se quindi percepisce che un comportamento simile di un collega ha destato riprovazione, o che un comportamento differente ha generato approvazione, modificherà di conseguenza il proprio comportamento e se non lo fa, inevitabilmente si modificheranno le aspettative correlate al proprio comportamento attuale. In base alla teoria di Bandura si può pertanto dividere il processo diapprendimento in due fasi.

    1. Una prima fase in cui il dipendente, attraverso un’osservazione del proprio ambiente organizzativo e dei soggetti di riferimento, confronta le conseguenze del proprio comportamento con quelle del comportamento di altri. Nel caso differiscano, valuta se le conseguenze del comportamento di altri sono in qualche modo associate alle possibili conseguenze future potenzialmente legate al suo comportamento attuale. Se si trova questo nesso ciò avrà intanto come effetto quello di modificare le aspettative del dipendente. Ossia il soggetto si convincerà che il suo comportamento attuale, prima o poi, porterà a conseguenze analoghe già sperimentate da un altro soggetto con la stessa struttura comportamentale, e non alle conseguenze che aveva ipotizzato fino ad ora.
    1. Una seconda fase, eventuale, perché dipende da quanto le conseguenze osservate influiscono nella propria sfera di interessi, nella quale il dipendente può modificare gli atteggiamenti verso l’organizzazione, o mettere in pratica comportamenti in ambito lavorativo finalizzati a ricercare le conseguenze desiderate o evitare quelle indesiderate, così da assecondare l’input fornitogli dalla modificazione delle aspettative.

Le ricerche estensive e gli approcci successivi alla teoria delle aspettative, invece, pur approvandone la fondatezza e la struttura del modello motivazionale, si distanziano fortemente in quanto trascurano in modo netto il problema dei fattori psicologici interni, concentrandosi invece sul ruolo dei fattori esterni come le ricompense, i compiti, le mete e soprattutto l’influenza di altre persone. E anche quando utilizzano come modello base di processo motivazionale quello delle aspettative, riconducono all’influenza dei fattori esterni suindicati la formazione delle aspettative stesse, non riconoscendo al soggetto un contributo attivo nel crearle.

Queste teorie ipotizzano che la motivazione è influenzata dalle percezioni su come si viene trattati al lavoro. Ciò che contribuisce in modo determinante a motivare una persona non risiede nell’ambito delle pulsioni interne, ma è da riferire al contesto delle relazioni interpersonali, a ciò che gli altri fanno e le permettono di fare. La diversità, come si è visto, è un valore, ma lo è anche l’uguaglianza. Per arrivare a trattare ogni persona secondo le sue necessità, bisogna prima rispondere al bisogno di equità che le persone manifestano. Si distingue inoltre fra giustizia distributiva e giustizia procedurale .

La prima si riferisce a quanto le persone ritengono di essere trattati in modo equo in relazione ai risultati del lavoro, al loro impegno e ai loro sforzi.

Si ipotizza quindi che i lavoratori sono motivati a mantenere rapporti equi e a modificarli, se percepiscono di essere trattati iniquamente, in modo da riequilibrare la situazione organizzativa. potrebbero ad esempio abbassare il livello di sforzo, o richiedere un aumento, o se si sente lui il privilegiato, impegnarsi in lavori meno appaganti. O ancora richiedere un maggiore impegno a chi si ritiene essere privilegiato. Infine potrebbe risolvere queste conflittualità, mediante distorsioni psicologiche, tese ad esempio a gonfiare il valore del suo lavoro, o sgonfiare quello del privilegiato.

Il problema della giustizia procedurale si riferisce invece al livello di equità percepito rispetto al management, relativamente alle decisioni che quotidianamente vengono prese, ma che inevitabilmente riguardano anche il lavoratore. In alcuni casi possono, tra l’altro essere ingiuste, non venendo applicate (o venendo disapplicate nei fatti), perché ad esempio porta a conseguenze ritenute sfavorevoli. Questo senso di ingiustizia, può essere fortemente limitato se si da la possibilità far presenti le proprie argomentazioni e giustificare il proprio dissenso, prima che la decisione venga presa. Ma dipende anche da quanto si sia trattati con rispetto, dignità o dal grado di influenza che si può avere nel processo decisionale. È evidente come le percezioni di giustizia organizzativa influenzino il processo motivazionale, e come le reazioni del lavoratore possano essere ben inquadrate all’interno dalla logica di prestazione-controprestazione del contratto psicologico.

Conclusa la trattazione delle varie teorie, si analizzeranno le più importanti pratiche manageriali per gestire la motivazione, fornendo “alcuni strumenti del mestiere”, derivanti dalla precedente riflessione teorica, di utile impiego per il controllo dei processi di motivazione trasversalmente nei vari aspetti della  gestione aziendale. Tali concetti saranno quindi il risultato di una elaborazione in cui si manterrà un costante collegamento con l’orientamento dottrinale che li ha generati, combinata con i metodi recentemente più utilizzati dalla prassi aziendale.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

L’auto-motivazione e l’auto-determinazione

L’auto-motivazione e l’auto-determinazione

Il paradigma comportamentista, anche a causa del suo riduzionismo, comincia a entrare in crisi già alla fine degli anni ’60, come si è già discusso ad opera del costruttivismo, cioè la riscoperta della mediazione cognitiva (e di tutte le sue implicazioni) tra lo stimolo e la risposta, a scapito di una analisi esclusivamente focalizzata sul comportamento osservabile. Più che analisi del comportamento, bisogna invece parlare di analisi della condotta lavorativa, ridando all’azione cosciente del soggetto un ruolo quantomeno paritario rispetto alle ricompense estrinseche, nel garantire il funzionamento del processo motivazionale.

Inoltre,  viene evidenziata in questa prospettiva l’importanza nel processo motivazionale delle ricompense intrinseche e della soddisfazione lavorativa.

L’organizzazione, infatti, può solo fornire al dipendente l’opportunità di incanalare verso gli obiettivi aziendali le proprie energie (motivazione a partecipare), ma ciò dipende esclusivamente dal suo impegno morale e dal livello di contributo che vuole fornire (motivazione a produrre).

Le prospettive più recenti, in definitiva, mettono fortemente in discussione l’idea che il rinforzo possa essere considerato una fonte motivazionale primaria: tuttavia, non si può disconoscere che la motivazione abbia anche una componente estrinseca, come il desiderio di essere approvati, o riconosciuti competenti. Per dare quindi una spiegazione più chiara del rapporto che sussiste fra comportamenti e incentivi nello schema del contratto psicologico, bisogna ipotizzare una distinzione fra motivazioni “estrinseche”ed “intrinseche”, se non addirittura una dicotomia.

Deci , con la sua teoria dell’Auto-Determinazione, dimostra in alcune ricerche che solo quando il lavoratore si impegna in un’attività che ritiene veramente interessante, riesce ad esprimere una motivazione autonoma e totalmente intenzionale, in quanto sperimenta la possibilità di una scelta. Viceversa, l’uso di rinforzi esterni, venendo vissuti come una sorta di pressione, innesca un meccanismo inconscio di regolazione che si risolve in una motivazione controllata. Secondo Harter, invece, il lavoratore, ottenendo rinforzi positivi, interiorizza un sistema di “autogratificazione” che gli consente di padroneggiare maggiormente le strategie finalizzate al raggiungimento di determinati obiettivi.

È come se si “autosomministra” delle ricompense le quali non sono altro che delle sensazioni positive per aver portato a termine il proprio compito, da cui scaturisce un senso di autonomia e di crescita interiore. Con l’incremento di questo processo diminuisce il bisogno di gratificazione esterna ed aumenta la motivazione grazie alla percezione della propria competenza e del proprio controllo sull’ambiente.

In altre parole le ricompense possono abbassare la qualità delle prestazioni, specie quando si tratta di lavori creativi, risultando inoltre inutili nel caso i comportamenti non siano facilmente osservabili.

Alcune ricerche condotte da Harter hanno rilevato che offrire premi o rinforzi estrinseci per l’impegno nelle attività può minare alla motivazione intrinseca, tranne nel caso in cui effettivamente è difficile trovarne (ad esempio in una catena di montaggio). I teorici della motivazione intrinseca  danno ragione di tale effetto spiegandolo con il  cosiddetto “principio di svalutazione”, in base al quale una legittimazione particolarmente rilevante per il comportamento di un individuo finisce per svalutare tutte le altre: così, un soggetto può in origine percepire un interesse intrinseco derivante dall’eseguire un compito, ma, se per il comportamento è offerto un premio estrinseco desiderato, l’interesse intrinseco è svalutato.

Tali scoperte, chiamando in causa la diffusa convinzione che il denaro sia un modo efficace ed anche necessario per motivare le persone, confermano le tesi di un filone di studi centrato sul concetto di Human Agency (o agentività). Con questo termine ci si riferisce alla facoltà dell’uomo di agire attivamente sull’ambiente lavorativo, di generare azioni mirate al conseguimento di scopi desiderati e di monitorare (mediante autoregolazione) la propria condotta, utilizzando le guide cognitive e gli auto-incentivi che gli sono propri, per modificarla.

Lo stesso Bandura dimostra nelle sue più recenti ricerche che la motivazione è direttamente influenzata dalle convinzioni dell’individuo circa il suo valore, le sue abilità o competenze, gli obiettivi e le aspettative di successo o insuccesso e i sentimenti positivi o negativi che derivano dal processo di autovalutazione. Secondo Bandura la percezione che una persona ha di sé deriva da quattro fonti: le performances precedenti, l’osservazione dell’esecuzione da parte di un altro, la persuasione e le proprie reazioni psicofisiologiche ed emotive. Più che da schemi di rinforzo, la motivazione viene in primo luogo influenzata da fattori di auto-efficacia, auto-stima e self-confidence (crederci).

Tra l’altro gli individui possono non soffrire perdite nella percezione del proprio valore se già si giudicano inefficaci in talune attività, che comunque non reputano essenziali (ad esempio spegnere un macchinario a fine turno). Le prestazioni inoltre sono socialmente definite in termini di “comportamento richiesto” o in termini di “risultato”. Il dipendente, secondo Bandurra, utilizza tutta una serie di tecniche per incanalare la propria automotivazione all’interno di queste due dimensioni. Regola il proprio senso di auto-efficacia sperimentando direttamente il ruolo e creando dei modelli di successo per ottenere i risultati attesi (modelling). Solo nei casi di grande stabilità del contesto lavorativo, inoltre, il lavoratore ricava queste informazioni osservando i colleghi performanti (sperimentazione vicaria). L’automotivazione, quindi, deriva da una percezione di auto-efficacia, cioè dalla tendenza a percepire sé come persona capace di scegliere e mettere in atto, di fronte a certe situazioni, i comportamenti più adeguati tra quelli disponibili. Il positive thinking nel lavoro (pensare positivo) è infatti una componente fondamentale dell’automotivazione. Esso si può intendere come la percezione di competenza, ovvero come tendenza a valutare positivamente le proprie capacità e skills rilevanti rispetto ad un’area specifica di attività.

In sintesi la teoria dell’apprendimento sociale pone l’accento sul concetto di “determinismo reciproco”, intendendo con questo termine la circostanza in base alla quale i fattori personali (come le aspettative, le intenzioni, le percezioni e le rappresentazioni mentali) e i fattori situazionali interagiscono tra di loro e risultano codeterminanti. Si è visto poi che l’automotivazione non viene intaccata quando a un insuccesso non si da valore.

La considerazione simultanea del valore di una conseguenza e del modo di formarsi le aspettative, è alla base di una teoria che da un grande contributo nel chiarire le modalità con cui il comportamento del lavoratore attiva il processo decisionale. Si tratta della Teoria dell’Aspettativa-Valenza a d opera di Vroom . In base a questa teoria, come nel caso dell’automotivazione, gli individui orientano i propri sforzi verso quelle attività che ritengono portino a risultati desiderabili. Il concetto principale è quindi quello di aspettativa, cioè la stima sulla probabilità che un determinato evento si realizzi. L’aspettativa dipende però sia dalla stima dello sforzo che il lavoratore ritiene necessario per ottenere una certa performance, sia il giudizio sull’efficacia di tali performance, ossia su quanto queste materialmente portino a delle conseguenze sperate . Il fatto di considerare variabili come le aspettative ed i valori consente a questa teoria di cogliere le differenze, in termini di attrattività dei risultati, insite nella struttura mentale di ogni soggetto e che condizioneranno di conseguenza i loro comportamenti. Ai fini dell’analisi della motivazione, quindi, ciò che è importante non è l’effettiva correlazione tra impegno e prestazione, ma la correlazione che la persona coinvolta pensa che esista. Questo fatto dipende dalla convinzione che l’impegno e la prestazione non sempre sono direttamente collegati o almeno non lo sono oggettivamente. Si è visto come la fiducia in se stessi può essere un elemento determinante.

La teoria dell’aspettativa-valenza è quindi una teoria focalizzata sul processo, ma, facendo riferimento al concetto di aspettative, rimanda ad un parallelo approfondimento degli aspetti personali e psicologici che modellano il formarsi delle aspettative stesse dell’individuo. In questo senso è una teoria che fa in qualche modo da collante fra l’approccio del contenuto e quello del processo, condividendone però entrambi i limiti interpretativi. Pertanto se si vogliono utilizzare le ipotesi del modello di Vroom, accettando tutte le conseguenze che la sua validazione inevitabilmente comporta, ci si addentrerebbe più che altro in un’analisi introspettiva e non del processo di motivazione. Il risultato è lo sforamento del campo di indagine iniziale della teoria, disattendendo le relative finalità di ricerca.

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

La motivazione rivelata attraverso l’osservazione comportamentale

La motivazione rivelata attraverso l’osservazione comportamentale

 

Nel paragrafo precedente si è visto come il sistema di definizione degli obiettivi sia un momento fondamentale del processo motivazionale, in accordo al modello di base del contratto psicologico. Si è visto inoltre come sia importante che quest’attività sia il risultato di una mediazione degli obiettivi aziendali con quelli dei lavoratori. Questi ultimi, tuttavia, non possono essere pienamente conosciuti dal management, ne sono frequenti in azienda dei momenti dedicati alla loro esplicitazione, fatti salvi alcuni contesti aziendali in cui viene praticata una politica attiva dell’ascolto. Un modo che spesso si ritiene invece utile, per comprendere verso quali valori è orientato il lavoratore, consiste nel monitorare il suo comportamento sul lavoro e gli eventuali scostamenti derivanti dal cambiamento di alcune variabili organizzative.

Un approccio che su questa linea ha fornito molti spunti è stato quello comportamentale. Come lo stesso termine suggerisce il focus, in questo caso, è sui fattori che influenzano il comportamento, e quindi anche il comportamento performante (prestazione), bypassando l’analisi della motivazione in se stessa, ritenuta semplicemente uno degli strumenti di cui si serve il comportamento per raggiungere un determinato scopo. Risulta chiaro come secondo questa visione il concetto di motivazione si allontana ancora di più da quello di auto-motivazione, non essendo più uno strumento di cui dispone e di cui ne determina l’insorgere o ne controlla l’influenza sul comportamento (questo sicuramente è uno dei maggiori limiti di questo approccio, come si vedrà nel prossimo paragrafo). Riconduce invece la motivazione di ogni comportamento ad una forza attivabile dall’apprendimento secondo un modello “stimolo-risposta”. Si pone dunque il problema della motivazione estrinseca e dell’influenza delle gratificazioni esterne da parte del manager. Con il comportamentismo, come si è detto, diventano oggetto d’indagine scientifica i comportamenti organizzativi, ma a condizione che sia possibile tradurre le loro dinamiche in “comportamenti osservabili”, ossia valutarle come risposte a condizioni di stimolo chiaramente ed inequivocabilmente individuabili da un osservatore esterno.

Il primo comportamentismo, che può farsi risalire ad autori come Watson, McDouglas e Skinner , si fondava addirittura sul concetto di “riflesso condizionato” e di istinto, come una disposizione innata ad agire e a prestare attenzione a specifici comportamenti utili alla sopravvivenza e al benessere. Una sorta di “imprinting” o di tendenza istintiva che si manifesta in una sequenza comportamentale e adattiva di fronte a specifici stimoli. La motivazione, dunque, è un comportamento finalizzato, ma istintuale, perché caratterizzato da aspettative e capacità di previsione innate. I comportamenti e le competenze innate possono emergere grazie all’interazione con specifici stimoli attivatori o con circostanze ambientali adeguate , che, mettendo in azione la motivazione attraverso un segnale emozionale, rompono uno stato di equilibrio interno.

Questo approccio in definitiva nega la motivazione come forza autonoma, dal momento che lo stato naturale dell’individuo sarebbe l’equilibrio o l’inattività.

Alcuni approcci, anzi, volendo tradurre le concezioni originali in strumenti applicativo-gestionali, forniscono addirittura una serie di procedure per influenzare in modo diretto il comportamento sul lavoro. Si fa riferimento agli studi sulla modifica del comportamento organizzativo di Luthans e Kreitner, o alla Teoria sociale dell’apprendimento di Bandura . Insito nel concetto di apprendimento è il processo mediante il quale i comportamenti si ripetono o meno a seconda delle conseguenze del comportamento precedente, che va sotto il nome di “condizionamento attivo” o “condizionamento operante”. Tornando all’approccio originale di Luthans, si menzionano gli step necessari per modificare il comportamento, da lui ipotizzati nello studio sopra citato assieme a Kreitner :

    1.  Identificare i comportamenti critici. Si tratta di capire quali comportamenti non sono adeguati e andrebbero cambiati e quali comportamenti utili invece non sono stati messi in atto. Si devono identificare comportamenti osservabili, quindi, il presentimento di una motivazione non sufficiente, non costituisce di per se un comportamento da evitare, se non è accompagnato da segnali evidenti. Di contro, atteggiamenti quali il venire sistematicamente in ritardo, o il commettere un numero eccessivo di errori, potrebbero costituire modi di fare evidenzianti una mancanza di motivazione. La loro rilevanza, inoltre, deriva dal fatto che influiscono tangibilmente sia sulla prestazione individuale che su quella dell’intera organizzazione.
    1. Misurare la frequenza. È necessario avere un’idea della ripetitività dell’atteggiamento per due motivi. In primo luogo si ha una conferma dell’esistenza effettiva di uno stato di insoddisfazione o de-motivazione; inoltre si può capire quale è lo stato attuale delle cose, prima di qualsiasi intervento, in modo da valutare a posteriori, con maggiore precisione, gli eventuali effetti generati dal cambiamento.
    1. Effettuare un’analisi funzionale. Quest’analisi è finalizzata a tentare di comprendere il comportamento in esame, in tutte le sue sfaccettature, in modo da facilitare le azioni correttive. Un aspetto da comprendere è se l’atteggiamento critico è correlato ad un altro in maniera costante. Se ad esempio il soggetto arriva in ritardo solo quando si sa che il dirigente responsabile arriva in ritardo, si evidenzia una correlazione in quanto il ritardo del dirigente precede sistematicamente quello del dipendente.
    1. Sviluppare ed attuare una strategia di intervento. La fase successiva riguarda la predisposizione di una strategia da utilizzare per influenzare la prestazione sul lavoro. Il manager di solito usa azioni di rafforzamento di un comportamento sperato o che esaltino l’inopportunità di un comportamento indesiderato.
    1. Valutare gli effetti dell’intervento. Ci sono diversi modi più o meno scientifici utilizzati per valutare le conseguenze in termini di modificazione del comportamento organizzativo. L’analisi della prestazione, di cui si parlerà nel prossimo capitolo, e la già menzionata direzione per obiettivi ne sono un esempio.

Altrettanto importante, se si vuole che gli effetti permangano, è quello di fornire in modo adeguato l’informazione di ritorno (feedback) relativa al miglioramento della performance. Ciò può avvenire o rendendola pubblica, attraverso elogi, encomi e premi, o individualmente, con un colloquio privato.

Le strategie che si prefiggono di modellare il comportamento del soggetto sul lavoro sono alla base delle idee scaturite da vari autori, le cui tesi confluiscono in un più generale schema di pensiero che va sotto il nome di Teoria dei rinforzi. I principi fondamentali della teoria del rinforzo si basano sul neo-comportamentismo skinneriano  e sulla ideologia del condizionamento operante, ma accoglie anche influssi di orientamenti anglosassoni come il “New Behaviour Generator” e il “Future Pacing”, che hanno individuato l’importanza della ripetizione mentale, ovvero del processo di preparazione mentale, attraverso l’immaginazione, per rispondere o agire nel modo in cui si dovrebbe agire in una determinata situazione futura . Il suo assunto di base, infatti, è che un soggetto è portato ad impegnarsi in un compito o in un’attività se tale comportamento in passato è stato premiato (con lodi, complimenti, un buon voto, un regalo, l’approvazione sociale) o se un comportamento alternativo è stato punito (con un rimprovero, un segno palese di disapprovazione, un voto insufficiente). In altre parole, gratifiche e ricompense sono rinforzi che aumentano la probabilità dei comportamenti perchè stabilizzano le motivazioni; esistono però anche rinforzi negativi, che mirano a demotivare il comportamento oggetto di punizione e quindi ne riducono la probabilità, lo indeboliscono, ne diminuiscono l’intensità o la frequenza . Se invece un comportamento non viene più rinforzato, lo si demotiva fino a farlo estinguere. Inoltre, il comportamento desiderato tende a mantenersi stabile se il rinforzo è dato in maniera continuativa. Ciò non significa che un comportamento debba essere rinforzato ogni volta che si manifesta; anzi, per i teorici di questa prospettiva la modalità più efficace è quella del “rinforzo intermittente”, ciò dato alcune volte, a caso, senza regola fissa (ad esempio lodare alcune ma non tutte le azioni corrette di un lavoratore. Ma per essere motivante, il rinforzo deve essere contingente alla prestazione, cioè temporalmente vicino al comportamento, e specifico, cioè relativo ad un preciso e determinato aspetto della prestazione. I rinforzi, poi, possono avere effetti paradossali, come diminuire la volontà dei lavoratori di impegnarsi in compiti difficili o in attività sfidanti, abbassare l’autostima, o spingere i soggetti a non svolgere attività quando queste non sono oggetto di una valutazione corretta. La lode e la critica, infatti, possono avere effetti inaspettati a causa del loro legame con le attribuzioni di sforzo, dal momento che di solito si tende a percepire lo sforzo e l’abilità come inversamente collegati . Rinforzi generici, come le lodi “bravo”, “bene”, disorientano il lavoratore, il quale non comprende quale aspetto del suo comportamento ha effettivamente soddisfatto il suo responsabile. Il rinforzo deve infine essere credibile, cioè non contraddetto da atteggiamenti  paraverbali o non verbali .

 

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo

Il ruolo del manager

Il ruolo del manager

Oltre alla struttura del processo motivazionale, descrivibile attraverso il contratto psicologico fra lavoratore e azienda, uno degli elementi fondamentali del processo di motivazione è l’insieme degli obiettivi e degli incentivi che permettono di far scattare, o meno, l’azione orientata del lavoratore, ciò che introduce il ruolo attivo del manager. La focalizzazione verso questa dimensione del processo di motivazione trova un fondamento teorico in Likert, il quale, in varie ricerche empiriche, confuta la tesi secondo cui il maggior rendimento dipenda unicamente dal grado di soddisfazione soggettiva dei dipendenti e dal loro atteggiamento più o meno favorevole nei confronti dell’azienda . In questi contesti lavorativi, sono pertanto i principi gestionali a fare la differenza, nel momento in cui si basano su una leadership “amichevole”, una rete di comunicazione efficace e l’utilizzo dei gruppi di lavoro. Così, il rendimento è tanto maggiore quanto minore è la pressione esercitata dall’alto per ottenerlo, se il controllo gerarchico è più distaccato e se le reazioni in caso di errori non sono punitive ma orientate ad una comprensione amichevole dei motivi. Il capo ideale per Likert è quindi quello che riesce a conciliare il rispetto dell’autonomia dei propri dipendenti con continui e collaborativi scambi di idee. Likert, in base all’osservazione empirica dei diversi stili direttivi adottati in numerose aziende, presenta quattro modelli generali di management che definisce: autoritario-sfruttatorio, autoritario-benevolo (o paternalistico), consultivo e partecipativo di gruppo. Passando progressivamente dal modello autoritario-sfruttatorio a quello partecipativo si ha secondo Likert una progressiva democratizzazione, un più vasto coinvolgimento dei dipendenti, una maggiore responsabilizzazione e pertanto anche risultati qualitativamente superiori.

L’auspicio di un management partecipativo come quello ipotizzato da Likert, non è l’unico approccio che considera la centralità del manager per il corretto funzionamento del processo motivazionale. McGregor, ad esempio, rielaborò la teoria di Maslow applicandola al management. Egli rilevò che il comportamento del dirigente si modifica in relazione alla concezione che egli ha dell’uomo, distinguendolo in due modalità alle quali diede il nome di Teoria X e di Teoria Y . Nel primo caso il dirigente ritenendo che l’uomo non ama lavorare ed è di natura indolente, pigro, portato a fare il meno possibile, esercita una leadership caratterizzata dall’autorità, dalla supervisione diretta, dal ricorso a punizioni, perché solo in questo modo possono essere raggiunti gli obiettivi organizzativi. Questa situazione è tipica dell’organizzazione tradizionale, di stampo tayloristico, con il suo processo decisionale centralizzato, il rapporto piramidale superiore-subalterno e il controllo esterno del lavoro, ma si è sviluppata in base a determinate ipotesi sulla natura e sulla motivazione umana. La Teoria X parte cioè dall’idea che la maggior parte delle persone ritengano il lavoro in se per se implicitamente sgradevole, preferiscano essere guidate, non siano interessate ad assumersi responsabilità e la motivazione si verifica solo ai livelli fisiologici e di sicurezza. A tale filosofia si accompagna la convinzione che la gente sia motivata dal denaro e dalla minaccia di punizioni. Dopo aver descritto la Teoria X, McGregor mise in discussione la correttezza di questa concezione della natura umana e, quindi, l’adeguatezza e l’efficacia delle teorie di management basate su di essa, in molte situazioni odierne. Attingendo ampiamente dalla gerarchia dei bisogni di Maslow, McGregor giunse alla conclusione che le ipotesi della Teoria X sulla natura umana se applicate universalmente, appaiono di frequente infondate, e che le impostazioni di management che si sviluppano sulla base di tali ipotesi non riescono a motivare adeguatamente le persone. Il management fondato sull’imposizione e il controllo può fallire, secondo McGregor, perché si tratta di un metodo discutibile per motivare le persone, i cui bisogni fisiologici e di sicurezza sono ragionevolmente soddisfatti e i cui bisogni sociali, di stima e autorealizzazione stanno assumendo un ruolo determinante. I programmi di incentivazione individuale forniscono ad esempio un tentativo di controllare il comportamento . McGregor riteneva quindi che il management avesse bisogno di prassi basate su una comprensione più precisa della natura e della motivazione umane. Questa convinzione lo portò a sviluppare una teoria alternativa sul comportamento umano, detta appunto Teoria Y. La teoria ipotizza che la gente non sia, di natura, pigra e infida, e postula al contrario che le persone possano essere sostanzialmente autodisciplinate e creative nel lavoro se opportunamente motivate. Secondo la teoria Y, infatti, le persone amano lavorare, in quanto la soddisfazione sul lavoro è un valore importante, sono in grado di autogestirsi ed autodirigersi, sono responsabili ed attivi ed amano esprimere la loro capacità creativa nella risoluzione dei problemi. Anzi, secondo questo approccio, il lavoro è ritenuto naturale come il gioco, se le condizioni lo permettono. Un compito fondamentale del management dovrebbe quindi essere quello di liberare questo potenziale negli individui. In questo caso il dirigente ricorre alla delega, esercita una supervisione generale e ricorre ad incentivi positivi, elogi e riconoscimenti per orientare gli obiettivi dei lavoratori .

Nella teoria appena esposta si è potuto notare come la definizione degli obiettivi sia una delle componenti più strategiche e allo stesso tempo più delicate dell’attività manageriale. La focalizzazione sugli obiettivi e sulle modalità con cui il manager deve strutturarli per far funzionare lo schema del contratto psicologico, era tuttavia già stata presa in considerazione dall’attività speculativa di Locke nella sua Teoria del Goal-setting . Tale teoria fornisce un valido sistema di norme a supporto di un orientamento gestionale molto in voga negli ultimi decenni, la “Direzione per Obiettivi”. Con questa accezione si intende la modalità di esercizio dell’autorità manageriale basata sulla delega e su un sistema ordinato di parametri-obiettivo che orientano il comportamento e le decisioni dei componenti di un’organizzazione, al fine di responsabilizzarli e coinvolgerli in un personale progetto lavorativo. L’attività con cui il manager fissa gli obiettivi, infatti, ha una doppia valenza, strategica e operativa. Da un punto di vista strategico essa si inserisce in quelle politiche di “goal commitment”  (coinvolgimento verso la finalizzazione) protese all’incontro delle aspirazioni del lavoratore e al raggiungimento della “soddisfazione lavorativa”. Da un punto di vista operativo, invece, gli obiettivi possono essere concepiti come livelli di performance specificati a priori (e quindi una scala di misurazione del grado di raggiungimento della soddisfazione lavorativa stessa). Conseguentemente è necessaria una mole minore di informazioni. Uno svantaggio di questo processo è la regolazione della cosiddetta “tensione ottimale” nel raggiungerli, che Locke cerca di superare fornendo tutta una serie di suggerimenti. Innanzitutto gli obiettivi vanno distinti in obiettivi a lungo termine (garantire una redditività mensile del 12%) e obiettivi prossimali (rapportare settimanalmente alla Direzione Commerciale, modificare il portafoglio prodotti). Questi ultimi non sono altro che dei sub-obiettivi strumentali agli obiettivi di lungo raggio, e sono importantissimi perché svolgono una funzione di feed-back che consente di passare ad una fase successiva. La mancanza di un feed-back, può infatti annullare gli effetti positivi derivanti dall’assegnazione di obiettivi impegnativi e stimolanti. Gli obiettivi difficili, invece sono di per se più ambiziosi e motivanti, ma, come si è visto con Atkinson, se non sono proporzionati alle reali capacità o risorse dell’individuo, vengono abbandonati. Inoltre la performance dipende anche dal grado di precisione di un obiettivo (scala di misurazione e specificazione del livello da raggiungere su tale scala). Ad esempio, un obiettivo del tipo “fai del tuo meglio” non è assolutamente motivante perché in pratica non si riferisce ad alcun comportamento specifico, ed in ogni caso è un obiettivo implicito, scontato, normalmente accettato in ambito lavorativo come valore positivo. Gli obiettivi specifici, poi, consentono un feed-back e garantiscono performance più elevate perché in essi può essere convogliata la totalità delle risorse, mentre un obiettivo generico (che poi non è altro che la somma di una serie di obiettivi intermedi non ben specificati) assorbe tutte le risorse in maniera indistinta, che vengono impiegate per realizzare i vari sub-obiettivi, ma senza una chiara relazione di causa-effetto di essi con l’obiettivo finale. Ciò genera inevitabilmente inefficienze come duplicazioni, distrazioni, accavallamenti, conflittualità, effetti contrapposti e alla lunga l’abbandono dell’obiettivo. Il lavoratore deve quindi poter disporre delle informazioni necessarie a raggiungere gli obiettivi, cosa che si può ottenere solo con un’effettiva possibilità di scelta sul modo di raggiungerli e di strutturare i propri compiti. Il manager deve pertanto garantire la partecipazione e la condivisione sugli obiettivi. Gli obiettivi “autodeterminati” possono essere più bassi di quelli che fisserebbero gli altri, ma quantomeno è prevedibile che vengano accettati con maggior convinzione ed impegno. Locke infine, in uno studio condotto con altri ricercatori , dimostra che l’inclusione dei dipendenti nella definizione degli obiettivi ha un valore fortemente strategico perché può consentire di raggiungere obiettivi difficili ma non impossibili, essendo stati già vagliati da chi materialmente dovrà perseguirli ed esaminati nei loro aspetti specifici, così da renderli facilmente comprensibili.

Al di la delle varie teorie, occorre in questa sede sottolineare come il ruolo del manager, di per sè molto difficile, deve essere riconsiderato alla luce della funzione strategica che, come si è visto, le politiche di incentivazione assumono nel processo motivazionale. Il manager, infatti, è la persona responsabile di un risultato rispetto al quale non ha un rapporto diretto, ma mediato attraverso altre risorse (persone e/o strumenti). Gli si richiede quindi un’alta attitudine leaderistica e motivante, indispensabile per infondere forza al mandato organizzativo ed ai collaboratori che lo devono condividere

© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo