Leadership, Creativity & Innovation:Theoretical Background
Leadership, Creativity & Innovation: THEORETICAL BACKGROUND
Leadership, Creativity & Innovation: THEORETICAL BACKGROUND
Leadership, Creativity & Innovation in small and medium Enterprises
In questa sezione si ritiene utile approfondire la dimensione organizzativa in cui è inserita l’attività del lavoratore, e più in generale il suo rapportarsi con entità come il gruppo e il team, alle quali l’individuo non solo reagisce, ma vi prende parte mediante le quotidiane interazioni contenute nei processi lavorativi coordinati.
In una società fatta di continue relazioni con organizzazioni di tipo diverso, oltre a quella lavorativa, non si può infatti prescindere dal comprendere le modalità soggettive di percepire il gruppo e la pluralità di rapporti all’interno di esso.
L’organizzazione, quindi, non è qualcosa di separato e di contrapposto agli uomini, bensì è il prodotto di modelli ricorrenti di interazioni che si ricostituiscono proprio attraverso le interazioni quotidiane.
L’importanza di tali rapporti e delle loro conseguenze in termini di motivazione, è stata evidenziata dalla Zucchermaglio, la quale definisce le organizzazioni come insieme di “comunità di pratiche” e non semplicemente come insieme di individui .
Tali comunità sono caratterizzate da tre dimensioni.
Per molte persone, inoltre, le organizzazioni sono fonte di self-identity (identificazione di se stessi) e di supporto emozionale, ma anche delle mini-società che hanno loro propri e distintivi modelli culturali.
All’interno delle organizzazioni, infatti, un individuo “entra in contatto con le storie che le persone raccontano su quello che fanno, con le regole e le procedure formali, con i codici informali di comportamento, le norme di abbigliamento, i rituali, i compiti, i sistemi salariali, il gergo e gli scherzi che sono compresi solo da chi vi è all’interno” .
Tutti questi elementi contribuiscono a configurare un senso di appartenenza che ha dei fortissimi influssi sulle dinamiche motivazionali, noto nella prassi manageriale con il termine di cittadinanza organizzativa o di personalità organizzativa. Con questi termini si intende l’effetto positivo dell’influenza sociale sul comportamento lavorativo, influenza che, come si è visto parlando di groupthink, può anche essere negativa, portando a fenomeni come il conformismo e l’inerzia sociale. In particolare ci si riferisce a quelle forme di altruismo, di coscienziosità , di cortesia, di supporto e di aiuto reciproco, che spesso si formano fra i componenti del gruppo a titolo puramente gratuito e senza secondi fini.
Comportamenti organizzativi questi, non espressamente richiesti dal ruolo formale ma che, se presenti, risultano funzionali alla positiva realizzazione dei compiti, costituendo inoltre un forte indicatore del grado di soddisfazione del lavoro, di motivazione dell’individuo al lavoro e all’organizzazione. Tali comportamenti possono essere rilevati direttamente attraverso delle “analisi di clima”, di cui si parlerà nel prosieguo, o indirettamente valutando, per esempio, il turnover, l’assenteismo o la produttività. Una persona motivata al lavoro e all’organizzazione avrà un basso tasso di assenteismo sul posto di lavoro e, verosimilmente, avrà una produttività medio-alta.
Volendo approfondire le dinamiche motivazionali all’interno dei gruppi, bisogna poi indagare la percezione di ciò che accomuna i membri di un gruppo. Potrebbero condividere un’attività, o una condizione, o uno scopo, o una qualità, con diversi livelli di consapevolezza. Conseguentemente varia la delimitazione di ciò che costituisce oggetto di interesse per il lavoratore.
Per esempio, l’influenza che viene esercitata su un individuo per il fatto di appartenere a un certo gruppo può essere molto forte in alcuni casi, come per la nazionalità o l’etnia. Molti comportamenti della persona possono essere spiegati dal fatto di avere una determinata nazionalità, quindi abitudini, linguaggi, gusti, valori, in breve una certa cultura. In altri casi l’essere membro del gruppo influenza il comportamento solo in certi momenti e superficialmente: chi partecipa a un progetto lavorativo ne rispetta i termini e le scadenze, ma una volta giunto al termine le sue motivazioni cambiano. Infine ci sono situazioni in cui può essere considerata quasi nulla l’influenza esercitata sull’individuo dal fatto di essere membro di un gruppo, in special modo se quest’appartenenza non è soggettivamente percepita: chi sta aspettando l’autobus può non sentirsi affatto accomunato agli altri, insieme ai quali eventualmente si trovi. In tale situazione, potrebbe diventare di preminente interesse osservare l’influenza che deriva non già dall’appartenenza al gruppo ma dal comportamento di ognuno degli altri individui (si ricordi l’apprendimento sociale di Bandura). Posto quindi che, come si è detto, esistono diversi criteri di concettualizzazione del gruppo, e sempre rimanendo nella prospettiva del soggetto che ne è membro, può essere adottata in sintesi la seguente definizione di Lewin: “un gruppo è un insieme dinamico, costituito da individui che si percepiscono vicendevolmente come più o meno interdipendenti per qualche aspetto” .
Il gruppo esiste, pertanto, quando gli individui divengono consapevoli che, in qualche modo, il loro destino è collegato a quello del gruppo; è proprio il concetto di “interdipendenza del destino” che Lewin vuole far emergere nel frammento sopra menzionato. Nel gruppo di lavoro, oltre alla interdipendenza del destino emerge un altro aspetto caratterizzante, che si può definire “interdipendenza del compito” , quando cioè esiste un obiettivo da raggiungere, un compito da assolvere, tale che irisultati di ciascun membro hanno implicazioni per i risultati degli altri.
Questa interdipendenza può essere definita “positiva”, quando dà luogo all’instaurarsi di sentimenti di cooperazione e coesione tra i membri, favorendo una migliore prestazione del gruppo; oppure “negativa”, quando prevale la competizione che conduce a insicurezza, riduzione della coesione e peggioramento della prestazione complessiva.
In definitiva, va distinta la “motivazione al lavoro” dalla “motivazione al lavoro di gruppo” che non sempre coesistono e che invece sono estremamente necessarie ambedue nel caso del team working. La seconda caratteristica implica che il lavoratore abbia ben sviluppate competenze soprattutto di tipo relazionale e attitudine alla socializzazione delle informazioni, dei programmi e degli obiettivi condivisi.
Nel prossimo pargrafo si analizzerà la forza con cui alcuni concetti come la vision, la mission e l’organigramma, laddove efficacemente esplicitati, riescono a creare una coesione, fornendo delle spinte motivazionali di fondo. Nell’approfondimento di queste tematiche, muovendosi da un approccio contingente, si ritiene di fare ricorso al concetto di adattamento organizzativo attraverso la nozione di equifinalità, all’interno della teoria sistematica dell’organizzazione. Nel secondo paragrafo si ritiene importante esaminare la natura delle organizzazioni e le correlazioni esistenti tra le caratteristiche di un’organizzazione ed il comportamento sul lavoro, approfondendo le relazioni tra struttura e motivazione.
In questa sezione si vuole quindi evidenziare come le azioni manageriali tese all’accrescimento della motivazione devono essere orientate coerentemente con la forma organizzativa che gli fa da scenario, dal momento che, più aumenta la dimensione aziendale, più aumenta il numero di soggetti con funzioni analoghe e pertanto diventa misurabile su più vasta scala l’effetto dei fattori incentivanti. Aumenta anche la possibilità di confrontare le prestazioni di mansioni omogenee.
Difatti, considerando una specifica funzione e rilevando quello che si può definire il livello di prestazione standard associato alla data mansione, si possono individuare due prospettive di osservazione: una relativa al rendimento medio sotto il quale la prestazione sarà valutata non il linea con quella di gruppo e per questo considerata dall’individuo come il livello minimo di sopravvivenza all’interno dell’organizzazione. L’altra che evidenzia come il superamento dello standard, generando di per sé un riconoscimento interiore, conduca a quelle dinamiche motivazionali finalizzate all’uniformarsi ad un livello di prestazione superiore.
Si evidenzia così come il sentiero di sviluppo aziendale si deve muovere attraverso l’emulazione delle migliori prestazioni e azioni di benchmarking interno, senza tuttavia nascondere l’eventualità che questo orientamento possa portare a conflitti organizzativi. Infine, nel terzo paragrafo, si accennerà alla eventualità di fenomeni quali i rapporti di clan che possono alterare l’organicità e l’effetto unificante delle politiche di incentivazione finalizzate alla coesione del gruppo, rendendo così necessarie azioni di team linkage.
© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo
Nel valutare la probabilità che un soggetto sia predisposto a una determinata mansione, accanto alla motivazione, si deve anche considerare un qualcosa che va oltre: l’intenzione volitiva.
La motivazione è il processo attraverso il quale si arriva a decidere di agire in un certo modo, la volizione è il processo in base al quale le intenzioni si attuano. Se l’analisi a priori può in qualche modo risalire alla motivazione che un soggetto ha nello svolgere un determinato lavoro, non può tuttavia spingersi fino ad indagare la dimensione volitiva, ossia se effettivamente verrà messo in atto il comportamento organizzativo richiesto dalla mansione.
Le unità di analisi diventano quindi il comportamento e il raggiungimento degli obiettivi, quali azioni coerenti all’atteggiamento intenzionale, che tramuta la volontà in azione conseguente.
In questo caso, per ogni posizione/ruolo vengono indicati quali siano i comportamenti organizzativi attesi ed i fattori a cui questi comportamenti rimandano; per ogni fattore il valutatore deve precisare in che misura esso è presente nel soggetto esaminato, tenendo conto solamente di ciò che la persona ha effettivamente fatto nel periodo considerato e non delle sue capacità potenziali.
In definitiva, l’analisi a posteriori, intende ricavare “indirettamente” la presenza o meno della motivazione nello svolgere un lavoro da variabili come lo sforzo, cioè la capacità di guidare e canalizzare l’attenzione in direzione di uno scopo, la perseveranza, cioè la conservazione della motivazione finché non è stato raggiunto l’obiettivo e la resistenza, che si manifesta di fronte agli ostacoli, agli imprevisti, agli insuccessi .
Con questo tipo di analisi, come si è visto, viene indagata quell’area della motivazione che rende attuali e presenti i valori o i motivi che il soggetto stesso ha interiorizzato, portandoli verso la definizione di un’intenzione, e la decisione di impegnarsi in maniera adeguata per raggiungerla.
Secondo una visione più restrittiva , invece, un obiettivo di prestazione è un risultato aziendalmente rilevante e atteso nei confronti del titolare di una posizione, che deve essere riferito ad un arco temporale predeterminato, deve essere derivato dalle aree di risultato di cui la posizione è responsabile e deve essere misurabile in termini di livello di conseguimento, grazie a specifici criteri di misurazione. In una accezione più moderna, riferibile alle pratiche manageriali definite di performance management , la valutazione delle prestazioni è una tecnica di analisi a posteriori, finalizzata a individuare tutte le competenze che il soggetto è riuscito a mettere in campo.
Per questo motivo, l’analisi deve riferirsi all’individuazione delle competenze tecniche necessarie allo svolgimento dell’attività, ma anche di altre competenze (come quelle trasversali), che sono parimenti strategiche per raggiungere l’obiettivo.
In questa prospettiva, le unità di analisi da indagare si possono infatti scindere in task performance, ossia le attività professionali e tecniche richieste proprio per lo svolgimento della mansione; contextual performance, individuabile nei comportamenti che vanno al di là dello svolgimento dei propri compiti, riferibili a tutte quelle azioni pro-attive che aumentano l’efficacia organizzativa o migliorano il clima lavorativo; ethical performance, che riguarda il fare le cose “eticamente corrette”, ossia perseguire realmente gli obiettivi dell’azienda .
Sintetizzando, per essere corretta, la valutazione della prestazione deve concentrarsi esclusivamente sui comportamenti e sui risultati, ossia su criteri legati alla mansione, all’efficacia della prestazione lavorativa, non sul carattere o aspetti strettamente personali, dovendo essere svolta almeno ogni sei o dodici mesi.
La valutazione dell’attività lavorativa o job evaluation, è inoltre un procedimento con cui ciascuna posizione o ruolo precedentemente descritto, viene confrontato con altri allo scopo di stabilirne il valore relativo, con l’obiettivo di permettere la formazione di un equo piano retributivo, nel quale posizioni/ruoli aventi pari valutazione debbono avere anche pari retribuzione, indipendentemente dall’area o settore aziendale presso cui sono svolte.
L’implementazione di un valido ed efficace programma di valutazione della prestazione lavorativa, poi, deve consentire che ognuno in azienda sia in grado di valutare correttamente la qualità del proprio lavoro, in modo da restare in linea con gli obiettivi programmati.
Per questo motivo è necessario che vengano sviluppati, come routine di ogni mansione, tre importanti feedback. Il primo è il feedback proveniente dalle altre persone. Le valutazioni annuali, come quelle quadrimestrali o mensili, sono troppo generiche. Un feedback immediato e specifico rappresenta uno degli strumenti più efficaci per aiutare i lavoratori a migliorare la propria performance, consentendo anche di condurre tutto il gruppo in maniera armoniosa e continua. In ogni caso, bisognerebbe imparare a trattenersi da un’eccessiva presenza quando il lavoro si svolge correttamente, poiché se si esagera, il feedback può interferire troppo nel lavoro delle persone .
Focalizzarsi solo sui fatti presenta innumerevoli vantaggi: non si invade la personalità, si è più specifici ed oggettivi, si è meno influenzati da opinioni e sensazioni, si migliora la comunicazione e la presa di coscienza.
Ricorrere all’esempio comportamentale e comunicare attraverso fatti, permette così di evitare possibili generalizzazioni, ma soprattutto di evitare i giudizi. La seconda fonte di informazioni è rappresentata dal feedback proveniente dal lavoro stesso.
Alcune mansioni hanno al loro interno un sistema di misurazione della performance, anche se molte altre ne sono prive. Il successo di alcune recenti tecniche manageriali, come il TQM, è dovuto in parte al fatto che esse aiutano l’organizzazione a quantificare le performances dell’azienda. Qualunque sia la tecnica impiegata, è responsabilità del manager comunicare a tutti le proprie aspettative in modo chiaro, in modo tale che i lavoratori possano in qualunque momento verificare se la propria attività è in linea con gli obiettivi. Infine il feedback può derivare anche dagli standard che ogni individuo sa di poter raggiungere. Un vero lavoratore performante è colui che sa sviluppare un proprio metro di misura con cui stabilire la bontà del proprio operato, al di là dei parametri esterni.
Questo approccio si basa essenzialmente sulla esperienza maturata nel tempo svolgendo una determinata mansione, che permette alle persone di formulare un giudizio personale circa il livello del lavoro svolto in modo naturale ed intuitivo.
Trasmettere ai lavoratori questo genere di approccio non è semplice; la migliore strategia è pertanto quella di definire gli standard ad una singola persona in modo chiaro, far si che questa li applichi al lavoro in modo tale che tutte le altre possano riconoscerli e prenderli come esempio. In molti casi questa prassi può richiedere che una data attività debba essere ripetuta più volte, entro determinati intervalli di tempo, finché l’esecuzione non diventa perfetta.
Il processo di valutazione delle performance nasconde delle insidie che devono essere gestite per non minare l’efficacia dello strumento .
Un primo comune ostacolo è uno scarso orientamento aziendale al personale, o scarso orientamento del singolo manager.
Spesso il lavoro è concepito in visione tayloristica con dettagliati mansionari, procedure e con un forte orientamento al compito. Questa visione del lavoro tende a trascurare le caratteristiche della risorsa umana, la cui produttività non è prestabilita, ma può variare notevolmente in funzione della sua motivazione.
Altro ostacolo molto frequente è la motivazione del manager al quieto vivere, pertanto il desiderio di non complicarsi la vita con valutazioni negative. In questo contesto nasce il “buonismo” che rappresenta una distorsione sistematica ad una valutazione oggettiva. Il manager non si accorge di essere latitante nell’assolvere una sua precisa responsabilità, preferisce camuffare la realtà dichiarando che tutti sono bravissimi, o limitandosi a commenti generici inficiati da un eccessivo criticismo, che non entrano nel merito delle questioni.
Una grossa difficoltà dei valutatori, derivante dal non volere assumere un ruolo, poco esaltante, di colui che giudica altre persone, è infatti comunicare una valutazione negativa della prestazione per paura di demotivare il collaboratore, o di dover iniziare forti discussioni e creare tensioni.
Ma ciò può essere evitato se si riesce a legare la performance negativa ad un piano di sviluppo personale.
Il capo credibile fa percepire che è interessato alla crescita del collaboratore, utilizza il rimprovero costruttivo, quale strumento di crescita. Il capo credibile usa il “noi” parlando di problemi.
Raramente dice: “Tu hai sbagliato!”, bensì “Noi abbiamo sbagliato!”. Ma non lo fa solo per una pratica manieristica, ma perché si sente genuinamente responsabile degli errori del proprio collaboratore.
Se il superiore non si costruisce questa credibilità, per quanto abile nei colloqui, rischierà sempre di essere vissuto come un antagonista nel lavoro. La valutazione delle prestazioni presenta poi il grande rischio della soggettività del valutatore, il quale tende, anche involontariamente, ad usare metri di valutazione squisitamente personali. In genere si tende ad avere alte aspettative su aree comportamentali dove si è più forti. Ad esempio un manager molto analitico darà molto peso alla capacità analitica dei propri collaboratori. Per ovviare a questa distorsione di soggettività, è opportuno sviluppare e condividere una cultura aziendale o di reparto o di Ripartizione.
La cultura condivisa diventa un metro oggettivo di valutazione della prestazione. Se ad esempio l’azienda condivide una forte cultura del lavoro in team, ogni manager darà un gran peso al senso di collaborazione dei suoi collaboratori, alla capacità di fare team, di scambiarsi informazioni, di aiutarsi spontaneamente, etc. Quest’aspetto culturale diventa pertanto un parametro oggettivo di valutazione del personale. La cultura comportamentale attesa è data dal complesso dei comportamenti che un leader, o meglio un’azienda intende vedere praticati. Molto spesso, infine, la valutazione delle prestazioni è intesa come uno strumento per distribuire eventuali premi che l’azienda mette annualmente a disposizione dei propri dipendenti. Quando nelle aziende si consolida questa visione, la gestione stessa del processo diventa molto difficile e piena di ostacoli, risolvendosi in una scarsa propensione del collaboratore ad accettare una valutazione che andrà direttamente ad influire sul proprio portafoglio.
In questo caso valutare significa creare le condizioni per un conflitto. Altre volte viene vissuta come strumento per avviare un processo meritocratico in azienda.
Si arriva infine ad un’altra drammatica percezione, osservata in diversi contesti, dove la valutazione viene percepita come strumento per distinguere i bravi collaboratori da quelli scarsi. La valutazione delle prestazioni professionali non va comunque meramente intesa come uno strumento per attivare “premi o punizioni”, ma costituisce in primo luogo un fondamentale strumento di conoscenza e definizione della realtà organizzativa. Inoltre è soprattutto uno strumento che completa la definizione dei ruoli, la rende più aderente alle concrete esigenze e condizioni di funzionamento delle strutture, consentendo di meglio governare e gestire l’adattamento dinamico dell’organizzazione rispetto al reale contesto operativo. In sintesi, la valutazione delle prestazioni è uno strumento di sviluppo del personale basata sul riconoscimento delle capacità, dei risultati del singolo e sulla possibilità di migliorare le sue prestazioni.
© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo
Conclusa la trattazione teorica si intende a questo punto fornire un’elencazione di alcuni strumenti operativi, di uso quotidiano nella pratica manageriale, ma implicitamente suggeriti, come si è avuto modo di vedere, dalla speculazione sul tema della motivazione. Le leve operative verranno proposte in una sequenza che rispecchia l’iter cronologico del percorso tipico di una risorsa all’interno dell’azienda. Si va dall’assunzione, all’inserimento nel team, dalle politiche di incentivazione fino alla gestione globale e alla sua uscita (outplacement). In ogni fase, infatti, ci sono diversi aspetti da tenere in considerazione che impattano sulla motivazione in ambito lavorativo.
In questa prima sezione si vogliono approfondire le dinamiche motivazionali inerenti l’ingresso della risorsa all’interno dell’organizzazione, ma anche la problematica della rilevazione della motivazione in qualsiasi momento in cui la risorsa sia già operante nel contesto aziendale. Spesso le aziende traggono il livello di motivazione solo in seguito ai risultati dell’attività lavorativa di un singolo soggetto, ma in realtà, a parità di motivazione, soggetti diversi, o lo stesso soggetto in diverse attività, possono generare prestazioni molto differenti. Va detto che tali differenze in parte dipendono dalle condizioni esterne, dalle difficoltà e dagli imprevisti, dal grado d’incertezza del compito e dell’ambiente lavorativo; tuttavia, per una parte importante dipendono dalle caratteristiche strutturali del lavoratore stesso, dalle risorse che può mobilitare al suo interno, da ciò che è capace di fare, praticamente da quelle che vengono chiamate le sue competenze.
Nella definizione delle competenze esistono vari approcci, che privilegiano, secondo i diversi punti di vista, gli aspetti cognitivi e d’apprendimento, i saperi legati all’esercizio del ruolo e della professione, o gli aspetti d’esercizio delle competenze derivanti dalle caratteristiche del contesto di riferimento. Secondo Nelson e Winter “la competenza è la capacità di dar luogo ad una sequenza regolare di comportamento coordinato, efficace rispetto agli obiettivi, dato il contesto in cui ha luogo”. Levati e Saraò definiscono la competenza come “sistema di schemi cognitivi e comportamenti operativi, intrinseci di un individuo, causalmente correlati al successo sul lavoro o a una prestazione efficace, composta di motivazioni, immagine di sé, conoscenze e abilità”. In questa sede quindi il concetto di competenza va inteso in senso allargato, poiché deve tenere conto non solo delle capacità tecniche, necessarie allo svolgimento di una data attività, ma anche di quegli attributi intrinseci alla persona che consentono di mantenere un interesse vivo verso il lavoro, motivando il soggetto ad impegnarsi. Deriva da ciò l’impossibilità di analizzare le competenze prendendo in esame solo la posizione organizzativa: occorre infatti assumere come oggetto di analisi anche le qualità e le risorse individuali del soggetto al lavoro, opportunamente contestualizzate e confrontate. Si parla in questo caso di “attitudini”. Queste sono il risultato di un processo in cui partendo dall’analisi della posizione, si individuano i comportamenti necessari, stendendo un profilo tipo, in modo evidenziare eventuali predittori del comportamento performante.
La centralità assunta dal concetto di competenza professionale ha determinato uno stravolgimento delle modalità consolidate di intendere le qualifiche, le performances e i relativi modi di valutarle e certificarle. I diplomi e le qualifiche, tradizionalmente visti e utilizzati come parametri di valutazione della preparazione delle persone e talvolta intesi come determinanti del successo nel lavoro, hanno perso queste loro funzioni; la loro utilità è ora limitata al dire quali conoscenze sono possedute da un dato individuo e al massimo il modo come costui ne ha gestito l’acquisizione in un determinato contesto formativo. Poco rivelano in relazione al suo comportamento in un contesto lavorativo, dove entrano in gioco le competenze. Per far fronte a questi fabbisogni informativi, la valutazione della motivazione strettamente se non esclusivamente imperniata sul “sapere“ o, al massimo, sul “saper fare“, non è più sufficiente, in quanto poco risponde alle nuove logiche legate al “saper essere”. Dovranno essere analizzate quindi sia le conoscenze e le esperienze passate, ma anche le capacità attualmente esprimibili e gli atteggiamenti. Sintetizzando si può dire che le competenze sono quell’insieme di abilità necessarie all’esercizio di un’attività lavorativa e la padronanza dei comportamenti basati su conoscenze (sapere e saper fare) e attitudini (saper essere). In sostanza, sono degli attributi intrinseci alla persona, ma significativi e strategici per la sua specifica mansione, in quanto correlati con la performance in compiti e atteggiamenti ben definiti. Si può quindi analizzare la competenza sotto due diversi aspetti che dipendono dalle finalità con cui si vogliono analizzare le risorse umane, a seconda, cioè, se si vogliono comparare tra di loro o se si vogliono comparare con un modello teorico di competenze previste per quel dato compito:
Lo step successivo sarà quello di capire il grado di profondità e incorporazione delle suddette competenze nella risorsa umana. Spencer & Spencer propongono l’immagine dell’iceberg o delle scatole cinesi per rappresentare l’idea che le competenze abbiano degli strati “sommersi”, che non possono essere visti nemmeno dagli attori che le posseggono; e che esse racchiudano un “nocciolo duro” molto difficile da disgiungere dall’identità del soggetto stesso e da cambiare. Il set di competenze ha quindi una struttura stratificata, analoga a quella della conoscenza. Lo strato più profondo o nocciolo delle competenze (sotto la linea di galleggiamento) è costituito dai tratti, dalle doti della persona, dalle sue motivazioni intrinseche, e dalla personalità, cioè da ciò che si è capaci di fare per dotazione fisica ed emotiva, e per dotazione culturale. Una componente più esterna (sopra la linea di galleggiamento), visibile e facile da analizzare è identificata nelle skills o abilità. Esse sono capacità apprese in modo esperienziale, diretto o tramite osservazione. Esse sono largamente identificabili con le conoscenze tacite richieste dalla mansione specifica, ovvero esempi di situazioni lavorative “tipo”. La preparazione professionale è vista come lo strato più codificabile, più facilmente modificabile e trasferibile delle competenze, attraverso la formazione (conoscenze esplicite).
La distinzione tra risorse comparabili o specifiche ad un compito non è comunque solo una questione di approccio. Componenti generiche possono essere più o meno presenti in un modello di competenza. Tuttavia se una competenza è molto specifica rispetto ad un uso o attività, la differenza tra il valore dei servizi resi in quell’attività rispetto al migliore impiego alternativo è molto elevata. Ciò significa che nella fase di inserimento, l’analisi della motivazione verso l’espletamento di un lavoro, non può che concentrarsi sulle competenze generiche, mancando ancora il dato esperienziale sul quale poter giudicare come il soggetto ha effettivamente messo in campo le sue qualità. Viceversa, nel caso la risorsa sia già operante, bisogna analizzare il suo livello di motivazione, contestualizzando le competenze generiche in pratiche effettivamente necessarie alla mansione, che ne può richiedere alcune e tralasciarne delle altre. Questa puntualizzazione può apparire ovvia, ma nella prassi manageriale spesso si confondono i due tipi di competenza, nei diversi momenti in cui vengono analizzate le risorse, o si ritiene che tutte le competenze servono per il ruolo in questione. Inoltre si basa su un modello teorico delle competenze, largamente accettato in dottrina, in cui si suppone che la prestazione lavorativa deriva dal reciproco concorrere delle capacità e delle motivazioni del lavoratore:
PRESTAZIONE = CAPACITA’ x MOTIVAZIONE
Il modello evidenzia come la qualità di una prestazione lavorativa dipende dalla competenza della persona rispetto al compito che è chiamata a svolgere (il Sapere), dalla motivazione a raggiungere l’obiettivo (il Volere), a cui si possono aggiungere le risorse tecnologiche, finanziarie, informative e umane che l’organizzazione gli mette a disposizione per lo svolgimento di quel compito (il Potere).
Per prefigurare le performance future, si dovranno quindi raffrontare le capacità realmente messe in campo nella mansione specifica, osservabili con comportamenti o risultati visibili, con le motivazioni rilevabili prima di introdurre la risorsa in azienda, verificando che queste coincidano con quelle ricavabili dal modello teorico di competenze previste per quel determinato ruolo, in una logica di anticipazione dei fabbisogni professionali nel medio periodo. Vanno inoltre distinte le competenze di base (informatiche, linguistiche, etc.) da quelle tecnico-professionali. A queste si possono aggiungere le competenze trasversali che fungono da collegamento fra la competenza tecnico-professionale e le competenze generiche facenti parte della personalità dell’individuo, nel senso che possono essere messe in atto sia per attività semplici, sia per attività complesse. Esse riguardano prevalentemente il rapporto che la persona ha con l’ambiente di lavoro, il modo di affrontare i compiti da svolgere, gli aspetti emotivi delle relazioni lavorative (lavorare in gruppo, sviluppare soluzioni creative, negoziare). Si parla infatti di competenze extra-role, che sono osservabili in comportamenti intenzionali definiti “pro-sociali” o “pro-attivi”. Le competenze trasversali o “aspecifiche” sono inoltre definite come le abilità relative al saper mettere in atto strategie efficienti per utilizzare le risorse possedute (conoscenze, valori, motivazioni), coerentemente con le esigenze del compito (comportamento lavorativo atteso, condizioni di esercizio, ambiente, organizzazione) . La valutazione della motivazione, infine, non è un fatto isolato, ma deve introdursi in un “ciclo della prestazione” che passa attraverso tre aree distinte di intervento. Una fase iniziale di pianificazione che si realizza con l’accordo sugli obiettivi di lavoro e di sviluppo personale del collaboratore. Il manager deve definire con il proprio collaboratore le aspettative che ha dalla sua funzione, intendendo per aspettative una chiara definizione degli obiettivi annuali e anche dei comportamenti attesi .
Una fase intermedia che comprende, in genere, l’intero anno di lavoro, durante la quale si svolgono incontri vari di monitoraggio. Il manager svolge colloqui sistematici con il proprio collaboratore, non solo legati alle contingenze del lavoro ma anche alla comunicazione delle osservazioni sui suoi comportamenti e sullo stato di avanzamento dei suoi obiettivi. Il numero degli incontri non può essere programmato a priori, in quanto dipende dalle occasioni in cui è possibile comunicare esempi comportamentali significativi per lo sviluppo del collaboratore. Il colloquio di monitoraggio ha una duplice finalità: sviluppare il dipendente e motivarlo: pertanto anche la gratificazione come il rimprovero costruttivo fanno parte del monitoraggio. Il manager deve sentirsi ed essere percepito come partner della performance del collaboratore e non come spettatore passivo. Il suo ruolo non può essere limitato al processo finale di valutazione bensì al piano completo della performance, altrimenti si creerebbe un’immagine di arbitro, più o meno oggettivo nei giudizi, non coinvolto e corresponsabile di quei risultati.
Il ciclo della performance si conclude con la discussione formale dei risultati e la valutazione del collaboratore, attraverso una fase formale nella quale si presenta e si discute su un rapporto scritto. Questa fase di formalizzazione del giudizio è sicuramente la più delicata e rischiosa, ma sarà sicuramente più facile quanto più sarà percepita come naturale corollario di un anno di monitoraggio.
Nei prossimi paragrafi si tratteranno distintamente la fase iniziale e la fase intermedia della misurazione del livello motivazionale.
© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo
La considerazione delle aspettative e del processo di motivazione interna, pur non potendo descrivere il processo di motivazione nella sua interezza, fornisce comunque utili suggerimenti ed implicazioni che hanno una grande rilevanza per i manager. Innanzitutto è necessario scoprire quali risultati particolari sono apprezzati da ogni lavoratore, creando un collegamento diretto ed esplicito tra i vari livelli di prestazione e i rispettivi risultati in termini di ricompense.
Le aspettative che generano motivazione nei dipendenti, infatti, non sprigioneranno il loro effetto se i soggetti non sperimenteranno un chiaro nesso fra prestazione e risultato. A questo fine sarà opportuno specificare quali comportamenti specifici costituiscono un buon livello di prestazione, così che il soggetto potrà valutare se ne è all’altezza. In secondo luogo bisogna capire se esistono aspettative contrastanti, incoraggiate anche da altre persone e soggetti di influenza, interni o esterni all’organizzazione, la cui incompatibilità non è percepita dal dipendente.
Se altrimenti fosse percepita, egli si orienterebbe in modo più netto verso una specifica scelta che, pur contrastando con altre, avrà la combinazione migliore di probabilità di successo e valore soggettivo. Un’altro aspetto importante che la teoria delle aspettative vuole evidenziare riguarda la progettazione dei compiti, delle mansioni e dei ruoli.
Questa attività va fatta in modo che ogni individuo, proprio perché ha aspettative e desideri diversi, avrà l’opportunità di soddisfare i propri bisogni mentre lavora; per questa ragione la ricompensa non potrà che essere personalizzata, in quanto inequivocabilmente associata a diversi livelli di impegno-prestazione, e sufficientemente alta da far percepire l’effettivo raggiungimento del risultato. È altresì importante sottolineare come in effetti una tale attività di differenziazione compensativa, sia difficile da mettere in pratica senza provocare un senso di ingiustizia o inequità, quando non degenera in favoritismi e nepotismo.
Quest’ultimo aspetto, ma anche la circostanza che la formazione delle aspettative possa essere influenzata da altri soggetti, sono stati pienamente colti da alcuni approcci socio-relazionali che focalizzano l’importanza della Giustizia Organizzativa, dell’Equità e dell’Apprendimento Cooperativo , ciò che completa il sistema dei fattori interagenti nel modello del contratto psicologico. Già la teoria di Bandura , come si è discusso, ha contribuito in modo determinante a dare una visione sistemica dell’azienda, perché, oltre al ruolo del dipendente e del manager nel processo motivazionale, introduce il ruolo indiretto degli altri soggetti e dell’ambiente organizzativo in cui l’individuo è inserito. In altre parole il dipendente può correggere i propri comportamenti non solo in risposta a pressioni esterne esercitate sulla sua persona, ma anche in base a come percepisce i cambiamenti intervenuti in altri soggetti, conseguenti all’azione di fattori esterni su loro interagenti. Non è necessario cioè, sperimentare in prima persona le conseguenze.
È possibile invece tesorizzare l’esperienza di altri e sviluppare a propria volta uno schema di comportamento preventivo, sul modello del comportamento osservato in altre persone, utilizzabile in situazioni analoghe. La teoria dell’apprendimento sociale coglie quindi un aspetto molto importante del comportamento organizzativo che si rileva frequentemente e che ha un forte impatto nel processo di formazione delle proprie aspettative. È innegabile infatti che i dipendenti modificano il proprio comportamento in funzione delle conseguenze in termini di premi, punizioni e altri accadimenti derivanti dai passati comportamenti dei colleghi, soprattutto quelli aventi una mansione analoga, poichè si sentono indirettamente interessati. Il soggetto potrebbe infatti non essere il destinatario di tali accadimenti solo temporaneamente, perché ad esempio l’organizzazione non ha ancora rilevato gli effetti del suo comportamento.
Se quindi percepisce che un comportamento simile di un collega ha destato riprovazione, o che un comportamento differente ha generato approvazione, modificherà di conseguenza il proprio comportamento e se non lo fa, inevitabilmente si modificheranno le aspettative correlate al proprio comportamento attuale. In base alla teoria di Bandura si può pertanto dividere il processo diapprendimento in due fasi.
Le ricerche estensive e gli approcci successivi alla teoria delle aspettative, invece, pur approvandone la fondatezza e la struttura del modello motivazionale, si distanziano fortemente in quanto trascurano in modo netto il problema dei fattori psicologici interni, concentrandosi invece sul ruolo dei fattori esterni come le ricompense, i compiti, le mete e soprattutto l’influenza di altre persone. E anche quando utilizzano come modello base di processo motivazionale quello delle aspettative, riconducono all’influenza dei fattori esterni suindicati la formazione delle aspettative stesse, non riconoscendo al soggetto un contributo attivo nel crearle.
Queste teorie ipotizzano che la motivazione è influenzata dalle percezioni su come si viene trattati al lavoro. Ciò che contribuisce in modo determinante a motivare una persona non risiede nell’ambito delle pulsioni interne, ma è da riferire al contesto delle relazioni interpersonali, a ciò che gli altri fanno e le permettono di fare. La diversità, come si è visto, è un valore, ma lo è anche l’uguaglianza. Per arrivare a trattare ogni persona secondo le sue necessità, bisogna prima rispondere al bisogno di equità che le persone manifestano. Si distingue inoltre fra giustizia distributiva e giustizia procedurale .
La prima si riferisce a quanto le persone ritengono di essere trattati in modo equo in relazione ai risultati del lavoro, al loro impegno e ai loro sforzi.
Si ipotizza quindi che i lavoratori sono motivati a mantenere rapporti equi e a modificarli, se percepiscono di essere trattati iniquamente, in modo da riequilibrare la situazione organizzativa. potrebbero ad esempio abbassare il livello di sforzo, o richiedere un aumento, o se si sente lui il privilegiato, impegnarsi in lavori meno appaganti. O ancora richiedere un maggiore impegno a chi si ritiene essere privilegiato. Infine potrebbe risolvere queste conflittualità, mediante distorsioni psicologiche, tese ad esempio a gonfiare il valore del suo lavoro, o sgonfiare quello del privilegiato.
Il problema della giustizia procedurale si riferisce invece al livello di equità percepito rispetto al management, relativamente alle decisioni che quotidianamente vengono prese, ma che inevitabilmente riguardano anche il lavoratore. In alcuni casi possono, tra l’altro essere ingiuste, non venendo applicate (o venendo disapplicate nei fatti), perché ad esempio porta a conseguenze ritenute sfavorevoli. Questo senso di ingiustizia, può essere fortemente limitato se si da la possibilità far presenti le proprie argomentazioni e giustificare il proprio dissenso, prima che la decisione venga presa. Ma dipende anche da quanto si sia trattati con rispetto, dignità o dal grado di influenza che si può avere nel processo decisionale. È evidente come le percezioni di giustizia organizzativa influenzino il processo motivazionale, e come le reazioni del lavoratore possano essere ben inquadrate all’interno dalla logica di prestazione-controprestazione del contratto psicologico.
Conclusa la trattazione delle varie teorie, si analizzeranno le più importanti pratiche manageriali per gestire la motivazione, fornendo “alcuni strumenti del mestiere”, derivanti dalla precedente riflessione teorica, di utile impiego per il controllo dei processi di motivazione trasversalmente nei vari aspetti della gestione aziendale. Tali concetti saranno quindi il risultato di una elaborazione in cui si manterrà un costante collegamento con l’orientamento dottrinale che li ha generati, combinata con i metodi recentemente più utilizzati dalla prassi aziendale.
© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo
Il paradigma comportamentista, anche a causa del suo riduzionismo, comincia a entrare in crisi già alla fine degli anni ’60, come si è già discusso ad opera del costruttivismo, cioè la riscoperta della mediazione cognitiva (e di tutte le sue implicazioni) tra lo stimolo e la risposta, a scapito di una analisi esclusivamente focalizzata sul comportamento osservabile. Più che analisi del comportamento, bisogna invece parlare di analisi della condotta lavorativa, ridando all’azione cosciente del soggetto un ruolo quantomeno paritario rispetto alle ricompense estrinseche, nel garantire il funzionamento del processo motivazionale.
Inoltre, viene evidenziata in questa prospettiva l’importanza nel processo motivazionale delle ricompense intrinseche e della soddisfazione lavorativa.
L’organizzazione, infatti, può solo fornire al dipendente l’opportunità di incanalare verso gli obiettivi aziendali le proprie energie (motivazione a partecipare), ma ciò dipende esclusivamente dal suo impegno morale e dal livello di contributo che vuole fornire (motivazione a produrre).
Le prospettive più recenti, in definitiva, mettono fortemente in discussione l’idea che il rinforzo possa essere considerato una fonte motivazionale primaria: tuttavia, non si può disconoscere che la motivazione abbia anche una componente estrinseca, come il desiderio di essere approvati, o riconosciuti competenti. Per dare quindi una spiegazione più chiara del rapporto che sussiste fra comportamenti e incentivi nello schema del contratto psicologico, bisogna ipotizzare una distinzione fra motivazioni “estrinseche”ed “intrinseche”, se non addirittura una dicotomia.
Deci , con la sua teoria dell’Auto-Determinazione, dimostra in alcune ricerche che solo quando il lavoratore si impegna in un’attività che ritiene veramente interessante, riesce ad esprimere una motivazione autonoma e totalmente intenzionale, in quanto sperimenta la possibilità di una scelta. Viceversa, l’uso di rinforzi esterni, venendo vissuti come una sorta di pressione, innesca un meccanismo inconscio di regolazione che si risolve in una motivazione controllata. Secondo Harter, invece, il lavoratore, ottenendo rinforzi positivi, interiorizza un sistema di “autogratificazione” che gli consente di padroneggiare maggiormente le strategie finalizzate al raggiungimento di determinati obiettivi.
È come se si “autosomministra” delle ricompense le quali non sono altro che delle sensazioni positive per aver portato a termine il proprio compito, da cui scaturisce un senso di autonomia e di crescita interiore. Con l’incremento di questo processo diminuisce il bisogno di gratificazione esterna ed aumenta la motivazione grazie alla percezione della propria competenza e del proprio controllo sull’ambiente.
In altre parole le ricompense possono abbassare la qualità delle prestazioni, specie quando si tratta di lavori creativi, risultando inoltre inutili nel caso i comportamenti non siano facilmente osservabili.
Alcune ricerche condotte da Harter hanno rilevato che offrire premi o rinforzi estrinseci per l’impegno nelle attività può minare alla motivazione intrinseca, tranne nel caso in cui effettivamente è difficile trovarne (ad esempio in una catena di montaggio). I teorici della motivazione intrinseca danno ragione di tale effetto spiegandolo con il cosiddetto “principio di svalutazione”, in base al quale una legittimazione particolarmente rilevante per il comportamento di un individuo finisce per svalutare tutte le altre: così, un soggetto può in origine percepire un interesse intrinseco derivante dall’eseguire un compito, ma, se per il comportamento è offerto un premio estrinseco desiderato, l’interesse intrinseco è svalutato.
Tali scoperte, chiamando in causa la diffusa convinzione che il denaro sia un modo efficace ed anche necessario per motivare le persone, confermano le tesi di un filone di studi centrato sul concetto di Human Agency (o agentività). Con questo termine ci si riferisce alla facoltà dell’uomo di agire attivamente sull’ambiente lavorativo, di generare azioni mirate al conseguimento di scopi desiderati e di monitorare (mediante autoregolazione) la propria condotta, utilizzando le guide cognitive e gli auto-incentivi che gli sono propri, per modificarla.
Lo stesso Bandura dimostra nelle sue più recenti ricerche che la motivazione è direttamente influenzata dalle convinzioni dell’individuo circa il suo valore, le sue abilità o competenze, gli obiettivi e le aspettative di successo o insuccesso e i sentimenti positivi o negativi che derivano dal processo di autovalutazione. Secondo Bandura la percezione che una persona ha di sé deriva da quattro fonti: le performances precedenti, l’osservazione dell’esecuzione da parte di un altro, la persuasione e le proprie reazioni psicofisiologiche ed emotive. Più che da schemi di rinforzo, la motivazione viene in primo luogo influenzata da fattori di auto-efficacia, auto-stima e self-confidence (crederci).
Tra l’altro gli individui possono non soffrire perdite nella percezione del proprio valore se già si giudicano inefficaci in talune attività, che comunque non reputano essenziali (ad esempio spegnere un macchinario a fine turno). Le prestazioni inoltre sono socialmente definite in termini di “comportamento richiesto” o in termini di “risultato”. Il dipendente, secondo Bandurra, utilizza tutta una serie di tecniche per incanalare la propria automotivazione all’interno di queste due dimensioni. Regola il proprio senso di auto-efficacia sperimentando direttamente il ruolo e creando dei modelli di successo per ottenere i risultati attesi (modelling). Solo nei casi di grande stabilità del contesto lavorativo, inoltre, il lavoratore ricava queste informazioni osservando i colleghi performanti (sperimentazione vicaria). L’automotivazione, quindi, deriva da una percezione di auto-efficacia, cioè dalla tendenza a percepire sé come persona capace di scegliere e mettere in atto, di fronte a certe situazioni, i comportamenti più adeguati tra quelli disponibili. Il positive thinking nel lavoro (pensare positivo) è infatti una componente fondamentale dell’automotivazione. Esso si può intendere come la percezione di competenza, ovvero come tendenza a valutare positivamente le proprie capacità e skills rilevanti rispetto ad un’area specifica di attività.
In sintesi la teoria dell’apprendimento sociale pone l’accento sul concetto di “determinismo reciproco”, intendendo con questo termine la circostanza in base alla quale i fattori personali (come le aspettative, le intenzioni, le percezioni e le rappresentazioni mentali) e i fattori situazionali interagiscono tra di loro e risultano codeterminanti. Si è visto poi che l’automotivazione non viene intaccata quando a un insuccesso non si da valore.
La considerazione simultanea del valore di una conseguenza e del modo di formarsi le aspettative, è alla base di una teoria che da un grande contributo nel chiarire le modalità con cui il comportamento del lavoratore attiva il processo decisionale. Si tratta della Teoria dell’Aspettativa-Valenza a d opera di Vroom . In base a questa teoria, come nel caso dell’automotivazione, gli individui orientano i propri sforzi verso quelle attività che ritengono portino a risultati desiderabili. Il concetto principale è quindi quello di aspettativa, cioè la stima sulla probabilità che un determinato evento si realizzi. L’aspettativa dipende però sia dalla stima dello sforzo che il lavoratore ritiene necessario per ottenere una certa performance, sia il giudizio sull’efficacia di tali performance, ossia su quanto queste materialmente portino a delle conseguenze sperate . Il fatto di considerare variabili come le aspettative ed i valori consente a questa teoria di cogliere le differenze, in termini di attrattività dei risultati, insite nella struttura mentale di ogni soggetto e che condizioneranno di conseguenza i loro comportamenti. Ai fini dell’analisi della motivazione, quindi, ciò che è importante non è l’effettiva correlazione tra impegno e prestazione, ma la correlazione che la persona coinvolta pensa che esista. Questo fatto dipende dalla convinzione che l’impegno e la prestazione non sempre sono direttamente collegati o almeno non lo sono oggettivamente. Si è visto come la fiducia in se stessi può essere un elemento determinante.
La teoria dell’aspettativa-valenza è quindi una teoria focalizzata sul processo, ma, facendo riferimento al concetto di aspettative, rimanda ad un parallelo approfondimento degli aspetti personali e psicologici che modellano il formarsi delle aspettative stesse dell’individuo. In questo senso è una teoria che fa in qualche modo da collante fra l’approccio del contenuto e quello del processo, condividendone però entrambi i limiti interpretativi. Pertanto se si vogliono utilizzare le ipotesi del modello di Vroom, accettando tutte le conseguenze che la sua validazione inevitabilmente comporta, ci si addentrerebbe più che altro in un’analisi introspettiva e non del processo di motivazione. Il risultato è lo sforamento del campo di indagine iniziale della teoria, disattendendo le relative finalità di ricerca.
© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo
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