La percezione di controllo sullo spazio

La percezione di controllo sullo spazio

Per quanto riguarda nello specifico il grado di autonomia e controllo dello spazio, ci teniamo innanzitutto a specificare che ciò che intendiamo in questa sede per “controllo sullo spazio di lavoro” va distinto dal concetto molto studiato di locus of control. Seppure la denominazione possa sembrare simile, i due concetti sono chiaramente differenti in quanto il controllo sullo spazio si riferisce specificatamente alla gestione dell’ambiente fisico, in particolare alla percezione di controllo piuttosto che al livello di controllo oggettivo, mentre il locus of control si riferisce alla tendenza ad attribuire i risultati ottenuti nella propria vita a fattori intrinseci od estrinseci. Un altro concetto molto affine, ma più ampio, è quello di autonomia e controllo sul lavoro, secondo Duffy l’autonomia corrisponde al grado di controllo, responsabilità e discrezione che ciascun lavoratore ha sui contenuti, i metodi, la posizione e gli strumenti del processo di lavoro (in Noorian, 2009); nel nostro caso però ci interessa focalizzare l’attenzione sul controllo dello spazio fisico, quindi possiamo dire che l’autonomia lavorativa è in un certo senso la categoria più ampia e comprensiva.

 Nonostante dalle ricerche sul controllo dello spazio di lavoro emergano risultati contrastanti, vi è infatti da un lato chi sostiene che faccia sentire i lavoratori più soddisfatti (con benefici sia a livello di comportamenti lavorativi positivi sia di commitment organizzativo), dall’altro chi invece ritiene che riduca la performance e la produttività degli individui, la tendenza generale è tuttavia quella di valutare positivamente la percezione di controllo sullo spazio lavorativo (Samani, 2015). A tale proposito, lo studio condotto da Samani (2015) ha  proprio l’obiettivo di indagare l’impatto che il controllo sullo spazio di lavoro ha sulla soddisfazione per l’ambiente e sulla performance. L’autore propone una serie di definizioni circa cosa si intenda per controllo sull’ambiente che, riassumendo, fanno riferimento alla possibilità di intervenire e modificare l’ambiente, dal punto di vista fisico, per migliorare le proprie condizioni di lavoro.

La scelta di occuparsi della soddisfazione per l’ambiente è motivata anche dal fatto che essa è in grado di influenzare la soddisfazione per il lavoro; al contrario l’insoddisfazione per l’ambiente di lavoro può portare a scarsa produttività e performance. Alla fine della sua rassegna, Samani conclude sottolineando come la percezione di controllo sullo spazio di lavoro risulti essere un fattore critico per la soddisfazione circa l’ambiente di lavoro, non solo, egli scrive anche: «il risultato di questa rassegna ha indicato l’importanza dell’ effetto dell’ambiente fisico di lavoro sul benessere, la soddisfazione e la performance delle persone. Infatti l’ambiente fisico di lavoro è in grado di influenzare  i canali informativi degli impiegati, le interazioni interpersonali e l’accesso alle conoscenze ed alle attrezzature.» (p.169). Non sorprende dunque che uno degli aspetti negativi degli uffici open-space risulti essere proprio la mancanza di controllo individuale sullo spazio: all’interno di questi ambienti infatti l’illuminazione, la temperatura e la densità sono fissati ad un certo livello, con scarse possibilità di essere modificate. Già negli anni ’80 diversi studi, nell’ambito della teoria della “Person-Environment Fit”, avevano rilevato come la percezione di autonomia e di controllo avesse effetti positivi sulla soddisfazione per il lavoro (Caplan, 1987; French, Caplan e Harrison, 1982). Secondo questa teoria l’atteggiamento e il comportamento individuale sono il risultato dell’incontro tra le caratteristiche dell’individuo e quelle dell’ambiente, che, applicato all’ambito organizzativo, è inteso come ambiente di lavoro. Tanto più armonico è questo “match”, tanto migliori sono le conseguenze in termini di soddisfazione, efficacia e benessere in generale (Cable e Edwards, 2004; Samani, 2015). Diverse ricerche hanno inoltre mostrato che oltre a soddisfazione e produttività, anche altri importanti fattori sembrano beneficiare di un buon livello di controllo sullo spazio di lavoro, quali la creatività, il morale e l’impegno verso il lavoro (Milne e Perkins, 2017; Samani, 2015). Anche la percezione di privacy sembra beneficiare del controllo sullo spazio fisico, nello studio di Smith e Kearny (1994) infatti, tra i fattori fisici in grado di influenzare la privacy nei luoghi di lavoro, vengono citati: il controllo sulla stimolazione uditiva, il controllo sulla stimolazione visiva, la luce e i colori ed il controllo sulla qualità dell’aria, la temperatura e l’umidità. Una ricerca molto interessante è quella condotta da Lee e Brand (2005), i quali si sono interessati proprio allo studio delle conseguenze – sia a livello individuale che di gruppo – della percezione individuale di controllo e di flessibilità nell’utilizzo dello spazio, le ipotesi formulate dagli autori sono quattro e riguardano la relazione tra variabili quali: il livello di distrazione percepita, la performance, la percezione di controllo sullo spazio fisico di lavoro, la coesione di gruppo, la soddisfazione per l’ambiente fisico, la propensione a lavorare da soli ed in spazi chiusi e la soddisfazione lavorativa. Da questo studio sono emersi diversi punti rilevanti in quanto sono stati esaminati molteplici aspetti associati alla percezione di controllo sullo spazio, è risultato infatti positivamente associato alla soddisfazione per l’ambiente lavorativo, alla soddisfazione per il lavoro ed alla percezione di coesione di gruppo, suggerendo quindi un impatto positivo del controllo personale anche sulla comunicazione tra colleghi. Poiché i dati non hanno supportato l’ipotesi secondo cui la distrazione percepita sarebbe negativamente correlata con l’autovalutazione della performance lavorativa, è stato ipotizzato che il problema potesse essere dovuto al tipo di misura scelta per la performance o magari al fatto che il controllo personale abbia funzionato come un moderatore della relazione tra la distrazione e la performance. Qualche anno dopo gli stessi autori hanno perciò deciso di condurre una ricerca proprio per verificare se gli effetti negativi della distrazione percepita potessero essere in qualche modo ridotti dalla percezione di controllo sull’ambiente. Gli autori hanno ipotizzato dunque che il controllo personale sullo spazio sia in grado di mediare la relazione tra la distrazione percepita e la prestazione lavorativa. In questa ricerca per “controllo sull’ambiente” gli autori hanno inteso la possibilità dei partecipanti di: scegliere l’organizzazione delle postazioni di lavoro,  personalizzare le aree di lavoro, controllare i contatti sociali e  modificare la temperatura, l’illuminazione e il processo di lavoro. Per distrazione hanno invece inteso la sensazione di essere distratti, disturbati, irritati da stimoli presenti nell’ambiente di lavoro. Come ci si aspettava, i dati hanno confermato che la percezione di controllo personale sugli aspetti fisici dell’ambiente è in grado di mediare gli effetti negativi della distrazione sulla performance lavorativa. Minore sicurezza vi è invece nell’affermare che il controllo personale medi e non moderi la relazione tra distrazione percepita e performance, in quanto, secondo gli autori, la mediazione e la moderazione potrebbero coesistere simultaneamente nella maggior parte dei contesti applicati (Lee e Brand, 2010).

 


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli


 

Personalizzare il proprio spazio di lavoro: quali benefici?

Personalizzare il proprio spazio di lavoro: quali benefici?

 

«La congruenza tra l’immagine di sé e quella del luogo in cui si vive fa riferimento proprio a quanto si adattano i significati e i valori associati a un ambiente fisico e l’immagine che una persona ha di sé. L’ambiente in cui viviamo, inteso come quartiere, vicinato e non solo casa di abitazione, funziona un po’ come un vestito nel dare l’immagine di come vogliamo apparire. Quando, per vari motivi, esistono discrepanze tra la place identity di una persona e il luogo fisico in cui risiede, i suoi sforzi saranno tesi a modificare l’ambiente secondo un’immagine congruente al suo sé: se non ci riesce, inevitabilmente diminuirà o cesserà l’attaccamento a quel luogo» (Baroni, 2012, p.77).

Ovviamente la possibilità di modificare l’ambiente può variare molto in base alle diverse circostanze, in ambito lavorativo ad esempio vi possono essere diverse limitazioni all’iniziativa individuale in base all’ organizzazione a cui si appartiene. Secondo Milne e Perkins (2017) non poter personalizzare il proprio spazio di lavoro sarebbe associato ad una perdita del senso di identità, come dimostrato dallo studio di Elsbach (2003) in cui gli impiegati di un’organizzazione sentivano di aver perso parte della loro identità dopo essere stati trasferiti in un ufficio in cui le postazioni di lavoro non erano assegnate individualmente. Anche nella letteratura esaminata da McGuire e McLaren (2009) si evidenzia come la personalizzazione promuova il benessere dei lavoratori permettendo la creazione di uno spazio individuale confortevole; personalizzare inoltre accrescerebbe la percezione di controllo degli individui sull’ambiente. Parallelamente, la percezione di autonomia nel lavoro risulterebbe associata alla tendenza a marcare il proprio spazio attraverso oggetti personali (spatial markers). Al contrario, percepire che l’ambiente in cui si lavora non è confortevole porterebbe ad una ridotta tendenza dei lavoratori ad utilizzare markers spaziali come indicatori della loro proprietà su quell’area (Oldham & Rotchford, 1983).

Prima di continuare tuttavia vogliamo fornire una definizione di cosa si intenda esattamente per “personalizzazione dello spazio di lavoro”: secondo Sundstrom (1986) personalizzare consiste nella decorazione o modifica volontaria di un’ambiente da parte dei suoi occupanti in modo che rifletta la loro l’identità, l’autore aggiunge anche che, quando un ambiente cambia secondo le necessità degli occupanti (individui o gruppi), allora quell’ambiente è stato personalizzato. Più recente è la definizione formulata da Noorian (2009), secondo la quale la personalizzazione dello spazio si riferisce alla scelta intenzionale di decorarlo, apporvi ornamenti, modificarlo e riorganizzarlo secondo le preferenze personali, il concetto è comunque molto simile a quello formulato da Sundstrom nel 1986. La personalizzazione può essere inoltre realizzata sia da un individuo che da un gruppo, per esprimere l’identità individuale o appunto, di gruppo. A tale proposito è interessante distinguere tre diversi livelli di personalizzazione (Noorian, 2009; Wells, 2000):

  • può essere realizzata dagli individui sul proprio spazio personale;
  • può essere realizzata da gruppi sullo spazio collettivo, per esempio nell’ufficio condiviso o rispetto alle attrezzature comuni;
  • può essere realizzata su posti o oggetti posseduti sia permanentemente, come un’auto o un computer, sia temporaneamente come il libro della biblioteca.

Nella maggior parte dei casi comunque, come anche in questa ricerca, l’attenzione viene focalizzata soprattutto sulla personalizzazione individuale del proprio spazio di lavoro. Noorian (2009) propone anche un’altra classificazione, relativa alle diverse modalità attraverso cui si può personalizzare uno spazio:

  • disporre oggetti personali nell’ambiente come piante, foto, diplomi;
  • modificare l’arredamento in modo che lo spazio risulti più confortevole (es. spostare la scrivania o cambiare la sedia);
  • aggiungere o togliere oggetti fisici dallo spazio personale (es. apporre una lampada da tavolo per migliorare l’illuminazione della scrivania oppure eliminare un pannello per creare maggiore apertura).

A tale proposito, Milne e Perkins (2017) sottolineano la distinzione tra il concetto di personalization e quello di customization, in realtà la differenza è molto sottile e richiama una distinzione che ha origine prevalentemente in ambito virtuale e che si può tradurre nell’ambiente fisico in questi termini: volendo fare degli esempi, possiamo dire che con il concetto di personalization si indica la possibilità di scegliere la postazione che si adatta meglio alle caratteristiche di personalità e di portarvi oggetti personali, mentre per customization si intende più che altro il livello di controllo e di autonomia nel gestire il proprio spazio e le attrezzature a disposizione,  quindi ad esempio poter regolare la luce, la seduta, lo schermo del pc e l’altezza della scrivania. In questa ricerca tuttavia si parlerà più semplicemente di personalizzazione intesa come concetto comprensivo di entrambi gli aspetti, facendo fede alle definizioni di Sundstrom (1986) e Noorian (2009). Non tralasceremo comunque di occuparci nello specifico dell’aspetto relativo al grado di controllo e di autonomia nel gestire lo spazio e le attrezzature – quello che appunto sarebbe più vicino al concetto di customization.

Come riportato nelle ricerche esaminate da Noorian (2009), la personalizzazione dello spazio sarebbe in grado di prevenire lo stress correlato al lavoro, di favorire l’espressione della propria identità, il benessere e  la soddisfazione sia per l’ambiente di lavoro che per il lavoro in sé e per sé. Inoltre sarebbe emersa anche un’associazione positiva  tra la personalizzazione e l’organizational commitment (Wells, Thelen, & Ruark, 2007). Ma in che termini la personalizzazione riuscirebbe a favorire il benessere? Come sostenuto da Noorian (2009): «generalmente la personalizzazione dello spazio è considerata come un comportamento territoriale che influisce sul benessere della persona in modi diversi» (p.116) come:

  1. Proteggere l’utente dalle conseguenze psicofisiologiche negative derivanti dalla scarsa regolamentazione della privacy, come ad esempio malattia, stress e ansia.
  2. Permettere ad una persona di esprimere le proprie emozioni e la propria personalità (attraverso la personalizzazione dello spazio) con benefici a livello di benessere generale;
  3. Migliorare la sensazione di controllo personale sullo spazio, così da aumentare la soddisfazione lavorativa e ridurre lo stress.

Se è vero che la personalizzazione dello spazio salvaguarda i dipendenti da conseguenze negative a livello fisico, fisiologico e psicologico, allora viene da chiedersi se sia in grado di influenzare positivamente questi aspetti.

Gli studi esaminati da Wells (2000) suggeriscono la possibilità che la personalizzazione favorisca il benessere per varie ragioni:

  • in quanto rappresenta una forma di espressione delle emozioni,
  • poiché serve a far sentire i lavoratori più “umani” anziché dei “criceti nella ruota”,
  • perché ricorda la vita al di fuori dell’ufficio,
  • perché aiuta a combattere lo stress inspirando un senso di rilassamento,
  • perché conferisce un senso di controllo personale,
  • perché semplicemente rende lo spazio più gradevole,
  • perché aiuta a sviluppare una forma di attaccamento affettivo all’ambiente di lavoro.

Oltre a ciò, come già illustrato, viene sottolineato il ruolo della personalizzazione nel favorire la soddisfazione per l’ambiente di lavoro, a sua volta associata alla soddisfazione per il lavoro, elemento fondamentale in quanto negativamente correlata ad ansia, depressione e sensazioni di inadeguatezza. In effetti la soddisfazione per il lavoro risulta essere correlata positivamente con la salute fisica, tanto che sembra essere il principale indicatore dell’aspettativa di vita delle persone (Wells, 2000). Parallelamente a questo punto di vista, Steele (1986) afferma che le organizzazioni che non consentono ai dipendenti di personalizzare il proprio spazio di lavoro danno loro la sensazione  che  l’assenza di una loro traccia fisica simboleggi  l’assenza della loro influenza nell’organizzazione. Nello suo studio Wells (2000) propone un interessante modello (riportato in figura 3), supportato anche dai risultati, della relazione tra personalizzazione, soddisfazione ambientale e lavorativa, benessere e genere, ipotizzando che la personalizzazione sia direttamente associata alla soddisfazione ambientale,  che sarebbe  correlata con la soddisfazione lavorativa, a sua volta in relazione con il benessere.

Figura 3. Modello delle relazioni tra personalizzazione, genere, benessere degli  impiegati e benessere dell’organizzazione. (da Wells, 2000)

Per quanto riguarda il genere, secondo l’autrice vi sarebbero delle differenze tra uomini e donne nella tendenza a personalizzare il proprio spazio, ipotesi sostenuta anche da Noorian (2009). Dalla ricerca di Noorian (2009) è infatti emerso che, come maschi e femmine si differenziano negli stili comunicativi, così avrebbero modalità di personalizzazione differenti: le donne tenderebbero a personalizzare il loro spazio per lo più con oggetti estetici, come piante, fiori, foto, oggetti personali etc., mentre gli uomini preferirebbero apporvi oggetti che simboleggiano i loro traguardi ed il loro status. Sia maschi che femmine sarebbero invece d’accordo circa l’importanza di personalizzare il proprio spazio. La ricerca di Wells (2000) suggerisce inoltre che le differenze potrebbero riguardare anche gli effetti della personalizzazione sul benessere: nonostante la letteratura riportata dall’autrice non fosse a supporto di questa ipotesi – per lo più a causa dell’esiguità di ricerche su questo tema –  il suo studio ha rivelato il contrario per quanto riguarda le informazioni emerse dalle interviste, tutte le donne intervistate concordavano infatti circa l’importanza della personalizzazione del proprio spazio per il proprio benessere – una donna ha affermato: “`si, perché quegli oggetti sono parte di me, e mi permettono di esprimere la mia identità”- mentre solo alcuni degli uomini intervistati erano della stessa opinione – un uomo ha detto: “forse, immagino. In realtà non saprei come rispondere a questa domanda”. Tra le possibili spiegazioni di questo fenomeno vi è il fatto che le donne avrebbero un maggiore bisogno di affiliazione, perciò, esprimendo la propria individualità nello spazio, si sentirebbero più aperte alla socialità; o ancora potrebbe darsi che percepiscano l’ambiente lavorativo come invaso da “un’aura maschile”, personalizzandolo dunque svilupperebbero un maggiore senso di appartenenza (Wells, 2000).

 Altri aspetti che sono stati esaminati rispetto alla workspace personalization riguardano la personalità, in una loro ricerca Wells e Thelen (2002) hanno infatti deciso di indagare la relazione tra la personalizzazione del proprio spazio di lavoro e la personalità degli individui secondo i costrutti del “Big Five”. I risultati hanno tuttavia rivelato una relazione soltanto indiretta tra le caratteristiche di personalità e la personalizzazione dello spazio, che invece risulta principalmente predetta dalla “politica” dell’organizzazione rispetto alla personalizzazione e dallo status del lavoratore. Più esattamente i dati hanno mostrato che il 90% dei partecipanti ha personalizzato il proprio spazio di lavoro in qualche modo, più spesso attraverso oggetti legati alle relazioni personali con famiglia e amici, oggetti artistici, apparecchi per ascoltare la musica, ricordini e chincaglierie, piante, libri e simboli relativi ai propri successi e traguardi; meno frequenti sono invece oggetti associati a partner e colleghi, animali, sport e hobbies. Rispetto alla personalità è emerso che le persone estroverse e quelle aperte all’esperienza in generale personalizzano il proprio spazio più rispetto alle persone introverse e a quelle chiuse all’esperienza. Per quanto riguarda le caratteristiche degli impiegati osservati, un fattore chiave è risultato essere lo status: gli impiegati di status elevato sono quelli che personalizzano di più, che guadagnano di più e che hanno un proprio ufficio privato. Infine è emerso che la relazione fra la personalità e la personalizzazione dello spazio è mediata dalle caratteristiche degli impiegati (status, spazio di lavoro, ruolo  e ore lavorative). La personalità è infatti significativamente associata  con le caratteristiche degli impiegati, a loro volta significativamente associate alla personalizzazione dello spazio, ma non vi è una relazione diretta significativa tra la personalità dei partecipanti e la personalizzazione dello spazio. Ciò dimostra che non si dovrebbero fare supposizioni circa la personalità degli individui sulla base di come personalizzano il proprio spazio. La personalizzazione dello spazio risulterebbe piuttosto in funzione della situazione dell’individuo all’interno dell’organizzazione in termini di status e di ambiente di lavoro. La personalità da sola, quindi, difficilmente sarebbe in grado di predire il comportamento, ma sarebbe piuttosto la situazione contestuale ad influenzare i comportamenti e il grado con cui una persona è portata ad esprimere la propria personalità attraverso la personalizzazione. Tra le caratteristiche della situazione, oltre allo status, risulta determinante il tipo di ufficio in cui si lavora: la tendenza a personalizzare è infatti maggiore nei casi in cui si abbia un proprio ufficio privato rispetto ai casi di ufficio condiviso con altre persone (Wells e Thelen, 2002). Questi risultati sono in linea con quanto emerso in un precedente studio condotto da Konar e Sundstrom (1986) che ha mostrato come la personalizzazione dello spazio di lavoro sia un tipo di “status marker”, infatti i lavoratori di status elevato tendevano a personalizzare lo spazio in misura maggiore rispetto ai lavoratori di basso status.

Nonostante le ricerche sottolineino gli effetti positivi della personalizzazione, vi sono comunque dirigenti e manager che continuano a ritenerla una causa di disordine dello spazio di lavoro, quando invece l’ordine tende ad essere considerato un fattore importante per una maggiore produttività. Tuttavia risulta che, anche in casi in cui la personalizzazione è vietata, i lavoratori non rinunciano comunque a piccole forme di personalizzazione; ciò suggerisce che le persone abbiano un forte bisogno psicologico di personalizzare il proprio spazio. Per evitare che l’area risulti caotica potrebbe essere utile allora concedere maggiore spazio a ciascun individuo, in modo che sia sufficiente per personalizzarlo e mantenerlo allo stesso tempo ordinato  (Noorian, 2009). Ed Holder, nel 1999, aveva trovato che le persone sono più propense a personalizzare il proprio spazio di lavoro quando hanno un’ esperienza sia lavorativa che interpersonale positiva, lo spazio personale diventerebbe così un mezzo per esprimere la propria identità e il proprio status nella gerarchia organizzativa. Al contrario, se viene loro impedito, questo potrebbe danneggiare la loro crescita professionale ed il loro spirito di iniziativa (in Noorian, 2009).

 


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli


 

Elementi naturali ed illuminazione

Elementi naturali ed illuminazione

 

Elementi naturali ed illuminazione

 

Una nota ricerca di Ulrich (1984), condotta su pazienti operati di colecistectomia, ha messo chiaramente in luce quanto sia importante avere una finestra che si affacci su un paesaggio naturale per il recupero del benessere psicologico e fisico.

Nello studio metà dei pazienti  fu collocata in camere con vista su di un parco, mentre l’altra metà fu collocata in stanze con vista su un muro di mattoni: i pazienti con vista sul parco tendevano ad avere significativamente meno complicazioni postoperatorie, chiedevano meno antidolorifici e, alla fine, ebbero bisogno di meno giorni di degenza. Questi risultati, poi confermati da ricerche successive, testimoniano le proprietà rigeneranti dell’ambiente naturale nel recupero dallo stress psicofisiologico (in Baroni, 2012). Nella ricerca di Beil e Hanes (2013) ad esempio, venivano confrontati i livelli di stress degli individui dopo aver trascorso alcuni minuti all’interno di 4 diversi tipi di setting: “Very Natural”, “Mostly Natural”, “Mostly Built”, “Very Built”. Dai risultati è emerso che vi era una differenza significativa nello stress percepito dagli individui dopo aver trascorso del tempo (20 minuti) nel setting naturale (“Very natural” setting), rispetto ad averlo trascorso all’interno del setting prevalentemente urbano (“Mostly built” setting). In un’altra ricerca,  Ulrich e colleghi (1991) avevano sottoposto i partecipanti ad uno stimolo stressante – consistente in un film dai contenuti molto violenti – dopodiché li avevano divisi in 6 gruppi ed a ciascuno dei gruppi avevano mostrato un altro filmato: due filmati mostravano immagini di ambienti naturali, mentre gli altri quattro filmati scene di ambienti urbani. In questa fase vennero registrati alcuni parametri fisiologici e, successivamente, venne loro somministrato un questionario relativo alle emozioni che avevano provato. Dai risultati si era visto che la visione di ambienti naturali, oltre ad aver suscitato emozioni positive,  aveva provocato anche un più rapido e completo recupero dalle alterazioni fisiologiche indotte dallo stressor. In questa stessa ricerca gli autori notarono che ad aver beneficiato dell’esposizione ad ambienti “restorative” vi era anche l’attenzione dei partecipanti. Studi successivi si sono così concentrati proprio sul recupero dalla fatica attenzionale, notando una differenza tra quando il processo cognitivo avviene in modo volontario e quando invece ci si trova ad osservare un ambiente naturale (Baroni, 2012). A tale proposito Kaplan e Kaplan (1989) hanno formulato una teoria (“teoria della restorativeness) basata proprio sulla differenza tra l’attenzione diretta e volontaria, usata tipicamente nei compiti attentivi della vita quotidiana, e l’attenzione involontaria, che appunto si orienta in maniera quasi automatica, definita “fascination” proprio per suggerire l’azione attrattiva che l’ambiente naturale avrebbe sulla nostra attenzione. Secondo questa teoria dunque, la natura sarebbe in grado di offrire ristoro dall’affaticamento provocato dall’uso prolungato dell’attenzione volontaria.

Concentriamoci allora sui luoghi di lavoro: se è vero infatti che spesso le persone lavorano in condizioni di stress e affaticamento cognitivo, allora potrebbe essere utile investire in strutture che favoriscano il contatto con elementi naturali. Potremmo infatti pensare che  faccia la differenza passare la giornata dentro un ufficio affacciato su un parco piuttosto che trascorrerla in una stanza rivolta verso una zona industriale. Lo studio condotto da Largo-Wight, Chen, Dodd e Weiler (2011) in ambiente di lavoro ha effettivamente confermato che all’aumentare del contatto con la natura si riducono lo stress e le lamentele relative allo stato di salute generale. Gli autori hanno anche proposto varie strategie per incrementare il contatto con la natura, ad esempio arredare l’ufficio con piante, preferire stanze con finestre che si affaccino su spazi verdi anziché palazzi e favorire le pause all’aperto.

In linea con queste osservazioni, diversi studi hanno rivelato che non solo il contatto con la natura, ma anche la presenza di elementi di design che imitano le forme naturali (biophilic design) hanno un impatto positivo sulla performance lavorativa, la concentrazione, il benessere e la salute, ed inoltre sarebbero anche in grado di ridurre ansia e stress (An, Colarelli, Brien, e Boyajian, 2016; Cooper, 2014).

Anche per quanto riguarda la luce, si è scoperto che più “naturale” è la luce più aumenta il benessere dei lavoratori, ecco perché quella proveniente dalle finestre risulta essere la più gradita (Baroni, 2012). An, Colarelli, Brien e Boyajian (2016) hanno per l’appunto riscontrato che sia il contatto con elementi naturali (inteso prevalentemente come “vista” di ambiente naturale dalla finestra e attraverso foto e dipinti) sia la presenza di luce naturale sono associati a soddisfazione lavorativa e ad organizational commitment. Un risultato inaspettato per gli autori è stato quello relativo alla relazione positiva tra la luce solare e l’ansia. Una possibile spiegazione di questa relazione può risalire al fatto che la luce diretta del sole ha un effetto stimolante e quindi potrebbe suscitare uno stato di allerta e vitalità, dall’altro lato, potrebbe essere che le persone che soffrono maggiormente di uno stato d’ansia cerchino di passare più tempo all’aperto per trovare ristoro.

Un’altra ricerca ha invece dimostrato che coloro che lavorano in uffici con finestre tendono a dormire di più e meglio rispetto a coloro che lavorano in uffici senza finestre; i primi sono risultati anche più esposti alla luce durante l’orario di lavoro rispetto ai secondi. Queste differenze si riflettevano poi anche sulla salute fisica e sulla vitalità degli individui (Boubekri, Cheung, Reid, Wang, e Zee, 2014).


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli


 

Territorialita e percezioni di affollamento

Territorialità e percezioni di affollamento

 

 

Mentre lo spazio personale si muove con la persona, il territorio e? un luogo fisso. Come sostenuto da Baroni (2012) :«nella definizione di territorialita? entrano sia i legami affettivi e gli scopi cognitivi dell’individuo, sia i suoi comportamenti per cercare di dominare una parte del territorio» (p.123). Secondo Altman (1975) il comportamento territoriale e? un meccanismo che regola le interazioni me/l’altro che implica la personalizzazione o la marcatura di un luogo o di un oggetto e la segnalazione che tale luogo o oggetto e? “di proprieta?” di una persona o di un gruppo. La personalizzazione e la “proprieta?” vengono realizzate per regolare l’interazione sociale e per favorire la soddisfazione di ragioni sociali e fisiche (in Noorian, 2009). Una delle funzioni principali della territorialita? e? dunque quella di permettere la privacy, ovvero una sorta di spazio oggettivo a cui possono accedere l’individuo, da solo, oppure un gruppo molto ristretto di persone. L’invasione di tale spazio potrebbe portare alla messa in atto di comportamenti difensivi. La privacy risponde a un ampio numero di bisogni tipici di ciascun individuo: il bisogno di solitudine, di differenziarsi dal gruppo, di nascondersi, di non essere osservati, di ricavarsi un’intimita? preferenziale tra pochi individui (Baroni, 2012). Secondo Altman (1975) esistono tre tipi di territori: quelli primari, come la nostra casa o la nostra camera; quelli secondari, accessibili comunque ad un numero limitato di persone, come la nostra scuola o la palestra in cui siamo iscritti; e quelli pubblici, come treni e centri commerciali.

Le strategie che utilizziamo per segnalare i confini del nostro territorio sono molto variabili e creative, si passa dalle siepi, staccionate e cartelli di divieto, fino alla giacca appoggiata nel sedile dell’autobus; infine, oggetti piu? personali, come ad esempio le fotografie, possono essere utilizzati per segnalare un’occupazione permanente come nel caso della nostra camera o della scrivania dell’ufficio.

La riduzione del proprio spazio personale non e? sempre dovuta a persone invadenti che vogliono entrare forzatamente nel nostro spazio, ma vi sono luoghi in cui le condizioni ci obbligano a trovarci in mezzo alla folla. La sensazione di affollamento e? molto spesso una grave fonte di stress, tanto piu? se ad essere invaso e? un territorio primario o secondario, piuttosto che un territorio terziario, dove siamo gia? piu? preparati ad incontrare la folla in quanto si tratta prevalentemente di luoghi pubblici.

Quando parliamo di densita? facciamo in realta? riferimento a due concetti distinti seppur molto simili: la densita? sociale e la densita? spaziale. Mentre la prima si riferisce al numero di individui che occupano un certo spazio, la seconda indica la quantita? di spazio utilizzabile per ciascun individuo, in altre parole, manipolando la densita? sociale si aumenta il numero delle persone mantenendo costante l’area, manipolando invece la densita? spaziale viene modificata l’area mantenendo costante la numerosita? del gruppo di persone (Costa, 2009; Samani, 2015). Gli studi di McAndrew (1993) sulla densita? ambientale temporanea – qui intesa come quantita? di spazio disponibile per ciascun individuo – hanno dimostrato che minore e? lo spazio disponibile per ciascun individuo, maggiore e? l’attivazione fisiologica, con conseguente connotazione sgradevole e influenza negativa sulla capacita? di svolgere compiti cognitivi. Non solo, renderebbe piu? difficile anche sopportare le frustrazioni, con successivo aumento del rischio di comportamenti aggressivi. A partire da tali osservazioni, ci sembra evidente quanto sia importante che il luogo di lavoro non venga percepito come uno spazio troppo affollato.

La percezione di affollamento e la mancanza di privacy e di possibilita? di concentrarsi sono infatti associati anche a sentimenti di insoddisfazione verso l’ufficio stesso, inteso come ambiente (Oldham & Rotchford, 1983).

Sono state proposte diverse teorie utili a spiegare il motivo del disagio relativo alla percezione di affollamento (Baroni, 2012):

  • Il soggetto si sentirebbe sopraffatto e incapace di affrontare la situazione a causa di una sovraccarico di informazioni;
  • L’affollamento provocherebbe un’attivazione fisiologica eccessiva tale da suscitare una sensazione di incertezza e ambiguita? rispetto alle proprie emozioni, come aggressivita? e attrazione, oltre a difficolta? nei compiti cognitivi;
  • L’affollamento funzionerebbe come una sorta di amplificatore in grado di estremizzare sia le sensazioni di piacere che di dispiacere provocate nell’individuo dalla situazione;
  • La difficolta? di comunicare e l’interferenza degli estranei impedirebbe all’individuo di raggiungere i propri scopi generando una sensazione di restrizione dei comportamenti possibili.

Oltre alle restrizioni gia? citate – alla liberta? dell’individuo e al controllo sull’ambiente – bisogna pero? aggiungere anche il fatto che, in condizioni di affollamento, viene minacciata innanzitutto la privacy, cioe? la possibilita? di ritirarsi in uno spazio protetto.

Alla luce di quanto esaminato possiamo dedurre che, se da un lato condividere l’ufficio con un numero elevato di persone potrebbe favorire le opportunita? di socializzazione e di comunicazione, dall’altro sono evidenti anche i disagi che possono emergere, con conseguenze anche a livello di concentrazione e di soddisfazione lavorativa.

 


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli


 

Office Design e spazio personale

Office Design e spazio personale

 

La postazione di lavoro e l’arredamento giocano un ruolo molto importante in quanto sono legati alla privacy ed alla possibilità di comunicare con i colleghi. Come sostiene Baroni (2012) :«dalla disposizione dei posti a sedere un nuovo arrivato può capire di che tipo di riunione si tratterà; dalla disposizione e dall’ingombro dell’arredamento capirà se può sedersi e rilassarsi o se deve parlare in piedi con la porta aperta; il fatto che i posti a sedere siano fissi o mobili può favorire o scoraggiare le interazioni, ma anche dare informazioni sulla flessibilità delle funzioni di quell’ufficio e dei suoi occupanti» (p.136). In molti posti inoltre, avere un ufficio individuale, come pure il lusso e la qualità dei materiali di cui sono fatti i mobili, sono indicatori di status symbol (Baroni, 2012). Come ribadito anche da Noorian (2009), gli uffici, che sono ormai da diversi anni i luoghi di lavoro prevalenti, hanno il potere di influenzare il benessere individuale dal punto di vista fisico, psicologico e sociale. In questo gioca un ruolo fondamentale il grado con cui il design dell’ufficio riesce ad integrare i bisogni funzionali con quelli dell’individuo. A seguire proponiamo quindi un breve excursus sui cambiamenti avvenuti nel corso del tempo rispetto all’office design.

Dagli inizi del ‘900 ad oggi il design degli uffici ha subito molte trasformazioni in risposta ai cambiamenti economici e sociali. Fino all’800 infatti non vi era una chiara distinzione tra lo spazio di lavoro e quello residenziale, molto spesso capitava che piccole stanze della casa venissero adibite a spazi di lavoro (“honeycomb”). Solo con lo sviluppo economico e commerciale del XX secolo si è fatto strada l’ufficio vero e proprio “closed plan office”, inteso all’epoca come una o più stanze, chiuse sulle quattro pareti, ospitanti una o più persone al loro interno (Noorian, 2009). E’ con l’entrata in scena di Frederik Winslow Taylor che la tendenza inizia a cambiare, egli sviluppò infatti il concetto di “scientific management”, traducibile nei termini di una strategia di “assemblaggio” dei lavoratori all’interno di ampie stanze, solitamente piuttosto affollate. Nella visione taylorista lo spazio di lavoro ottimale per la massimizzazione dell’efficienza e della produttività consisteva infatti un ampio spazio aperto (“open space office”) in cui posizionare quante più persone possibile, rimuovendo muri e spazi divisori cosi? da velocizzare la trasmissione di documenti e compiti (Fig.1).

 

Figura 1. Esempio di “open plan office”, detto anche “pool office” (da Noorian, 2009).

In queste condizioni, l’ambiente lavorativo degli uffici era molto simile alla catena di montaggio delle fabbriche (Noorian, 2009). Le cose iniziano a cambiare intorno agli anni ’60, quando si diffonde l’idea che si debba porre maggiore attenzione al comfort ed alla felicità dei lavoratori, traducibile in una maggiore flessibilità dell’arredamento, con possibilità di spostare le scrivanie per facilitare la comunicazione ed utilizzare piante ed altre oggetti per ricavarsi uno spazio piu? personale. In linea con questa visione si diffonde l’ “Active Office System”, un sistema che cerca di andare incontro alle necessita? specifiche dei lavoratori in relazione ai vari compiti da svolgere, con lo scopo di conferire loro maggiore controllo sullo spazio di lavoro. Si diffonde cosi? l’uso di pannelli mobili che pero?, ben presto, assumono la forma di cubicoli squadrati piuttosto rigidi, come conseguenza di un rinnovato focus sull’efficienza economica (intorno agli anni ’70).

Negli anni ’80 la mentalità cambia di nuovo e le nuove generazioni si mostrano sempre più attente al bilanciamento vita-lavoro. Negli anni successivi, con il rapido diffondersi delle nuove tecnologie – personal pc, smartphone – l’approccio allo spazio di lavoro si caratterizza per una sempre maggiore ricerca di flessibilità, che si realizza grazie alla possibilità di lavorare in remoto, ad esempio mentre si sta comodamente seduti in un bar o in casa propria. Le nuove generazioni scardinano la struttura dell’ufficio gerarchicamente suddiviso a favore di una maggiore interconnessione tra i vari livelli della gerarchia organizzativa. La tendenza piu? recente si muove quindi verso spazi di lavoro sempre piu? accoglienti, colorati e stimolanti (Milne e Perkins, 2017).

 

Figura 2. Office Design Progression (da Milne e Perkins, 2017)

Ultimamente si è diffuso un utilizzo delle postazioni di lavoro particolarmente aperto e flessibile, funzionale al tipo di compito che di giorno in giorno deve essere svolto (Activity Based Workplaces – ABW), a discapito delle tradizionali postazioni fisse di lavoro. Esempi di queste nuove strategie – che riducono i costi operativi e la fatica di riorganizzare lo spazio in seguito al turnover dei lavoratori – sono: l’hot-desking che riserva un certo numero di scrivanie e tecnologie (non assegnate) ai lavoratori che devono muoversi tra più uffici; l’hoteling che prevede invece la possibilità di prenotare in anticipo una certa postazione in base alle esigenze che via via si presentano; il free address, adatto a quei lavoratori che non hanno proprio la necessità di essere fisicamente presenti nel luogo di lavoro. Tra le critiche che vengono mosse agli ABWs vi è il fatto di adattarsi bene alle persone più estroverse e propense alla socializzazione mentre sarebbero meno adatte alle persone più introverse. Altra critica è relativa all’impossibilità di personalizzare il proprio spazio di lavoro, aspetto non trascurabile visto che risulterebbe associato ad una perdita del senso di identità (Milne e Perkins, 2017).

Nonostante le trasformazioni intercorse, gli uffici open-space continuano ad essere ancora piuttosto diffusi, sono infatti innegabili alcuni dei vantaggi ad essi associati, quali costi contenuti e la possibilità di contenere un numero elevato di lavoratori in uno spazio relativamente ridotto, in più sono emersi degli effetti significativi nell’aumento della comunicazione e della socievolezza di gruppo (Kamarulzaman et al., 2011). Anche Oldham e Brass (1979) hanno rilevato maggiori opportunità di fare amicizia con i colleghi e di interagire con i superiori negli uffici open-space rispetto agli uffici convenzionali. Dall’altro lato sono però rilevanti le lamentele dei lavoratori relative alla rumorosità ed alla mancanza di privacy (Noorian, 2009). Secondo Altman (1975) la privacy può essere definita come una forma di controllo selettivo dell’accesso alla propria persona o al proprio gruppo, ciò significa avere la possibilità di gestire gli stimoli circostanti, le informazioni rispetto al se? e le interazioni sociali. Perciò una privacy ottimale non corrisponde a totale solitudine ma piuttosto alla possibilità di scegliere se isolarsi oppure stare in compagnia (Noorian, 2009). Vi sono due tipi di privacy che vengono minacciati negli open-office, quella acustica e quella visiva: la privacy acustica è limitata in quanto la comunicazione confidenziale risulta più complicata in questi ambienti, quella visiva è invece relativa al fatto che gli individui possono vedere ed essere visti tutto il tempo dalle persone che li circondano, il che può provocare un senso di disagio (Samani, 2015). Quello che emerge dalle ricerche rivela infatti che le persone che percepiscono l’elevato numero di interazioni come invadenti il proprio spazio personale sperimentano un senso di affollamento e perdita di privacy, che può sfociare poi in percezioni di insoddisfazione.

Diversi studi hanno così dimostrato che gli uffici open-space sono associati ad una riduzione della soddisfazione lavorativa, della motivazione e della percezione di privacy. In particolare sembra che siano le “chiacchiere insignificanti” a causare maggiore stress e distrazione. A questi aspetti si aggiunge anche un aumento dei problemi di salute, soprattutto mal di testa e infezioni respiratorie (Kamarulzaman et al., 2011; Oldham e Rotchford, 1983; Sundstrom, Burt e Kamp, 1980).

Nella progettazione dello spazio di lavoro è perciò importante permettere a ciascun individuo di avere controllo sullo scambio di interazioni, in modo da permettergli di raggiungere il livello di privacy necessario a generare una sensazione di controllo sullo spazio individuale, avere la propria privacy aiuta infatti anche a definire l’identità personale a livello spaziale. L’ambiente di lavoro, in sintesi, dovrebbe permettere agli individui di passare facilmente dalla solitudine alla condivisione sociale (Noorian, 2009).

Un altro aspetto che potrebbe infastidire i lavoratori viene suggerito da Cohen e Cohen (1983), i quali evidenziano la necessità delle persone di sentirsi protette avendo le spalle coperte da muri, pannelli o altri elementi, perciò uno dei problemi associati agli uffici open-space potrebbe essere anche il fatto che non permettono ai lavoratori di ricavarsi uno spazio che susciti un senso di protezione.

Dai risultati delle ricerche citate possiamo dunque dedurre che il rispetto dello spazio personale sia un fattore significativo per il benessere dell’individuo. Ma cosa si intende esattamente per “spazio personale”? Una metafora molto comune lo paragona ad una grande bolla di sapone che delinea un confine sottilissimo ed invisibile attorno a ciascun individuo, non è necessariamente di forma sferica, non è neppure detto che si estenda ugualmente in tutte le direzioni, esso oltretutto può variare nelle dimensioni in base alla situazione ed alle persone coinvolte (Baroni, 2012; Noorian, 2009). Una variabile in grado di influenzare la dimensione dello spazio personale risulta essere lo status individuale, sembra infatti che lo spazio personale aumenti al crescere dell’età, del senso di sicurezza e di indipendenza, ma anche della sensazione di vulnerabilità e di paura (Noorian, 2009). Secondo McAndrew (1993) e Baroni (2012) assolverebbe a due funzioni fondamentali:

  1. l’autoprotezione e
  2. la comunicazione e regolazione dell’intimità.

L’autoprotezione riguarda possibili minacce fisiche o psicologiche provenienti dall’ambiente: quando la distanza interpersonale si riduce eccessivamente insorgono infatti sensazioni di ansia e disagio. Così accade che lo spazio vuoto che mettiamo intorno a noi aumenta dopo aver subito una valutazione negativa o un comportamento aggressivo. Un esempio molto comune di comportamento finalizzato ad evitare la vicinanza di altre persone è quello di evitare di sedersi su una panchina solo perchè vi è seduto qualcun altro sul lato opposto.

Secondo la distinzione classica di Hall (1966) vi sono quattro tipi principali di distanza tra le persone: la distanza intima (tra i 15 e i 45 cm), quella usata nei rapporti più stretti; la distanza personale (tra i 45 e i 120 cm), tipica delle normali conversazioni; la distanza sociale (tra i 120 e i 360 cm), visibile nelle interazioni più formali, come nei luoghi di lavoro; e la distanza pubblica (tra i 3 e i 6 m), che si realizza per lo più tra sconosciuti quando non c’è interesse ad interagire. Tutte queste misure hanno comunque lo scopo finale di, da un lato, difendere lo spazio dell’individuo, dall’altro, fermarlo prima che invada lo spazio di un altro (Baroni, 2012). Quello che emerge dall’analisi di Hall è che innanzitutto le distanze non sono universali, nel senso che varia molto in base alla cultura quale comportamento è considerato accettabile al variare della distanza, ed inoltre quello che conta non è tanto la distanza dal punto di vista fisico quanto la possibilità di comunicazione interpersonale che offre. Dunque la vicinanza può essere pensata come un meccanismo di comunicazione nello spazio (Noorian, 2009).

 


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli


 

Variabili influenti la qualità dell’ambiente di lavoro

Variabili influenti la qualità dell’ambiente di lavoro

 

 

Secondo Baroni (2012) gli aspetti dell’ambiente fisico più rilevanti per la soddisfazione lavorativa riguardano: rumorosità, illuminazione, temperatura, qualità dell’aria, colore, arredamento, privacy e presenza di status symbol. Anche dalla precedente ricerca di Veitch e colleghi (2007) era emerso che la soddisfazione per l’ambiente di lavoro, inteso dal punto di vista fisico, era influenzata dalla soddisfazione rispetto ad elementi quali: il rumore, la luce, la qualità dell’aria, la temperatura, la vista esterna, le dimensioni dello spazio di lavoro, la privacy e l’apparenza estetica. A questi aspetti Bluyssen e colleghi hanno aggiunto anche il grado di controllo sullo spazio interno e la pulizia degli ambienti come fattori in grado di influenzare la percezione di comfort dei lavoratori (in Samani, 2015). Di seguito uno sguardo più ravvicinato a questi aspetti.

 Per quanto riguarda la rumorosità, ad essa viene spesso associata una percezione di  disagio che si evidenzia nella difficoltà di concentrazione: «le cause più frequenti sono il rumore delle macchine, le voci degli altri lavoratori e gli squilli del telefono. In sostanza, – sostiene Baroni (2012) – l’effetto di disturbo del rumore agisce impedendoci di dare la corretta priorità agli stimoli sonori che sentiamo»(p.135). E’ possibile distinguere due tipi principali di rumore caratteristici degli ambienti di lavoro: un tipo deriva dai macchinari, sistemi di ventilazioni ed altri strumenti tecnici ed è solitamente continuo, con ritmo costante, per questo, a livelli normali, non provoca generalmente molto disturbo; l’altro tipo di rumore è invece più incoerente e spesso dunque anche più fastidioso, include più informazioni e deriva ad esempio dalle conversazioni tra colleghi, dal suono prodotto dalla tastiera battuta o da altri spostamenti che appunto si caratterizzano per la discontinuità e che sono tipici degli uffici openplan (di cui ci occuperemo nel prossimo paragrafo), ma non solo (Samani, 2015).  Diverse ricerche sono state condotte per esaminare le conseguenze della rumorosità negli ambienti di lavoro, la maggior parte concordi circa la connotazione negativa di tali effetti.

In linea con questa tendenza, Evans e Johnson (2000) hanno rilevato non solo un’associazione tra elevata rumorosità e deficit nella motivazione ma anche una tendenza alla staticità posturale, che rappresenterebbe un fattore di rischio per lo sviluppo di disturbi muscoloscheletrici: dalla ricerca condotta emergeva infatti che i lavoratori esposti ad elevata rumorosità mancavano di fare gli adeguati aggiustamenti posturali durante periodi prolungati di lavoro al computer.

Nella stessa direzione vanno anche i risultati ottenuti da Tomei e colleghi (1995), i quali hanno registrato anomalie cardiache, con frequenza raddoppiata, nei lavoratori esposti ad alti livelli di rumorosità rispetto ai lavoratori esposti a bassi livelli di rumore.

Raffaello e Maass hanno deciso invece di approfondire la relazione tra il livello di rumorosità e variabili quali la soddisfazione rispetto all’ambiente, la soddisfazione per il lavoro, sintomi di stress e difficoltà nella comunicazione, immagine dell’azienda e attaccamento all’organizzazione. Nell’esperimento condotto sono state confrontate due aziende esposte entrambe ad elevati livelli di rumore nella fase di pre-test, dopodiché una delle due fabbriche è stata spostata in un’ altra sede con livelli molto più bassi di rumorosità, mentre la fabbrica di controllo è rimasta nella stessa sede. I risultati hanno confermato l’ipotesi secondo cui il cambiamento delle condizioni ambientali non solo ha influenzato il benessere fisiologico e psicologico dei lavoratori ma anche variabili organizzative rilevanti come l’immagine dell’azienda e l’attaccamento ad essa (Raffaello e Maass, 2002).

Anche la cattiva qualità dell’aria e la temperatura rientrano tra i principali fattori di disagio in ambito lavorativo, sembra infatti che una temperatura inadeguata, soprattutto se troppo calda, sia legata ad un aumento della distrazione e del numero di incidenti (Baroni, 2012). Uno dei principali problemi delle alte temperature è infatti quello di indurre letargia, che, oltre ad accrescere il tasso di incidenti, riduce in maniera significativa la produttività (Kamarulzaman, Saleh, Hashim, Hashim, e Abdul-Ghani, 2011).

 


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli


 

Ambiente di lavoro e benessere

Ambiente di lavoro e benessere

Foto di Free-Photos da Pixabay

 

“Se basta una stanza a modificare il nostro sentire, se la felicità può dipendere dal colore delle pareti o dalla forma di una porta, che cosa ci accadrà nella maggior parte dei luoghi che siamo costretti a guardare e ad abitare? Che cosa proveremo in una casa con finestre che ricordano quelle delle prigioni, con tappeti macchiati e tende di plastica?” (De Bottom, 2006, p.11).

 

La psicologia ambientale si occupa di studiare il comportamento umano e i pensieri ed affetti che lo determinano in relazione agli stimoli ambientali, inclusi sia quelli di natura fisica che sociale. Dal punto di vista applicativo questa disciplina si interessa ad esempio dell’ influenza che i luoghi abitativi, di studio, di cura e di lavoro hanno sul benessere psicofisico dell’individuo (Baroni, 2012).

Poichè gran parte del nostro tempo lo passiamo all’interno del luogo in cui lavoriamo, in alcuni casi carichi di tensione, ci sembra particolarmente importante che questo spazio risulti quanto più confortevole possibile.

 

In questa sede ci siamo perciò concentrati sull’analisi di vari fattori che caratterizzano la qualità dell’ambiente di lavoro, in particolare dal punto di vista fisico, con focus principale sulla possibilità di personalizzare il proprio spazio di lavoro in relazione a dimensioni quali commitment e desiderio di rimanere all’interno dell’organizzazione, identificazione con l’organizzazione, relazioni con i colleghi e superiori e soddisfazione sia nel lavoro che nella vita.

La soddisfazione per l’ambiente fisico risulta essere un indicatore chiave sia della performance che del benessere dei lavoratori (Samani, 2015). Lo studio di McGuire e McLaren (2009) sui lavoratori di un call centre dimostra non solo l’esistenza di una relazione tra l’ambiente fisico e il benessere dei lavoratori – valutato nei termini delle relazioni sociali e del grado di controllo, dell’autonomia e della partecipazione attiva al lavoro – ma anche che il benessere media la relazione tra l’ambiente fisico e il commitment dei lavoratori verso l’organizzazione per cui lavorano.

 

Prima di entrare nel merito della personalizzazione dello spazio, proponiamo uno sguardo generale a quelli che sono i fattori, prevalentemente fisici, caratterizzanti l’ambiente di lavoro. Anche nella nostra ricerca, infatti, abbiamo dedicato la prima parte del questionario all’analisi di questi aspetti, cosi? da avere una visione piu? completa di quelle che sono le condizioni di lavoro del nostro campione.

 

La personalizzazione del proprio spazio: Introduzione

La personalizzazione del proprio spazio: Introduzione

 

 

Foto di Pexels da Pixabay

Quanto è importante personalizzare il proprio spazio di lavoro?

La nostra ricerca è nata proprio dal desiderio di rispondere a questa domanda. A partire dall’idea che le persone abbiano bisogno di esprimere sé stesse nello spazio che le circonda, abbiamo voluto approfondire questo fenomeno all’interno dei luoghi di lavoro, spazi in cui ciascun individuo trascorre grande parte del proprio tempo; è nostro interesse perciò, capire se la possibilità di personalizzare il proprio spazio possa essere associata ad una migliore qualità del tempo trascorso al lavoro.

Obiettivo della psicologia ambientale è indagare come gli stimoli presenti nell’ambiente che ci circonda siano in grado di influenzare il comportamento e i pensieri delle persone (Baroni, 2012), noi abbiamo deciso ci concentrarci proprio sull’ambiente di lavoro perché si tratta di un luogo spesso carico di stress e tensione, volevamo dunque capire quali aspetti potrebbero migliorare l’esperienza delle persone in questo ambiente.

A partire dall’osservazione di scrivanie e uffici spesso arricchiti dalla presenza di foto, cartoline o altri oggetti non propriamente utili allo svolgimento del proprio lavoro, abbiamo voluto approfondire il motivo per cui le persone tendono a portare questi oggetti nel proprio ufficio. Siccome l’esperienza lavorativa è piuttosto complessa, abbiamo cercato di raccogliere informazioni circa diverse variabili in grado di influenzare questo tipo di esperienza.

Abbiamo perciò sviluppato un questionario da somministrare online  ad un campione di lavoratori che avesse una certa stabilità rispetto al luogo di lavoro, escludendo a priori persone che svolgessero mansioni che non prevedono uno spazio fisso di lavoro, come ad esempio il camionista, il rappresentante o l’hostess.

Siccome non abbiamo svolto un esperimento controllato, i nostri risultati non dicono nulla rispetto a relazioni di causa ed effetto, tuttavia abbiamo analizzato la presenza di correlazioni tra le dimensioni esaminate, confrontando i nostri dati con i risultati ottenuti in letteratura.

Le dimensioni che abbiamo esaminato riguardano la qualità dell’ambiente fisico di lavoro, il grado di personalizzazione e di controllo sul proprio spazio, le motivazioni che spingono alla personalizzazione, il commitment e la prospettiva futura rispetto all’organizzazione, l’autonomia e il carico di lavoro, le relazioni con colleghi e superiori, l’identificazione con l’organizzazione e la soddisfazione per l’ambiente di lavoro – dal punto di vista fisico – ed in generale rispetto al proprio lavoro ed alla propria vita.

 


©  La personalizzazione del proprio spazio: una ricerca in ambito lavorativo – Dott.ssa Martina Mancinelli


 

Emozioni e Ambiente: come ci sentiamo nello spazio che viviamo

Emozioni e Ambiente: come ci sentiamo nello spazio che viviamo

 

Articolo tratto da: www.sinapsyche.it

 

Lo spazio in cui viviamo influenza tanto i nostri comportamenti quanto le nostre emozioni, tutti abbiamo fatto esperienza di quel senso di pace e serenità che ci dona fare una passeggiata in mezzo alla natura, oppure quella sensazione di energia e voglia di far festa che proviamo quando ci troviamo in uno chalet lungo la spiaggia circondati da tanti ombrelloni colorati e musica che sa di estate.

Per iniziare, diamo una rapida spolverata al concetto di emozione. Si tratta di uno stato che prevede la presenza di quattro componenti: una cognitiva, una affettiva, una fisiologica ed una comportamentale. Facciamo un esempio nel caso della paura, avremo una valutazione della situazione (componente cognitiva) come pericolosa -leone in avvicinamento! -, il desiderio di evitare tale pericolo (componente affettiva), l’aumento dei battiti cardiaci (componente fisiologica) e, non ultimo, il tentativo di fuggire (componente comportamentale). Le emozioni sono legate a comportamenti fondamentali per l’adattamento all’ambiente, come le risposte attacco-fuga, la ricerca di aiuto e la riproduzione, solo per fare alcuni esempi. Insieme all’esperienza soggettiva si ha anche la manifestazione esteriore dello stato vissuto, estremamente funzionale alla comunicazione ed allo scambio interpersonale.

Le emozioni classicamente riconosciute sono sei: paura, gioia, tristezza, disgusto, rabbia e sorpresa,

a cui si aggiungono poi altre emozioni complesse come imbarazzo, disprezzo, gelosia e così via. Generalmente l’emozione prevede uno stato intenso e di breve durata che la distingue dai concetti di umore e stato d’animo, anche se, di fatto, non è sempre così semplice e netta la distinzione. In questa sede tuttavia parleremo di emozioni in senso lato, senza approfondire ulteriormente i presupposti teorici, che, seppur molto interessanti, richiederebbero molto spazio (Baroni, 2012).

Dopo questo breve chiarimento sul concetto di emozione, cerchiamo ora di applicarlo all’esperienza dello spazio e dell’ambiente. Secondo il modello di Russell e Lanius (1984) sarebbe possibile posizionare le varie etichette linguistiche attribuibili ad uno stimolo ambientale su un piano cartesiano, per intenderci, potete immaginare di porre sull’asse orizzontale la dimensione “spiacevole-piacevole” e sull’asse verticale invece “soporifero-attivante” e poi posizionare i vari aggettivi come: attivante, interessante, noioso, tetro, tranquillo, riposante e così via.

Russel & Lanius (1984)

Ancor più interessante, a mio parere, è il modello proposto da Stephen Kaplan, Rachel Kaplan e colleghi dove vengono considerate quattro dimensioni fondamentali per la valutazione affettiva di un luogo: coerenza, leggibilità, complessità e mistero. Da questo punto di vista, perché uno spazio risulti affettivamente positivo e piacevole dovrebbe soddisfare le condizioni di coerenza con i nostri schemi mentali, di comprensibilità e di facilità per l’orientamento, ed inoltre dovrebbe essere tanto complesso da stimolare la nostra curiosità e il nostro desiderio di esplorazione ma non troppo, col rischio di andare a scapito della leggibilità.

La sensazione di mistero stimolerebbe infatti il nostro desiderio di scoprire e di fare nuove conoscenze, permettendo così di soddisfare un piacere tanto universale quanto primitivo, quello di conoscere cose nuove.

Se guardiamo alla storia evolutiva dell’essere umano e dei luoghi che ha abitato possiamo riconoscere la tendenza a scegliere di stabilirsi generalmente in luoghi rialzati, in grado di favorire un’ampia visuale e, allo stesso tempo protetti. Osservando questi aspetti Appleton (1975) ha così formulato l’ipotesi secondo cui la preferenza per i luoghi dipenderebbe proprio da due componenti fondamentali: prospect (ampia visuale) e refuge (possibilità di nascondersi, di stare al sicuro). Potremmo in questo caso dedurre che le persone si sentano protette ed al sicuro quando si trovano in un ambiente con queste caratteristiche.

Immaginiamo ora di essere alla scoperta di una nuova città e, dopo una lunga passeggiata, ci fermiamo per sorseggiare uno spritz proprio nella piazza principale, quanto ci piacerà quella piazza? Da cosa dipenderà il nostro giudizio? Secondo Purcell (1986;1987) tutto dipende da quanto lo stimolo ambientale che abbiamo di fronte, in questo caso una piazza cittadina, si discosti dal modello prototipico che abbiamo in mente, cioè dallo schema mentale che attiviamo in quel momento, in altre parole a quanto si avvicina alla nostra idea di piazza. Secondo l’autore vi sarebbe un grado ottimale di discrepanza dal protototipo per cui lo stimolo sarebbe vissuto come abbastanza nuovo e attivante, perciò non dovrebbe essere troppo simile, altrimenti risulterebbe troppo prevedibile e noioso ma neanche troppo distante, altrimenti verrebbe frustrata la nostra necessità di comprensione. A tale proposito, sembrerebbe che la somiglianza con il prototipo sia un fattore che influenzi diversamente il giudizio di piacevolezza in base all’età: in una ricerca di Falchero e Baroni (1995) è infatti emerso che, mentre il giudizio dei giovani sembra accreditare la teoria di Purcell, le persone più anziane tendano a preferire gli stimoli più vicini al loro prototipo.

Come per l’età, vi sono altri aspetti legati alle caratteristiche personali che influenzano quello che si prova davanti ad uno stimolo ambientale: i ricordi passati, le motivazioni presenti, il gusto personale e certamente ulteriori variabili situazionali.

Sempre l’età ad esempio, sembra essere un fattore discriminante nella preferenza degli stimoli ambientali per quanto riguarda il “principio di realtà”, con l’aumentare dell’età cioè, sulla valutazione estetica prevarrebbe quella funzionale, del “se dovessi viverci”, e ancora, sembra che i bambini tendano a preferire luoghi in cui è presente acqua in misura maggiore rispetto alle altre fasce di età, ciò potrebbe essere dovuto al fatto che i bimbi siano ancora strettamente legati ad una valutazione primitiva funzionale alla sopravvivenza. Un ulteriore aspetto da considerare  è la personalità, in particolare rispetto alla posizione di ciascun individuo rispetto alla dimensione “sensation seeking”: i “sensation seekers” (cercatori di sensazioni”) sarebbero più attratti da ambienti attivanti e complessi perché terreno fertile per potenziali nuove ed emozionanti avventure, mentre i “sensation avoiders” (“evitatori di sensazioni”) preferirebbero ambienti più prevedibili e meno attivanti in quanto più propensi alla tranquillità (Baroni, 2012).

Per concludere vorrei riportare un estratto dal libro “Cromosofia” di Ingrid Fetell Lee, è un pò lungo ma credo che ne valga assolutamente la pena. Qui la stessa autrice, in uno dei suoi tanti viaggi alla scoperta della bellezza e della felicità che certi luoghi possono infondere, arriva fino a Tokyo per esplorare uno straordinario loft progettato da due talentuosi ed originali architetti, Arakawa e Gins : “Arakawa e Gins credono che l’architettura abbia un effetto sul corpo analogo a quello dei farmaci, quindi hanno predisposto le istruzioni” per soggiornare all’interno di quell’appartamento. “L’unico oggetto che somigliava vagamente ad un mobile era un’amaca in un angolo. Dal nucleo centrale si irradiavano diverse ‘stanze’, vocabolo che metto tra virgolette perché solo una somigliava a ciò che voi e io potremmo riconoscere come tale. La più semplice era la camera da letto, un cubo in tenui sfumature di marrone (…). La seconda era un cilindro giallo, una sorta di bagno senza porte, con una doccia cilindrica che sembrava un teletrasporto, e un pavimento gibboso su cui dovevi arrampicarti per raggiungere la toilette. La terza stanza era una sfera vuota, rossa all’esterno e laccata all’interno di un vivido giallo girasole. Nessuna superficie era incolore, nessuna parete o colonna era priva di un tocco di arancione o di viola. In seguito appresi che Arakawa voleva che da ogni angolazione fossero visibili almeno sei colori. E poi c’era il pavimento. Immaginate delle dune di sabbia modellate dal vento e ammonticchiate qua e là, e su tutta la superficie dei piccoli grumi, come una pelle d’oca gigante. Non era un pavimento su cui camminare, ma piuttosto su cui arrampicarsi, trovando e ritrovando il proprio equilibrio ad ogni passo. Aggirandomi per il loft, infatti, mi resi conto di quanto dessi per scontate le superfici piatte. Ma sentirsi un po’ scombussolati, sbilanciati, faceva parte del gioco, spiegava la brochure, e il tutto serviva a uno scopo più alto. (…) Dal loro punto di vista, i pavimenti piatti e le pareti bianche delle nostre case intorpidiscono i sensi e muscoli, portandoli all’atrofia. Per contrastare questo fenomeno propongono la provocatoria teoria del reversible destiny, secondo cui è possibile prevenire il declino e differire la morte vivendo in ambienti stimolanti che sfidino costantemente il corpo. (…) Per sfruttare al massimo la mia notte nel loft decisi di aprire le istruzioni. Vi trovai trentadue carte numerate. Ne presi una caso che diceva (..) ‘ogni mese gira nel loft immaginando di essere un animale diverso’. Per seguire le istruzioni dovetti abbandonare tutte le mie riserve di persona adulta, e in seguito appresi che l’intento dei due designers era esattamente quello (…) i bambini hanno una grande intimità con il mondo, mettono tutto in bocca. Il reversible destiny è in parte il tentativo di ri-suscitare la meraviglia infantile per un mondo pieno di sensazioni nuove. (…) anche solo lavarmi i denti era un’impresa: il pavimento inclinato mi allontanava dal lavandino e dovevo aggrapparmi al muro per non scivolare via. Era una faticaccia, ma era anche molto più divertente di un appartamento normale. Shingo Tsuji, un uomo che ha vissuto per quattro anni in uno dei loft reversible destiny, dice che un suo amico lo descrive come ‘ un posto in cui non si può mai essere veramente tristi o arrabbiati’.

Ciò che quello strano appartamento e i suoi ancora più bizzarri architetti mi stavano facendo capire era che il tipo di abbondanza che conta davvero non è l’accumulo materiale, ma la ricchezza sensoriale.”


©  Emozioni e ambiente: come ci sentiamo nello spazio che viviamo – Dott.ssa Martina Mancinelli