Il Word Order in psicolinguistica

Il Word Order in psicolinguistica

Il tema del Word Order, di cui tratta la seguente tesi, rientra nell’ambito di studi della psicolinguistica, o psicologia del linguaggio. La definizione di questa disciplina mette in rilievo la relazione tra le componenti psicologiche e neurobiologiche che stanno alla base dell’acquisizione, della comprensione e dell’utilizzo del linguaggio negli esseri umani.

È un ramo interdisciplinare che si avvale, per l’appunto, dell’apporto di differenti discipline come la neuropsicologia, la psicologia cognitiva, la linguistica ed in generale delle scienze cognitive. È la scienza che studia i rapporti tra società e linguaggio, inteso non tanto come un codice o sistema astratto, ma come uno strumento fondamentale di comunicazione usato all’interno di una comunità sociale.

Vengono utilizzati, quindi, sia risultati teorici che empirici della psicologia e della linguistica, per studiare i processi e le strutture mentali che stanno alla base dell’uso (comprensione e produzione) e dell’acquisizione della lingua.

Al fine di meglio introdurre la materia, si reputa opportuno sintetizzare brevemente l’evoluzione storica della psicolinguistica, in cui risultano centrali lo studio della mente, del comportamento e l’analisi scientifica del linguaggio, considerato settore centrale nell’ambito delle moderne scienze cognitive.

Il percorso affrontato da questa disciplina, secondo un punto di vista filogenetico e ontogenetico, può schematicamente essere suddiviso in tre periodi:

  1. il primo corrisponde al decennio degli anni cinquanta (pre-cognitivo), in cui la linguistica strutturale, la teoria dell’informazione e la psicologia comportamentista convergono per formare un quadro teorico caratterizzato dalla predominanza delle teorie strutturaliste, in linguistica, e del comportamentismo americano nella teoria dell’apprendimento, in psicologia.
  2. Il secondo periodo, invece, coincide con l’avvio della cosiddetta «svolta cognitiva», che ha modificato i quadri teorici tanto della linguistica, quanto della psicologia, soprattutto grazie all’opera del linguista americano Noam Chomsky. Egli, nel 1957, con la pubblicazione del libro Syntactic structures diede origine alla linguistica generativo-trasformazionale, guidando la psicolinguistica verso la costruzione di modelli in grado di spiegare i processi di acquisizione del linguaggio, di formazione e comprensione delle frasi. È il periodo in cui viene dato maggiore rilievo agli studi riguardanti problemi di sintassi. Gli assunti fondamentali di questa nuova prospettiva chomskiana, sono: a) che il linguaggio è una competenza, ossia un insieme di regole e meccanismi presenti nella mente di chi parla e capisce; b) che esistono principi linguistici universali, radicati nel patrimonio genetico della nostra specie; c) che il compito della linguistica è quello di costruire modelli formali che descrivano queste regole.
    Partendo da tali assunti furono elaborati, quindi, modelli di competenza linguistica che concepivano la sintassi come il meccanismo fondamentale del linguaggio (a scapito della semantica), e che attribuivano ad ogni frase due strutture sintattiche: una superficiale (direttamente osservabile nella frase) e una profonda (più astratta), legate tra loro da regole di trasformazione.
  3. Il terzo periodo, infine, risulta caratterizzato da modelli in cui la componente semantica del linguaggio ha un ruolo predominante rispetto al passato, ove si privilegiava quella sintattica. In questo momento storico si manifesta la tendenza ad ancorare il linguaggio ad un più ampio contesto cognitivo.

Gli albori sperimentali dei processi sottostanti la comprensione e produzione del linguaggio, hanno perciò preso avvio in corrispondenza ad uno spostamento dell’orientamento teorico della psicologia dal comportamentismo, che vieta il ricorso a qualsiasi entità mentale, alla prospettiva cognitivista, che rivaluta il ruolo della mente nel determinare i comportamenti. Per i comportamentisti, il linguaggio era solo un comportamento verbale, nient’altro che il risultato dell’apprendimento, dell’associazione e dell’imitazione. Il nuovo clima culturale, determinato dalla teoria linguistica di Noam Chomsky, ha invece incoraggiato lo studio del linguaggio come «fatto mentale» prima che come comportamento verbale e ha indotto gli studiosi a porre attenzione ai processi psicologici sottostanti la formazione e la comprensione delle frasi.

In questo clima la psicolinguistica è caratterizzata dal tentativo di verifica della «realtà psicologica» delle regole teorizzate dai linguisti: l’idea, cioè, che alle regole costitutive del sistema linguistico corrispondano altrettanti meccanismi psicologici da indagare sperimentalmente.

Date queste premesse di contenuto generale, preliminari e necessarie per la definizione del quadro di riferimento entro cui si colloca lo studio del Word Order, si introduce ora il lettore alla trattazione della prima questione in esame, ovvero l’evoluzione linguistica che porta alla formazione delle lingue romanze, partendo dal latino.

 

 

© Ordine di presentazione di variabili causa e effetto e la percezione dei rischi in ambito della salute – Dr.ssa Alice Spollon

 

Il disagio nelle relazioni lavorative: Bibliografia

Il disagio nelle relazioni lavorative: Bibliografia

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“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova

 

 

 

 

Disagio Lavorativo: Una buona storia e qualcuno a cui raccontarla

Disagio Lavorativo: Una buona storia e qualcuno a cui raccontarla

“Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla”.

Queste solo le parole di Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento , un pianista straordinario nato e cresciuto su una nave, senza esservi mai sceso.

“Lui era la sua buona storia”: la musica e il modo di “sentire” di Novecento lo rendevano unico, “qualcosa di diverso”.

L’esperienza condotta per l’espletamento di questo lavoro ha preso in esame tante “buone storie” di persone a loro modo “diverse”: immergersi nella vita altrui è stato per certi versi scomodo ma allo stesso tempo indispensabile, per questo è difficile definire una “buona storia” quella, ad esempio, di Rossana.

È anche vero che da soli i costrutti teorici non bastano mai: avere un punto d’osservazione prossimo al fenomeno è di basilare importanza, ed è quanto operato ai fini di questo elaborato. Ecco perché Rossana è la sua “buona storia”, perché senza l’ausilio di persone come lei questo lavoro sarebbe stato solo un intreccio asettico di teorie e concetti.

Le persone che lavorano per lo sportello antimobbing della CGIL di Venezia Mestre coordinato da De Felice, hanno avuto il potere di ridonare speranza alle persone che sperimentano disagio sul luogo di lavoro: questo avvalora ulteriormente il pensiero di Favretto (2005) che afferma che un modo utile per impedire che le azioni vessatorie indeboliscano il lavoratore, è fare ricorso ad associazioni che si occupano di prevenire e fronteggiare situazioni di mobbing sul lavoro, come, ad esempio, i sindacati e gli sportelli di ascolto e aiuto.

Il dottor De Felice ha accolto le “buone storie” di 300 persone a partire dal 2006 e tutt’ora continua con l’unico scopo di dare voce a quelle persone che temono di non farcela perché prossime al punto di non ritorno.

Questo elaborato giunge al termine con la speranza di lasciare il lettore consapevole del fatto che la sofferenza subita e causata sul luogo di lavoro può essere prevenuta, soprattutto se la collettività sottomessa decide di porre fine alla routine dittatoriale imposta dal capo. 

L’alleanza fra vittima e spettatore risulta essere quindi di cruciale importanza: solo allora sarà il carnefice a uscirne perdente.

 

 

 

“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova

DIsagio lavorativo: Una lente d’ingrandimento

DIsagio lavorativo: Una lente d’ingrandimento

Nel capitolo introduttivo di questo elaborato, viene presentata brevemente la storia di Rossana, una donna lavoratrice che indirettamente ha preso parte a questa ricerca.

Il dettagliato resoconto in cui Rossana esprime a parole il disagio vissuto in ambito lavorativo, fornisce al lettore immagini forti e a volte dolorose.

“Incomincio a star male. Incomincio a non dormire. […] Ma sono solo io ad avere questa lente d’ingrandimento sopra la testa?”.

Queste parole non sortirebbero lo stesso effetto se lette senza associarvi un volto o quantomeno un nome, ma sono “banalmente” parole vere che entrano senza bussare. Così vale anche per la sofferenza di Rossana che non ha chiesto di divenire vittima, non ha stabilito a priori quanta distanza dovesse esserci fra la sua testa e quella lente d’ingrandimento: non c’è certezza riguardo al perché tale violenza è stata agita nei suoi confronti. Sappiamo solo che sta male, che non riesce più a dormire. E che si rende conto di aver bisogno di aiuto.

Tutto il resto perde di significato: avvocati e psicologi tanto possono fare per la persona, ma sembra non bastare mai.

Il terrorismo psicologico di Leymann (1996) si fa strada su due livelli, quello personale e quello professionale: la persona attaccata su più fronti non riesce più a proteggersi, “ne consegue una parabola lavorativa discendente” (Zamperini, 2010).

Si è visto come il disagio reiterato negli ambienti lavorativi si svolge ovunque (in ufficio, alle macchinette del caffè, in pausa pranzo…) e come sostiene Ege (1997) “non esiste una categoria di persone predestinata a diventare una vittima del mobbing”.

Favretto (2005) sotto la dicitura mobbing riunisce tutte quelle azioni compiute ripetutamente sul posto di lavoro da una o più persone ai danni di uno o più lavoratori, e finalizzate a ridurre questi ultimi in una situazione di emarginazione e isolamento, fino all’esclusione dal mondo del lavoro. Le azioni possono assumere la forma di comportamenti aggressivi (verbali e non) e, in genere, di violenze psicologiche protratte ne tempo.

Nelle analisi dei resoconti presentate nel capitolo precedente, si può osservare come l’accanimento nei confronti di un proprio collega (mobbing orizzontale) o di un sottoposto (mobbing verticale o bossing) sia fonte di enorme distress per la persona: questa conseguenza che accompagna costantemente il lavoratore va a sommarsi a tutti i disturbi fisici e psicosociali che relegano la persona in uno stato di totale sconforto.

Rossana non riesce più a dormire, in altri resoconti si legge invece di persone che non riescono più a mangiare, ad avere rapporti con i propri famigliari e i propri amici: le conseguenze del mobbing sfregiano l’animo della persona nel quotidiano, non sono avvenimenti sporadici.

Sembrano essere effetti collaterali inevitabili: i vessati, ora “formiche”, subiscono il gioco raccapricciante dei vessatori, ora “bambini” despoti che con in mano una lente d’ingrandimento decidono oltremodo della vita altrui.

 

“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova

Disagio lavorativo: Riflessioni e conclusioni

DIsagio lavorativo: Riflessioni e conclusioni

Zugzwang: scacco matto!

Lo zugzwang è un termine tedesco usato dai giocatori di scacchi per definire una situazione in cui uno dei contendenti si ritrova nella situazione di non poter fare alcuna mossa valida senza subire danni irreparabili. Pertanto si può definire una combinazione di zugzwang come una sequenza di mosse forzate con cui un giocatore pone l’altro in una posizione priva di mosse valide da effettuare senza perdere materiale.

Chi coniò questo termine probabilmente nulla sapeva del fenomeno sociale etichettato come mobbing: ciononostante, “una sequenza di mosse forzate con cui un giocatore pone l’altro in una posizione priva di mosse valide da effettuare senza perdere materiale” è forse la miglior definizione di mobbing.

La società ci vuole vincenti, pertanto esige dei perdenti: forse è questo il gradino più basso cui possono giungere le relazioni interpersonali.

Nel primo capitolo si è visto come le azioni vessatorie possono indurre il mobbizzato ad azioni estreme (Ege, 2001), quali l’autoeliminazione o, addirittura, all’omicidio del mobber.

Certo è che per arrivarea commettere una tale azione bisogna prima attraversare diverse fasi che portano i lavoratori a diventare vittime di bossing o di stalking, piuttosto che di burnout, oppure di straining e di ostracismo.

Termini scientifici che differiscono talvolta l’uno dall’altro solo per alcune lievi sfumature, ma che in sostanza vanno a delineare un’unica grave conseguenza: la sofferenza fisica e psicosociale del lavoratore.

Zamperini (2010), colloca sotto l’etichetta linguistica ostracismo tre specifici fenomeni fra loro connessi: l’essere ignorati, respinti ed esclusi socialmente. L’offesa recata al lavoratore sembra essere impalpabile, non quantificabile: non ci sono graffi o lividi evidenti sulla persona.

Come sostiene Azzarini, intentare una causa di mobbing è difficile poiché mancano prove tangibili a sostegno del lavoratore che dimostrino la presenza di un danno subito, pertanto, come consiglia l’avvocato, è sempre utile fornire alle competenti sedi giudiziarie delle certificazioni, delle testimonianze e dei documenti che confermino il danno subito.

Spogliato all’inverosimile del proprio prestigio, della propria dignità e della propria professionalità, cosa rimane dell’uomo/lavoratore?

Pedon A. (2010), sottolinea come il settore risorse umane di un’azienda dovrebbe anzitutto privilegiare la natura sociale delle relazioni lavorative allo scopo di prevenire il declino del lavoratore: i rapporti sociali offrono al lavoratore il senso della propria identità e al lavoro il significato intrinseco perduto in conseguenza dei processi dell’organizzazione scientifica. Il funzionamento dell’impresa è strettamente legato ai fattori ambientali e relazionali, per cui nell’attività di lavoro è necessario umanizzare le relazioni tra le persone.

Sono proprio i fattori relazionali e ambientali che Zamperini (2007) intreccia affinché sia possibile spiegare il malfunzionamento di alcune componenti della società odierna, che annovera fra le sue peggiori malattie quelle citate poche righe sopra e ampiamente trattate nel primo capitolo.

Le relazioni osservate tramite la lettura dei resoconti, narrano la storia di donne e uomini costrette a un ripiegamento in se stessi (Zamperini, 2010), poiché chi non ha saputo adeguatamente difendersi ha trovato in questa strategia l’unico modo per sopravvivere al clima aberrante venutosi a creare sul luogo di lavoro.

Il carnefice approfitta di questa situazione per raggiungere il suo scopo: estromettere dal luogo di lavoro la persona presa di mira, passando attraverso stratagemmi come emarginazione, isolamento e demansionamento.

La combinazione di zugzwang dei mobbers è talmente macchinosa e ben congeniata che l’unica alternativa che resta al giocatore è talvolta quella di arrendersi, affinché il vincitore dichiari “scacco matto”: la forza costrittiva è talmente elevata da indurre il mobbizzato ad accettare il licenziamento o le dimissioni forzate.

 

“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova

Azioni Vessatorie: Isolamento, Accanimento, Chiusura e Prevaricazione

Azioni Vessatorie: Isolamento, Accanimento, Chiusura e Prevaricazione

Isolamento

L’isolamento ha una frequenza di 53, è una delle forme con cui la persona viene ostracizzata: l’estromissione dalle relazioni sociali che avvengono quotidianamente in ufficio è la forma principale di isolamento, relegando la persona in uffici appartati, lontani dagli ambienti comunitari, talvolta messi a lavorare anche in ambienti poco consoni all’attività professionale.

Eclatante il caso di isolamento presentato in questa quotation, dove il mobbizzato viene isolato non solo dai rapporti con i colleghi ma anche dall’ambiente circostante: si impedisce al vessato di “fuggire” anche solo con lo sguardo.

“Tornato da una pausa pranzo ho constato che la parete a vetri a fianco alla mia scrivania dalla quale ho una vista confortante sulle colline è stata oscurata con dei fogli di stampante ad aghi per impedirmi di fuggire anche con il solo sguardo”

P17 [217:219]

“All’arrivo di circolari esplicative mandate dall’azienda la responsabile si confronta con i colleghi per condividerne l’interpretazione delle disposizioni con gli stessi. Io sono esclusa tassativamente.”

P 14 [170:171]

Nell’accanimento (fr. 27) e nella chiusura (fr. 25) si riscontrano processi avversi ma pur sempre efficaci per denigrare il lavoratore: da una parte vi è il perpetrarsi dell’ostilità, dall’altra l’impossibilità da parte del dipendente di ricevere informazioni o notizie necessarie allo svolgimento del lavoro.

L’accanimento è una forma vessatoria profonda, che, se viene agita in pubblico, comporta umiliazione e frustrazione per la persona presa di mira. È quanto accade anche negli episodi di chiusura, dove l’imbarazzo e l’umiliazione derivano dal fatto che la persona non è al passo con gli altri, che non è aggiornata sulle novità aziendali o sui cambiamenti in atto.

L’accanimento e la chiusura colpiscono da versanti diversi: soffocare verbalmente una persona può, per certi versi, equivalere al mutismo da parte di colleghi e superiori.

Accanimento

“Mi rende ogni giornata lavorativa un inferno, con le sue maniere arroganti, le sue urla, le sue parolacce, le sue offese, il suo modo di discriminarmi davanti a tutti, di cercare ogni pretesto, anche insignificante, per darmi addosso,per stancarmi.”

P 22 [ 64:66]

“Questa è la situazione in cui mi trovo a lavorare, oramai quasi tutti i miei colleghi non hanno più  alcuna stima e considerazione di quello che faccio, le mie decisioni vengono continuamente  criticate.”

P 18 [55:57]

Chiusura

“Quando però io chiedo il confronto con le persone interessate, lui prende le distanze e rifiuta ogni tipo di confronto. Da allora e’ successo ancora, ogni volta cercava di accreditarmi pettegolezzi o episodi a cui ero estranea e quando chiedevo il confronto con i colleghi che confermavano la mia versione, lui sistematicamente rifiutava il confronto, lasciando cadere la cosa.”

P 26 [32:36]

Prevaricazione

La prevaricazione riporta frequenza 8, si riscontra con quotations che mettono in evidenza un abuso di potere da parte dei superiori che approfittano del loro ruolo per non rispettare le regole e per assegnare compiti degradanti o extraruolo ai propri dipendenti.

Il manager impone il proprio volere ai subalterni, esercitando erroneamente quanto previsto  dal proprio ruolo, rischiando in alcuni casi di mostrarsi dittatoriale.

“In più occasioni è emerso che il presidente non svolgeva il ruolo di coordinatore, come previsto  dalla convenzione con l’ULSS, ma da dittatore. Lui  si è sempre proposto come: “Io qui sono il  padrone e faccio quello che voglio! Se ti sta bene così…altrimenti vattene!”.

P 10 [73:75]

 

“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova

 

 

Azioni Vessatorie: Ostracismo

Azioni Vessatorie: Ostracismo

 

Grafico 4: ostracismo attuato dai superiori

Le persone escluse, respinte ed ignorate sono persone che vedono aggrediti i loro bisogni fondamentali: il senso di sicurezza, un’identità positiva, l’autoefficacia e i legami interpersonali. Una simile violenza crea nelle vittime uno stato di assedio e di minaccia che pervade l’esistenza nella sua interezza (Zamperini, 2010).

Le vittime del mobbing sono persone “finite”: non c’è giorno in cui la persona riesca ad alzarsi la mattina felice di andare a lavorare. Durante le ore lavorative penserà a quando finirà quella giornata. Durante le ore notturne probabilmente avrà incubi o, peggio ancora, non dormirà affatto.

È questa la realtà costrittiva del mobbing: annientare la persona, finché non sarà lei stessa a chiedere di andarsene.

Di seguito vengono presentate alcune strategie con cui il mobber agisce aggressivamente nei confronti della vittima designata.

 

 

 

“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova

Azioni vessatorie: Minacce, offese e umiliazioni

Azioni vessatorie: Minacce, offese e umiliazioni

Il lavoro ridicolizzato o esasperato, attribuisce alla persona uno stato di stress e di impotenza cui il vessato sente di non poter porre rimedio: ogni errore viene sovrastimato, ogni scusa è buona per richiamare e rimproverare il mobbizzato.

Questi sono i metodi “più fini” con cui un capo o l’azienda tentano di liberarsi di un dipendente, sono stratagemmi infimi difficilmente dimostrabili qualora la persona decida di intraprendere un’azione legale.

Non si può dire altrettanto delle minacce, che presentano frequenza 25, delle offese con frequenza 32 o delle umiliazioni con frequenza 37, che sortiscono un effetto diretto e maggiormente aggressivo: queste forme vessatorie assumono il nome di bullyng, un ulteriore sottocategoria di mobbing che Favretto (2005) definisce come un comportamento offensivo, intimidatorio e umiliante, derivante da un abuso di potere o di autorità, che giunge a minacciare psicologicamente un individuo o un gruppo di persone.

Minacce

“A questo punto vengo chiamata dal figlio del proprietario e ricevo forte minacce: ti consiglio di fare quello che ti dice mia sorella, se no scoppia una bomba atomica. Ti facciamo terra bruciata e non trovi lavoro, è importante per una persona agli inizi avere delle buone referenze.”

P 5 [226:228]

“In più di una occasione l’assistente in questione ha gridato con tono minaccioso, come fa  molto spesso “firma … ti ho detto di firmare …”, con in mano la lettera e spingendo la  sedia verso la mia scrivania. In un’altra occasione si è seduta nel mio ufficio e ha minacciato  di non andarsene fino a che non avessi firmato … E’ evidente che l’assistente non ritiene di  dovermi rispetto, come mai ? …”.

P 25 [148:152]

Offese 

“Vengo inoltre apostrofato con termini del tipo “defficiente” (mi si dice con due effe in quanto sinonimo di non efficiente, portatore di un deficit) o “mentecatto” (in questo caso significato etimologico del termine non mi è stato spiegato)”

P 18 [30:32]

“Durante le varie sfuriate che seguono conversazioni apparentemente normali con lo scopo di trovare un accordo tra di noi, mi viene detto che probabilmente mi dovrei fare aiutare da qualcuno (psichiatra) perché sono io la causa di litigi e che sono io a creare del malumore all’interno dell’ufficio. Che sono squilibrata e che tutti mi odiano in ufficio e che vanno da lui in privato a chiedere di allontanarmi e a suo dire “non mi sopportano”.”

P 26 [76:80]

Umiliazioni

“Umiliata e offesa gli ho chiesto di parlare a voce bassa perché mi vergognavo perché c’erano persone in negozio, clienti … cercavo di allontanarmi da lui, girando per il negozio ma lui mi inseguiva dovunque io andassi … gli ho chiesto: “per favore lasciami in pace … sto lavorando ci sono persone, ti prego mi vergogno, parliamone in altra sede …  Lui: “io non mi vergogno, questa è casa mia…””

P 24 [155:159]

“Ricordo anche scenate fatte urlando lungo i pontili di imbarco in presenza di colleghi di altre società agitandosi, alzando la voce e addirittura mettendomi in ridicolo.”

P 26 [54:56]

Questi processi di intimidazione distruggono la persona mobbizzata che si sente costantemente sotto attacco. Come si può osservare dalle quotations sopra riportate, la persona è personalmente presa di mira, privata della possibilità di reagire e resa ulteriormente debole.

 

“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova

Azioni Vessatorie: Trattamento iniquo

Azioni Vessatorie: Trattamento iniquo

Sia per quanto riguarda il demansionamento che il sovraccarico lavorativo, la percezione che il lavoratore ha è quella di subire un trattamento iniquo, anch’esso con alta frequenza, pari a 33.

Si esprime non solo attraverso l’assegnazione di incarichi dequalificanti o che superano le proprie capacità, ma anche attraverso il non riconoscimento dei propri sforzi e delle proprie qualità che portano ad un ulteriore profitto per l’azienda stessa.

Il lavoratore umiliato agisce davanti all’indifferenza con cui viene trattato chiedendosi che cosa abbia fatto di sbagliato; in questi casi l’azienda gioca sporco a ogni livello possibile: si tratta di una vera e propria ricerca finalizzata a distruggere il dipendente (Favretto, 2005).

“Durante le campagne di promozione di alcuni prodotti postali, metto sempre il mio impegno, riuscendo in diversi casi a superare i miei colleghi nelle vendite. Questo viene vissuto con totale indifferenza nei miei confronti, mente quando il risultato viene conseguito da un altro collega, la responsabile esalta puntualmente l’operato del collega invitando l’ufficio a complimentarsi e a festeggiare l’evento.”

P 14 [157:161]

“Non mi lascia parlare e mi dice anche che quando lui mi chiama io devo correre, che non  devo rivolgergli la parola, che io non devo parlare e che non ha tempo da perdere con me. Non  riesco a parlare e poi mi butta fuori dall’ufficio aprendomi la porta!”

P 4 [113:114]

 

 

 

“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova