Il mobber

Il mobber

Ci sono tantissimi mobber che neanche si rendono conto della gravità delle loro azioni: spesso sono proprio quelli che non vogliono nemmeno sentir parlare di mobbing.  Il mobber ha infiniti motivi per perpetrare la sua azione: paura di perdere il lavoro o la posizione duramente guadagnata o di essere surclassato ingiustamente da qualcun altro più giovane o più qualificato, o semplicemente più simpatico; ansia di carriera che porta a frantumare qualsiasi ostacolo, vero o presunto, gli si pari davanti; semplice antipatia o intolleranza verso qualcuno con cui è costretto a convivere otto ore al giorno.

I mobber classici non lasciano in pace le loro vittime perché credono di avere vantaggi dalla loro distruzione o anche soltanto per sfogare i loro umori.

Potrebbero agire da soli o cercarsi alleati: sono persone che di proposito mobbizzano qualcuno e probabilmente si divertono anche nel farlo, che pianificano sempre nuove strategie per stressare e distruggere la sua vittima.

Il problema principale è che questo tipo di mobber non è per nulla disposto a cercare una soluzione al conflitto e che quindi difenderà le sue posizioni con tutti i mezzi. Ci sono poi quelli che si trovano quasi per caso nella situazione di mobber: sono risultati vincitori di un normale conflitto e spesso del tutto inconsciamente continuano la lotta con lo scopo di distruggere completamente la vittima.

Paradossalmente queste persone non si rendono conto di quello che stanno facendo sulle loro vittime e sono le prime a mostrarsi increduli di fronte agli sviluppi della situazione. Infine ci sono le persone caratterialmente difficili, i collerici, gli autoritari e i presuntuosi. Come esistono sostanziali differenze tra i sessi nelle strategie di reazione ad una situazione di crisi, così le ricerche hanno scoperto che anche la strategia mobbizzante è diversa tra uomo e donna.

Si può ipotizzare che anche in questo caso la ragione sia nella diversa educazione ricevuta e nel diverso sviluppo della persona. In particolare, sotto l’aspetto psicologico il mobber uomo preferisce azioni passive, cioè azioni che non puntano alla cattiveria aperta ma su quella nascosta, come ignorare qualcuno, o dargli sempre nuovi lavori o metterlo sotto pressione.

Il mobber donna invece in genere preferisce il mobbing attivo, cioè azioni come sparlare dietro le spalle, prendere in giro qualcuno davanti ad altri o fare girare voci su di lui.

 

 

 

 

 

“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova

 

 

 

 

 

 

Il mobbizzato

Il mobbizzato 

Il tratto tipico del mobbizzato è l’isolamento.

Dalle parole che gli autori di ricerche sul mobbing riservano alla vittima di questo fenomeno risulta il quadro di qualcuno che si trova letteralmente con le spalle al muro, spesso senza sapere nemmeno perché. In effetti, molte persone colpite si chiedono ancora oggi cosa mai avessero fatto di male, cosa fosse o sia così sbagliato nel loro comportamento da provocare questo odio degli altri verso di loro.

E’ difficile poter stilare una casistica di vittime, di trovare cioè la persona caratterialmente più propensa ad essere mobbizzata. In effetti, dal punto in cui stanno oggi le ricerche sul mobbing, si può affermare che la vittima potrebbe essere chiunque. Tuttavia possiamo affermare che ci sono situazioni in cui è più probabile venire mobbizzati. Pensiamo ad una persona in qualche modo diversa dagli altri: una donna in un ufficio di uomini o viceversa, una persona più qualificata, più giovane, più brava nel lavoro, oppure il classico caso della persona nuova, magari più qualificata e più giovane, addirittura assunta da subito come capufficio: senz´altro le possibilità di subire mobbing per lui sono sicuramente maggiori.

Qualunque sia la sua posizione o il suo carattere, la vittima generalmente in qualche modo reagisce al mobbing che gli viene perpetrato: le analisi statistiche effettuate da Ege nel 1999, dimostrano che un uomo presenta reazioni ad una situazione di crisi diverse da quelle di una donna, per fattori riconducibili al suo patrimonio biologico.

Una donna in crisi reagisce aumentando la sua attività rispetto all’uomo, che al contrario tende a diminuirla. I dati infatti mostrano che la donna in situazioni critiche tende a parlare più in fretta e a fare più gesti e movimenti: si comporta quindi più nervosamente e tende a essere più attiva sul lavoro, con la speranza forse di riuscire in questo modo a giustificarsi.

L´uomo invece tende a reagire in modo opposto: in crisi diminuisce notevolmente la sua attività gestuale e verbale e, invece di dimostrare maggiore efficienza, tende a limitarsi sia nei rapporti interpersonali, sia nello svolgimento del suo lavoro.

Queste differenze sonosignificative come testimonianza di due modi di essere e di percepire la realtà, e per questo risultano sicuramente interessanti; tuttavia, ai fini del mobbing stesso, va notato che nessuna delle due reazioni ottiene un risultato.

In entrambi i casi infatti è la reazione stessa della vittima, in qualunque modo essa si configuri, a dare al mobber motivo per continuare la sua azione.

 

 

 

“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova

 

 

 

 

 

 

Una macabra recita: gli attori del mobbing

Una macabra recita: gli attori del mobbing 

Il mobbing è un fenomeno puramente sociale che tende a manifestarsi in qualsivoglia ambiente lavorativo; infatti, tutt’ora non è possibile identificare un ambiente privilegiato in cui il mobbing può manifestarsi (Ege, 2002).

L’indagine presente in questo elaborato dimostra come il mobbing può palesarsi ovunque, sia nel pubblico che nel  privato e svilupparsi in qualsiasi settore lavorativo. Risulta invece evidente come il mobbing possegga caratteristiche intrinseche al fenomeno stesso che portano ad evidenziare le peculiarità tipiche di chi vessa e di chi viene vessato.

Se quindi rimane incerto il tipo di azienda o il settore lavorativo in cui facilmente può mostrarsi il mobbing, è forse più intuitivo individuare gli elementi distintivi dei mobber e dei mobbizzati, protagonisti di una manifestazione sociale che porta a danni gravissimi per le persone coinvolte.

Ancora una volta Ege rende disponibili le linee guida per facilitare il lavoro del professionista che intende occuparsi della lotta contro questo fenomeno sociale; di seguito viene riportato sinteticamente quanto scritto da Ege (1997) in merito a questa realtà sociale.

 

 

 

“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova

 

 

 

 

 

 

Il mobbing in Italia: Harald Ege

Il mobbing in Italia: Harald Ege

Lo psicologo Harald Ege è riconosciuto in Italia come il principale studioso del fenomeno del mobbing, il quale propose il termine mobbing al pubblico italiano per la prima volta nel 1995.

I suoi studi ventennali riportano l’analisi di una realtà lavorativa particolare come quella italiana, diversa per certi aspetti da quella di altri paesi.

Le ricerche di Ege prendono ispirazione dalle analisi condotte da Leymann e vengono riadattate per il contesto italiano.

Nel 1996 Ege ha fondato l’associazione “PRIMA Associazione Italiana contro il Mobbing e lo Stress Psicosociale” ed è autore del “Metodo Ege”11 per la valutazione e quantificazione del danno da mobbing.

Ege (1997, p.5), definisce così il mobbing:

 

“Con la parola mobbing si intende una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori. La vittima di queste vere e proprie persecuzioni si vede emarginata, calunniata, criticata: gli vengono affidati compiti dequalificanti, o viene spostata da un ufficio all’altro, o viene sistematicamente messa in ridicolo di fronte a clienti o superiori. Nei casi più gravi si arriva anche al sabotaggio del lavoro e ad azioni illegali. Lo scopo di tali comportamenti può essere vario, ma sempre distruttivo: eliminare una persona divenuta in qualche modo “scomoda”, inducendola alle dimissioni volontarie o provocandone un motivato licenziamento.”

 

Mentre Leymann concentra la sua riflessione sulle cause e sulle implicazioni psicologiche del mobbing, le parole di Ege si focalizzano maggiormente sugli effetti che tale fenomeno può provocare.

Eliminare una persona, è lo scopo conclamato delle azioni vessatorie: il lavoratore indesiderato viene indotto forzatamente ad allontanarsi, provocandone le dimissioni volontarie o il licenziamento motivato12.

Il mobbing, secondo Ege, è un processo in continua evoluzione, inizialmente latente e che procede in crescendo, secondo fasi successive ben identificabili e quindi anche in una certa misura prevedibili. In ciò versa la grande potenzialità lesiva del mobbing, ma anche, in una certa  misura, la chiave di volta per la prevenzione e soluzione.

L’autore sottolinea come gli studi sul mobbing e le relative definizioni non si discostano particolarmente da quanto determinato da Leymann, padre del mobbing, l’unica differenza è osservare la disparità di equilibrio e di potere dei due principali attori del mobbing, la vittima e l’aggressore (Ege, 2002).

 

 

 

“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova

 

 

 

 

 


 

11) Il “Metodo Ege per la determinazione del Mobbing e la quantificazione del Danno da Mobbing”, pubblicato per la prima volta nel 2002, è un procedimento che consente all’Esperto di mobbing di riconoscere la presenza del mobbing in una vicenda lavorativa e successivamente di calcolare il grado di lesione da essa derivante. In questo modo il mobbizzato è in grado di fronte al Giudice non solo di dimostrare di essere vittima di mobbing, ma anche di monetizzare il danno subito di cui chiede il risarcimento.

 

12) Si tiene a precisare che, come si può osservare in alcuni resoconti riportati nel quarto capitolo, le motivazioni del licenziamento vengono fatte risalire alla presunta incapacità da parte del vessato di mantenere relazioni stabili e serene con colleghi i superiori, i reali colpevoli. La persona viene quindi licenziata poiché ritenuta inadatta a quell’ambiente lavorativo

Il mobbing nel mondo: Heinz Leymann

Il mobbing nel mondo: Heinz Leymann

Similarmente a quanto pervenuto dagli studi di Lorenz, il termine mobbing ha assunto connotazioni diverse che hanno ispirato le ricerche di molti studiosi del fenomeno.

Leymann, pioniere a livello mondiale degli studi condotti rispetto al fenomeno del mobbing manifesto nel mondo del lavoro, ha trovato una stretta somiglianza fra quanto determinato dalle ricerche di Lorenz e la psicologia umana, generando una nuova direzione di ricerca di Psicologia del Lavoro.

Lo studioso trovò un’analogia tra l’aggressività degli animali e quella manifestata dai lavoratori nei confronti di altri, riferendosi al mobbing come ad una condizione di persecuzione psicologica nell’ambiente di lavoro.

Leymann (1984) effettuò i primi studi sul mobbing classificandolo come violenza psicologica nel luogo di lavoro: l’esposizione ad un comportamento ostile protratto nel tempo, secondo lo studioso tedesco, colpisce principalmente la sfera psicosociale della vittima.

Leymann (1996)9, secondo quella che è la definizione classica del mobbing, descrive il fenomeno come:

 

“Il mobbing o terrore psicologico sul posto di lavoro consiste in messaggi ostili e moralmente scorretti, diretti sistematicamente da uno o più individui verso un solo individuo, il quale, a causa del perpetuarsi di tali azioni, viene posto e mantenuto in una condizione di impotenza e incapacità a difendersi. Le azioni di mobbing si verificano molto frequentemente (almeno una volta alla settimana) e per un lungo periodo di tempo (per almeno sei mesi). A causa della frequenza elevata e della lunga durata del componente ostile, questo maltrattamento produce uno stato di considerevole sofferenza sul piano mentale, psicosomatico e sociale.”

 

Terrore psicologico è l’espressione più chiara per descrivere concisamente il fenomeno del mobbing; infatti, come sostiene Leymann, le azioni vessatorie messe in atto dal mobber che colpiscono il mobbizzato, hanno un’origine puramente psichica, estendendosi successivamente a livello psicosomatico e sociale.

Questa definizione mette in risalto i parametri della frequenza e della durata, sottolinea la posizione di oppressione e di impotenza del vessato e dà maggior peso alle conseguenze psicofisiche e relazionali del mobbizzato.

 

 

 

“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova

 

 

 


 

9) http://www.leymann.se/English/frame.html, consultato il 4 Aprile 2013.

Il mobbing: Origini del termine

IL DISAGIO NELLE RELAZIONI LAVORATIVE RIFERIMENTI TEORICI

Il mobbing: alcuni cenni storici

Origini del termine

Ormai è sempre più diffuso a livello internazionale il concetto di mobbing; negli ultimi anni ha assunto connotazioni sempre più specifiche che hanno portato studiosi e ricercatori a definirne le cause e le conseguenze per i lavoratori.

Il mobbing è un fenomeno sociale da sempre esistito, ma solo negli ultimi decenni se n’è compreso il vero significato poiché era necessario dare un nome a ciò che adesso definiremo semplicemente come “una situazione di aggressione, di esclusione e di emarginazione di un lavoratore da parte dei suoi colleghi o dei suoi superiori”7.

Come anticipato nell’introduzione, alla voce mobbing del dizionario troviamo le seguenti definizioni: «assalire» e «molestare, angariare»; quindi «molestia, angheria»; ed è anche definito come “forma di molestia psicologica esercitata sul personale delle aziende, consistente nell’impedirgli di lavorare o nel porgli insopportabili costrizioni nello svolgimento del lavoro”.

Il termine mobbing è stato coniato dall’etologo Konrad Lorenz (1966)8, che ne fece uso per descrivere un particolare comportamento di alcune specie animali che circondano un proprio simile e lo assalgono in gruppo al fine di allontanarlo dal branco.

Wilson (2003), sottolinea come Lorenz abbia determinato come l’aggressività è funzionale alla sopravvivenza e ai meccanismi che si contrappongono ai suoi effetti deleteri, estendendo queste ricerche dal campo animale fino a quello umano, dove ha osservato come l’istinto aggressivo vada in qualche modo mitigato, ad esempio tramite l’agonismo sportivo.

 

“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova

 

 

 

 

 


 

 

 

7) Definizione tratta dal sito www.inas.it, consultato il 4 Aprile 2013.

 

8) Konrad Lorenz è stato uno zoologo ed etologo austriaco. Viene considerato il fondatore della moderna etologia scientifica, da lui stesso definita come «ricerca comparata sul comportamento».

Il disagio nelle relazioni lavorative: Obiettivi della ricerca

Il disagio nelle relazioni lavorative: Obiettivi della ricerca

Gli aspetti presentati fino a questo momento servono per tracciare in breve il percorso di questo elaborato; partendo dal concetto di mobbing per come oggi è inteso, viene osservata una realtà ben più complessa, quella del disagio vissuto all’interno delle relazioni lavorative.

Assumendo il punto di vista del lavoratore vessato, si toccano con mano le sue emozioni e le ripercussioni fisiche e psicosociali che lo costringono talvolta a gesti estremi come il dover dare “forzatamente” le dimissioni.

Nei capitoli a seguire si fa riferimento al lavoratore, ma il protagonista di questa indagine vuole essere la persona, vera vittima dei fenomeni prevaricatori, poiché chi subisce non è solo l’oppresso, bensì, come sottolineato più avanti, anche la famiglia e gli amici, e in generale ne risente tutta la sua sfera sociale.

L’indagine tiene in considerazione l’attuale contesto italiano, prendendo in esame l’espressione del disagio lavorativo nelle aziende di questo Paese; in particolare, l’analisi è stata condotta sul territorio della provincia di Venezia.

Di fondamentale importanza per questo studio è la collaborazione nata frala il Dip. FISPPA dell’Università degli Studi di Padova e lo sportello antimobbing dell’associazione sindacale CGIL di Venezia Mestre, il cui responsabile è il dott. De Felice, psicologo che da diversi anni ha deciso di mettere a disposizione le proprie conoscenze e il proprio sapere al servizio delle persone con gravi problemi sul luogo di lavoro.

Tramite questa relazione è stato possibile venire a contatto con persone come Rossana, le quali si sono rivolte allo sportello antimobbing con l’intento di trovare aiuto da parte di professionisti che si prendono cura quotidianamente di persone vessate sul posto di lavoro.

 

La collaborazione fra l’Università degli Studi di Padova e lo sportello antimobbing della CGIL di Venezia Mestre, ha coadiuvato la realizzazione dell’indagine, che mostra la realtà lavorativa di uno spaccato italiano come quello della provincia di Venezia, tentando di fornire a coloro che si interessano di disagio lavorativo, ma ancor prima di persone lavoratrici, un valido documento che possa aiutare a conoscere approfonditamente il fenomeno.

L’elaborato ha il fine ultimo d’essere uno strumento utile per la persona che sente di giocare un ruolo cruciale nelle relazioni lavorative disagiate che comportano situazioni gravose, che questa sia vessato o vessatore.

 

“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova

 

 

 

 

Il disagio nelle relazioni lavorative: La storia di Rossana

Il disagio nelle relazioni lavorative:La storia di Rossana, una storia sconosciuta 

 

“Mi manca il respiro. Perdo peso. Non riesco a staccare la spina.” 

 

Rossana1 è una lavoratrice di circa cinquant’anni che da qualche anno subisce atti vessatori sul luogo di lavoro; è una persona stanca, arrivata al limite, che paga le conseguenze di questi atteggiamenti messi in atto quotidianamente da parte dei colleghi e dei superiori. Le sue parole sono esplicative di una situazione venutasi a creare nel tempo, frutto di violenze e maltrattamenti che colpiscono il fisico quanto la mente. Come Rossana, tante altre persone in Italia e nel resto del mondo vivono situazioni come questa, spesso non sapendo come porvi rimedio, andando ogni giorno a lavorare consapevoli che quell’ambiente sfavorevole non farà altro che peggiorare la situazione.

 

“Mi rendo conto di aver bisogno di aiuto.”

 

Termina con queste parole disperate il resoconto della storia di Rossana2, che mette nero su bianco quanto puntualmente le accade nella sede lavorativa, esplicitando ogni singola ritorsione, maltrattamento e violenza subìta. Queste parole sintetizzano il pensiero di Rossana e di chi reputa essere vittima del reato di mobbing – che in Italia non è considerato tale – 3, persone non più in grado di reggere la situazione di disagio lavorativo perpetrata nel tempo.

Il termine mobbing viene così tradotto dall’inglese: «assalire» e «molestare, angariare»; quindi «molestia, angheria»; ed è anche definito come “forma di molestia psicologica esercitata sul personale delle aziende, consistente nell’impedirgli di lavorare o nel porgli insopportabili costrizioni nello svolgimento del lavoro4.

Il professor Heinz Leymann5 è uno dei principali studiosi di questo fenomeno, per primo ne ha circoscritto le caratteristiche fondamentali, stabilendo il ruolo degli attori principali (mobber e mobbizzato) e definendo le conseguenze fisiche e psicosociali che colpiscono le vittime. Parafrasando le parole di Leymann estratte dall’enciclopedia online The Mobbing Encyclopaedia 6, il mobbing è definito come:

 

“Il mobbing o terrore psicologico sul posto di lavoro consiste in messaggi ostili e moralmente scorretti, diretti sistematicamente da uno o più individui verso un solo individuo, il quale, a causa del perpetuarsi di tali azioni, viene posto e mantenuto in una condizione di impotenza e incapacità a difendersi. Le azioni di mobbing si verificano molto frequentemente (almeno una volta alla settimana) e  per un lungo periodo di tempo (per almeno sei mesi). A causa della frequenza elevata e della lunga durata del componente ostile, questo maltrattamento produce uno stato di considerevole sofferenza sul piano mentale, psicosomatico e sociale.” 

 

Heinz Leymann (1984), con la prima pubblicazione scientifica sull’argomento, introduce l’uso del termine mobbing per indicare la particolare forma di vessazione esercitata nel contesto lavorativo, il cui fine consiste nell’estromissione reale o virtuale della vittima dal mondo del lavoro.  Leymann (1984) inizia ad utilizzare la parola mobbing per indicare una forma di comunicazione ostile ed immorale diretta in maniera sistematica da uno o più individui (mobber o gruppo mobber) verso un altro individuo (mobbizzato) che si viene a trovare in una posizione di mancata difesa.

Come sottolinea Harald Ege7 (1997), il mobbing è un fenomeno solo recentemente teorizzato, ma che in realtà è da sempre facente parte delle vite dei lavoratori.

In Italia, in base ai dati emersi dalla prima ricerca scientifica sul mobbing, condotta da PRIMA Associazione Italiana contro Mobbing e Stress Psicosociale di Bologna nel 1998 su un campione di 301 vittime, soffrono per mobbing più di un milione di lavoratori. I settori più colpiti sono l’industria e la Pubblica Amministrazione, seguiti da scuola, sanità e settore bancario. Tra le fasce più colpite, secondo l’ultima indagine statistica condotta da Ege (2001), risultano gli uomini tra i 30 e i 40 anni e le donne tra i 40 e i 50 anni. L’indagine ISTAT condotta nel 2010 in Italia su un campione di circa 30 milioni di lavoratori in riferimento al disagio lavorativo, afferma che circa il 9% dei lavoratori confessa di aver subito nel corso della propria attività lavorativa una privazione dei compiti, un demansionamento o una forma di vessazione.  In particolare il 6,7% ha vissuto una situazione di disagio lavorativo negli ultimi tre anni, mentre il 4,3% negli ultimi 12 mesi. Sono soprattutto le donne a subire vessazioni: l’1,6% in più dei colleghi maschi. Nello specifico, l’analisi ISTAT ha indagato i disagi di coloro i quali nella loro vita lavorativa hanno avuto superiori o colleghi o persone a loro sottoposte (84,7% del totale).

 

“Il lavoro che (non) fa per te”. Il disagio nelle relazioni lavorative: un’indagine psicosociale sul territorio di Venezia –  © Maurizio Casanova

 


 

1) Rossana è un nome fittizio.

2) Le parole riportate sono tratte da alcuni resoconti stilati da persone vittime del mobbing che hanno richiesto aiuto presso lo sportello antimobbing delle CGIL di Venezia Mestre. Nel quarto capitolo viene presentata un’analisi dettagliata.

3) Il mobbing non è un reato previsto dal codice penale italiano. La figura di reato maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti il mobbing è quella dei maltrattamenti commessa da persona dotata di autorità per l’esercizio di una professione. Il 29 agosto 2007, la V Sezione della Cassazione Penale (Pres. Pizzuti – Rel. Sandrelli), pubblicava la sentenza n. 33624, affermando in linea di principio che nell’ipotesi di mobbing basato su una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti nell’esprimere l’ostilità del lavoratore attivo verso la vittima, non è possibile individuare la violazione di una specifica norma penale, nella specie quella che integra il reato di lesioni personali volontarie.

4) Dizionario online www.treccani.it, consultato il 4 Aprile 2013.

5) Il primo ricercatore che cominciò a studiare il mobbing come violenza psicologica nel luogo di lavoro ed in quanto tale responsabile di patologie per chi lo subisce, è stato lo psicologo tedesco Heinz Leymann (1986), che illustrò le conseguenze, soprattutto nella sfera psicosociale, di chi è esposto ad un comportamento ostile protratto nel tempo da parte di superiori o dei colleghi di lavoro.

6) http://www.leymann.se/English/frame.html, consultato il 4 Aprile 2013.