Abraham Maslow e la piramide dei bisogni

Abraham Maslow e la piramide dei bisogni

“ Quando parliamo dei bisogni degli esseri umani, parliamo dell’essenza della loro vita” (Motivazione e Personalità, 1954).

E’ noto per aver ideato una gerarchia dei bisogni umani, la cosiddetta piramide di Maslow.

Nel 1954 pubblicò “Motivazione e personalità”, dove espose la teoria di una gerarchia di motivazioni che muove dalle più basse (originate da bisogni primari – fisiologici) a quelle più alte (volte alla piena realizzazione del proprio potenziale umano – autorealizzazione).

Bisogni e motivazioni hanno lo stesso significato e si strutturano in gradi, connessi in una gerarchia di prepotenza relativa; il passaggio ad uno stadio superiore può avvenire solo dopo la soddisfazione dei bisogni di grado inferiore.

Egli sostiene che la base di partenza per lo studio dell’individuo è la considerazione di esso come globalità di bisogni. Maslow sostiene che saper riconoscere i bisogni dell’individuo favorisce un’assistenza centrata sulla persona. Ogni individuo è unico e irripetibile, invece, i bisogni sono comuni a tutti, si condividono, si accomunano e fanno vivere meglio se vengono soddisfatti. Maslow suddivide i bisogni in “fondamentali” e “superiori” ritenendo quest’ultimi quelli psicologici e spirituali. Di fatto però la non soddisfazione dei bisogni fondamentali, definiti anche elementari, porta alla non soddisfazione di quelli superiori.

Le teorie di Maslow permettono di porsi in una condizione di autocritica analizzando la personale capacità di soddisfare quelli che sono i propri bisogni e in base a questi saper comprendere quelli che sono i bisogni dell’altro.

Per Maslow, una volta che un individuo percepisce un bisogno, pone in essere gli strumenti ritenuti più adatti a soddisfarlo.

Secondo questa teoria i bisogni percepiti dall’individuo sono raggruppabili in cinque diverse categorie e sono organizzati secondo una precisa gerarchia.

Partendo dalla base troviamo i bisogni fisiologici (fame, sete, riposo, riparo), quelli legati alla sopravvivenza dell’uomo.

Seguono poi i bisogni di sicurezza legati al desiderio di protezione e di tranquillità.Tra questi il senso di sicurezza fisica, garantita dalle norme che tutelano la salute e l’incolumità dei lavoratori, come  ad esempio il bisogno di stabilità del lavoro, il bisogno di assistenza di fronte alle malattie e gli infortuni.

Un gradino più sopra si trovano i bisogni sociali, quali il senso di appartenenza ad un gruppo, il bisogno di accettazione, di riceve amicizia ed affetto. Salendo ancora Maslow colloca i bisogni di stima, intendendoli sia da parte degli altri sia nel senso di autostima.

Infine, all’ultimo gradino, troviamo i bisogni di autorealizzazione legati al desiderio di “voler essere” in base alle proprie capacità ed aspirazioni.

Figura: La piramide dei bisogni di Maslow.

 

© “Il Counseling ed il bilancio di competenze in azienda. Ipotesi di una sinergia professionale orientata alla persona e al business” – Dott.ssa Camilla Girelli

 

Fritz Perls e la terapia della Gestalt

I padri fondatori del counseling: Fritz Perls e la terapia della Gestalt

“ Il terapeuta è simile a ciò che il chimico chiama un catalizzatore, cioè l’elemento che fa precipitare una reazione, la quale altrimenti avrebbe potuto non verificarsi. Non è questo elemento a stabilire il tipo di reazione, dato che essa dipende dalle proprietà reattive intrinseche dei materiali presenti; e non viene neppure a far parte del composto di cui favorisce la formazione. Il suo compito si limita a far iniziare il processo, dal momento che ci sono processi, che, una volta iniziati, sono autosufficienti e autocatalitici. A nostro avviso, la terapia è uno di questi processi, in quanto una volta che il medico lo abbia messo in moto, il paziente lo porta avanti da sé.

(La terapia della Gestalt, 1951)

La metodologia utilizzata nel Gestalt Counseling è ispirata alla Terapia della Gestalt concepita da Fritz Perls e sviluppata da molti altri studiosi, fra cui in particolare Isha Bloomberg, che fortemente ha influenzato la filosofia e la crescita del nostro Istituto.

Il Gestalt Counseling si basa sul presupposto che l’individuo e il suo ambiente rappresentano un campo indivisibile e qualsiasi stato di sofferenza nasce dalla confusione e dal cattivo funzionamento al confine di contatto fra essi.

Il fuoco dell’intervento di Gestalt Counseling è dunque la modalità specifica di interazione fra l’individuo e “gli altri” dell’ ambiente di vita, e i suoi obiettivi sono la presa di consapevolezza delle interruzioni difensive del contatto e lo sviluppo di nuove strategie e competenze in grado di sostenere lo scambio positivo di informazioni ed energia.

La comunicazione interpersonale è un flusso continuo e inarrestabile di informazioni che influenzano e sono influenzate da qualsiasi stato di sofferenza/stallo o di eccitazione/cambiamento tra gli individui in relazione. La struttura sistemica e la dinamica del processo di contatto sono peraltro molto più importanti dei contenuti della comunicazione, ossia il “come” è prioritario rispetto al “cosa” e perfino rispetto al “perché”.

L’intervento è sul qui e ora della persona piuttosto che nel racconto della sua storia; essa è utile perché ci dà informazioni su tutti quegli eventi che continuano ad essere importanti e non conclusi per la persona, ma è in ciò che succede nella relazione attuale tra l’individuo e il suo ambiente che abbiamo gli elementi vivi che possono sostenere la trasformazione e la crescita.

Poiché inoltre qualsiasi vissuto psicologico è in relazione con i processi corporei (la respirazione, le tensioni croniche, il modo di muoversi, la relazione col cibo) il Gestalt Counseling dedica ad essi la massima attenzione, intendendoli sia come elementi di comunicazione non verbale che come strumenti di consapevolezza.

Sono perciò state sviluppate particolari tecniche di sperimentazione esperienziale nel contesto sostenente del gruppo di formazione che, a partire dalla consapevolezza sensoriale ed emotiva, aiutano la persona ad alienarsi qui ed ora dalle soluzioni relazionali inefficaci per identificarsi creativamente nell’intuizione della soluzione emergente e poi estenderla al proprio ambiente di vita. Il

 

Ciclo della Gestalt è così suddiviso:

1° fase: Pre­Contatto: è in questa fase che si percepiscono i bisogni e si cominciano ad articolare i desideri.

2° fase: Contatto: in questa fase il soggetto mette e a fuoco e simbolizza con maggiore chiarezza il proprio bisogno e si prepara ad affrontare l’ambiente in seguito ad una decisione responsabile.

3° fase: Contatto pieno: in questa fase l’azione del soggetto è unificata nel Qui ed Ora; esiste coesione tra percezione, emozione e movimento.

4° fase: Post­contatto: è la fase di assimilazione che promuove la crescita. L’individuo integra l’esperienza in tutto il pregresso bagaglio della persona.

© “Il Counseling ed il bilancio di competenze in azienda. Ipotesi di una sinergia professionale orientata alla persona e al business” – Dott.ssa Camilla Girelli

I padri fondatori del Counseling: Rollo May

I padri fondatori del Counseling: Rollo May

“Compito del counselor è quello di assistere il cliente nella ricerca del suo vero sé e poi di aiutarlo a trovare il coraggio di essere quel sé.”(L’arte del Counseling, 1989).

Rollo May, oltre ad essere medico, fu anche analista didatta. Supervisore all’Institute of Psychiatry, Psychoanalysis, Psychology. È considerato il padre della psicologia esistenzialista americana. Autore di numerose opere, pubblica “L’Arte del Counseling”, ove descrive gli aspetti fondamentali del processo di Counseling, distinguendo quattro fasi: prendere contatto, stabilire il rapporto, confessione del disturbo e interpretazione. La fase conclusiva del superamento del problema, la vera trasformazione della personalità, spetta solamente al Cliente: il Counselor può solo guidarlo, con empatia e rispetto, a ritrovare la libertà d’essere se stesso.

Fare counseling e dare consigli sono due funzioni nettamente distinte. Il consiglio è un rapporto a senso unico. Il vero counseling opera in una sfera più profonda, e le sue conclusioni sono sempre il risultato del lavoro congiunto di due personalità che lavorano allo stesso livello.(May, 1991).

Ciò richiede una profonda empatia, la comprensione del carattere e delle tensioni interne della personalità, la capacità di accettare e rispettare gli altri senza falsi moralismi, l’umiltà di non imporre le proprie scelte di vita.

Il compito del counselor è quello di favorire lo sviluppo e l’utilizzazione delle potenzialità del cliente, aiutandolo a superare quei problemi di personalità che gli impediscono di esprimersi pienamente e liberamente nel mondo esterno.

Fondamentale è il concetto di personalità nell’ottica di Rollo May : “Il compito del counselor è quello di favorire lo sviluppo e l’utilizzazione delle potenzialità del cliente, aiutandolo a superare quei problemi di personalità che gli impediscono di esprimersi pienamente e liberamente nel mondo esterno. “ (May, 1991).

La ricerca contemporanea sulla personalità tiene conto non soltanto degli aspetti caratteriali, ma anche di quelli temperamentali e neurobiologici.

Le formulazioni neurobiologiche e biopsicosociali hanno destato un notevole interesse e hanno portato ad una considerevole quantità di ricerche.

Cloninger et al. (2000) hanno descritto la personalità come la sintesi tra carattere e temperamento, dove per temperamento s’intendono le influenze e costituzionali esercitate sulla personalità, mentre il termine carattere si riferisce alle influenze apprese tramite il processo di socializzazione.

Secondo Cloninger dunque nel suo modello biosociale la personalità è composta dai seguenti sette fattori:

temperamento

 

carattere

 

1. ricerca di novità

 

1. gestione del sé

 

2. evitamento del danno

 

2. cooperatività

 

3. dipendenza dalla ricompensa

 

3. senso dell’esistenza

 

4. persistenza

 

Cloninger sostiene che gli stili di personalità sono riconducibili alla combinazione tra i fattori temperamentali e punteggi positivi o elevati nei tre fattori caratteriali. Al contrario i disturbi di personalità deriverebbero da punteggi negativi o bassi dei fattori caratteriali.

 

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I padri fondatori del Counseling: Carl Rogers

I padri fondatori del Counseling

Carl Rogers

“…se una persona si trova in difficoltà, il miglior modo di venirle in aiuto non è quello di dirle cosa fare, quanto piuttosto quello di aiutarla a comprendere la sua situazione e a gestire il problema assumendo da sola e pienamente le responsabilità delle scelte eventuali.”(La Terapia centrata sul cliente, 1951).

Carl Rogers, psicologo e filosofo di fama mondiale è considerato il padre della Psicologia Umanistica e del Counseling. Nel 1951 pubblica “ La Terapia Centrata sul Cliente”, sintesi del suo pensiero e testo sacro del Counseling.

La terapia centrata sul cliente è un approccio che si basa su alcuni assunti concernenti la natura umana e i mezzi con i quali possiamo provare a comprenderla:

Le persone possono essere capite solamente partendo dalle loro percezioni e dai loro sentimenti, ossia dal loro mondo fenomenologico. Per capire un individuo dobbiamo concentrare la nostra attenzione non sugli eventi che egli esperisce, ma sul modo in cui li esperisce, perché il mondo fenomenologico d’ogni persona è la determinante principale del suo comportamento e ciò che la rende unica.

Le persone sane sono consapevoli del loro comportamento. In questo senso il sistema di Rogers è simile a quello della psicanalisi e dell’analisi dell’Io, poiché pone la consapevolezza delle motivazioni tra i suoi obiettivi principali.

Le persone sane sono per loro natura, buone e capaci di comportarsi in maniera efficace; esse diventano inefficaci e disturbate solamente, quando interviene un apprendimento errato.

Le persone sane sono capaci di comportamenti finalizzati e sanno darsi degli obiettivi. Esse non rispondono passivamente all’influenza dell’ambiente o alle proprie pulsioni interiori, e sono in grado di compiere scelte autonome. In quest’asserzione Rogers è più vicino agli psicanalisti dell’Io che agli psicanalisti freudiani ortodossi.

Il terapeuta non dovrebbe cercare di manipolare gli eventi per conto del cliente; piuttosto dovrebbe creare le condizioni in grado di facilitare un processo decisionale autonomo da parte sua. Quando le persone non si preoccupano eccessivamente delle valutazioni, delle esigenze e delle preferenze altrui, la loro esistenza risulta guidata da una tendenza innata all’autorealizzazione.

Sulla base del presupposto che una persona matura e bene adattata fonda i suoi giudizi su elementi intrinseci di soddisfacimento e autorealizzazione, Rogers evitava di imporre obiettivi al cliente durante la terapia. Secondo Rogers è il cliente che deve “prendere il comando” e dirigere l’andamento della conversazione e della seduta. Il compito del terapeuta è quello di creare le condizioni per cui durante la seduta il cliente possa entrare in contatto con la sua natura più profonda e valutare da solo quale stile di vita è per lui intrinsecamente gratificante. Poiché avesse un visione molto positiva delle persone, Carl Rogers riteneva che attraverso l’esercizio di decisioni autonome esse sarebbero riuscite non solo ad essere soddisfatte di se stesse, ma anche a diventare delle persone capaci di instaurare relazioni socialmente adeguate. La strada per raggiungere queste decisioni corrette, tuttavia, non è facile.

Secondo Rogers e gli altri terapeuti del filone umanistico ed esistenziale, le persone devono assumersi la responsabilità della propria vita anche quando sono disturbate. È spesso difficile per un terapeuta astenersi dal dare consigli, dal farsi carico dell’esistenza del cliente, specialmente, quando tale cliente appare incapace di prendere decisioni autonome. Ma i rogersiani si attengono strettamente alla regola secondo cui, data un’atmosfera terapeutica calda, sollecita e ricettiva, l’innata capacità di crescita e d’autorealizzazione dell’individuo alla fine si affermerà. Essi ritengono che se il terapeuta interviene scopertamente, il processo di crescita e di autorealizzazione ne risulterà solo ostacolato, e che qualunque sollievo a breve termine possa derivare dall’intervento del terapeuta esso interferirà con la crescita a lungo termine.

Il terapeuta non deve diventare l’ennesima persona i cui desideri il cliente deve cercare di soddisfare, il terapeuta dovrebbe possedere tre qualità fondamentali: autenticità, considerazione positiva e incondizionata e profonda comprensione empatica.

L’autenticità, talvolta chiamata congruenza, comprende la spontaneità, l’apertura e la genuinità. Il terapeuta non ha niente di fasullo, non si nasconde dietro una facciata professionale, e rivela i suoi pensieri e sentimenti al cliente in maniera informale e schietta. In un certo senso il terapeuta, mettendosi così onestamente allo scoperto, fornisce un modello di ciò che il cliente stesso può diventare se si mette in contatto con i suoi sentimenti, li esprime e si assume la responsabilità di farlo. Il terapeuta ha il coraggio di presentarsi agli altri per quello che veramente è.

Il secondo attributo di un bravo terapeuta, secondo Rogers, è la capacità di offrire una considerazione positiva incondizionata. Egli apprezza il cliente per quello che è e gli comunica un affetto non possessivo, anche quando non approva il suo comportamento. Le persone hanno valore semplicemente per il fatto di essere persone e il terapeuta deve avere profondamente a cuore il cliente e rispettarlo, per la semplice ragione che egli è un essere umano impegnato nella lotta per crescere e stare al mondo.

La terza qualità, una profonda comprensione empatica, è la capacità di vedere il mondo – momento per momento – attraverso gli occhi del cliente, di comprendere i sentimenti sia da suo personale punto di vista fenomenologico, di cui il cliente è ben conscio, sia da prospettive di cui egli potrebbe essere solo confusamente consapevole.Per Rogers è molto importante creare un clima, un’atmosfera che faciliti la relazione. Scrive a questo proposito: “ le condizioni che creano questa atmosfera non sono la cultura, la preparazione intellettuale, l’orientamento ideologico o le tecniche. Sono i sentimenti e gli atteggiamenti  che devono essere vissuti dal counselor e percepiti dal cliente”.
(Rogers, 1971).

© “Il Counseling ed il bilancio di competenze in azienda. Ipotesi di una sinergia professionale orientata alla persona e al business” – Dott.ssa Camilla Girelli

Teorie e modelli del counseling: Le radici teoriche

Teorie e Modelli del Counseling: Le radici teoriche

 

L’emergere del Counseling
La storia della psicoterapia è stata molto più compiutamente documentata di quella del counselling. Il counselling, come professione distinta, venne alla luce solamente negli anni ’40. Uno dei marker pubblici dell’emergere, in quel periodo, del counselling (sebbene tale disciplina esistesse in qualche modo da almeno 50 anni, se non di più) fu che Carl Rogers, affrontando l’opposizione della professione medica all’idea che ciascuno senza un training medico potesse dichiararsi ‘psicoterapeuta’, iniziò ad usare il termine ‘COUNSELLING AND PSYCHOTHERAPY’ per descrivere il suo approccio. Sebbene in molti modi il counselling, sia allora sia oggi, può essere visto come un’estensione della psicoterapia, una attività parallela o addirittura un mezzo per fare il marketing della psicoterapia a nuovi gruppi di consumatori, vi sono anche almeno due importanti filoni storici che differenziano il counselling dalla psicoterapia:
– il coinvolgimento nel sistema educativo-scolastico;
– il ruolo del settore del volontariato.
L’American Personell and Guidance Association (APGA), che divenne in seguito l’American Association for Counseling (ACA), fu fondata negli USA nel 1952, attraverso la fusione di un numero di gruppi di orientamento e guida vocazionale che erano già ben istituiti e presenti in quel tempo. Il corpo societario della APGA era costituito da counsellors che lavoravano in scuole, college e in servizi di consulenza alla carriera. In Gran Bretagna, lo Standing Council for the Advancement of counselling (SCAC), che divenne più tardi la British Association for Counselling, fu inauguratonel 1971 da un network di persone che erano primariamente nei servizi sociali, nel social work e nel settore del volontariato.
Le premesse della formazione di queste organizzazioni possono essere comprese in termini di senso di crisi nella società, o in un panico morale, in varie aree della vita sociale. In effetti, vi era un senso di forte disagio attorno ad alcuni aspetti della rottura dell’ordine sociale e l’individuazione di gruppi di persone che venivano trattati in qualche modo ingiustamente.
Queste crisi erano caratterizzate da un’ampia diffusione del problema, da dibattiti nei giornali e nelle riviste, e da sforzi di compiere cambiamenti politici e legislativi. Ad un certo punto, in tale processo, qualcuno avrebbe avuto l’idea che il mezzo migliore di aiutare sarebbe stato quello di trattare ogni persona che avesse avuto bisogno di assistenza come un individuo, discutendo con lui della questione, e trovando con tale persona il modo migliore di andare avanti nei termini dei suoi bisogni e situazione specifici ed unici. L’idea del counselling sembra essere emersa in questo modo e in parte simultaneamente in molti campi dell’azione sociale.
Probabilmente il secondo esempio che è documentato, si può ricondurre al lavoro del riformatore sociale statunitense Frank Parsons (1845-1908). Parsons era un ingegnere, avvocato e scrittore, poi diventato docente alla Boston University. Era ben conosciuto internazionalmente per le sue lezioni ed i suoi scritti che argomentavano contro il capitalismo incontrollato del tempo, e proponevano che il capitalismo dovesse essere rimpiazzato da una filosofia della mutualità, la sostituzione della competizione con la cooperazione e l’avidità di denaro con la preoccupazione per l’umanità. Fece campagne per il voto alle donne e per la proprietà pubblica di aziende chiave per l’economia ed il welfare americani. Verso la fine della sua vita s’interessò particolarmente ad aiutare i giovani a trovare il lavoro giusto per se stessi. Fondò così il “Vocation Bureau”in un distretto di forte immigrazione di Boston, dove s’intervistavano e valutavano i giovani, fornendo loro informazioni circa possibili scelte di carriera. Si fornivano loro opportunità di fare questo, anche esplorando i loro sentimenti circa il lavoro che li sarebbe piaciuto fare.
La filosofia del Bureau era chiaramente radicata in ciò che ora consideriamo essere un approccio di counselling. Parsons affermava che nessuna persona può decidere per un’altra quale occupazione dovrebbe scegliere, ma è possibile aiutarla affinché abbia un approccio al problema che possa portarlo ad una saggia decisione per sé stesso.
Questo Bureau funzionò da catalizzatore per l’espansione del counselling nelle scuole e nei servizi di orientamento vocazionale in tutti gli USA. Negli anni ’20 e ’30 il counselling era offerto nel sistema scolastico e dei college come guida e orientamento alla carriera, e inoltre come servizio per quei ragazzi che avevano difficoltà di adattamento scolastico e allo studio. Valutazioni e test psicologici venivano regolarmente somministrati, ma c’era sempre un elemento di discussione o interpretazione del problema dello studente o del risultato del test.
A differenza della psicoterapia, che si occupa di disagio psicologico acuto o cronico con interventi a breve, medio o lungo termine, miranti a ristabilire l’equilibrio psichico o a riorganizzare l’assetto della personalità complessiva, il counseling interviene (sempre nel breve/medio termine) per cercare di impedire che la crisi temporanea si trasformi in disagio, per ampliare la prospettiva angusta del cliente intorno ad un problema, per sostenerlo a fronte di un evento imprevisto spiacevole o di una decisione delicata da prendere, o, ancora, per accompagnarlo in un momento in cui si trova alle prese con eventi o situazioni che lo disorientano.
Il patrimonio teorico che ha dato origine alla psicoterapia è quello psicoanalitico, con un forte orientamento alla rilettura del passato; le radici teoriche del counseling sono invece fenomenologico-esistenziali, ovvero hanno da subito posto al centro del proprio interesse il vissuto individuale e l’osservazione del fenomeno (inteso come ciò che accade qui e ora nella relazione con il cliente). Questo non perché non sia possibile una lettura ipotetica delle motivazioni inconsce, ma perché tale lettura, oltre ad essere poco compatibile con gli scopi del counseling, allontana dal contatto con il cliente e lo de-responsabilizza, ponendo il counselor nel ruolo dell’esperto-che-sa, laddove il suo compito è quello di agevolatore.
Nonostante le profonde differenze, counseling e psicoterapia condividono, tuttavia, alcuni importanti strumenti quali l’instaurazione e il mantenimento di una relazione autentica con il cliente – basata sull’empatia, sull’ascolto attivo, sull’accettazione incondizionata e sulla congruenza tra linguaggio verbale e non verbale – nonché il concetto di responsabilità del cliente (nel counseling) o paziente (in psicoterapia) nei confronti del proprio processo di cambiamento.
Assumono rilevanza i fattori comuni, che la ricerca empirica ha evidenziato come determinanti nella riuscita dell’intervento di sostegno. Il principale fattore comune risiede nella qualità della relazione, determinata dal clima d’accoglienza e fiducia, dalla corrispondenza delle aspettative counselor-cliente e dall’alleanza collaborativa motivazionale.
Il principio ispiratore di base è quello della Psicologia Umanistica e di Comunità, approcci che propongono una psicologia della salute, con una visione pragmatica, educativa, pedagogica e preventiva, più ecologica e meno curativa.
I concetti di crescita, ciclo evolutivo e salute sono fondamentali; il presupposto è che l’individuo sia in continua evoluzione e che in alcuni momenti quest’evoluzione può essere rallentata per delle difficoltà.
L’apporto fenomenologico-esistenziale nell’assetto formativo, consente di porre l’accento sul processo di cambiamento.
Un altro apporto teorico-pratico importante proviene dall’approccio interpersonale, che pone l’accento sulla relazione in atto come il prodotto di reciprocità paritetica, con interventi confrontativi, di consulenza educativa, di sostegno e di qualunque modalità operativa finalizzata all’assunzione d’iniziativa e attività da parte del cliente.
L’apporto costruttivista evolutivo offre opportunità d’utilizzazione anche al momento della valutazione dell’assetto motivazionale e attitudinale tanto del counselor in formazione che del cliente: sapere come una persona costruisce i propri sistemi di significato ci consente di orientarci con più facilità nel suo mondo.
Solitudine, dubbio, aggressività, sessualità, morte, mancanza di autostima sono i più comuni esempi di difficoltà esistenziali per i quali un counselor può essere consultato. Un agevolatore al passo con i tempi riflette i mutamenti sociali e professionali e ha familiarità con molti approcci e strategie.
L’obiettivo dell’aiuto è quello di integrare i tre campi – cognitivo, affettivo e comportamentale – per aiutare il cliente a diventare consapevole delle sue responsabilità e scelte.
Il contesto della relazione costituisce il più importante veicolo di cambiamento, attraverso le sue qualità strutturali (setting, regole, confini, contratto) e di processo interpersonale (coinvolgimento, fiducia, empatia, sintonizzazione, alleanza).
La comunicazione, verbale e non verbale, è il mezzo attraverso il quale prende vita la relazione: quando le comunicazioni del counselor si collocano ad un buon grado di corrispondenza con i parametri interpersonali del cliente, il processo d’aiuto procede più efficacemente.

 

Le radici motivazionali effettive
La contrazione spazio-temporale, derivante dalla velocità delle notizie e da quella degli spostamenti nel mondo intero, ha prodotto ricadute negative sui legami d’intimità, sulla possibilità di costruire reti interpersonali significative e di vivere pienamente il contatto con le esperienze, gli eventi quotidiani e la vicinanza affettiva nelle relazioni. L’ambiente produce forti sollecitazioni e richieste che, per l’intensità e la complessità, stressano il potenziale d’adattamento personale e danno origine a risposte emotive e comportamentali di disagio esistenziale, relazionale, sociale.
In questo contesto il counseling offre uno spazio di ascolto, supporto e orientamento, all’interno di una relazione basata sul riconoscimento, sul rispetto e sulla congruenza. Il counselor è una delle figure professionali capaci di offrire risposte articolate e globalmente pianificate, con un alto livello di operatività finalizzata all’uso ottimale delle risorse, a fonte di un impiego di costi contenuti.

 

 

 

 

 

 

 

Teorie e Modelli del Counseling: La comunicazione non verbale

Teorie e Modelli del Counseling: La comunicazione non verbale

 

Il ruolo fondamentale svolto dalla comunicazione non verbale nel processo comunicativo è ormai ampiamente condiviso e dimostrato, per quanto non si possa parlare ancora di un sistema teorico consolidato. Attraverso il linguaggio non verbale avviene una trasmissione d’informazioni tramite strumenti d’interazione diversi da quelli previsti dal linguaggio verbale, parlato o scritto, e che queste informazioni si rivelano particolarmente rilevanti della decodifica del messaggio da parte del destinatario e/o ricevente. La comunicazione verbale e la comunicazione non verbale sono pertanto riconosciute dipendenti e interagenti nell’ambito di uno stesso processo comunicativo.

 

Secondo Lowen (1958) l’individuo parla più chiaramente con il movimento, con la postura, con l’atteggiamento mimico e prossemico che con le parole, esprimendosi in un linguaggio che anticipa e trascende l’espressione verbale.

 

A proposito della comunicazione di stati emotivi e di atteggiamenti (amicizia, disponibilità, affidabilità, propensione, ecc. e relativi contrari), le ricerche hanno evidenziato che la comunicazione non verbale risulta più efficace e significativa della comunicazione verbale. Gli studi di Argyle et Al. (1970) hanno dimostrato che gli indici non verbali influenzano ad un livello particolarmente significativo i giudizi di atteggiamenti come l’inferiorità/superiorità, l’amicizia/ostilità, molto di più degli indici verbali.

 

Nel linguaggio non verbale giocano un ruolo importante: il volto (la mimica), lo sguardo, la postura, l’orientamento spaziale, la distanza interpersonale, il contatto corporeo, i movimenti del corpo, la gestualità, la voce, gli elementi paralinguistici, l’aspetto esteriore.

 

Raggruppandoli in macrounità, si può parlare di comportamento mimico del volto, comportamento relativo allo sguardo, comportamento spaziale (che comprende postura, orientamento spaziale, distanza interpersonale e contatto corporeo), comportamento motorio-gestuale (che comprende i movimenti del corpo e la gestualità), aspetti non verbali del parlato (sistema motivazionale, vale a dire la voce e sistema paralinguistico), l’aspetto esteriore.

 

·Comportamento mimico del volto 
Il volto costituisce uno dei canali privilegiati della comunicazione non verbale, essendo la parte del corpo più indicativa nell’ambito espressivo-comunicativo. Il volto è interessante non tanto per le caratteristiche fisiche strutturali (che rimandano alle considerazioni sull’aspetto esteriore, ma per le espressioni che i soggetti sono in grado di produrre in gran quantità, grazie all’azione dei muscoli mimici. Due aree si possono delimitare nel volto riguardo alla loro valenza espressiva: un’area superiore che comprende occhi, sopracciglia e fronte ed un’area inferiore che comprende bocca e naso (Ricci, Bitti e Zani, 1983).

 

In rapporto all’interazione comunicativa in corso avviene un’interrelazione stretta con la comunicazione linguistica: le espressioni facciali del parlante accompagnano, sottolineano, enfatizzano, ridimensionano il contenuto del messaggio; le espressioni facciali dell’ascoltatore commentano quel contenuto esprimendo accordo, disaccordo, attenzione, interesse, dubbio o perplessità, ecc.

 

·Comportamento relativo allo sguardo
Lo sguardo è costituito da elementi fisiologici e involontari (battito delle palpebre, dilatazione delle pupille, ecc.) e da elementi d’uso consapevole, riassumibili nella dimensione del guardare e in quella dell’essere guardati, che possono dare origine, a seconda dell’intensità e della durata, a sensazioni di gradimento, di disagio o di ansia. Sostanzialmente il comportamento visivo degli interlocutori unitamente alle espressioni dei loro volti costituisce un valido feedback informativo riguardo alla percezione, al giudizio e all’atteggiamento degli altri nei nostri confronti.

 

·Comportamento spaziale
La postura è il modo in cui i soggetti dispongono le parti del loro corpo. La testa, ad esempio, può essere piegata da un lato oppure ruotata, così come le spalle; le braccia e le gambe possono assumere posizioni diverse e presentarsi tese o rilassate secondo un range di gradualità; il modo in cui i soggetti camminano o stanno fermi in piedi o si mettono a sedere può essere molto diverso, dal momento che la modalità può oscillare all’interno di una polarità di maggiore o minore compostezza e/o conformità al contesto. Gli aspetti posturali dei partecipanti ad un’interazione rivestono una funzione comunicativa, ma la postura costituisce un segnale in larga misura involontario. Perché si possa parlare di funzione comunicativa in senso proprio, è necessario avere lo scopo comunicativo e possibilmente raggiungerlo, sempre all’interno di un codice condiviso; mentre la funzione indicativa non si occupa della valenza comunicativa.

 

L’orientamento spaziale comunica gli atteggiamenti interpersonali tramite il modo in cui gli individui si situano nello spazio. L’orientamento individua precisamente l’angolazione secondo la quale i soggetti si dispongono l’uno rispetto all’altro nello spazio. I due orientamenti spaziali predominanti sono costituiti dalla collocazione faccia a faccia, che tende a manifestarsi quando il rapporto è su base gerarchica, e da quella fianco a fianco, che tende a veicolare intimità e/o collaborazione.

 

·Comportamento motorio – gestuale
I movimenti del corpo e la gestualità riguardano parti diverse del corpo: per movimenti s’intendono quelli prodotti dalle braccia e dalle mani, i cenni della testa, i movimenti di gambe e piedi, e così via, mentre con il termine gesti si fa riferimento ad azioni prodotte intenzionalmente per comunicare informazioni, per quanto esistano gesti spontanei ed involontari che veicolano una grande quantità di informazioni anche senza la consapevolezza del soggetto.

 

·Aspetti non verbali del parlato
Gli aspetti non verbali del parlato sono costituiti dal sistema voce paralinguistico, che si distingue in qualità della voce e vocalizzazioni. La qualità della voce è relativa a tono, risonanza, controllo di articolazione. Rispetto alle vocalizzazioni, che sono ovviamente non verbali, si può operare una suddivisione in segregati vocali ( “Uh”, “Hum”), caratterizzatori vocali (sospiri, gemiti, pianto, riso), qualificatori vocali intensità, timbro ed estensione).

 

Gli atteggiamenti e gli stati emotivi si possono rivelare facilmente attraverso il canale della voce, poiché su di esso non si riesce ad esercitare un particolare controllo.

 

Una successiva considerazione merita il silenzio per l’ambiguità e la molteplicità di significati a cui può essere correlato: a seconda dell’interpretazione del soggetto, il silenzio può presentarsi come misterioso, inquietante, minaccioso, può indurre reazioni di ansietà, frustrazione, irritazione e addirittura regressione all’infanzia.

 

·Aspetto esteriore
L’aspetto esteriore è determinato dall’apparenza fisica e dall’abbigliamento. Secondo Cook (1971) tra i segnali statici, vale a dire che trasmettono informazioni durature all’interno dell’interazione, in questo ambito possiamo annoverare il volto, la conformazione fisica, l’abbigliamento, il trucco, l’acconciatura, lo stato della pelle. Il volto fornisce informazioni generali, soprattutto sulla razza di appartenenza, l’età ed il sesso del soggetto. Dalle ricerche emerge ancora che la conformazione

 

fisica ( forma e dimensione del corpo e la maggiore o minore gradevolezza estetica) costituiscono segnali non verbali in grado d’influenzare gli interlocutori, magari sulla base di alcuni stereotipi sociali. Rispetto all’abbigliamento, trucco, acconciatura, stato della pelle, ecc. si comprende immediatamente come questi segnali coinvolgano direttamente il soggetto e presuppongono un suo controllo volontario. L’abbigliamento costituisce un potente mezzo di segnalazione sociale: la sua forte valenza comunicativa è originaria dalla sua visibilità e dal fatto che si tratta di un segnale leggibile ad una distanza più ampia di quella necessaria per percepire altri segnali inviati dal corpo.

 

Il linguaggio non verbale comprende pertanto una vasta serie di indicatori di tipo paralinguistico, cinesico o prossemico con varie funzioni, riassumibili in funzioni orientate al messaggio e funzioni sociali. Alle prime appartiene la ripetizione del messaggio verbale, la sostituzione di parti del messaggio verbale, il completamento o la chiarificazione del messaggio, la contraddizione del messaggio verbale, il rinforzo del contenuto verbale. Alle seconde appartiene l’identificazione, la formazione e il controllo della conversazione (turni di conversazione, saluti, ecc.).
(A.Di Fabio, 1999).

 

 

 

 

 

 

Teorie e Modelli del Counseling: La comunicazione linguistica

 

Teorie e Modelli del Counseling: La comunicazione linguistica

 

Tracciata questa premessa, cosa significa precisamente comunicare? L’etimologia del termine si riconnette all’azione di “rendere comune” con un’operazione di trasmissione; in ambito linguistico per comunicazione s’intende propriamente trasmettere delle informazioni utilizzando un codice.

 

Per codice s’intende un sistema di simboli regolati da rapporti di corrispondenze significato/significante, che risponde a regole lessicali e a regole sintattiche.

 

Lo schema tradizionale dell’atto comunicativo prevede pertanto un emittente (il soggetto che vuole avviare una comunicazione), un destinatario (il soggetto a cui la comunicazione è destinata), un ricevente (il soggetto che riceve la comunicazione), un referente (tema o argomento a cui la comunicazione fa riferimento), un messaggio (ciò che è comunicato), un codice (che deve essere condiviso), un canale (serve a garantire la trasmissione del messaggio).

 

Il linguaggio è soltanto uno dei tanti sistemi di comunicazione che l’uomo ha a disposizione. L’uomo ha, infatti, la facoltà di comunicare non solo utilizzando il codice linguistico, ma anche attraverso gesti e atteggiamenti, per mezzo di immagini, mostrando oggetti, con segnali luminosi, con segnali sonori.

 

In relazione al codice linguistico, che senza dubbio è il sistema di comunicazione più conosciuto ed anche il più studiato, è da tenere presente che la lingua è in continuo cambiamento, che si diversifica nello spazio geografico e si modula in registri (da quello più familiare a quello più elevato ed ufficiale).
(Di Fabio, 1999).

 

 

 

 

 

 

Teorie e Modelli del Counseling: La comunicazione interpersonale

Teorie e Modelli del Counseling: La comunicazione interpersonale

 

Il Counseling, radicato nel mondo anglo-americano, si è diffuso anche in Europa; tra molti tratti che lo contraddistinguono emergono l’impostazione non direttiva e la caratteristica d’intervento breve, circoscritto nel tempo. Dalle prime acquisizioni teoriche sull’argomento, scaturite da una riflessione critica su pratiche e metodiche, molta strada è stata compiuta sotto il profilo euristico. Il counseling rappresenta un punto naturale d’intersezione e convergenza di studi che su piani diversi la psicologia sociale, clinica e dello sviluppo hanno condotto separatamente.

 

La non direttività postula modalità d’intervento volte all’autonomia ed alla responsabilizzazione del soggetto attraverso un aumento della sua consapevolezza; l’uso del colloquio come modalità di comprensione-chiarificazione in relazione ad un soggetto-cliente attivo ed attore in prima persona, contrapposto al paziente, colloca l’intervento su un versante preventivo; la particolare attenzione al versante comunicativo e relazionale ricorda l’importanza prioritaria del sapere essere dell’operatore e della sua congruenza operativa.

 

Il counselor si delinea pertanto come un esperto di comunicazione e relazione, in grado di facilitare il percorso di autoconsapevolezza dell’interlocutore. Richiede di conoscenza di sé, di competenze integrate relative ai vari livelli comunicativi, di conoscenze approfondite sulle dinamiche relazionali.( Di Fabio, 1999).

 

La comunicazione interpersonale
La comunicazione, intesa genericamente come passaggio continuo d’informazioni, è un fenomeno che riguarda tutti gli organismi viventi (umani, animali, vegetali).

 

La comunicazione interpersonale riguarda la relazione “vis à vis”, in cui maggiormente si realizzano tutte le potenzialità e la ricchezza comunicativa. Il termine comunicazione riveste un ruolo fondamentale nelle scienze sociali e del comportamento perché è ampiamente condiviso il suo valore di elemento costitutivo nell’intreccio dei rapporti tra gli individui.

 

Il modello più semplice:
Emittente  —  Messaggio  —  Ricevente.

 

Approfondendo per contrasto la comunicazione interpersonale, le caratteristiche fondamentali che risultano in grado di differenziarla dal comportamento e dai messaggi naturali sono due: l’intenzionalità e la processualità.

 

L’intenzionalità fa riferimento ad un livello di consapevolezza indispensabile da parte dell’emittente, ma anche del ricevente, per la decodifica, per quanto l’intenzionalità vada intesa come un continuum che procede da un livello particolarmente ridotto fino ad un livello massimo.

 

La processualità fa riferimento ad un sistema composto da soggetti sociali all’interno di una serie di eventi. Questo significa che la comunicazione presuppone soggetti attivi nella costruzione e condivisione di significati all’interno dei contesti sociali quotidiani, informali e formali.

 

Poiché la comunicazione si realizza sulla base di questi presupposti, si concretizza grazie all’interazione e relazione tra gli interlocutori. Per questo non è possibile e soprattutto non è proficuo isolare i singoli elementi di un atto comunicativo, così come non lo è isolare gli atti comunicativi dal loro ambiente spazio-temporale e sociale.

 

Quindi l’interazione sociale comunicativa deve essere ricondotta ad un processo d’interrelazione tra individui (Bateson, 1972). Questo significa sottrarre il processo comunicativo ad una visione semplicistica che la descrive e la analizza in termini di variabili intraindividuali di un soggetto (motivazione, attitudini, caratteristiche di personalità, ecc.), la cui influenza si realizza su altre variabili intraindividuali.

 

Grazie all’elemento comunicazione si da importanza al fatto che il cliente percepisca, almeno in parte, l’accettazione e l’empatia che il counselor prova per lui ed implica un’attenzione da parte del counselor sul modo in cui il cliente riceve le sue comunicazioni.

 

Esaminando le condizioni che Rogers considera fondamentali e necessarie per provocare una modificazione costruttiva della personalità, è facile accorgersi che implicano e sono costituite dalle parole chiave.
    1. Due persone sono in contatto psicologico.
    1. La prima, il cliente è in uno stato d’incongruenza, di vulnerabilità o d’ansia.
    1. La seconda persona, il counselor, è in uno stato di congruenza.
    1. Il counselor prova nei confronti del cliente sentimenti di considerazione positiva incondizionata.
    1. Il counselor prova una comprensione empatica del sistema di riferimento interno del cliente e si sforza di comunicargli questa sensazione.
    1. Si verifica una comunicazione, almeno parziale, della comprensione empatica e della considerazione positiva incondizionata del counselor per il cliente.

 

Le ipotesi risultanti, che Rogers ha poi dimostrato nel corso della sua carriera sono le seguenti:
    • se esistono queste sei condizioni, nel cliente si verificherà una modificazione costruttiva della personalità.
    • se non è presente una o più di queste condizioni, non si verificherà una modificazione costruttiva della personalità.
    • se sono presenti tutte e sei le condizioni, la modificazione costruttiva della personalità del cliente sarà tanto più accentuata quanto più sarà elevata l’intensità con cui si presentano le condizioni da due a sei.

 

Per Rogers, ciò che è necessario e fondamentale, perché gli interventi risultino efficaci, è un set di precondizioni uguali, in grado di rendere valido operativamente l’indirizzo teorico prescelto.
(Di Fabio, 1999).

 

 

 

 

 

 

 

 

Le tipologie di Counseling Organizzativo

Le tipologie di Counseling Organizzativo

 

Le principali tipologie di Counseling Organizzativo propongono interventi che hanno come scopo ultimo quello di aiutare le organizzazioni ad affrontare il cambiamento in modo flessibile mettendo al centro le persone su cui investire.
I modelli puntano l’attenzione su diversi focus, di seguito analizzati:

 

Il focus sul problema
l’intervento è finalizzato ad aiutare l’organizzazione che necessità di un supporto per affrontare i problemi operativi/relazionali con cui si confronta prendendo a riferimento il processo di problem solving: ci si porrà in un’ottica di ricerca e analisi delle cause che hanno generato il problema e poi individuare le possibili soluzioni alternative e quella più efficace da mettere in atto.

 

Il focus sul lavoro
l’intervento si concentra su quegli elementi critici, rilevati dal contesto lavorativo, che nascono da possibili inibizioni individuali: il counselor partendo dalla prestazione e dalla produttività, ovvero da dati soggettivi ed esempi concreti, aiuta coloro che ne sono coinvolti (sia esso il gruppo, o il singolo individuo) a risalire anche a difficoltà soggettive che sono sperimentate non solamente nell’ambito di lavoro ma pure nella dimensione privata e nelle relazioni in genere, attraverso comportamenti che spesso impediscono la presa di decisione e di orientare le scelte.

 

Il focus sul manager
si tratta di un intervento destinato ai vertici e ai manager aziendali e ha l’obiettivo di fornire un aiuto nel comprendere le difficoltà degli impiegati e nell’interagire con loro all’interno dei rispettivi ruoli; il sostegno deriva dalla valorizzazione dello sviluppo personale, dei talenti della classe manageriale e dal potenziamento dei punti deboli.

 

 

 

 

 

Dal counseling individuale al counseling organizzativo

 Dal counseling individuale al counseling organizzativo: somiglianze e differenze.

 

Dagli anni ’90, i manager iniziarono a riconoscere l’utilità del counseling come risorsa utile sia per gli individui sia per le organizzazioni: considerato che quest’ultime sono fatte di persone, ciò che serve al singolo, maggior ragione serve ai gruppi che convivono in realtà organizzate, dove ogni soggetto porta con se un bagaglio personale che entra in modo prepotente nella quotidiana esperienza di lavoro.
Quando il mondo soggettivo si rapporta con quello delle organizzazioni, è gioco forza che i disequilibri individuali s’incontrino con quello organizzativi, con la conseguenza di generare situazioni di tensioni che, non solo rendono difficile la convivenza e affievoliscono la motivazione, ma alla fine producono ricadute negative sulla produttività e sul rendimento dell’azienda. Una situazione delicata si presenta, quando vi è integrazione tra gli obiettivi personali con quelli aziendali. In tal caso occorre che le azioni, gli interessi e le aspirazioni del singolo non trovino spazio di espressione o per contro che le richieste aziendali non riescano a soddisfare le attese del lavoratore in quanto troppo elevate, rispetto ai suoi desideri, oltre che effettive capacità, o perché eccessivamente basse in relazione al suo profilo professionale.

 

Anche grosse fasi di cambiamento possono preludere a stati critici che mettono a rischio la salute dell’azienda; tali fasi riportano alla superficie intensi vissuti emotivi che si esplicitano sotto forma di resistenza o negazione alle nuove idee e proposte, oppure all’opposto, come urgenza di intraprendere un cammino sconosciuto per fuggire da una situazione sentita come stagnante, senza invece salvare lo storico e le esperienze di successo.

 

Sulla scena teorica diversi autori hanno cercato di comprendere l’organizzazione utilizzando particolari modelli d’analisi che, facendo riferimento alle scienze umane, hanno impiegato costrutti presi a prestito dall’area clinica: dall’orientamento psicoanalitico che definisce le tipologie organizzative in base agli assunti affettivi inconsci in azione nei gruppi, alla prospettiva degli archetipi junghiani, all’espressione della sfera emotiva come mezzo per raggiungere gli scopi ultimi dell’azienda, a tutte le teorie sui gruppi di lavoro in quanto realtà collettiva in cui si esplicano dinamiche relazionali e affettive importanti.

 

A fronte di tali considerazioni, il counseling organizzativo può essere rappresentato come un continuum che si estende tra due polarità: da una parte c’è chi sostiene la posizione secondo cui le alternative del business determinano gli obiettivi clinici (andamento del mercato, innovazione spinta, presenza di settori emergenti e settori maturi…) mentre sull’altro versante ci sono le posizioni centrate sulla persona che vedono il counseling organizzativo quasi come una pratica privata, svolta dentro le mura dell’azienda, In sintesi gli interventi del counseling prendono in carico insieme il singolo e la collettività muovendosi tra problematiche causate dal rapporto organizzativo e individuo, problemi originati nell’esistenza del singolo che si manifestano anche nel prendere parte alla vita dell’impresa, disequilibri causati da una cattiva gestione; infine altre ragioni per intraprendere un tale percorso possono derivare da macro cause economiche che esulano sia dal singolo sia dall’organizzazione (il fallimento aziendale o la chiusura di un’azienda che producono un licenziamento di massa).

 

Pertanto alcune di tali motivazioni si sviluppano partendo dalla sfera individuale, altre da quell’organizzativa, ma è in ogni modo difficile stabilire una chiara suddivisione tra questi ambiti in quanto fortemente integrati gli uni con gli altri.

 

Un elemento di divergenza tra counseling organizzativo e counseling individuale è dato dalla figura del cliente che richiede l’intervento e che s’interfaccia con il counselor.

 

Se nel primo caso il cliente è il soggetto che, riconoscendo una situazione di disagio, sceglie di rivolgersi al counselor (in alcuni casi vi è un’altra persona, vicina al richiedente, che si fa portatore del bisogno di quest’ultimo) nel secondo è l’istituzione tutta che richiede l’intervento, creando una rete di relazioni in cui s’inserisce l’intervento. Inoltre, se nel caso del counseling individuale la persona che riceve il supporto coincide con il cliente finale in genere nelle organizzazioni il cliente è meno facilmente identificabile e la questione può essere ambigua e problematica, poiché,  spesso il counselor si trova a lavorare ed interagire con differenti figure che possono esprimere aspettative tra loro diverse. La rete di clienti che sono presi in carico in un intervento di counseling organizzativo, è rappresentata dalle seguenti figure:
    • i clienti iniziali sono quelli che interpellano per primi il consulente o il manager stabilendo il contatto iniziale (possono coincidere con quelli primari);
    • i clienti primari sono coloro che effettivamente hanno il problema per cui richiedono il supporto;
    • i clienti finali sono membri dell’organizzazione non necessariamente coinvolti direttamente nel lavoro del consulente, ma, il cui benessere e interessi, devono essere presi in considerazione nel predisporre gli interventi.

 

Per gestire efficacemente la rete di clienti presenti nell’organizzazione è necessario distinguere in modo netto e tenere a mente quali sono le differenti tipologie di clienti, poiché secondo le specificità questi elementi si esprimeranno con comportamenti diversi e condurranno alla creazione di precise dinamiche.
Infine un’altra differenza tra il counseling individuale e quello organizzativo, più apparente che sostanziale, riguarda quanto spazio è lasciato alla dimensione emotivo-relazionale. Essendo l’organizzazione il campo d’azione, l’obiettivo esplicito è quello di orientare l’intervento in modo che la parte razionale predomini su quell’emotiva: spesso però si tratta più di un desiderio che di realtà poiché l’emozionale, nel compiere scelte e prendere decisioni, riveste in realtà molta più importanza di quanto sia lecito ammettere. Nel counseling individuale invece è proprio la relazione con il counselor uno degli strumenti di cambiamento in quanto nell’interazione della coppia emergono e si manifestano reazioni e stimoli atti a smuovere e a riconoscere non solo la dimensione esteriore del comportamento, ma soprattutto la parte emotiva più nascosta.

 

Se oggi s’inizia ad accettare che i manager hanno bisogno di sviluppare e di utilizzare competenze emotive, allora anche le azioni di counseling dovranno favorire un accomodamento soddisfacente dei sentimenti delle persone dentro un sistema di regole formalmente finalizzate alla produzione di risultati.

 

Le somiglianze tra counseling individuale e counseling organizzativo in realtà sono maggiori di quello che sembra e attengono in linea generale ai concetti essenziali che ispirano gli interventi di counseling siano essi rivolti al singolo, al gruppo o all’organizzazione. Innanzi tutto il counselor deve svolgere un ruolo di supporto finalizzato all’ascolto e alla comprensione dei bisogni che integri due differenti polarità: facilitare l’approfondimento delle problematiche emerse, esercitando la dovuta comprensione ed empatia, ma anche valutare lo stato di “salute” del soggetto, individuale e/o collettivo, con cui questi lavora, per garantire la tenuta nel tempo; attenersi dall’etichettare in base alle tipologie e/o eventuali patologie ma saper intervenire con sostegni mirati ed efficaci.

 

Infine come in tutte le occasioni di confronto anche nel counseling si fronteggiano differenti culture su cui impostare una proficua collaborazione: considerato che in ambito organizzativo si definisce cultura ciò che per analogia negli interventi individuali corrisponde alla personalità individuale, la cultura del counselor dovrà raffrontarsi con quella dell’organizzazione, sia quella a cui il counselor medesimo appartiene, sia a quella a cui è ricolto l’intervento e parallelamente con la personalità di tutti gli attori con cui entrano in contatto.

 

In conclusione è opportuno che sia il counseling individuale sia quello organizzativo medino tra ambito logico-cognitivo e ambito emotivo-relazionale che adottino differenti approcci (passare tra modalità più direttive ed altre meno direttive), che in ultima analisi tengano conto del benessere e delle produttività o meglio, dal momento che, riferendosi al counseling individuale, risulterebbe meno appropriato parlare di produttività, dei risultati conseguito e di quelli da conseguire.
(http://www.psicologiaecounseling.com)