I modelli persuasivi

I modelli persuasivi

 

 

All’inizio degli anni sessanta, il famoso psicologo Albert Bandura avviò un ampio programma di ricerca sul rapporto tra modelli televisivi e aggressività, sull’influenza dei modelli mediatici[1].

In un tipico esperimento, i bambini potevano vedere attraverso uno schermo televisivo, un adulto intento a picchiare una bambola di plastica. I bambini avevano in seguito, l’opportunità di giocare con diversi giocattoli interessanti, tra cui una di queste bambole. I risultati dimostrarono che i bambini erano portati a ripetere quello che avevano visti fare in precedenza.

Molte ricerche successive hanno confermato i risultati iniziali di Bandura. È stato dimostrato che i modelli aggressivi influenzano l’aggressività tanto dei maschi quanto delle femmine, condizionando il comportamento, ed insegnando ad aggredire indipendentemente dal fatto che il modello sia un personaggio dei cartoni animati o una persona reale.

Il potere della persuasione dei modelli non è sfuggito ai pubblicitari. Gli spot da trenta secondi sono pieni di gente grassottella che dimagrisce con l’aiuto della dieta giusta, di casalinghe che impressionano i mariti con una casa pulita, e con l’aiuto di un detersivo pubblicizzato, di giovani coppie che se la spassano grazie ad un carta di credito, di bambole Barbie vestite all’ultima moda.

Questi modelli non vengono solo prodotti, ma rinforzano valori (magro è bello) e insegnano stili di vita (le casalinghe devono compiacere i mariti, per avere successo le ragazzine devono seguire la moda, essere fisicamente attraenti, e basta poco – una pillola dimagrante).

I modelli mediatici sono efficaci soprattutto per due ragioni. La prima è che insegnano nuovi comportamenti. Ad esempio, un bambino impara concretamente come si fa a sparare guardando telefilm polizieschi. Naturalmente, il fatto di sapere come si fa, non significa necessariamente che lo si faccia.

Ma cos’è che ci induce a comportarci come i modelli dei media?  Un fattore importante è la convinzione che le ricompense ricevute da un modello per un determinato comportamento saranno anche le nostre. Ecco perchè i pubblicitari usano spesso modelli “proprio come noi” e li collocano in situazioni familiari come la casa, l’ufficio, la scuola o il supermercato.

Questo ci porta alla seconda ragione della persuasività dei modelli mass mediali; essi sono un segno che certi comportamenti sono legittimi e appropriati. Guardare una casalinga lavare il pavimento ci convince che quest’occupazione è uno stile di vita appropriato per le donne (ma non necessariamente per gli uomini)[2].

Quali sono, infine, le caratteristiche che rendono più persuasivo un modello proposto dai mass media e dalla pubblicità?

Il complesso delle ricerche mostra che un modello ha il massimo dell’efficacia quando ha prestigio, potere e status, quando viene ricompensato per aver messo in pratica il comportamento oggettivo dell’apprendimento, quando fornisce informazioni utili su come mettere in pratica tale comportamento e quando è di aspetto gradevole e competente nell’affrontare i problemi della vita. In altre parole, il modello è una fonte credibile e attraente62.

[1] Bandura A, Aggression; a social learning analysis, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1973

[2] Pratkanis A, Aronson E, L’età della propaganda, Il Mulino, 2003, pp. 206-208 62 Idem


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Il linguaggio della pubblicità

Il linguaggio della pubblicità

 

 

Come già accennato, il messaggio pubblicitario è un messaggio multiplo, fatto di immagini, musica, gesti e soprattutto parole, materiale linguistico proveniente dalla lingua comune, dai linguaggi tecnico-specialistici, dalla lingua della letteratura, dal gergo dei giovani, dalle lingue straniere e anche, in minor parte, dai dialetti italiani.

A seconda del target a cui è rivolto o del contesto in cui appare un annuncio pubblicitario, il copywriter in questione tenterà di operare una scelta linguistica oculata in merito all’ideazione dello slogan.

Come fa osservare la Chiantera1, molte agenzie pubblicitarie si fanno oggi affiancare in questo loro compito da linguisti e semiologi che, in quanto professionisti del linguaggio, possiedono gli strumenti ideali per capire in anticipo se una certa parola collocata in un certo contesto potrà fare la fortuna di un certo prodotto.

Questo dimostra che, nonostante l’importanza delle componenti di musica e di immagine nel messaggio pubblicitario sia andata sempre aumentando negli ultimi anni, l’attenzione alla lingua rimane viva tra i pubblicitari.

Sul linguaggio pubblicitario esiste un’ampia letteratura, cosicchè molti dei suoi aspetti sono stati ripetutamente indagati. Linguisti e non linguisti hanno studiato i messaggi pubblicitari al fine di coglierne, ad esempio, le caratteristiche grammaticali, sintattiche e stilistiche e spesso si sono trovati in disaccordo in merito al giudizio qualitativo da attribuire a questo particolarissimo codice linguistico.

Le parole più amate dal pubblicitario sono le parole-choc, e lo slogan è il coronamento dei suoi sforzi, lo slogan è infatti la “quintessenza della pubblicità”2.

Mario Medici3 ha parlato di un “alto numero di meriti generali e specifici” che il tanto “vituperato” linguaggio pubblicitario possiede. Egli afferma che “la comunicazione pubblicitaria ha dimostrato e sollecitato senza contaminazioni le capacità e le possibilità dell’italiano come lingua moderna, agile e funzionale, in una serie di spinte e controspinte settoriali, utilitarie, letterarie, usuali, sociopsicologiche, in un dilatato e accelerato processo di europeizzazione”.

La Altieri Biagi definisce il linguaggio pubblicitario una lingua “venduta”4, in cui “la merce” proposta è il discorso stesso e per la costruzione del quale il copywriter si mette alla ricerca di “esche” linguistiche allettanti”, non esitando a catturare la terminologia prestigiosa della scienza della tecnica, a riprodurre le manipolazioni tipiche della lingua letteraria, talvolta a sfruttare i moduli della lingua colloquiale, con le sue ridondanze, le sue approssimazioni lessicali, la sua sintassi zoppicante”.

Parlando di slogan e di messaggi pubblicitari, nel momento stesso in cui vengono concepiti, sono imbevuti di una certa cultura tipica di un determinato ambiente geografico, sociale e linguistico. Il linguaggio pubblicitario si fa di volta in volta portavoce ed espressione di desideri e necessità, che possono essere ritenute fondamentali da alcune persone e assolutamente superflue da altre.

Uno stesso prodotto ugualmente appetibile agli occhi di popoli diversi e lontani deve, in certi casi, essere pubblicizzato secondo tecniche e strategie anche molto differenti.

Il pubblicitario deve possedere una conoscenza approfondita non solo della lingua ma anche della cultura del pubblico a cui si rivolge e deve quindi saper intuire e andare a toccare quei tasti in grado di esercitare un forte potere di attrazione – il più delle volte inconscia – su un certo target.

Possono quindi sorgere dei problemi qualora un testo pubblicitario nato in seno ad una certa cultura debba essere tradotto in un’altra lingua; il più delle volte non è sufficiente riportare nel nuovo testo gli equivalenti linguistici della lingua di arrivo, ma è necessario adattare il messaggio per ricreare le stesse implicazioni sociali e culturali e cercare di ottenere simili effetti sonori, linguistici e visivi.

Col passare degli anni, la pubblicità ha conquistato una dignità artistica, è diventata lo specchio della società e della cultura; non solo possiede il potere di influenzare le persone, ma in modo sottile riesce ad influenzare i comportamenti e i modi di dire.

Recentemente sono state individuate da esperti pubblicitari sette regole necessarie per riconoscere e creare una pubblicità efficace, che colpisca l’obiettivo:

  1. sorprendere lo spettatore
  2. comunicare una cosa sola
  3. provocare emozione
  4. essere semplice ma non banale
  5. essere sempre originale
  6. dare valore alla marca
  7. rompere le regole

Una pubblicità efficace è capace di creare emozioni, di raccontare storie coinvolgenti, di essere ricordata dalla grande massa. Esattamente come il cinema, ma con molti metri di pellicola in meno. Piace perchè il linguaggio pubblicitario è universale, è una testimonianza della società e delle sue caratteristiche.

L’obiettivo non è soltanto di vendere un dato prodotto; configura modelli di comportamento, definisce sistemi e valori, crea punti di vista e opinioni, prende dalla cultura di massa quegli spunti ed elementi che sono più funzionali alla creazione e all’amplificazione dei consumi.

Sceglie frammenti ed istanze che si possono accordare con le sue esigenze per poi ricomporle in un disegno coerente e compiuto5.

Nella società, nell’interazione tra individui, assume sempre più importanza la capacità di convincere, di far mutare le opinioni e gli atteggiamenti degli altri. Ciò vale sia nei rapporti interpersonali sia nella comunicazione di massa (pubblicità), finalizzata a creare una preferenza per un prodotto o per un’idea.

Per comprendere questi fenomeni, bisogna partire dalla definizione di atteggiamento e di opinione, e di come si formano.

  • Gli atteggiamenti costituiscono sia un orientamento favorevole o sfavorevole verso un particolare oggetto, concetto o situazione, sia la disposizione a reagire in modo predeterminato a questo oggetto, situazione, o ad altre connesse. Sia l’orientamento che la disposizione alla risposta hanno aspetti emotivi, inconsci, aspetti razionali. Spesso si manifesta un atteggiamento verso una persona o una situazione senza rendersene pienamente conto.
  • Le opinioni costituiscono una preferenza, ma anche una aspettativa, una previsione e, a differenza dell’atteggiamento che spesso è a livello inconscio, è razionalizzata dal soggetto e può essere espressa verbalmente.

Atteggiamenti e opinioni sono strettamente connessi; se si odia una persona si esprime un atteggiamento negativo, e si tende a prevederne un cattivo comportamento55.

Brown (Social Psychology, 1965, Free Press) ha ipotizzato che ogni individuo desidera che le proprie opinioni e il proprio comportamento siano coerenti; se scopre elementi contrastanti, opera in modo da ridurre tali elementi, modificando le opinioni o il proprio comportamento (Teoria della Coerenza).

Per cambiare atteggiamento o opinione l’individuo valuta la comunicazione che riceve dando valore non solo alle argomentazioni, ma anche alla credibilità della fonte e alle emozioni che la comunicazione gli suscita.

Le emozioni suscitate dalla comunicazione hanno grande importanza ed efficacia nella persuasione, non solo se sono positive, come la gioia, ma anche se sono negative, come la paura. L’appello alla paura è in effetti molto usato nella comunicazione di massa, in materia sanitaria, nelle campagne di prevenzione, nelle prediche religiose e nelle campagne politiche.

Per far cambiare un atteggiamento o un opinione bisogna perciò prima creare un atteggiamento positivo nei propri confronti, di simpatia o almeno di coerenza.

Bisogna poi creare un sentimento di stima e di autorevolezza esprimendo le opinioni in modo chiaro, senza creare eccessive dissonanze con la visione del problema dell’interlocutore. Si deve saper fare appello, quando è necessario, alle emozioni, per incidere più profondamente nell’atteggiamento inconscio.

Ogni linguaggio pubblicitario funziona alla stessa maniera. Ha un preciso obiettivo, quello di persuadere il destinatario del messaggio.

Come ha detto Gillo Dorfles “il linguaggio pubblicitario è parente dell’argomentazione retorica persuasiva”. Per ottenere l’effetto persuasione si ricorre a precise leggi psicologiche, a discipline come la semiotica e la psicolinguistica che i pubblicitari conoscono e che debbono saper utilizzare nel modo più efficace per diffondere un prodotto.

Non a caso vengono richiamate le categorie analitiche della sociologia della comunicazione e della semiotica per utilizzare al meglio i segni visivi, verbali, sonori e a loro articolazione interna.

Si parla, appunto, di stimolazione cognitiva, per sapere come ottenere un alto livello di attenzione, e di stimolazione affettiva per indicare l’azione esercitata da un messaggio sulle emozioni.

Gli studi e le ricerche condotte per analizzare le variabili del messaggio (le caratteristiche emotive o razionali del contenuto, i dispositivi stilistici usati per rendere persuasivo un discorso, gli aspetti relativi all’organizzazione della comunicazione) hanno permesso di concludere che il ricorso alla chiave emotiva è più efficace di quella logica o razionale per indurre un effetto di adesione/persuasione da parte del ricevente.

La pubblicità oggi opera per slogan e frasi brevissime; distillati di parole pensate, calibrate e limitate per scaricarsi direttamente sull’inconscio e garantire l’entrata diretta in circolo di stimoli emotivi elementari.

Questa profonda evoluzione favorita dal sorgere di nuove discipline che hanno permesso al messaggio pubblicitario di diventare sempre più raffinato, sia a livello epistemologico che operativo impone, ovviamente, un analogo affinamento dei criteri e degli strumenti a disposizione di chi ne debba valutare senso e implicazioni6.

Siamo forse entrati in una nuova era del capitalismo che Galbraith definisce “la fiera capovolta”7, dove non è più il consumatore a determinare il ritmo della produzione, bensi’, è il produttore a creare nel consumatore il desiderio di determinati prodotti?

Ciò spiegherebbe l’idea comunemente accettata della “fabbrica dei desideri”; di una pubblicità che sa creare bisogni voluttuari, capace di persuadere e di convincere, creando il mito dell’avere, dove il comprare un prodotto significa possedere anche l’aureola di benessere, successo e bellezza costruita intorno ad esso.

I due “meccanismi di difesa” principali sono l’autostima e l’addestramento delle facoltà critiche. La costruzione della propria autostima si basa sulla valorizzazione delle proprie esperienze positive, condotta regolarmente, abituandosi a sviluppare un atteggiamento positivo.

L’addestramento delle facoltà critiche è un processo culturale continuo in cui l’individuo deve continuamente porsi delle domande sulle comunicazioni e gli stimoli che riceve, cercando di individuarne la reale validità, al di là di condizionamenti emotivi e prescindendo dalla fonte8.

Questi meccanismi creano una sorta di vaccinazione nei riguardi dei luoghi comuni e delle banalità culturali, possono consentire all’individuo di difendersi meglio dalla comunicazione “coercitiva” o dall’indebita influenza , senza limitarlo nell’accettazione del contributo derivante dall’interazione con gli altri che deriva da un corretto scambio di informazioni e di opinioni9.

 


1 Chiantera 1989:30

2 Galliot 1954

3 Medici 1973:7

4 Altieri Biagi 1979

5 Macello C, L’arte di comunicare, Milano 1995, pp. 38 55 www.benessere.com/psicologia.htm.

6 www.iap.it

7 Galbraith K, Il nuovo stato industriale, Einaudi, 1968

8 www.benessere.com/psicologia/htm.

9 Fabi C, Marbach G., L’efficacia della pubblicità, ISEDI, Torino, 2000, pp. 183-196

 


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La credibilità del comunicatore

La credibilità del comunicatore

 

Le speculazioni sugli effetti del carattere e del prestigio sulla persuasione sono di antica data. Più di 300 anni prima di Cristo, Aristotele scrisse:

“crediamo di più e più facilmente alle persone oneste; questo è vero nelle questioni generali e lo è tanto più in quelle che non comportano certezza, ma opinabilità. Quindi, non bisogna pensare come alcuni dei trattatisti che ritengono che in quest’arte la stessa onestà dell’oratore non conferisca per nulla alla persuasione; ma anzi, il carattere porta quasi la prova più forte[1]”. 

Ci sono voluti 2.300 anni perchè l’osservazione di Aristotele potesse essere verificata scientificamente, a opera di Carl Hovland e Walter Weiss[2]. Sottoposero a parecchie persone una comunicazione a sostegno di un particolare punto di vista, ad esempio la realizzabilità di sommergibili atomici.

Alcuni vennero informati che la proposta era stata fatta da una figura pubblica di grande credibilità; negli altri casi, la medesima proposta venne attribuita a una fonte poco credibile. Nello specifico, la tesi sulla costruzione di sommergibili fu attribuita a J. Robert Oppenheimer, rispettato fisico atomico di fama nazionale, e alla “Pravda”, il giornale ufficiale del partito comunista dell’Unione Sovietica, una pubblicazione che negli Stati Uniti non godeva fama di obiettività e veridicità.

Una cospicua percentuale di coloro che credevano che l’autore della comunicazione fosse Oppenheimer cambiò idea; ora erano più convinti della fattibilità del sommergibile atomico, pochissimi di quelli che lessero l’identica comunicazione attribuita alla “Pravda” cambiarono idea in quella direzione.

Cosa mancava alla “Pravda” che aveva invece il fisico? Aristotele disse che noi crediamo alle persone oneste, espressione con la quale intendeva le persone di alto calibro morale. Hovland  e Weiss impiegarono il termine credibile, privo delle connotazioni morali presenti nella definizione aristotelica.

Oppenheimer è credibile, non è cioè necessariamente “buono” ma è nello stesso tempo “esperto ed attendibile”. È sensato farsi influenzare da comunicatori attendibili che sanno di cosa stanno parlando. Inoltre, certi attributi periferici del comunicatore possono risultare decisivi per alcune persone; tali attributi servono a rendere un dato comunicatore molto efficace oppure molto inefficace.

I pubblicitari approfittano di questa situazione, e spesso fanno leva su fattori irrilevanti per aumentare l’efficacia del soggetto che si fa portavoce del messaggio. Bill Cosby, ad esempio, è stato protagonista diversi anni fa di una serie di pubblicità nelle quali interagisce giocosamente con i bambini. Racconta ai bambini quanto è deliziosa una certa marca di budino e insieme ridono e gustano le loro merendine. Inoltre, ricorda al pubblico che il prodotto non solo è buono, ma fa bene, perchè fatto con il latte.

Cos’è che fa di Cosby un esperto di bambini e di alimentazione? Il fatto che negli anni ottanta, nel Bill Cosby Show, avesse impersonato il ruolo del dr. Cliff Huxtable, serio ginecologo, nonchè padre affettuoso, divertente e attento di cinque bambini.

Per quanto Cosby non sappia di alimentazione molto più dello spettatore medio, esso certamente diventa tanto più credibile e affidabile quanto più viene identificato con il suo ruolo particolare.

Un altro aspetto importante che determina l’efficacia di un comunicatore è quanto questi è attraente o piacente, a prescindere dalla competenza o dall’attendibilità complessive.

Judon Mills fece un semplice esperimento da laboratorio che dimostrò che una bella donna – non solo per la sua bellezza – può avere un impatto considerevole sulle opinioni di un pubblico, anche su argomenti totalmente privi di relazione con il suo aspetto, e inoltre, che il suo impatto è massimo proprio quando esprime apertamente il desiderio di influenzare il pubblico[3].

In un certo senso, le persone reagiscono come se tentassero di compiacere qualcuno che trovano attraente. Un esperimento successivo non solo confermò la scoperta che i comunicatori più piacenti sono anche i più persuasivi, ma arrivò a dimostrare che si presume che le fonti attraenti sostengano posizioni desiderabili[4].

Richard Petty, John Cacioppo e David Schumann hanno dimostrato che in almeno un caso non seguiamo i dettami delle persone socialmente attraenti – quando siamo motivati a pensare alla questione in oggetto[5]. Ciò significa che l’attrattività della fonte ha un impatto inferiore quando operiamo nel percorso centrale, e non periferico, della persuasione.

L’efficacia dimostrata dalle fonti attraenti nella vendita di prodotti e nella modificazione degli atteggiamenti dimostra che loro non soddisfano per noi solo il desiderio di avere opinioni corrette o di orientarsi nel mondo. Le nostre credenze e gli atteggiamenti servono anche ad attribuire un certo senso del Sè. Acquistando la “cosa giusta”, lusinghiamo il nostro ego ed esorcizziamo le “manchevolezze” divenendo uguali alle celebrità che amiamo.

I pubblicitari sanno benissimo che crediamo quello che crediamo e compriamo quello che compriamo, per coltivare l’immagine di noi stessi. Essi impregnano i loro prodotti di “personalità”. Le sigarette Malrboro sono da macho, la Bmw è yuppie, C Klein è chic.

Per affermare il personaggio che desideriamo essere, dobbiamo acquistare e mettere in mostra i prodotti giusti.

Lo stesso discorso vale per la politica. Quanto è generalizzato l’uso della pubblicità per creare immagini seducenti dei candidati politici? Secondo Kathleen Hall Jameison, i candidati americani alla presidenza hanno sempre cercato di creare immagini di sè gradite agli elettori, almeno fin dal 1828, epoca della vittoria di Andrew Jackson su John Quincy Adams[6].

Nel 1952 Eisenhower ingaggiò come consulenti chiave della sua campagna due agenzie pubblicitarie (la Bbdo e la Young % Rubicam) e si servi’ dell’aiuto volontario di una terza (Ted Bates).

Le agenzie pubblicitarie professioniste vennero impiegate in maniera generalizzata nelle campagne presidenziali. Oggi, le agenzie pubblicitarie, i sondaggisti politici e gli esperti di mass media sono un’istituzione della politica e figurano spesso tra i ranghi più elevati dei consiglieri politici. Ailes, nel suo libro, sottolinea la caratteristica fondamentale di un grande oratore:

Se c’è un elemento delle comunicazioni personali da padroneggiare più potente di tutto quello che abbiamo discusso, quell’elemento è la qualità di piacere. Io lo chiamo la pallottola magica, perchè se si riesce a piacere al proprio pubblico esso dimenticherà praticamente tutto quello che farete di sbagliato. Se non gli si piace, si rischia di seguire alla perfezione tutte le regole senza ottenere nulla[7].

Dilenschneider, nel suo bestseller Power & Influence, dispensa consigli di ordine generale per accrescere la credibilità :

 

  • stabilire obiettivi iniziali facili e poi dichiarare vittoria (ciò permette di essere visti come un leader forte
  • usare l’ambiente per rafforzare l’immagine (Reagan, ad esempio, progettò il proprio podio presidenziale per apparire potente e tuttavia amabile e controllato
  • le interviste dovrebbero essere rilasciate in contesti adeguati al messaggio
  • scegliere le cose negative che verranno scritte sul vostro conto (far conoscere al cronista quei difetti che in seguito sarà possibile spiegare e giustificare, permette di dare una buona immagine di sè)
  • cercare di capire cosa vedono gli altri, per fare poi leva su ciò che preferiscono
  • apparire coerente nei media (dicendo poche cose, ripetendole di continuo)
  • non mentire alla stampa, ma non farsi scrupolo di manipolare i media[8]

 

I consigli di Ailes e Dilenschneider sono molto distanti dalla prescrizione aristotelica del comunicatore onesto. La credibilità è fabbricata, non guadagnata. La credibilità è creata attraverso un’attenta gestione della situazione, affinchè il protagonista dell’evento, il comunicatore, appaia esattamente quale deve apparire; amato, credibile, forte, esperto, o qualsiasi altra immagine serva sul momento.

Una volta che l’immagine è creata sotto forma di una celebrità o di un uomo politico, può essere venduta e comprata come una merce, per promuovere qualsiasi causa che disponga delle risorse per acquistare i “diritti” sull’immagine[9].

 


[1] Aristotele, Retorica, a cura di A. Plebe, Bari, Laterza, 1961

[2] Hovland C, Weiss W., The influence of source credibility on communication effectiveness, in Public Opinion Quarterly, 1951, pp. 635-650

[3] Mills J, Opinion change as a function of communicator’s attractiveness and destre to influence, in Journal of Personalità and Social Psychology, 1965, pp. 173-177

[4] Eagly A, An attribution analysis of the effect of communicator characteristics on opinion change, Journal of  Personality, 1975, pp. 173-177

[5] Petty, Schumann, The moderating role of involvement, 1983, pp. 134-148

[6] Jameison K, Packaging the presidency, NY, Oxford University Press, 1984

[7] Ailes R, You are the message, NY, Doubleday, 1988, pp. 81

[8] Dilenschneider R, Power & Influence, NY, Prentice-Hall ,1990

[9] Pratkanis A, Aronson E., L’età della propaganda, Il Mulino, 2003, pp. 198-199

 


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La pubblicità come strumento persuasivo

La pubblicità come strumento persuasivo

 

Foto di Falkenpost da Pixabay 

 

Come già accennato nei capitoli precedenti, la comunicazione pubblicitaria non si limita ad informare, ma ha lo scopo di creare intorno al prodotto un desiderio, un’aspettativa, o meglio, un bisogno. Una pubblicità efficace seduce il consumatore, lo porta dalla parte del prodotto, e possibilmente gli fa cambiare le sue abitudini.

La persuasione vera e propria non viene ricercata attraverso ragionamenti razionali, fornendo le prove della bontà del prodotto, ma facendo leva sugli istinti e sugli affetti, sull’incontrollabile irrazionalità dell’individuo. Si può dire che la pubblicità sia una grande seduttrice in quanto tende a lusingare, a far credere che la felicità consista nel possesso, nel consumo e nell’esibizione di un certo prodotto, e che la sua mancanza sia la causa di malcontento e di incertezza.

Le persone possono essere persuase sia quando sono in uno stato di distrazione sia quando sono attente, ma il modo esatto in cui vengono influenzate nei due stati differisce considerevolmente. Richard Petty e John Cacioppo sostengono che la persuasione può seguire due percorsi, uno periferico e l’altro centrale[1].

Nel processo periferico la persona che riceve un messaggio dedica una parte minima della sua attenzione all’elaborazione della comunicazione. Alcuni esempi potrebbero essere guardare la televisione mentre si fa qualcos’altro o ascoltare un’argomento per cui non si prova grande interesse.

Nel percorso periferico la persuasione è determinata da semplici elementi induttori, quali la piacevolezza del comunicatore, oppure il piacere e il dolore associati con l’adesione a tale posizione.

Al contrario, nel percorso centrale, colui che riceve il messaggio avvia un’attenta e meditata considerazione dei veri meriti dell’informazione presentata.

Ad esempio, nel percorso centrale la persona può argomentare attivamente contro il messaggio, può desiderare una risposta a domande aggiuntive o può cercare nuove informazioni. La persuasività del messaggio è determinata da come esso supera questo esame.

Supponiamo che qualcuno adotti il percorso centrale alla persuasione e ascolti attentamente la comunicazione (pubblicità). In che momento la persona risulterebbe più persuasa? Dato che la persona riflette attentamente, non dovrebbe farsi convincere da argomenti deboli o la fonte della comunicazione non dovrebbe importare molto; invece, un messaggio forte in grado si sopportare un esame approfondito dovrebbe essere molto efficace.

Al contrario, il contenuto del messaggio non dovrebbe importare granchè a chi non riflette molto sulla questione; nel percorso periferico una persona risulterebbe più persuasa da un espediente banale come l’attribuzione della comunicazione a una fonte apparentemente autorevole.

I due percorsi di Petty e Cacioppo devono renderci consapevoli di due punti importanti, uno che riguarda noi stessi come esseri umani e uno che riguarda la pubblicità del mondo moderno. Sotto molti punti di vista noi siamo risparmiatori cognitivi, cerchiamo cioè costantemente di conservare la nostra energia cognitiva[2].

Data la nostra limitata abilità nell’elaborare informazioni, spesso adottiamo le strategie del percorso periferico per semplificare i problemi complessi; accettiamo con noncuranza una conclusione o proposizione non per una buona ragione, ma perchè accompagnata da uno strumento di persuasione rozzamente semplice.

La pubblicità moderna incoraggia l’adozione del percorso periferico ed è pensata per sfruttare le limitate capacità elaborative del consumatore cognitivo. Le caratteristiche della persuasione moderna  – il contesto denso di messaggi, lo spot da trenta secondi, l’immediatezza della persuasione – rendono sempre più difficile pensare profondamente alle questioni e alle decisioni importanti.

Il nostro stato di cose può essere definito il dilemma essenziale della democrazia moderna. Da un lato come società apprezziamo la persuasione: la nostra forma di governo si basa sulla fede nel fatto che la libertà di parola e di discussione, lo scambio delle idee possono condurre a prendere decisioni in modo migliore e più equo.

D’altro canto, in quanto risparmiatori cognitivi, non partecipiamo spesso a questa discussione, affidandoci invece a strumenti di persuasione semplici e ad un ragionamento limitato.

L’agente persuasore di successo può impiegare un numero enorme di tattiche di persuasione capaci di indurre il bersaglio della sua comunicazione ad accettare il suo punto di vista riguardo a una questione o a una linea di azione.

Il massimo dell’influenza si raggiunge probabilmente quando si mettono in atto quattro principali stratagemmi persuasivi o manovre generali finalizzate all’ottenimento dell’acquiescenza del bersaglio.

Il primo consiste nell’assumere il controllo della situazione e nello stabilire un clima favorevole al proprio messaggio; è un processo chiamato pre-persuasione e si riferisce a come viene articolata la questione e preparata la decisione su di essa. Fissando abilmente i termini di definizione e discussione di una questione, un comunicatore può influenzare le risposte cognitive e ottenere il consenso senza nemmeno apparire intenzionato a convincerci di qualcosa.

Il comunicatore deve imporre un’immagine favorevole di sè agli occhi del pubblico. Chiamiamo questo stratagemma la credibilità della fonte. In altri termini, il comunicatore deve apparire piacente e autorevole o degno di fede o in possesso di qualsiasi altro attributo che possa agevolare la persuasione.

Il terzo stratagemma è di costruire e diffondere un messaggio che concentri l’attenzione e i pensieri dei destinatari esattamente su quello che il comunicatore vuole che essi pensino.

In fine, un comunicatore efficace controlla le emozioni dei destinatari, seguendo una regola semplice: stimolare un’emozione e poi offrire al bersaglio un modo di reagire a tale emozione che, guarda caso, coincida con il corso d’azione desiderato dal persuasore. In tali situazioni, il destinatario si preoccupa di gestire le proprie emozioni ed accetta le richieste del comunicatore nella speranza di sfuggire a un’emozione negativa o di conservarne una positiva[3].

I quattro stratagemmi della persuasione risalgono all’antichità. Aristotele fu il primo a sviluppare una teoria generale della persuasione[4]. La teoria aristotelica identificava tre aspetti della persuasione:

– la fonte (ethos)

– il messaggio (logos)

– le emozioni del pubblico (pathos)

Per ognuno di questi tre aspetti, erano fornite raccomandazioni all’aspirante comunicatore. Ad esempio, Aristotele raccomandava che l’oratore si presentasse come persona buona e degna di fiducia. Suggeriva agli scrittori di discorsi di usare, nella costruzione di un messaggio persuasivo, ragionamenti che sembrassero seguire le regole della logica e di ricorrere a vividi esempi storici o di fantasia per illustrarne i punti.

Il messaggio doveva inoltre essere adeguato alle credenze preesistenti del pubblico; Aristotele considerava essenziale comprendere i sentimenti del pubblico, giacchè una persona irata agirà in modo differente da una soddisfatta. L’oratore deve essere in grado di fare buon uso di queste emozioni.

A questo fine, Aristotele descriveva come suscitare emozioni in un pubblico – ira, amicizia, paura, invidia e vergogna – e discuteva il modo per fare di esse un uso persuasivo efficace.

Aristotele riconosceva un altro fattore in grado di influenzare la persuasione e che chiamava atechnoi (o aspetti extratecnici); fatti e avvenimenti al di fuori del controllo immediato dell’oratore. In una corte di giustizia, ad esempio, Aristotele identificava certe circostanze, come il modo in cui la legge era scritta, il contenuto di un contratto o la deposizione di un testimone, in cui si inquadrava il ragionamento persuasivo.

In un certo senso, tali circostanze fissano il campo di gioco su ha luogo il ragionamento. Esse servono a focalizzare l’argomento, e a limitare la gamma di argomenti che un oratore può esporre. Come tali, esse sono determinanti importanti dell’esito del processo.

Aristotele suggeriva diversi modi per affrontare questi fattori – contestare la validità di una legge, screditare un testimone – modi che oggi potremmo chiamare “impostare alla maniera giusta una questione”[5].

 


[1] Petty R., Cacioppo J., The elaboration likelihood model of persuasion, New York, Academic Press, 1986 pp. 123-205

[2] Fiske S, Taylor S., Social cognition, New York, McGrawe-Hill, 1991

[3] Pratkins A, Aronson E., L’età della propaganda, Il Mulino, 2003, pp. 79-81

[4] Aristotele, Retorica, a cura di A. Plebe, Bari, Laterza, 1961, libro 1

[5] Pratkins A, Aronson E., L’età della propaganda, Il Munilo, 2003, pp. 80


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La base della comunicazione pubblicitaria

La pubblicità: comunicare, influenzare, convincere

  “Il mestiere della pubblicità è ormai cosi’ vicino alla perfezione che sarà ben difficile apportarvi altri miglioramenti”. (Samuel Johnson, 1759)

 

La base della comunicazione pubblicitaria

“Advertising may be viewed as the construction of semiotic worlds for the rhetorical purpose of swaying purchasers to buy what is advertised”.

 

Cosi’ prende avvio il breve ma interessante saggio di Alan Harris intitolato Sell! Buy!. L’autore pone l’accento sul potere della parola pubblicitaria come mezzo di persuasione più o meno occulta, raggiunta spesso grazie ad un processo di manipolazione linguistica, che permetta di elaborare un messaggio coinvolgente e accattivante al fine di catturare l’attenzione del destinatario.

L’obiettivo del pubblicitario, secondo Harris è quindi, la creazione di mondi di volta in volta nuovi, definiti “mondi semiotici” o realtà simboliche, esistenti indipendentemente dal mondo fisico, che vadano ad imprimersi con forza nell’immaginario di colui che riceve il messaggio.

Già dalle sue prime apparizioni sulla scena sociale ed economica, la pubblicità, che in Italia si chiamava reclame, cominciò ad attingere ai più svariati ambiti della lingua, trasformando il materiale linguistico a sua disposizione secondo la finalità primaria della persuasione.

Un messaggio pubblicitario può essere raffinato, divertente, ammiccante, originale, e si potrebbe aggiungere un lungo elenco di aggettivi tra i più diversi, ma ciò che ne determina il successo è la sua capacità di convincere, di farsi largo più o meno subdolamente nei pensieri – nella loro parte più inconscia – del destinatario.

Baldini[1] spiega che la parola pubblicitaria cessa di essere semplicemente una parola, e va a fondersi e confondersi con altri elementi visivi, iconici, sonori, paralinguistici, intertestuali fino a divenire il messaggio pubblicitario in cui ogni particolare è studiato con la massima attenzione non, come molti sostengono, per informare o presentare un prodotto al pubblico, ma per creare un oggetto del desiderio attraverso un sapiente uso delle immagini, dei suoni e soprattutto delle parole, tanto da riuscire a far coincidere nell’immaginario collettivo l’idea di felicità e di successo con un certo aperitivo, make-up, o profumo.

Horkheimer e Adorno hanno parlato in proposito di una vera e propria reificazione delle reazioni più intime dell’uomo a confronto con il messaggio pubblicitario; questo processo può spingersi a livelli estremi; sotto la pressione incalzante proveniente dal mondo patinato della pubblicità, valori ed entità astratte vengono spesso fatte coincidere con il prodotto reclamizzato.

Tra le differenti forme di comunicazione, la pubblicità  si caratterizza per il fatto che l’emittente ed il messaggio pubblicitario non mirano solo a trasmettere al destinatario della comunicazione dati, informazioni, idee, sensazioni, visioni del mondo, nè soltanto a provocare reazioni, siano esse di adesione o repulsione. La pubblicità ha per scopo di convincere il destinatario della comunicazione a fare o non fare qualcosa; la pubblicità, quindi, è il fondamentale strumento (anche se non l’unico), di persuasione, oltre che di comunicazione.

La finalità persuasiva attiene a specifici comportamenti del destinatario, che l’emittente ha per scopo predefinito di provocare o scongiurare. Può trattarsi di comportamenti eterogenei. L’esperienza empirica ha ormai insegnato che la persuasione pubblicitaria non trova affatto un limite nei rapporti di mercato. La pubblicità può essere usata per convincere a comprare qualcosa, ma trova anche nei comportamenti politici e sociali il suo campo di elezione, non meno che nel mercato dei beni e servizi[2].

Si può persuadere, a mezzo pubblicitario, l’elettore a votare un certo candidato, o il cittadino ad aderire ad una certa iniziativa, oppure a tenere o non tenere un dato comportamento, a seconda delle finalità di incentivazione o disincentivazione proprie dell’emittente del messaggio[3].

La pubblicità persuade anche mediante strumenti diversi della diffusione dell’informazione. Sotto la denominazione di “suggestione” possono raccogliersi le molteplici tecniche pubblicitarie che fanno leva sugli aspetti meno razionali della psiche umana, è che pure incidono sulle decisioni del destinatario della comunicazione in pari modo, se non superiore alla stessa razionalità.

Rispetto alle altre forme di manifestazione del pensiero, l’attacco pubblicitario si caratterizza per la sua strumentalità; il messaggio pubblicitario comunica per ottenere un risultato concreto. La pubblicità è manifestazione del pensiero strumentale ad uno scopo che, ovviamente, non è la pura comunicazione di idee, opinioni, visioni del mondo[4].

La decisione economica non è soltanto frutto di razionalità, cosi’ come non lo è la decisione politica, o la decisione di tenere o non tenere un certo comportamento sociale. Il destinatario della comunicazione reagisce ad una serie di stimoli che possono essere molto più forti della razionalità, ed indurlo a spendere il proprio denaro, o il proprio voto, in una direzione anzichè in un’altra.

La pubblicità conosce questi stimoli, li cataloga e li classifica in ragione delle particolarità ci ciascun gruppo omogeneo di destinatari (sempre meglio delimitato via via che la tecnica pubblicitaria si affina), ed infine li utilizza per i suoi scopi persuasivi; non si pensa ad ipotesi marginali come la pubblicità subliminale, ma a fenomeni ben più frequenti di pubblicità e suggestione.

L’abbinamento di prodotti, di proposte politiche, di iniziative di ogni genere, a immagini di bellezza, fascino, richiamo erotico, successo, fortuna, a forti personalità, o comunque a modelli accreditati, è una tecnica di persuasione che ha poco a che fare con la razionalità dell’individuo.

La metafora della pubblicità “fabbrica dei sogni” è ormai obsoleta; la pubblicità odierna ci dimostra che anche la fabbricazione di incubi può essere del tutto idonea a raggiungere uno scopo persuasivo.

Non mi riferisco solo alle tecniche pubblicitarie basate sulla deterrenza: mostrare immagini di disastri stradali per disincentivare alla guida veloce, o mostrare i danni della droga per dissuadere a consumarla.

Penso invece all’uso pubblicitario di immagini forti (di violenza, di drammaticità estrema, o di situazioni sessuali singolari o esplicite), al solo scopo di colpire l’osservatore, imprimendogli nella memoria un marchio, un prodotto, un partito politico.

L’immagine “forte” suscita una curiosità verso il prodotto, genera un interesse che potrà tradursi in acquisto, e tanto basta. In un mondo affollato di pubblicità, “gridare forte” è un modo per farsi sentire, sovrastando la strida altrui.

In tale contesto pubblicitario, rientrano moltissimi altri meccanismi persuasivi; tra i più diffusi è la tecnica di strumentalizzare istinti e sentimenti della persona umana: l’uso pubblicitario del corpo, soprattutto quello femminile, dell’immagine dei bambini, dei rapporti familiari, che divengono mezzi per una classica (e piuttosto semplice), persuasione pubblicitaria.

Oltre a queste tecniche ormai superate, esistono metodi molto più sottili, che riscuotono più successo. L’esperto di comunicazioni Ivan Preston ha compilato un catalogo delle tipiche affermazioni delle pubblicità quali appaiono nei mass media[5].

Egli nota che in molti spot si proclamano differenze del tutto secondarie facendole apparire importanti (ad esempio le sigarette Calem “larghe”, che sono di due millimetri più spesse delle solite sigarette), si fanno affermazioni prive di senso finalizzate all’esaltazione del marchio (lo slogan “Coke is it!”, qualunque cosa quell’it possa significare), si abbonda in magnificazioni e superlativi senza significato (nello slogan della Bayer “la migliore aspirina al mondo”, quando tutte le aspirine sono uguali). In altre parole è sufficiente che ci sia una ragione qualsiasi.

Dal punto di vista psicologico, gli spot sull’aspirina funzionano perchè, affermando che nessun altro rimedio è più forte, più rapido, più delicato o più efficace, ci inducono a trarre automaticamente la (scorretta) deduzione che nessun altro prodotto antalgico sia altrettanto forte, altrettanto rapido, altrettanto efficace della marca A. La descrizione del prodotto crea l’illusione che la marca A sia la migliore, non che sia come tutte le altre.

Come accade che le parole acquistino questo potere e la capacità di influenzare?

Il modo in cui viene descritto un oggetto o presentata un’opzione dirige i nostri pensieri e incanala le nostre risposte cognitive nei confronti della comunicazione. Attraverso le etichette che impieghiamo per descrivere un oggetto o un evento, possiamo definirlo in modo tale che il destinatario del messaggio accetti la nostra definizione della situazione e sia conseguentemente pre-persuaso prima ancora che cominci l’argomentazione vera e propria[6].

Questa semplice regola della persuasione venne riconosciuta da Cicerone oltre due millenni fa.

Cicerone affermava che uno dei fattori del suo successo nell’ottenere l’assoluzione di alcuni dei più famigerati assassini di Roma, fosse la sua abilità nel sostenere che i loro nefandi crimini non erano affatto “crimini”, ma azioni virtuose, e che le vittime erano malvagi che meritavano di essere uccisi.

In un recente esperimento, due studiosi di psicologia del consumatore hanno dimostrato l’efficacia della formulazione del messaggio nella formazione degli atteggiamenti dei consumatori nei confronti del macinato di bovino[7]. La loro scoperta è stata che le valutazioni dei consumatori erano più favorevoli nei confronti di un’etichetta che dichiarava: “75% magro” piuttosto di una che dichiarava “25% di grassi”.

Possiamo trovare la stessa tecnica in mille altre situazioni;  nei supermercati, dove il pesce surgelato venduto nel reparto delle carni fresche, viene chiamato “surgelato fresco”, i venditori di assicurazioni mediche per anziani chiamano i loro opuscoli “guide sanitarie gratuite”, per finire con i fabbricanti di piccoli elettrodomestici che definiscono “cordless” i prodotti con alimentazione a batteria.

La parola “magro” è più attraente della parola “grasso”; la parola “fresco” tende a oscurare il fatto che il pesce in realtà è surgelato, una “guida gratuita” è molto più utile di una brochure pubblicitaria e un apparecchio “cordless” sembra molto più potente di uno alimentato da due batterie alcaline.

Spesso il significato pieno dell’implicazione è lasciato all’immaginazione del pubblico. Negli anni trenta, l’Istituto per l’analisi della propaganda, definì questa tattica il ricorso a generalità d’effetto[8]. In questi casi il propagandista impiega parole che hanno connotazioni positive ma che sono solitamente ambigue nel contesto in cui vengono usate.

Ecco qualche esempio: “Un America gentile, benevola”; “Rendiamo nuovamente forte l’America”; “Il meglio che si possa acquistare”; “Dobbiamo sostenere i nostri coraggiosi combattenti per la libertà”;.

Pochi negherebbero che espressioni come gentile, benevola, forte, il meglio e coraggiosi combattenti per la libertà siano cose buone; nella maggior parte delle situazioni concrete, però, pochissimi sarebbero d’accordo sul significato di ciascuna di esse.

Si consideri, ad esempio, l’impegno preso da Richard Nixon nella campagna presidenziale del 1968 per una “pace onorevole” nel Vietnam. Cosa significava realmente? Per alcuni pace onorevole significava il ritiro immediato delle truppe e la fine di una guerra ingiusta.

Per altri significava combattere fino a quando gli Stati Uniti avessero riportato una vittoria senza condizioni. Quello che Nixon intendeva per pace onorevole era lasciato all’immaginazione dell’ascoltatore, ma non c’erano dubbi sul fatto che Nixon aveva l’obiettivo “giusto” sulla guerra del Vietnam.

Le parole, nella pubblicità, possono essere usate anche per definire  i problemi e creare in tal modo bisogni personali e sociali. Nella storia della pubblicità americana, a detta di Stephen Fox, la pubblicità ebbe la massima influenza durante gli anni venti[9], epoca in cui i pubblicitari battezzarono molti di quei “bisogni del consumatore” che cerchiamo di soddisfare ancora oggi.

Ad esempio, la Lambert Co., produttrice del Listerine, diffuse il termine “alitosi” riferito all’alito cattivo; la maggioranza degli americani ignorava di avere l’alitosi fino al momento in cui la Lambert Co. non li rese consapevoli della possibilità di disgustare il vicino ammonendoci che “anche il vostro migliore amico ve lo nasconderà”.

I pubblicitari, naturalmente, non sono gli unici ad inventare nuove etichette come strumenti di persuasione. I primi patrioti americani riuscirono a rafforzare il fervore patriottico chiamando “massacro di Boston” una scaramuccia con i britannici di scarso significato.

Adolf Hitler impiegò la medesima tecnica per mobilitare il popolo tedesco spiegando i problemi economici della Germania nei termini della minaccia rossa o del problema ebraico. Gli antiabortisti definiscono la loro posizione per la vita (chi mai potrebbe essere contro la vita?), mentre i sostenitori del diritto della donna di ricorrere all’aborto si definiscono per il diritto di scelta.

Lo psicologo Gordon Allport ha sottolineato che è nella natura del linguaggio dividere e categorizzare il rumore dell’enorme quantità di informazioni che ci investe in ogni istante del giorno[10].

È questa natura intrinseca del linguaggio che gli conferisce il potere di persuadere. Attribuendo a qualcuno l’etichetta di “uomo”, “donna”, “bel cinese”, “medico”, mettiamo in risalto una caratteristica particolare dell’oggetto “essere umano” a spese dei molti altri possibili. Noi poi reagiamo a queste caratteristiche, organizzando le nostre realtà attorno all’etichetta dell’oggetto.

I nomi che “separano” – come noi-loro, bianco-nero, ricco-povero, maschio-femmina – servono a ripartire il mondo in tanti piccoli contenitori e a suggerire le appropriate azioni da prendere.

I ricercatori hanno scoperto che le offerte di lavoro che impiegano il generico pronome maschile (pronome che si suppone applicarsi sia ai maschi che alle femmine) producono candidati di sesso femminile in numero considerevolmente minore rispetto a quelle formulate in termini più generali[11].

I pubblicitari, consapevoli del potere dei nomi, selezionano per i loro prodotti nomi di marca che, come è il caso ad esempio per lo shampoo Head & Shoulders (testa e spalle), le pile Die Hard (dure a morire), il dentifricio Close-Up (primo piano), attirano l’attenzione sulla caratteristica più saliente del marchio[12].

La storia della pubblicità e anche dei movimenti politici dimostra che la gente tende ad agire secondo i nomi e le etichette, impiegati per descrivere un evento o una situazione.

Il potere delle parole e delle etichette di influenzare il nostro modo di pensare non è calcolabile, dato che si tratta di una sfera irrazionale e inconscia,  è possibile però ipotizzare una suggestione di grandi dimensioni.


[1] Baldini, 1987, 1996 : 14

[2] www.giuffre.it

[3] Aaker. D. A. – Myers J., Management della pubblicità, Franco Angeli s.r.l. 1998, pp. 55

[4] Colley R.H., Gli obiettivi della pubblicità. Definizione e misurazione, ETAS

KOMPASS, Milano 1968, pp. 379

[5] Preston I.L., The Tangled Web They Weave: Truth, Falsity and Advertisers, University of

Wisconsin Press, 1994, pp. 194

[6] Pratkanis A, Aronson E., L’età della propaganda, Il Mulino, 2003, pp. 103

[7] Levin I, Gaeth G., How consumers are affected by the frame of attribute information before and after consuming the product, in Journal of Consumer Research, 1998, pp. 374378

[8] Lee A., Lee E., The fine art of propaganda., New York, 1939

[9] Fox S, The mirror makers: A history of twentieth-century American Advertising, New York, Morrow, 1984

[10] Allport G., The nature of Prejudice, Reading, Addison-Wesley, 1954; trad.it. La natura del Pregiudizio, Firenze, La Nuova Italia, 1973

[11] Bem S., Does sex-biased job advertising, in Journal of Applied Social Psycology, 1973, pp. 6-18

[12] Ries A, Trout J., Positioning: the battle for your mind, New York, McGraw-Hill, 1981


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Comunicazione e Persuasione

Comunicazione e persuasione

 

Quando si parla di persuasione, nella maggioranza dei casi si pensa a qualcosa di manipolatorio. In realtà, la persuasione non è altro che una strategia o un procedimento per ottenere un’approvazione.

La comunicazione persuasiva fa parte di un approccio qualitativo. Essa non è altro che la capacità di motivare gli altri ad ascoltare, a riflettere sulle nostre ragioni senza chiudersi o difendersi a priori.

Quando si parla di comunicazione persuasiva ed efficace c’è il  bisogno di dedicarsi alla comprensione di chi ci sta di fronte e a costruire con lui una relazione vincente, con un’alleanza che permetta di equilibrare le forze in gioco nella negoziazione e di uscire soddisfatti da una trattativa con qualcuno.

Nella comunicazione persuasiva si crea una sinergia con i propri interlocutori che si sentono capiti, a proprio agio, e questo permette di concludere un accordo in modo vantaggioso. Per poter operare in tal senso, bisogna aver conquistato una propria libertà interiore, cioè quella indipendenza da fattori che condizionano il nostro agire verso gli altri e verso noi stessi, le nostre credenze limitanti.

Saper comunicare in modo efficace significa conoscere se stessi per poter meglio interagire con gli altri. Affinchè questo avvenga è necessario che i tre canali della comunicazione – già citati nei capitoli precedenti – verbale, paraverbale e non verbale, siano congruenti tra loro.

Se generalmente la persuasione viene vista come un artificio subdolo, può benissimo essere vista anche da un lato più accettabile. Nel libro “L’arte di persuadere” di Massimo Piattelli Palmarini viene proposta un’accezione non negativa della persuasione.

Egli sostiene che “quando una volontà, un’intenzione, una credenza o una decisione devono trasferirsi da una mente ad un’altra, si devono innescare sul momento stesso, moti convergenti nell’una e nell’altra”, e da qui prende lo spunto per affermare che “per sua natura intima, l’arte della persuasione è un esercizio lieve. Aborrisce i mezzi pesanti.   

È lecito esercitare un certo ascendente, ma non fare appello al principio di autorità. L’autorità, non a caso, subentra quando la persuasione non basta “il persuadere esclude non solo la minaccia ed il ricatto, ma anche mosse sleali come l’appello alla pietà o alla cieca fiducia. Se si deve ricorrere a questi espedienti, significa che la persuasione non basta. La persuasione può tollerare invece, la lusinga, l’adulazione, il mettere in guardia contro futuri dolori o la suggestione di futuri piaceri, l’ambiguità, il presupposto non detto, la conseguenza non dichiarata”[1].              

Dunque, la persuasione non è un’opera di convincimento, che si propone di indurre qualcuno ad agire contro la propria volontà, facendo leva su meccanismi molto più potenti, nonchè lesivi della libertà dell’altro, fino a tollerare la minaccia, il ricatto, il ricorso al senso di colpa, la corruzione<

Si tratta invece di un’atto che comporta sempre una scelta, un esercizio di libera volontà, significa, cioè, indurre un cambiamento dell’opinione altrui solo per mezzo di un trasferimento di idee, un passaggio di puri contenuti mentali.

Non si può persuadere uno a vedere, a sapere, ad arrivare. Lo si può persuadere però, rispettivamente, a guardare, a studiare, a partire. Persuadere implica che la persona sia libera non solo di volere, di agire, ma anche di pensare, di credere, di decidere[2].

La ricercatrice Nicoletta Cavazza dell’Università di Bologna, fornisce nel suo libro “Comunicazione e persuasione” un tipico binomio resosi protagonista del nostro quotidiano: convincere ed essere convinti.

Alla nostra regolare capacità di comunicare, si associa quotidianamente la facoltà di persuadere, ovvero convincere qualcuno della verità, della realtà di un fatto, della buona qualità di un prodotto, o talvolta semplicemente indurre qualcuno a dire o a fare una cosa. Succede spesso che queste due attività si intersecano e coinvolgono senza che ne siamo completamente consapevoli.

Dagli studi di Psicologia sociale di Kurt Lewin, tesi ad evidenziare l’efficacia della partecipazione attiva e dell’autopersuasione, a quelli compiuti in Europa e in America nel dopoguerra, centrati in modo particolare sulla persuasione come processo costituito dall’induzione di uno stimolo con determinate caratteristiche, la studiosa analizza proprio i vari processi che conducono il consumatore alla modifica di un comportamento.

Al di là del messaggio pubblicitario in se stesso, ci sono dei segnali, periferici (slogan, musica, colori, testimonial), che contribuiscono in larga parte a convincere lo spettatore. Sono molti i motivi alla base di una scelta, e di conseguenza, sono altrettanto tanti gli elementi attraverso i quali viene formulato il messaggio pubblicitario.

“L’effetto di mera esposizione”, il quale dimostra che la “familiarizzazione” aumenta la percezione di gradevolezza dell’oggetto che si ha di fronte; la credibilità della fonte ci propone un prodotto, ancor più evidenziata dallo “sleeper effect” che spiega come questa influenzi maggiormente nell’immediato e meno a distanza di tempo; la struttura del messaggio al fine di rendere l’informazione trasmessa sempre più visibile, concreta, vicina e facilmente memorizzabile (lo spot deve colpire chi vi assiste secondo gli effetti di primacy e recency, che facilitano il ricordo delle prime e delle ultime informazioni di un messaggio); il target a cui si rivolge.

Molti dei richiami persuasivi non solo mirano a cambiare atteggiamenti e opinioni, ma si pongono l’obiettivo di ottenere che queste opinioni si trasformino in comportamenti. La forza della persuasione pervade tutti i tipi di comunicazione, compresa quella non verbale, e tutti i livelli interpersonali.

Nascosta o palese, la comunicazione persuasiva coinvolge, comunque, anche la nostra collaborazione, altrimenti, oltre ad essere noi stessi influenti sui modi di pensare e di operare di quanti ci stanno intorno, diviene facile esserne vittime.

 


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[1] M. Piattelli Palmarini, L’arte di persuadere, Il Mulino, 2005, pp. 198

[2] M. Piattelli Palmarini, L’arte di persuadere, Il Mulino 2005, pp. 233

Implicazioni storiche della “psicologia delle masse”

Implicazioni storiche della “psicologia delle masse”

 

Foto di Free-Photos da Pixabay

 

La possibilità di influenzare attraverso le patiche discorsive, il complesso delle interazioni umane, ha fatto si’ che, nel corso dei secoli, le classi dominanti e i ceti emergenti abbiano cercato, rispettivamente, di detenere in esclusiva o di conquistare il monopolio dello strumento linguistico, sottraendolo a coloro che avrebbero potuto usare la parola per finalità alternative.

Nella storia recente, il periodo in cui si è maggiormente risentito degli effetti di questo genere di politica, è senz’altro quello delle grandi dittature europee nella prima metà del XX secolo. In particolare, in Italia, largo uso del controllo dell’informazione fu operato da Mussolini allo scopo di dirigere l’opinione pubblica verso una posizione a sostegno del regime fascista.

Ma com’è stato possibile costruire in cosi’ poco tempo un simile castello di convinzioni nella popolazione dell’epoca? A parte le ragioni oggettive, storiche, che vedevano la popolazione italiana completamente svilita da una politica fallimentare dal punto di vista economico, sociale e coloniale, ragioni che facilmente preludevano ad un imminente condizione di cambiamento, i motivi di tanto successo del personaggio Mussolini sono da ricercarsi nella figura stessa del “leader” (analizzata anche da Freud), cosi’ come era voluta allora da una serie di indicazioni provenienti dagli studi di psicologia sociale.

Per sua stessa ammissione, Mussolini risultava aver più volte letto e riletto un famoso e scottante libro del giornalista Gustav Le Bon, “Psicologia delle folle” del 1895. “La folla” – scrive Le Bon – “è sempre intellettualmente inferiore all’uomo isolato, ha la spontaneità, la violenza, la ferocia, ed anche gli entusiasmi e gli eroismi degli esseri primitivi.

 Le folle – specialmente quelle latine – si possono accendere d’entusiasmo per la gloria e l’onore, si possono trascinare in guerra senza pane e senz’armi”.        

Sempre secondo Le Bon, “la folla antepone l’istintività al giudizio, all’educazione ed alla timidezza, pertanto il “capopopolo” deve presentarsi ad essa con un linguaggio adeguato alla recettività del destinatario. Pertanto è fondamentale che segua alcuni principi comunicativi:

 

  • la semplicità del lessico e della sintassi – la folla si presenta per istinto, restia a parole difficili, ai meandri del ragionamento, rifiutando l’esercizio attivo del pensiero;
  • l’affermazione – laconica, concisa, categorica, sprovvista di prove e di dimostrazioni, tanto maggiore è la sua autorevolezza;
  • la ripetizione – eseguita rispettando sempre gli stessi termini;
  • le immagini – il potere di una parola non dipende dal suo significato, ma dall’immagine che essa suscita;
  • il contagio – quando un’affermazione è stata ripetuta a sufficienza, e sempre allo stesso modo, si forma ciò che viene chiamata una corrente di opinioni e interviene il potente meccanismo del contagio. Le idee, i sentimenti, le emozioni, le credenze, possiedono tra le folle un potere contagioso intenso<”

 

Sulla base di questi precetti, si formò un vero e proprio linguaggio che Mussolini utilizzò nei suoi discorsi propagandistici.

Egli elaborò un modo di comunicare che ruotava intorno a diverse caratteristiche; l’oratoria giornalistica, che non deludeva i dotti e non intimidiva gli umili, volta a stimolare e spingere, più che ad affascinare, il suscitare certi stati d’animo, la delegazione, l’asserzione perentoria e l’antitesi, veri e propri artifici retorici già visti a proposito degli studi di Freud sui lapsus e sui motti, gli slogans, “riciclati” anche da fonti non del tutto pertinenti al messaggio fascista, ma efficaci ai fini della persuasione, ovvero la finalità ad incitare all’azione, i dialoghi con la folla e la coralità, incentrati su frasi che richiedevano una risposta corale da parte dell’uditorio, le frasi ad effetto, ed infine gli aspetti riguardanti la prosodia, i toni e le pause, da variarsi a seconda del carattere che si voleva dare al messaggio.

Cosi’ si creò una vera evoluzione del “culto di Mussolini”. Le spiegazioni sono da ricercarsi nel processo di identità, intesa psicologicamente, fra il duce e il regime fascista. Le diverse componenti psicologiche che fanno di Mussolini un leader ideale, sono riscontrabili nel saggio di Freud

“Psicologia delle masse e analisi dell’io” (scritto nel 1921, prima che il fenomeno della dittatura mussoliniana lo confermasse).

La fortuna o destino di Mussolini fu di incontrarsi con una massa storica disposta alla sottomissione. Questo per ragioni contingenti, per la delusione serpeggiante, per la frustrazione degli italiani, disintegrati come comunità dalla guerra, per una fondamentale “paura della libertà”, e per il bisogno di un “protettore magico”.

Mussolini esercitava spesso un transfert erotico, quando cioè, appariva in un clima esplicitamente “amoroso” che si manifestava nelle pubbliche manifestazioni della folla. Gli stessi gregari di Mussolini si trovarono legati a lui, per un legame individuale, dato dalla stessa istanza di sottomissione, dalla stessa “relazione amorosa”; era “un’innamoramento di massa”[1].

La forza di coesione del gruppo fascista derivava dall’identificazione di tutti con Mussolini, alla caduta del quale corrisponderà la disfatta del fascismo.

Mussolini riuscì a conciliare le varie tensioni psicologiche esercitate sulla popolazione, allo scopo di conseguire una sorta di autorità paterna, tramite l’imposizione della disciplina e della propria idealizzazione.

È in tale contesto che nasce un’impostazione scientifica della propaganda; si iniziano ad utilizzare dei metodi specifici da parte di gruppi organizzati di specialisti, per conseguire il consenso, attivo o passivo della massa, in relazione ad azioni politiche, talvolta anche attraverso manipolazioni psicologiche.

Si concretizza un’espressione del potere che si afferma attraverso la conquista dell’opinione pubblica. Oltre a questo, è da prendere in considerazione un’ultima osservazione; per favorire l’identificazione a livello delle masse più vaste e numerose, Mussolini si riduceva continuamente alle immagini più modeste ed umili, delle varie categorie sociali italiane, del tutto indifferente al ridicolo che gliene derivava, denotando in questa abilità una capacità spettacolare: si trasformava in muratore, contadino, autista, nuotatore, aviatore, maestro, artista, poliziotto, giornalista, operaio.

Dopo dieci anni di travestimenti mussoliniani, ciascun italiano poteva tranquillamente riconoscersi in lui, o per dirla con Freud, poteva “identificarsi con lui nel proprio io”, riconoscendo un’immagine del padre universale (“Tu sei tutti noi!”).

Ancora oggi, la tecnica mussoliniana di influenzamento e persuasione viene studiata ed analizzata, viene riproposta, modificata ed attualizzata, al mondo contemporaneo tramite il marketing, la pubblicità , i discorsi politici.

 


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[1] www.ilcounseling.it/articoli.htm

I meccanismi psicologici su cui si muove la persuasione

I meccanismi psicologici su cui si muove la persuasione

 

 

Sulla base degli studi di psicologia sociale, combinati a quelli relativi alle tecniche di comunicazione, molti studiosi specializzati nell’informazione hanno teorizzato alcuni postulati che cercano di descrivere il comportamento di chi riceve un qualunque tipo di messaggio, in particolare un messaggio persuasivo.

Riconosciuto, infatti, che la maggior parte della comunicazione può essere ricondotta ad un gioco di persuasione, i ricercatori hanno focalizzato i propri interessi sul messaggio stesso, analizzandone il tipo di trasmissione, di ricezione, di decodificazione e di assimilazione, per vedere se, questa fonte, che presenta argomenti e fatti, riesce a produrre un qualche effetto sul ricevente.

Un’ulteriore precisazione che bisogna sottolineare, è che non può verificarsi nessuna persuasione se non sussistono le premesse oggettive, del contesto ambientale, sociale, culturale, e quelle soggettive, proprie del ricevente. Non si può persuadere chi non ha la disposizione a lasciarsi convincere. È proprio su questo presupposto che gli studi si sono rivolti più ad orientare gli animi, piuttosto che a dirigere i messaggi stessi.

Ulteriori studi sui meccanismi comunicativi condotti da William McGuire dell’Università di Yale, sostengono che la persuasione stessa si divide in un processo a sei fasi:

  1. la presentazione del messaggio, dove il ricevente viene messo in grado di essere raggiunto dal messaggio
  2. l’attenzione, che il ricevente deve prestare al messaggio
  3. la comprensione dei contenuti, assicurata da un codice trasmissione adeguato (si evitano linguaggi specialistici, o di difficile comprensione)
  4. l’accettazione da parte del ricevente della posizione sostenuta dal messaggio, nella quale si instaura una sorta di sintonia col messaggio ricevuto
  5. la memorizzazione della nuova opinione, in maniera da farla propria
  6. il conseguente comportamento

Se una sola di queste fasi non si attua appieno, non si verificherà alcuna persuasione[1].

Esistono però altre teorie sulle vie percorse dalla persuasione. Secondo il modello della probabilità di elaborazione (ELM, elaboration likelihood model) di R. Petty, gli atteggiamenti possono modificarsi attraverso due percorsi differenziati:

  1. percorso centrale, agisce sulla capacità, consiste in un’elaborazione attenta e di riflessione accurata sulle argomentazioni e sulle informazioni contenute nel messaggio persuasivo
  1. percorso periferico, agisce sul livello di motivazione, riguarda un processo di cambiamento basato su elementi che non sono direttamente pertinenti al tema, cioè i cosiddetti segnali periferici, ad esempio, l’attrattiva della fonte, la durata e la semplicità del messaggio, la sua piacevolezza.

Spesso, per far passare un messaggio persuasivo, viene usata una strategia che fa ricorso all’attivazione di paure, che fanno leva sul fatto di minacciare delle conseguenze indesiderabili qualora l’individuo non adotti il comportamento suggerito dal messaggio.

Un espediente molto usato in pubblicità consiste nella reiterazione del messaggio, dando luogo a quello che gli psicologi chiamano effetto di mera esposizione, che contribuisce a rendere più familiare, e quindi più accettabile, il messaggio proposto.

Altre componenti, prese in prestito dai pubblicitari, riguardano la fonte emittente, cioè, fanno appello all’autorevolezza e alla credibilità di chi veicola il messaggio. Questa via persuasiva è supportata da un certo livello di expertise, cioè una costruzione fittizia di professionalità nell’emittente. Anche la struttura stessa del messaggio offre importanti appigli per veicolare la persuasione.

La lividezza del messaggio, innanzi tutto, in cui la costruzione del discorso, i colori, i suoni, concorrono a rendere il messaggio più facilmente percepibile. L’ordine di argomenti, dove gli studi effettuati sulla memoria e sul livello di attenzione, hanno evidenziato due importanti effetti utili a questo proposito:

  • di fronte ad una serie di informazioni contigue, le persone tendono a ricordare meglio le prime (effetto primacy) e le ultime (effetto recency), mentre quelle poste nella parte centrale dell’esposizione vengono meno facilmente registrate nel ricordo.

Ulteriori elementi riguardanti la persuasione sono stati forniti dagli studi effettuati dallo psicologo sociale americano Robert Cialdini, che ha osservato dei professionisti della persuasione, cercando di capire le tecniche usate da questi per forzare le resistenze delle persone, inducendole ad accondiscendere.

Queste tecniche (il colpo basso, il piede nella porta, la porta in faccia) cercano di indurre il ricevente ad acconsentire ad una proposta, facendo leva su alcuni vantaggi iniziali, che poi non vengono rispettati, o sul principio di reciprocità, che è alla base del sentimento di obbligo che ciascuno di noi sente per qualcuno che ci offre qualcosa, per cui fanno apparire una richiesta come una concessione.

Nell’ambito dei mezzi di comunicazione di massa si è sviluppato un altro effetto; l’agenda setting. Questo fenomeno nasce dall’assunto che i media descrivono la realtà presentando al pubblico una sorta di ordine di priorità delle questioni relative all’informazione. L’esposizione dei media non influenzerebbe quindi, direttamente gli atteggiamenti, ma l’importanza da attribuire alle questioni.

Quando le persone attribuiscono molta importanza a un dato evento, aumenta la probabilità che prestino maggiore attenzione alle notizie che lo riguardano, considerandone in maniera approfondita, tutti gli aspetti. In pratica, indurre l’effetto agenda setting, significa agire sulle risorse cognitive necessarie a produrre opinioni stabili, prima ancora che sulla direzione delle opinioni stesse.

Fra i principali strumenti di persuasione legati più strettamente all’oratoria si possono evidenziare quattro elementi principali:

? l’originalità, l’argomento più persuasivo è sempre quello più nuovo

? lo stile, appannaggio delle tecniche di retorica

? la logica dell’argomento persuasivo

? la pertinenza, in quanto essere persuasivi significa riconoscere istantaneamente, e far riconoscere all’interlocutore, nuove relazioni di pertinenza fra gli argomenti

Anche l’esempio del gesto-persuasione, è un’ottimo strumento. Esso viene veicolato dal principio di imitazione che si genera nel ricevente. In effetti, la forza persuasiva di un gesto, anche semplice, se fatto nella giusta circostanza, può essere irresistibile.

Per essere efficace, il gesto deve essere necessariamente studiato, e la sua pertinenza viene affidata all’inventiva di chi lo escogita, tenendo conto anche del fatto che esso non può reggere alcune situazioni limite, nel veicolare un messaggio persuasivo, come la divisione tra ragione ed emozione, tra immaginazione e realtà.

Un ultimo aspetto della strada che percorre la persuasione sta nella semplicità, nella brevità concisa ma efficace, del messaggio stesso; ne sono esempio gli slogan, gli aforismi, i motti di spirito, costituiti da frasi concettose e sintetiche, orecchiabili e suggestive, destinate a rimanere impresse nella mente, e quindi, a persuadere l’ascoltatore.

Per citare Aristotele, “bisogna sembrare di parlare non ad arte, ma naturalmente; questo, infatti, è persuasivo, mentre quello è l’opposto. Infatti si diffida da chi parla astutamente cosi’ come si diffida dai vini adulterati”.  

[1] www.ilcounseling.it/persuasione.htm

 


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La psicologia e il processo di comunicazione

La psicologia e il processo di comunicazione

 

Credo sia utile cominciare col definire cosa sia la psicologia della comunicazione. In questo termine definiamo la disciplina che studia i processi mentali che guidano la trasmissione di pensieri tra esseri umani e che, in particolare attraverso l’uso del sistema linguistico o di atri sistemi segnici formali, sia diretti, sia mediati da strumenti e mezzi, ne studia i meccanismi di generazione (codificazione) e di ricezione (decodificazione)[1].    

 

Nell’ambito della psicologia della comunicazione possiamo distinguere altre discipline quali la psicologia del linguaggio che studia i processi di generazione e di elaborazione del linguaggio stesso, la psicologia della percezione che studia in particolare i processi percettivi, la psicologia della comunicazione di massa che studia invece tutti quei fenomeni di comunicazione mediati da mezzi che si frappongono tra il mittente ed il destinatario della comunicazione, generando situazioni di comunicazione di un soggetto verso molti altri.

Nell’ambito della comunicazione tout court possiamo ulteriormente distinguere la comunicazione con fini persuasivi con l’obiettivo di indurre nel destinatario della stessa un cambiamento di atteggiamento o azioni di stampo comportamentale (nel cui ambito e’ compresa la comunicazione commerciale, cioè la pubblicità), e la comunicazione senza fini persuasivi, ovvero quella comunicazione che puo’ essere di ordine informativo o gratuito.

 Dal punto di vista della psicologia, analizzare la comunicazione significa comprendere quali siano i processi mentali che ad essa soggiacciono; e’ spesso dato per scontato che un testo proposto arrivi indisturbato ed intatto da chi lo produce a chi lo riceve, o che le uniche variabili di interferenza siano relative al testo stesso o alle competenze linguistiche ed enciclopediche di chi lo produce e di chi lo riceve, ma in realtà il processo e’ più complesso e ricco di sfumature[2][3].

Se da un lato la complessità del messaggio deve essere adeguata alle capacita’ di comprensione ed al linguaggio dei soggetti con i quali si comunica, dall’altro, perchè un messaggio abbia successo, deve superare le nostre soglie di attenzione e di motivazione per essere elaborato[4].

Nell’ambito della produzione dei testi, entrano in gioco processi mentali come la memoria, la scelta delle argomentazioni. L’elaborazione di un testo è una vera operazione strategica, che, nella sua stessa codificazione, implica una serie di decodificazioni possibili. Il testo prodotto non è solo un pensiero, ma lo sviluppo di un modello mentale. La codifica, quindi, è essa stessa un processo.

La decodifica invece, implica da parte del destinatario, un operazione di ricostruzione del significato, che non sarà necessariamente quella voluta dal mittente, ma potrà discostarsi in base alle esperienze ed alle conoscenze che caratterizzano il se’ di ogni individuo.

I modelli mentali, pur differenziandosi da soggetto a soggetto, possono avere, nell’ambito di una cultura condivisa, diversi elementi comuni. L’insieme delle associazioni linguistiche, delle conoscenze condivise e delle competenze si trovano a confronto durante un normale processo di comunicazione. Quindi il processo di comunicazione si configura come un confronto tra modelli mentali[5].

Quanto detto finora vale per qualunque forma di comunicazione, indipendentemente dallo scopo che si pone. La comunicazione persuasiva, di cui quella commerciale è un’appendice, presenta maggiori peculiarietà.

Partendo dalle considerazioni sul tema sviluppate da Hovland, Janis e Kelley nel 1953 possiamo individuare le variabili della persuasione:

  • attenzione
  • comprensibilità
  • convincimento (convincente e interessante)
  • memorizzazione

Questi fattori sono influenzati da quattro variabili indipendenti:

  • variabile della fonte (chi e’ il mittente)
  • variabile del messaggio (che cosa e’ detto)
  • variabile del ricevente (chi riceve il messaggio)
  • variabili del mezzo (quale mezzo e’ usato)[6][7]

E’ stato lungamente dibattuto il problema che vede contrapporsi due concetti importanti nell’ambito della ricerca sulla comunicazione; persuadere e convincere. Già Kant, nella Critica della ragion pura, distingueva tra questi due elementi, che indicano due differenti processi psicologici.

Convincere implica una forma di adesione razionale e superficiale del soggetto, mentre la persuasione implica necessariamente una forma di adesione profonda, legata agli aspetti emotivi e comportamentali del soggetto. L’oggettività della convinzione si scontra contro la soggettività della persuasione[8].

La convinzione si basa sul solo aspetto cognitivo, l’informazione mantiene un contenuto oggettivo e credibile, con dati anche controllabili, ma al di la’ della veridicità, quello che realmente influenza il destinatario è il come l’informazione sia costruita.

Il funzionamento della persuasione e’ diverso; anche essa necessita di elementi cognitivi, pero’ risulta fondamentale l’aspetto emotivo (l’insieme di contenuti e di contorno), ad esempio alcune tipologie di immagini, che possono suscitare una reazione emotiva.

Questo fattore non è imputabile all’informazione, che deve essere oggettiva e razionale, quanto piuttosto alla comunicazione, che risulta essere un fenomeno di trasmissione dei pensieri, molto più coinvolgente e manipolatorio[9]. E’ soprattutto attraverso la comunicazione, attraverso l’integrazione di elementi cognitivi ed emotivi, che si può condizionare l’agire umano.

 


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[1] Vannoni D, Manuale di psicologia della comunicazione persuasiva, UTET Libreria, 2003, pp. 4

[2] Vannoni D., Manuale di psicologia della comunicazione persuasiva, UTET Libreria,

[3] , pp. 20-22

[4] Idem

[5] Idem

[6] Vannoni D., Manuale di psicologia della comunicazione persuasiva, UTET Libreria,

[7] , pp. 25-30

[8] Fabris G., La pubblicita’: teorie e prassi., Franco Angeli, 1992, pp. 48

[9] www.internetica.it/manipolazione.htm

I Canali della Comunicazione

I canali della comunicazione

Foto di Pezibear da Pixabay

 

Ripensando ad un dialogo vivace e recente vissuto con qualcuno, cosa ci ha colpito in modo particolare?

Il contenuto, espresso tramite i vocaboli densi di significato, i verbi con i loro tempi, gli aggettivi che hanno colorito il discorso? Oppure ci ha colpito maggiormente la voce espressa attraverso il suo volume, la sua velocità piuttosto che il ritmo accelerato o lento? È possibile che non sono state tanto le parole o la voce a rimanerci impresse, bensì l’espressione del volto di chi parlava[1].

Sicuramente è l’insieme della comunicazione a lasciare il segno. Questo “insieme” può essere scomposto in tre canali:

? comunicazione verbale

? comunicazione paraverbale

? comunicazione non verbale

 

L’elemento costitutivo della comunicazione verbale è il vocabolario linguistico. Questo tipo di comunicazione prende il nome di comunicazione digitale, in quanto, facendo riferimento ad una analogia informatica, per trasferire il significato si è dovuto codificarlo simbolicamente, come avviene appunto, nella trasmissione digitale di dati.

Le lingue del mondo, da questo punto di vista, non sono altro che la codificazione simbolica di parole utili a trasferire il medesimo contenuto coerentemente con il contesto culturale dato – il paese di appartenenza10.

Usare le parole senza voce è ovviamente impossibile. Per questa ragione si definiscono paraverbali l’insieme dei segnali messi in atto, nella comunicazione  verbale, a livello fisiologico, ovvero l’insieme delle modalità con le quali si manifesta la nostra voce; registro, volume, velocità, timbro, ritmo, cadenza, tono, modulazione, dizione.

A seconda di come si usa la voce, si generano stati d’animo diversi nell’interlocutore. La voce viene registrata dal nostro cervello come un’informazione che prescinde dal contenuto dei messaggi che essa porta con sè, la voce dovrebbe essere curata quanto il contenuto stesso. Una bella impostazione vocale, ben modulata, calda, avvolgente sicuramente può ammaliare e conquistare, cosi’ come ci allontana una voce stridente e priva di calore.

Non siamo purtroppo, abituati a dare il giusto peso alla voce nell’interazione con gli altri, e per questo la potenzialità persuasiva spesso si perde. La voce viene usata cosi’ come viene, invece di governarla consapevolmente.

La caratteristica fondamentale del persuadere è quella di saper modulare la voce; alzarne il volume per abbassarlo subito dopo, quando si desideri sottolineare una frase; rallentarne la velocità per evidenziarne concetti complessi, oppure accelerarla per sfuggire all’attenzione dell’interlocutore. Non si tratta di snaturazione, ma semplicemente di una migliore conoscenza e utilizzo delle nostre capacità.

Il terzo canale della comunicazione è quello del non verbale. In questa categoria rientrano i linguaggi del corpo e i suoi derivati – espressione facciale, mimica, abbigliamento, postura, sguardo, gestualità, movimento. È estremamente facile manipolare la parola, non è però altrettanto semplice governare le espressioni del corpo. Il corpo parla e rivela chi siamo.

La connessione tra mente e corpo è a tal punto stretta che, intervenendo sull’una, si modifica necessariamente l’altro, e viceversa; indurre in noi o altri un diverso stato d’animo produce immediatamente un nuovo atteggiamento del corpo. Allo stesso modo, agire dall’esterno, dal corpo appunto, sforzandoci di assumere atteggiamenti fisici di apertura ed energia, influenza positivamente la psiche[2].

Imparare a leggere i segnali del corpo diventa decisivo, se si vuole conoscere la reale disposizione d’animo dell’interlocutore. Conoscere ciò che pensa chi ci sta davanti, a dispetto di ciò che dice, ci mette in una posizione di vantaggio, per poter effettuare una più mirata ed efficace azione persuasiva nei suoi confronti.

Secondo uno studio dell’americano A. Mehrabian, nella fase iniziale di conoscenza con una persona, il linguaggio del corpo (non verbale) gioca un ruolo di fondamentale importanza; tramite gesti, posture e contatto visivo, esso incide sul processo comunicativo con una percentuale del 55%. Per il 38% incidono invece il tono della voce e tutte le componenti paraverbali, mentre il significato letterale delle parole espresse influisce solo per il 7%[3].

Da questo punto  di vista, sembrerebbe che ciò che diciamo non ha praticamente importanza rispetto a come lo diciamo; solo un misero 7% del peso della comunicazione si ascrive al contenuto, contro ben il 93% che dipende da elementi non strettamente verbali. Questo risultato porta a riflettere sul fatto che ciò che veramente conta nella comunicazione, e quindi nella capacità di influenzare, è soprattutto il “come” viene detto, piuttosto che il “che cosa”.

 


© Psicologia della comunicazione persuasiva – Dott.ssa Romina Sinosich 


 

[1] Pirovano F., La comunicazione persuasiva, De Vecchi Editore, 2004, pp. 31 10 Idem

[2] Pirovano F., La comunicazione persuasiva, De Vecchi Editore, 2004, pp. 36

[3] Signorini G, L’arte di persuadere, teorie, dinamiche e modelli della persuasione, Bologna, Pendragon, 2004, pp. 256