Articolo 14 – Strategie ed interventi di prevenzione della salute

Strategie ed interventi di prevenzione della salute

 

Come abbiamo potuto osservare  la strategia adottata può essere rivolta all’individuo, in un ottica più riparativa, oppure all’organizzazione in un ottica che privilegia la prevenzione, in funzione del focus individuato come più appropriato alla specifica situazione.

Seguendo il diagramma proposto da Heaney e van Ryn (1990), sotto riportato, si può notare che all’apice dell’albero si trova “chi percepisce lo stress”, che si dirama in un’ampia percentuale di individui esposti agli “stressor” e all’opposto “pochi individui”.

Quindi l’evidenza è ancora posta sull’individuo che percepisce uno stato di stress, piuttosto che, direttamente sulle variabili organizzative.

Figura 8: Modello di Heaney e van Ryn (1990),

Fonte: Nardella C., Deitinger P., Aiello A., 2007

Molta letteratura relativa agli interventi sullo stress da lavoro, anche quella più recente (Semmer, 2003; Van der Bossche et al., 2004 citati in Hutman, 2007) conclude che la maggior parte della ricerca su efficaci interventi sullo stress da lavoro considerano interventi diretti all’individuo, che hanno lo scopo principalmente di adattare gli individui al loro ambiente e che affidano unicamente allo sviluppo di capacità individuali di gestione dello stress la possibilità di migliorare il benessere dei lavoratori.

Le ragioni che orientano questo tipo di approccio si possono ricondurre a:

    • La direzione ritiene spesso che i problemi di stress da lavoro siano causati dagli individui, in particolare dalla loro incapacità di rispondere alle richieste di lavoro a loro poste;
    • Non è interesse ed intenzione della direzione attuare un cambiamento organizzativo allo scopo di gestire il problema;
    • E’ molto più facile, in un ottica sperimentale, valutare un intervento quando è rivolto all’individuo piuttosto che all’organizzazione o ad una parte di essa.

Tuttavia molte delle revisioni (Leka et al., 2003) promuovono gli interventi organizzativi che rispondono maggiormente ad una strategia di prevenzione primaria orientata alla riduzione delle fonti di stress e che favoriscono la riprogettazione del lavoro (job redesign) e soprattutto l’evoluzione delle culture organizzative.

Gli autori hanno suggerito alcune specifiche strategie a supporto di questo approccio:

1. Riprogettazione del lavoro: le migliori strategie per la riprogettazione del lavoro si focalizzano sulle richieste, la conoscenza e le capacità, il supporto ed il controllo e comprendono:

    • cambiare le richieste del lavoro (per es. cambiando il modo in cui il lavoro viene fatto, o l’ambiente di lavoro, condividendo diversamente il carico di lavoro)
    • assicurare che gli addetti abbiano o sviluppino un’appropriata conoscenza e capacità per effettuare il loro lavoro efficacemente (per es. scegliendoli ed addestrandoli adeguatamente e controllando i loro progressi regolarmente)
    • migliorare il controllo degli addetti sul modo in cui essi fanno il loro lavoro(per es. introdurre il tempo flessibile, job-sharing, maggiore consultazione sulle pratiche di lavoro)
    • aumentare la quantità e la qualità di supporto che essi ricevono (per es. introdurre programmi di addestramento “gestione delle persone” per i supervisori, permettere l’interazione tra gli addetti, incoraggiare la cooperazione ed il lavoro di squadra)

2. Addestramento alla gestione dello stress: chiedere agli addetti di frequentare lezioni sul rilassamento, la gestione del tempo, training o esercizi di affermazione

3. Progetti ergonomici e ambientali: migliorare l’attrezzatura usata sul lavoro e le condizioni del lavoro fisico

4. Sviluppo della gestione: migliorare la conoscenza e comprensione dei manager rispetto a questo rilevante fenomeno e, favorire una maggiore consapevolezza delle loro capacità verso la gestione dello stress allo scopo di stimolare un’atteggiamento pro-attivo ed efficace

5. Sviluppo organizzativo: implementare migliori sistemi di lavoro e di gestione e favorire lo sviluppo di una cultura più amichevole e di supporto

Tali suggerimenti possono essere ricondotti a quelli che vengono definiti, negli interventi organizzativi, interventi psicosociali (Parker, Sparkers, 1998, citati in Avallone e Paplomatas, 2005).

Tali interventi mirano a produrre cambiamenti nella percezione che i lavoratori hanno dell’ambiente di lavoro. Oltre ad interventi di job redesign, sui quali si fondano gli interventi organizzativi definiti come sociotecnici, essi incorporano le strategie sopra descritte.

LA VALUTAZIONE DELLO STRESS LAVORO CORRELATO: PROSPETTIVE DI INTERVENTO A PARTIRE DAL DECRETO LEGISLATIVO DEL 9 APRILE 2008, N°81 – © Serena Molari

 

Articolo 13 – Modalità alternative di misurazione

Modalità alternative di misurazione

 

 

Molti ricercatori che specificatamente si sono concentrati sullo stress occupazionale, hanno identificato la necessità di approcci che completino la tradizionale ricerca quantitativa (Dick, 2000; Payne & Cooper, 2001).

Per esempio, Meyerson (1994) ha sostenuto che i ricercatori dovrebbero tener conto dei “modi in cui i significati concreti dello stress variano, riflettono e rinforzano le ideologie dominanti delle organizzazioni in cui le persone lavorano” (Dick, 2000; Payne & Cooper, 2001 Meyerson, 1994 citati in Harkness et al., 2005).

Sono state sperimentate strategie alternative di misurazione che rappresentano una risposta alla richiesta dei ricercatori dello stress di usare metodi di ricerca qualitativi, per acquisire una visione dei significati che sono centrali nel processo di stress e di adattamento.

Folkman & Moskowitz (2004) sostengono che molto si può imparare sul processo di stress e sull’adattamento chiedendo alle persone di “raccontare gli eventi stressanti, incluso ciò che è successo, le emozioni che si sono vissute, quello che hanno pensato e fatto man mano che la situazione si dipanava”.

Harkness et al.(2005) hanno condotto uno studio utilizzando, come metodo per la rilevazione, in una prospettiva d’intervento, l’analisi del discorso per esplorare il modo in cui gli addetti comprendono lo stress sul lavoro e scoprirne i significati impliciti. 22 impiegate di una città canadese hanno partecipato ad incontri focalizzati sul gruppo dove parlavano delle loro esperienze di stress al lavoro.

I racconti delle donne sono stati analizzati usando i metodi di analisi del discorso. I risultati rivelavano che parlare dell’essere stressati forniva un modo socialmente accettabile di esprimere il disagio e di riguadagnare un senso di importanza che era andato perduto sentendosi sottovalutate e scarsamente apprezzate nell’organizzazione.

Al contrario, ammettere di non essere in grado di adattarsi allo stress era considerato “anormale”. Il discorso sullo stress alimentava un senso di inadeguatezza e di ambiguità non riconoscendo le influenze esterne sulle esperienze delle impiegate, come ad es. il loro posto all’interno della struttura di potere dell’organizzazione, e limitando il loro senso di controllo sui problemi sperimentati sul lavoro.

Dai risultati sono emersi spunti importanti per lo sviluppo di culture organizzative più sane. E’ emerso che essere stressati o sembrare impegnati è visto come normale per le impiegate donne.

Sfortunatamente, essere occupate non vuol dire necessariamente essere produttive.

Quindi è importante per un’organizzazione incrementare la produttività attraverso una valutazione dei livelli di stress percepito dagli addetti.

Viene suggerito all’organizzazione, allo scopo di ridurre la percezione di stress, un cambiamento nella cultura organizzativa (per es. i datori di lavoro vengono incoraggiati ad essere coscienti dei messaggi che vengono inviano agli addetti su come devono essere trattate le emozioni negative o le esperienze stressanti sul lavoro ossia, come lo stress deve essere gestito.

Inoltre questo studio ha mostrato che lo stress è costruito discorsivamente, con le emozioni normali e negative che sono nascoste sul lavoro per aiutare le impiegate donna a mantenere un sentimento di accettabilità sociale e di controllo sulle loro esperienze di lavoro. Va notato che le impiegate donna in questo studio identificavano una soluzione collettiva allo stress lavoro correlato, cioè, il bisogno di promuovere l’armonia, di comunicare rispettosamente e di riconoscere l’importanza dei rapporti nel migliorare il benessere sul lavoro.

Un altro approccio alternativo è stato quello di usare “l’analisi di incidenti critici” per raccogliere dati sul processo di stress e sull’adattamento correlato al lavoro.

O’Driscoll e Cooper (1996) hanno modellato l’uso di questa tecnica su interviste di descrizione del comportamento, dove “gli antecedenti, i comportamenti e le conseguenze del comportamento erano derivate tramite domande dirette agli individui sulle loro esperienze”.

Gli autori sostenevano che l’uso dell’analisi di incidenti critici per investigare l’adattamento “fornisse un racconto più dettagliato e comprensibile del processo stress – adattamento, rispetto a quanto spesso riscontrato con altre determinazioni” (O’Driscoll & Cooper, 1996, citati in Dewe e Cooper, 2007).

In maniera similare Oakland e Ostell (1996) usavano interviste semi-strutturate per esplorare in dettaglio le situazioni di lavoro, in un modo in cui l’intervista “equivaleva all’approccio diagnostico di un terapista che costruiva un modello di una situazione problematica di un cliente”.

I dati raccolti usando questo approccio illustravano la tremenda complessità di cos’è un processo dinamico, lasciando gli autoria concludere che sebbene le liste di controllo siano ampiamente usate, non possono catturare “la natura sempre in cambiamento del processo di adattamento” e quindi sono “limitate sia nel loro potere descrittivo che in quello di spiegazione” (Oakland e Ostell, 1996 citati in Dewe e Cooper, 2007).

Usando la scrittura di un diario/giornale in un approccio sperimentale piuttosto creativo, Alford et al. (2005) chiedevano a chi rispondeva nel loro gruppo di intervento “di
scrivere un diario per 15-20 minuti ogni giorno per 3 giorni consecutivi, su i loro recenti stress, emozioni e pensieri e progetti correlati”. Gli autori descrivono questa tecnica come “un intervento di basso costo emotivo – espressivo”.

Considerato utile dal gruppo di intervento, lo studio ha mostrato che “la maggior parte rivelava grande quantità delle sue emozioni negli scritti” e per questo gruppo scrivere, portava ad un diminuito stress psicologico e ad un’aumentata soddisfazione sul lavoro.

Questi risultati, sostengono Alford e colleghi, supportano il punto di vista che “esprimere le proprie emozioni in parole e nel contesto di una storia tende a migliorare lo stato di salute mentale“. I diari quotidiani sono stati usati anche (Elfering, Grebner, Semmer, Kaiser- Freiburghaus, Lauper-Del Ponte & Witschi, 2005 citati in Dewe e Cooper, 2007) per esplorare come le caratteristiche croniche interessano il successo dell’adattamento.

I partecipanti venivano addestrati all’uso di diari tascabili e per sette giorni li riempivano ogni volta che provavano stress. Mentre i risultati indicavano la necessità di considerare sia le condizioni croniche che le variabili relative alle situazioni in relazione all’adattamento, le questioni sollevate da questi risultati, secondo gli autori “supportavano la necessità di più studi tipo diario”

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Articolo 12 – Valutazione dello stress lavoro correlato: Strumenti per la misurazione degli effetti dello stress

Strumenti per la misurazione degli effetti dello stress

 

Riprendendo sempre la classificazione proposta da Magnavita (2008), all’interno di quest’ultima categoria l’autore ha identificato gli strumenti utili alla misurazione degli effetti dello stress, distinguendo:

a) stato di salute generale;
b) problemi psichici;
c) benessere psicologico.

Volendo ridefinire la classificazione è possibile raggruppare gli strumenti che indagano i problemi psichici ed il benessere psicologico, riducendo l’identificazione degli strumenti, utili alla misurazione degli effetti dello stress, a: stato di salute generale e lo stato psicologico e psichico dei lavoratori.

a) lo stato di salute generale può essere indagato attraverso l’utilizzo di “liste di sintomi”.

Una di quelle più frequentemente utilizzate è quella contenuta nel:

Questionario IAQ/MM040

la cui versione originale contiene 12 sintomi correlati con la qualità dell’aria.

Per ciascuno il lavoratore esprime la frequenza del disturbo negli ultimi 15 giorni mediante una scala Likert a 3 livelli (mai/qualche volta/spesso).

Esiste un quarto valore, corrispondente ai sintomi che si manifestano spesso sul lavoro.

Nella versione italiana la lista dei sintomi è stata ampliata a 18 domande, includendo sei sintomi comuni non correlati con la qualità dell’aria.

Nell’elaborazione si tiene generalmente conto solo dei sintomi presenti “spesso” o “spesso sul lavoro”. È anche possibile costruire una scala di malessere, sommando i punteggi delle varie domande.

Un altro strumento, del quale esiste anche una versione italiana, è:

Il Subjective Health Complaint Inventory (SHC)

composto da 29 domande relative alla frequenza di sintomi sorti negli ultimi 30 giorni. Fornisce un punteggio complessivo e cinque subscale, relative a disturbi muscoloscheletrici, pseudoneurologici, gastrointestinali, allergici e influenzali.

Infine vengono elencati alcuni strumenti definiti come indicatori generici di qualità della vita fra i quali quelli più utilizzati in Italia SF-36 e la sua versione abbreviata SF-12. l’FS-36 è composto da 36 domande che permettono di assemblare 8 differenti scale: AF-attività fisica (10 domande), RP-limitazioni di ruolo dovute alla salute fisica (4 domande) e RE-limitazioni di ruolo dovute allo stato emotivo (3 domande), BP-dolore fisico (2 domande), GH-percezione dello stato di salute generale (5 domande), VTvitalità

(4 domande), SF-attività sociali (2 domande), MHsalute mentale (5 domande) e una singola domanda sul cambiamento nello stato di salute.

L’applicazione di questo strumento ha mostrato la presenza di due macro-fattori, costituiti da una componente fisica e da una componente mentale.

b) al fine di completare l’indagine sugli effetti dello stress sulla salute è necessario valutare lo stato psicologico e psichico dei lavoratori.

A tale scopo possono essere utilizzati strumenti di rilevazione dell’ansia, della depressione e del burnout. Per valutare lo stato d’ansia uno degli strumenti più utilizzati è il questionario STAI:

STAI di Spielberg (1970):

esso indaga due forme di ansia: “l’ansia di stato”, è una condizione relata agli eventi, ossia è un indice delle modalità che il soggetto ha di reagire ad un evento nuovo; “l’ansia di tratto”, permette di cogliere le caratteristiche stabili della personalità. La versione italiana del questionario è costituita da 20 domande.

Un altro strumento ampiamente utilizzato è:

La scala di ansia e depressione di Goldberg (1988).

L’ampio utilizzo di questo strumento è stato favorito dalla sua semplicità diagnostica. E’ stato elaborato infatti allo scopo di agevolare l’esigenza dei medici, di medicina generale e di altri medici non specialisti in psichiatria, di riconoscere l’esistenza di malattie psichiatriche nei propri pazienti, con un metodo relativamente semplice, economico e di rapida applicazione. Il questionario è composto da due scale di 9 domande con risposta dicotomica (no/si), il cui punteggio è dato dalla somma delle risposte positive.

L’analisi fattoriale indica che la scala di ansia è omogenea. La scala di depressione vice versa presenta due componenti, la prima relativa alla ipoattività tipica del disturbo distimico (6 item), la seconda relativa all’alterazione dell’immagine di sé (3 item).

Un paziente che risponda positivamente a cinque delle nove domande della scala A, o a due della scala D, ha il 50% di possibilità di avere un disturbo d’ansia e, rispettivamente, di depressione clinicamente rilevante.

Il questionario A/D conserva nella versione italiana le caratteristiche dell’originale.

La corretta e definitiva diagnosi dovrà essere posta, evidentemente, dallo psichiatra, sulla base di successivi accertamenti, in un secondo momento. Il questionario difatti non è stato pensato come sostituto della diagnosi né dell’anamnesi psichiatrica, ma come strumento epidemiologico.

Lo stesso Goldberg consigliava di valutare la prevalenza dei disturbi affettivi in popolazioni lavorative, e incoraggiava l’uso di una versione più breve, di sole quattro domande, che conserva una discreta potenza diagnostica (Goldberg 1988 citato in Magnavita, 2008).

Il questionario è stato infatti ampiamente usato in ambienti di lavoro per l’identificazione precoce di casi per i quali è desiderabile un approfondimento diagnostico.

Questo strumento può inoltre fornire una misura del livello di benessere psicologico in una popolazione lavorativa o gruppo omogeneo, e risultare quindi di particolare utilità negli studi epidemiologici trasversali e longitudinali.

Goldberg (1972) inoltre ha sviluppato:

Il General Health Questionnaire (GHQ)

che è probabilmente il questionario più usato per la rilevazione del rischio di disturbi psichiatrici minori a carattere acuto o, inversamente, per la misurazione del benessere psicologico a breve termine. Del GHQ esistono diverse versioni e in diverse lingue e varie formulazioni. Quella originale è costituita di 30 domande, ma esistono forme ridotte, una costituita da 28 domande e l’altra da 12 domande, ampiamente usata negli studi sul campo. Queste ultime uniscono alpregio di una maggiore brevità una più ampia articolazione in quattro subscale.

Il punteggio del GHQ può essere valutato con tre metodi alternativi ma indipendentemente dal metodo utilizzato il punteggio è generalmente unidimensionale.

Merita infine di essere citato uno strumento ampiamente usato per indagare il “job burnout” che la Maslach rappresenta come una “specifica sindrome da stress cronico caratterizzata da tre dimensioni”: (1) Esaurimento emotivo (emotional exhaustion): rappresenta la componente centrale e più tipica del job burnout e consiste nella sensazione della persona di aver “bruciato” tutte le energie psicologiche; si sente svuotata e senza più risorse fisiche ed emozionali per affrontare l’attività lavorativa. L’esaurimento è la dimensione maggiormente legata allo stress e al benessere fisico, oltre che psicologico, e costituisce anche l’aspetto più approfondito dalla ricerca scientifica. Può considerarsi una condizione necessaria, ma non sufficiente alla comparsa del job burnout; (2) Depersonalizzazione o spersonalizzazione (depersonalisation): rappresenta la componente interpersonale del job burnout ed è caratterizzata da un esasperato distacco nella relazione con gli utenti/clienti attraverso un processo di “deumanizzazione” che si esprime nel trattare gli altri come oggetti o numeri piuttosto che come persone (Kahill, 1988; Maslach, 1982 citati in Borgogni e Consiglio, 2005). La depersonalizzazione costituisce quindi una reazione di difesa, che si manifesta attraverso un atteggiamento freddo e cinico, di indifferenza e annullamento delle emozioni; (3)

Ridotto senso di riuscita professionale o ridotta efficacia professionale (reduced personal accomplishment, professional efficacy): rappresenta la componente di valutazione di sé del job burnout, caratterizzata da un crescente senso di inadeguatezza, dalla mancanza di fiducia circa le proprie possibilità di riuscita nell’attività professionale.

A partire da queste dimensioni teoriche, la Maslach ha elaborato il diffuso il questionario:

MBI-Maslach Burnout Inventory (Maslach e Jackson, 1981, 1986; Maslach, Jackson e Leiter, 1996 citati in Borgogni e Consiglio, 2005).

Il questionario è composto da 22 item che misurano le tre dimensioni individuate. La frequenza con cui il soggetto sottoposto al test prova le sensazioni relative a ciascuna scala è saggiata usando una modalità di risposta a 6 punti, i cui estremi sono definiti da “mai” ed “ogni giorno”. Il burnout è concepito nel questionario come una variabile continua non come una variabile dicotomica, che può essere solo presente o assente.

Inizialmente il questionario era stato appositamente costruito per essere somministrato nelle helping professions. Recentemente Maslach e Leiter (Maslach e Leiter 1999; Maslach, Schaufeli e Leiter, 2001 citati in Borgogni e Consiglio, 2005) hanno rivisto la precedente concettualizzazione del job burnout, estendendone la pertinenza e l’applicabilità a tutti i contesti organizzativi ed apportando alcune modifiche allo strumento di misura preesistente. La messa a punto del nuovo strumento MBI-General Survey (Maslach, Jackson e Leiter, 1996), ha dato una forte spinta alle numerose ricerche recenti che dimostrano l’estendibilità del costrutto alle organizzazioni produttive.

Le tre dimensioni costitutive vengono adesso articolate con item meno caratterizzanti il contesto (sociosanitario) e definite come: esaurimento (exhaustion), disaffezione lavorativa (cynicism) ed efficacia professionale o inefficacia (professional efficacy o inefficace) (Maslach e Leiter, 1999 citati in Borgogni e Consiglio, 2005); è il disaffezione lavorativa quello che si discosta maggiormente dall’originaria formulazione (Leiter e Schaufeli, 1996 citati in Borgogni e Consiglio, 2005). Con depersonalizzazione ci si riferiva ad una modalità disfunzionale di affrontare la richiesta emotivamente coinvolgente dell’utente (attraverso il distacco da quest’ultimo), invece con disaffezione lavorativa si intende riferirsi ad un generico atteggiamento di indifferenza, freddezza e distanza emotiva dal lavoro ed alla risposta difensiva nei confronti di vari aspetti della vita lavorativa (Maslach e Leiter, 1999; Borgogni, Armandi, Consiglio e Petitta, 2005 citati in Borgogni e Consiglio, 2005).

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Articolo 11 – Lo stress lavoro correlato: Prospettive di intervento – Questionari per la valutazione dei fattori moderatori

Questionari per la valutazione dei fattori moderatori:

 

Magnavita (2008) prende in considerazione quale fattore moderatore la soddisfazione lavorativa, osservando che molti studi hannoconfermato l’esistenza di una stretta relazione tra soddisfazione professionale e stato di salute.

Locke (1976) anticipò quella che poi divenne una influente definizione di “soddisfazione lavorativa” ossia, “uno stato emozionale piacevole e positivo risultante dalla stima del lavoro o delle esperienze lavorative” (Locke, 1976 citato in Brief e Weiss, 2002).

I risultati di un recente studio condotto da Faragher et al., (2005) hanno mostrato che la soddisfazione lavorativa è significativamente correlata, in modo inverso, con la depressione, l’ansia, il burnout e la perdita di autostima.

La soddisfazione lavorativa esplica quindi un effetto moderatore dello stress professionale sulla salute (Faragher, Cass e Cooper, 2005 citati in Magnavita, 2008).

Pertanto potrebbe ritenersi utile, in fase di valutazione, applicare anche strumenti di misurazione della soddisfazione lavorativa.

Vengono proposti a questo scopo sostanzialmente due strumenti: il JSS e l’Indice di Soddisfazione di Stamps.

    1. Il JSS, elaborato da Warr e coll. (1979), è costituito da una scala composta da 15 domande, più una complessiva che tiene conto di tutti i fattori trattati nelle precedenti. A ciascuna domanda si risponde tramite una scala Likert in 7 punti, da “estremamente insoddisfatto” (=1) ad “estremamente soddisfatto” (=7). La soddisfazione viene misurata da un’unica scala,  costituita dalla somma dei punteggi delle domande. Mediante analisi fattoriale è stato dimostrato che la scala è sufficientemente omogenea, anche se è possibile riconoscere due subscale corrispondenti, rispettivamente, alla soddisfazione professionale intrinseca, data dalla somma delle domande pari, ed una estrinseca, corrispondente alla somma delle domande dispari. La domanda finale, riassuntiva, è stata in alcuni casi impiegata anche da sola, come espressione della globale soddisfazione tratta dal lavoro.

Questa domanda consente di dividere i lavoratori in due gruppi:

– quelli soddisfatti del lavoro (risposte da “moderatamente soddisfatto” a “estremamente soddisfatto”)
– quelli insoddisfatti (risposte da “estremamente insoddisfatto” a “moderatamente insoddisfatto”).

In questo caso i soggetti che rispondono “sono incerto” sono esclusi dai successivi conteggi.

La versione italiana della Job Satisfaction Scale (JSS) conferma la struttura unitaria della versione originale inglese e la possibilità di suddividere i punteggi in diverse subscale.

Il questionario è stato ridotto per le ricerche condotte su lavoratori autonomi. Questa versione abbreviata in 10 domande, ha escluso i quesiti riguardanti la soddisfazione nei rapporti con i superiori o il management.

L’altro questionario proposto, che è stato recentemente tradotto da Cortese (2007) ed applicato nello studio del personale infermieristico è:

    1. L’Indice di Soddisfazione di Stamps (1997). E’ costituito da una sola scala composta da 44 domande nel cui ambito è possibile riconoscere diverse subscale.

L’autore conclude sostenendo che quest’ultimo strumento rispetto al JSS è dotato di maggiore specificità, anche se risulta certamente più indaginoso.

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Articolo 10 – Lo stress lavoro correlato: Prospettive di intervento – Questionari percezione soggettiva

Questionari che indagano la percezione individuale dello stress:

 

Ripartendo sempre dalla classificazione proposta da Magnavita (2008), l’autore promuove per la valutazione dello stress percepito due questionari: il Job Content Questionnaire (JCQ) di karasek e l’ERI (Effort-Reward Imbalance) di Siegrist entrambi citati anche all’interno della rassegna proposta da Tabanelli et al. (2008).

Entrami i modelli teorici ai quali i due questionari fanno rispettivamente riferimento sono stati ampiamente illustrati nel secondo capito.

Job Content Questionnaire (JCQ) di karasek:

Attualmente il modello sviluppato da Karasek (1979) sembra essere considerato uno dei più attendibili e quello più ripetutamente utilizzato in quanto ritenuto concettualmente utile per descrivere le principali variabili organizzative, rappresentate da una elevata domanda psicologica del lavoro (psychological job demand – PJD) connessa a scarse capacità di risposta (decision latitude – DL), per inadeguate capacità acquisite (skill discretion) e scarsa libertà decisionale (decision authority). Il modello è stato ampliato in un secondo momento (1988) ed è stata aggiunta una terza variabile, il supporto sociale sul posto di lavoro (social support at work – SS), individuata come significativo fattore moderatore, se elevato, della relazione tra PJD e DL. Le variabili PJD, DL e SS vengono indagate tramite il Job Content Questionnaire (JCQ). Sono state approntate almeno tre edizioni italiane del questionario di Karasek.

    1. La prima, ridotta, di 15 domande è stata tratta dal manuale messo a punto per lo studio dei fattori psicosociali nell’ambito del progetto MONICA-OMS nel 1985.
    1. La seconda versione, di 35 domande, è stata riconosciuta dall’autore e utilizzata dallo studio JACE nell’ambito dei programmi BIOMED della Comunità Europea nel 1996.
    1. La terza, è stata predisposta da ricercatori dell’ENEA di Bologna nel 1998 che, nel tradurla dall’originale, hanno apportato gli adattamenti ritenuti più necessari per l’utilizzo del questionario in contesti lavorativi nazionali (in particolare nell’industria tessile e nel terziario).

Questa versione rappresenta di fatto la “recommended version” di 49 items, articolata in 8 macrovariabili: 3 sulla dimensione controllo i cui items indagano su “giudizio circa le proprie capacità”, “potere decisionale in rapporto al compito specifico” e “potere decisionale a livello di politica aziendale”; 3 sulla dimensione domanda i cui items indagano su “carico di lavoro psicologico”, “carico di lavoro fisico” e “insicurezza lavorativa” mentre le 2 restanti dovrebbero consentire valutazioni sugli aspetti relazionali (supporto sociale da parte dei superiori e supporto sociale da parte dei colleghi, rispettivamente).

Vi è autorevole testimonianza in letteratura che, al di là delle due dimensioni fondamentali controllo e domanda, il supporto sociale sia da intendersi come ulteriore risorsa disponibile e come “modulatore” delle richieste che provengono dal contesto lavorativo.

Gli item sono formulati sotto forma di affermazioni: “il mio lavoro richiede che impari cose nuove”; “il mio lavoro mi permette di prendere decisioni in autonomia”; “il mio lavoro richiede un elevato livello di competenza”; “il mio lavoro richiede da fare le cose molto velocemente”; “il mio lavoro richiede intenso sforzo fisico” sulle quali i soggetti esprimono il loro parere, da decisamente no a decisamente si, su scala Likert (Baldasseroni et al.,2003).

Ferrario et al., (2008) hanno riportato i risultati ottenuti con lo Studio SEMM (Surveillance of Employees of the Municipality of Milan), condotto su un ampio campione di dipendenti comunali di Milano, sottoposti a sorveglianza sanitaria, tra il giugno del 1992 e l’aprile 1996, appartenenti a sei settori municipali diversi per un totale di 5271 donne e 2601 uomini, con percentuali di partecipazioni superiori al 75%. I partecipanti, in aggiunta alla consueta visita medica ed accertamenti relativi ai rischi professionali, sono stati sottoposti ad una procedura di indagine standardizzata per valutare lo stress

lavorativo percepito ed il rischio di malattia cardiovascolare. La rilevazione dello stress lavorativo percepito è stata realizzata tramite metodologia standardizzata, desunta dal Progetto MONICA che, come anticipato, ha utilizzato una versione ridotta del JCQ, per due dei sei settori del campione di riferimento e, tramite la somministrazione della versione standard del JCQ agli altri settori restanti.

Per i tre principali costrutti le due versioni differiscono tra loro per il numero di item che valutano la scala DL e per la presenza di item relativi alla scala SS, presenti solo nella versione più estesa.

Al fine di rendere comparabili i punteggi derivanti da un numero differente di item per le due versioni è stato sviluppato, in collaborazione con l’autore, un sistema di calcolo ponderato che permette confronti diretti dei punteggi derivati dalle diverse versioni.

Il Job Content Questionnaire ha dimostrato di essere uno strumento affidabile, mostrando una buona consistenza interna ed esterna, per la valutazione dello stress lavorativo percepito, quale indicatore di disagio attribuibile a costrittività organizzative aziendali. I coefficienti Alfa di Cronbach variano da 0,72 per la scala PJD a 0,88 per la scala SS, indicando una buona consistenza interna di tutti i costrutti principali del questionario JCQ. Le assunzioni sulla validità esterna dello strumento sono risultate soddisfatte per entrambi i sessi, con coefficienti di correlazione di Pearson pressoché nulli (-0,03 nelle donne e 0,01 negli uomini) e non statisticamente significativi, tra le scale DL e PJD, a conferma della loro ortogonalità. I valori dei coefficienti di correlazione non si sono sostanzialmente modificati disaggregando per sesso, gruppi di età ed istruzione. Inoltre, sono stati ottenuti coefficienti di correlazione lineare di 0,37 (p<0,0001) e di –0,14 (p<0,0001) tra il supporto sociale al lavoro (SS) e rispettivamente DL e PJD, ad indicare che il sostegno di capi e colleghi si associa positivamente ai livelli di percezione del controllo del lavoro e negativamente ai livelli di percezione di domanda psicologica.

Inoltre ha dimostrato essere uno strumento di elevata comprensibilità (buona compliance anche per i gruppi meno istruiti). La compilazione, infatti, del JCQ è risultata elevata, mostrando una ridotta percentuale di item mancanti (variando dal 3,6% per la scala DL al n6,3% per la scala SS).

Nonostante le evidenze gli autori consigliano comunque l’assistenza di un esperto nella fase di somministrazione e compilazione del questionario.

Gli autori concludono sostenendo che sebbene sia preferibile utilizzare la versione di riferimento per il nostro Paese (49 item), anche la versione utilizzata nel Progetto MONICA, a soli 13 item, può produrre punteggi confrontabili, se adeguatamente pesati, per i costrutti psychological job demand e decision latitude. Ai fini, però, di una corretta e completa interpretazione delle dinamiche aziendali è consigliabile l’utilizzo anche delle domande che esplorano il social support at work, disponibili solo nella versione standard.

Sono emerse evidenze che questi costrutti, se analizzati per gruppi definiti, aiutano a caratterizzare alcuni aspetti peculiari delle organizzazioni aziendali, anche nel settore pubblico. Ne sono esempi le differenti relazioni tra DL e PJD con l’età nei due sessi, l’effetto protettivo della percezione di strain da parte del supporto sociale quando presente e la caratterizzazione per i due costrutti principali di strain lavorativo degli aggregati settore lavorativo-livello di istruzione.

I risultati della ricerca hanno, infatti, anche evidenziato differenze nella percezione dello stress lavorativo all’interno del campione di riferimento.

Rispetto alle differenze di genere si evidenziano soprattutto per le due categorie estreme di job strain: maggiori proporzioni di high strain (donne 26,1% rispetto 23,1% uomini) nelle donne rispetto ad una maggior prevalenza di low strain (uomini 26,7% rispetto 22,7%) negli uomini. Distintivamente per i due sessi, le stesse categorie di job strani vengono indagate per classi di età e si rileva un aumento della prevalenza di categoria ad alto stress lavorativo nelle  donne con l’aumento dell’età ed un pattern opposto negli uomini.

A questi si contrappongono gli andamenti speculari di aumento negli uomini e la diminuzione nelle donne della prevalenza di low strain.

Vengono inoltre indagati anche gli andamenti per classi di età delle prevalenze delle due categorie estreme di job strain in condizioni di buon o precario supporto sociale lavorativo.

Il sostegno, quando assente, esacerba per tutte le classi di età, ma soprattutto per quelle più giovani, la percezione di elevato stress, mentre lo attenua quando il supporto sociale è attivo. Andamenti opposti si verificano per le categorie di basso stress: diminuiscono con l’età nelle donne ed aumentano negli uomini; vengono anche per questa categoria invece confermati i dati rispetto all’effetto della variabile SS.

Valutando inoltre l’aggregato settore lavorativo – livello di scolarità, distintamente nei due sessi, emergono alcuni aspetti peculiari, meritevoli di commento:

    1. i commessi e gli impiegati, con livello di istruzione medio – basso, risultano settori lavorativi caratterizzati da elevati livelli di strain percepito;
    1.   i lavoratori appartenenti ai settori scuola materna, polizia municipale ed impiegati con livello di scolarizzazione elevato (università) si caratterizzano come ad alto carico ed elevata libertà decisionale (active);
    1. per quanto riguarda in particolare i commessi si nota un aumento del livello di high strain all’aumentare del livello di istruzione, in controtendenza rispetto ai risultati riportati da altre ricerche dello Studio JACE (iob stress, absenteeism, and coronary event) Azione Concertata del Programma BIOMED I della Comunità Europea, ove all’aumento del livello di istruzione corrisponde generalmente una diminuzione del livello di strain percepito.

Contestualmente sono stati valutati anche le assenze da lavoro per malattia, quale indicatore di disagio e malessere organizzativo ed il rischio cardiovascolare correlati allo stress lavorativo.

La maggior parte degli studi che hanno impiegato il JCQ, infatti, si sono orientati, oltre che alla valutazioni delle condizioni psicosociali del lavoro ed alla valutazione dello stress percepito, alla valutazione delle relazioni tra stress percepito e, coronaropatie, ipertensione arteriosa, patologie muscolo-scheletriche, disturbi dell’umore e disturbi comportamentali, come assenteismo e ricorso a prestazioni sanitarie, evidenziandone le correlazioni, nella maggior parte dei casi positive.

E’ importante considerare che la valutazione delle assenze, stimata, quale indicatore di disagio e di “malessere organizzativo”, se introdotta all’interno di un disegno di studio come questo, permette di individuare i determinanti strutturali, organizzativi e comportamentali.

Questi ultimi possono dare indicazioni dei livelli di accettazione lavorativa ed individuare modalità di coping alternative per migliorare l’integrazione aziendale.

In questo studio, un rischio di assenteismo elevato per requenti assenze brevi (2-7 giorni) è risultato associato al settore della polizia municipale (rispetto agli impiegati dell’anagrafe), ad un basso supporto sociale al lavoro, a bassi livelli di attività fisica nel tempo libero, ed a una ridotta anzianità lavorativa. Gli autori sostengono, a conferma dei dati, che un supporto sociale carente aumenti il rischio di assenze brevi, avvalorando l’ipotesi formulata da Edgren (1986) che individua in queste forme di assenza una modalità di coping attraverso cui gestire in modo improprio il carico di lavoro. Un rischio di assenze prolungate (8-28 giorni) risulta correlato ad una bassa classe occupazionale, a bassi ma anche ad elevati livelli di attività fisica lavorativa, alla diagnosi di ipertensione arteriosa ed al fumo attivo. Infine, le assenze lunghe (maggiori di 28 giorni) sono risultate associate al settore della polizia municipale, alla bassa classe occupazionale, ad elevati livelli di stress percepito (rapporto PJD/DL sfavorevole) ed alla presenza di familiari.

Inoltre la valutazione di rischi come quello cardiovascolare, se realizzato con metodi di misura standardizzati, evidenzia anche possibili comportamenti che incrementano il rischio di malattie.

I risultati del presente studio hanno permesso di identificare relazioni negative tra DL, fumo e indice di massa corporea che determinano un rischio ridotto di CVD complessivo tra le donne con elevati livelli di libertà decisionale. Inoltre si è verificata una correlazione positiva, anche se statisticamente debole, tra DL e pressione arteriosa sistolica , sia negli uomini che nelle donne.

Quest’ultimo dato è in opposta tendenza a quanto riportato in letteratura, rispetto al genere.

Gli autori suggeriscono di favorire l’analisi delle associazioni tra singoli fattori di rischio e stress lavorativo percepito, che possono variare in differenti contesti aziendali e tra gruppi nell’ambito della stessa azienda, in quanto potrebbe contribuire a rimuovere le condizioni che determinano gli atteggiamenti nocivi e migliorare in tal caso le possibilità preventive in ambiente lavorativo.

In conclusione si può affermare che il JCQ sembra essere un valido strumento nella valutazione dello stress percepito e che come strumento di autovalutazione ha il pregio di favorire: la valutazione del grado di stress occupazionale derivante dall’incongruenza fra impegno richiesto e possibilità di “gestire” questa tensione fra efficienza e salute, nel senso di evitare o ridurre il rischio di disturbi funzionali a carico di organi o apparati; e la percezione ed individuazione delle condizioni ambientali (fisiche ed organizzative) nell’ambito dei diversi sistemi specialistico – funzionali (i vari reparti o gruppi di lavoro), da ottimizzare secondo le priorità che emergono dalla elaborazione dei dati raccolti con gli strumenti di ricerca (Baldasseroni et al., 2003).

A supporto della validità applicativa di questo strumento è stata riportata una rassegna, con gli studi più recenti, in unRapporto Completo, pubblicato dall’ISPSEL, relativo ad un’indagine pilota condotta in Veneto nel 2005, promossa dall’Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro (ISPESL) in collaborazione con la Direzione per la Prevenzione della Regione Veneto e con il contributo di Enti ed Istituti nazionali (tra gli altri Università di Padova, IN PS e INAIL).

L’obiettivo della ricerca è stato sperimentare un modello di indagine che permettesse di fornire un quadro complessivo delle condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori di una regione italiana, quale studio pilota per la costituzione di un sistema di monitoraggio su scala nazionale.

Gli studi più recenti che hanno utilizzato il JCQ sono brevemente riassunti sotto:

In un campione della popolazione lavorativa giapponese (Tsutsumi, 2001), l’utilizzo della versione giapponese del JCQ ha permesso di rilevare un’associazione significativa tra job strain ed ipertensione (OR=1 .18; IC=1 .05-1.32) dopo aver aggiustato per i fattori di confondimento tramite regressione logistica. In un campione di lavoratori lombardi, fu dimostrata na relazione tra job strain e valori di pressione arteriosa (Cesana, 1996). Nello studio di Niedhammer [1998], i fattori lavorativi psicosociali erano significativamente associati con ipertensione, iperlipidemia, sovrappeso, abitudine al fumo, e consumo di alcol. In uno studio di coorte prospettico (Kuper, 2003) con più di 10 000 partecipanti, le persone con bassa decision latitude ed alta job demand contemporaneamente erano a più alto rischio per incidenza di patologie cardiovascolari. In un campione di lavoratori svedesi, i soggetti sottoposti a job strain ed isolamento erano ad alto rischio di sviluppare o di morire di malattie cardiovascolari (Johnson, 1989). In uno studio trasversale (Johnson, 1988), la prevalenza di patologie cardiovascolari era raddoppiata nei lavoratori con alta domanda, basso controllo, e basso supporto sociale. In uno studio caso-controlo entro coorte, i lavoratori con basso controllo e basso supporto sociale avevano un OR di morte per malattie cardiovascolari di 2.62 (IC=1.22-5.61) (Johnson, 1996). In uno studio caso-controllo su base di popolazione (Hammar, 1998), in maschi tra 30 e 54 anni in lavori con alto job strain e basso social support, l’OR di infarto del miocardio era 1.79 [IC=1 .22-2.65]. In 268 operai non diabetici di una ditta giapponese, un’elevato job strain ed un basso social support erano associati con un aumento della concentrazione di emoglobina glicosilata; gli autori suggeriscono che questa alterazione possa essere un mediatore fisiologico tra fattori psicosociali e patologia coronarica (Kawakami 2000). In un altro studio su 213 lavoratori giapponesi di una fabbrica di computer esaminati con il JCQ, una elevata job demand era significativamente correlata ad una riduzione dell’attivatore tissutale del plasminogeno; gli autori suggeriscono che l’associazione tra stress psicosociale e sviluppo di malattie cardiovascolari era mediata da alterazioni dell’attività fibrinolotica plasmatica (Ishizaki 1996).

Un altro campo di applicazione è la relazione tra job strain e patologie muscolo-scheletriche. Usando il questionario di Karasek, fu riconosciuta un’associazione tra fattori psicosociali e sintomi muscoloscheletrici di polso e mano, dopo aver corretto per i fattori di rischio personali e le caratteristiche del lavoro (Malchaire 2001). In uno studio condotto su 861 lavoratori olandesi, un basso social support era un fattore di rischio per il mal di schiena; i dati suggerivano anche una relazione del dolore lombare con elevata job demand ed elevata conflittualità (Hoogendoorn 2001).

Nell’industria forestale, un’elevata demand era significativamente associata con un’aumentata prevalenza di patologie del rachide lombare nei lavoratori manuali e negli operatori addetti al controllo di macchina; alta job demand e bassa decision latitude erano associate ad aumentata prevalenza di disturbi a carico di rachide cervicale e spalle (Hagen 1998).

I risultati di un’indagine condotta in Francia (Niedhammer, 2003) evidenziano il valore predittivo dei fattori psicosociali al lavoro indagati mediante JCQ e stato di salute generale riferito in un follow-up ad un anno. In uno studio Canadese (Beisson, 2000), la prevalenza di fumatori era elevata nei gruppi di active job strain sia negli uomini (OR=1.6; IC=1.2- 2.1) che nelle donne (OR=1.4; IC=1 .0-2.0). La prevalenza di comportamenti sedentari era elevata negli uomini nel quartile inferiore di decision latitude (OR=1.3; IC=1.0-1.7), nel gruppo passive (OR=1.3; IC=1.0-1.5), e nel gruppo high strain (OR=1.2; IC=1.0-1.6). Lo studio di Bultmann (2002) evidenzia una forte associazione tra caratteristiche psicosociali del lavoro e fatica, anche dopo aver aggiustato per il distress psicologico.

In uno studio prospettico 3895 persone addette all’industria forestale furono esaminati con il questionario job autonomy aveva un rischio due volte maggiore di assenze molto prolungate (Vaananen 2003). In uno studio prospettico fu somministrato un questionario sui fattori psicosociali al lavoro e furono registrate le assenze per malattia nei successivi 18 mesi. La presenza di un basso livello di decision latitude era un fattore predittivo di assenza prolungata per almeno un mese (OR=1 .69; IC=1 .22- 2.38) [Andrea 2003]. Il tasso di assenteismo aggiustato era 1.2 (IC=1.1-1.2) volte più alto in donne con basso controllo che in donne con alto controllo sui tempi di lavoro [Ala-Marsula, 2002]. La comunicazione con i compagni di lavoro ed il social support da parte dei supervisori riducevano il rischio di pensionamento per invalidità in un periodo di follow-up di quattro anni dopo aver controllato per fattori socio-economici, malattie presenti e stile di vita [Krause 1997].

In 139 operai di un’industria manifatturiera esaminati con JCQ, 24 maschi e 15 donne ebbero un infortunio sul lavoro. Nelle donne infortunate, la job demand e il job strain erano significativamente più elevati e il social support era significativamente più basso rispetto alle donne che non avevano avuto infortuni. Nei maschi invece non vi erano significative differenze tra infortunati e non infortunati [Murata, 2000].

Infine, un recente studio [Amick, 2002] ha evidenziato una relazione di bassa job demand e bassa decision latitude con un aumento di mortalità per tutte le cause (OR=1 .35; IC=1 .06- 1.72).

L’altro questionario proposto, già anticipato in precedenza, per la valutazione della percezione individuale dello stress lavoro – correlato, è l’ERI (Effort-Reward Imbalance) di Siegrist.

Tale questionario nasce dal modello sullo stress sviluppato da Siegrist (1996) in base al quale l’esperienza di stress è determinata dalla discrepanza tra l’impegno profuso nel lavoro dal lavoratore e le ricompense ottenute. Il questionario ERI, è composto da 23 domande, 6 relative all’impegno lavorativo (scala E, effort), 11 alle ricompense (scala R, reward), e 6 all’eccessivo impegno (overcommitment). La scala E è composta di 5 domande per le professioni impiegatizie, 6 per i “blue collar workers”; la differenza è una domanda sullo sforzo fisico nel lavoro. La scala R è composta da 11 items. Pur essendo sufficientemente uni-dimensionale, nel suo ambito è possibile riconoscere 3 subscale: stima (cinque domande); promozione e salario (quattro domande); stabilità del lavoro (due domande).

La variabile “overcommitment”, che esprime il fatto di sentirsi obbligato ad uno sforzo superiore alle proprie capacità di realizzazione rappresenta una condizione di allarme che può sfociare in stati diesaurimento fisico, psichico o sociale.

Le risposte alle domande delle questionario vengono espresse mediante una scala Likert a cinque livelli. Le scale derivano dalla somma dei punteggi dati dalle risposte (Magnavita, 2008). Come si evince dalla tabella allegata questo strumento è stato tradotto in diverse lingue ed utilizzato nella ricerca in molti paesi, anche in Italia.

Sono stati compiuti diversi tentativi allo scopo di ridurre il numero delle domande, uno dei quali anche in Italia ma con risultati insoddisfacenti.

Magnavita (2008) propone un confronto tra il questionario ERI e il questionario JCQ. I due modelli forniscono contributi differenti e complementari alla valutazione dello stress da lavoro. E’ stato anche compiuto un tentativo di combinare i due modelli, ricavando un unico questionario (mediante analisi fattoriale e regressione logistica) ma, non ha fornito risultati incoraggianti, in quanto le domande provenienti da ERI dominano il quadro; ERI risulta dunque più potente del JCQ, specie se applicato alle condizioni di lavoratori dei servizi (white-collar). Il questionario JCQ, sembra si presti maggiormente ad effettuare il confronto dei livelli di stress in popolazioni lavorative eterogenee (Magnavita, 2007).

La grandezza di maggiore interesse fornita dal questionario ERI è la discrepanza tra sforzo e risultati, che si calcola come un rapporto pesato tra le precedenti variabili. Ma in alcuni casi, come negli studi di campo, può essere utile esplorare separatamente gli effetti dello sforzo e della ricompensa,

perché a volte una sola delle componenti è significativamente associata alle variabili di effetto nella popolazione esaminata.

L’autore conclude affermando che quando è possibile indagare lo stress con entrambi i questionari si ottiene una migliore definizione, anche se a prezzo di una maggiore complessità operativa.

LA VALUTAZIONE DELLO STRESS LAVORO CORRELATO: PROSPETTIVE DI INTERVENTO A PARTIRE DAL DECRETO LEGISLATIVO DEL 9 APRILE 2008, N°81 – © Serena Molari

Articolo 9 – Lo stress lavoro correlato: Prospettive di intervento – Valutare l’organizzazione – Questionari

Questionari rivolti all’identificazione delle sorgenti di stress da lavoro e alla valutazione dell’organizzazione del lavoro:

 

Rispetto a questa prima classificazione l’autore identifica:

    • L’Occupational Stress Indicator (OSI) il questionario sviluppato da Cooper (1988) che, come dalla tabella riportata, è disponibile anche in italiano. Si tratta di uno strumento voluminoso, la cui auto-somministrazione richiede circa un paio d’ore. Le sue dimensioni fanno sì che esso sia frequentemente applicato in modo parziale. Il questionario indaga oltre ai fattori intrinseci al lavoro (fonti dello stress: relazione con altre persone, carriera e riuscita, interfaccia casa lavoro,…), le caratteristiche dell’individuo (stato di salute, locus of control,…) le strategie di capitolo quarto coping (supporto sociale, orientamento al compito, relazione casa lavoro,…) e gli effetti dello stress (soddisfazione per il lavoro, soddisfazione per l’impostazione e la struttura organizzativa,…). Gli elementi di disagio vissuto sono considerati possibili indicatori di criticità organizzativa.
    • Il questionario sui fattori di stress da lavoro (QFSL). Si tratta di uno strumento composto da 40 domande, a ciascuna delle quali la risposta è fornita mediante una scala Likert in 5 punti; fornisce un  punteggio complessivo, espressione del complessivo “strain” occupazionale, e sei sub-scale, corrispondenti a ciascuna delle classi di fattori di stress a cui fa riferimento. Tale strumento si basa sulla classificazione dei fattori di stress proposta da Raja Kalimo (1980) e riferita ai precedenti studi di Cooper et al. (1976), in sei categorie: fattori legati al ruolo nell’organizzazione, fattori intrinseci al lavoro, rapporti con gli altri, clima e struttura organizzativa, carriera, interfaccia con l’esterno. Il questionario fornisce una rappresentazione esaustiva dei fattori di stress professionale e si è rivelato efficace per identificare ed elencare tutti i fattori di stress potenzialmente presenti in una determinata situazione lavorativa.

Magnavita (2007) ha condotto uno studio allo scopo di verificare i risultati dell’applicazione del questionario. Il questionario è stato somministrato a 371 lavoratori della sanità. I risultati mostrano che la consistenza interna del questionario, che esprime la capacità di spiegare correttamente la varianza dei fattori di stress occupazionali rispetto all’ipotetica varianza reale di tutti i fattori di stress presenti nel luogo di lavoro, misurata mediante il coefficiente alfa di Cronbach, è risultata molto buona, cioè largamente superiore al livello convenzionale dell’80%, alfa=0,9284.

Tuttavia, l’autore sostiene che le categorie di fattori di rischio presentano evidenti sovrapposizioni e la lunghezza del questionario ne limita l’applicazione congiunta con altri strumenti di misura.

L’autore propone inoltre, sempre all’interno di questa categoria, alcuni questionari utili alla valutazione dell’organizzazione del lavoro, quali:

    • Il Questionario per la Valutazione dell’Organizzazione del Lavoro (WOAQ – Work Organisation Assessment Questionnaire) è uno strumento che è stato sviluppato dai ricercatori dell’Università di Nottingham nel quadro di un progetto per la valutazione e la riduzione dei rischi da lavoro nel settore dell’industria. Il WOAQ è costituito da 28 domande relative ai possibili rischi inerenti al design e al management del lavoro, ciascuna associata a cinque possibili risposte. Agli addetti viene richiesto di indicare, sulla base della propria esperienza e conoscenza, quanto sia problematico (o soddisfacente) ciascun aspetto del proprio lavoro, mediante una scala a cinque punti tipo Likert. La formulazione delle domande è di tipo situazionale più che psicologico. Ad esempio, si chiede “quanto pensa che questo aspetto del suo lavoro sia buono (o cattivo)?” piuttosto che “quanto è stressato da questo aspetto del suo lavoro?”. La direzionalità delle scale è stata variata al fine di ridurre la probabilità di risposte perseveranti. Nella versione originale inglese, l’esame della struttura fattoriale non ruotata ha indicato che una percentuale significativa della varianza del questionario è spiegata da un singolo fattore; viceversa, mediante rotazione Varimax sono stati identificati cinque fattori, relativi rispettivamente: alla qualità delle relazioni con il management; a ricompense e riconoscimenti; al carico di lavoro; alla qualità delle relazioni con i colleghi; alla qualità dell’ambiente fisico. La versione italiana del WOAQ conserva le caratteristiche dell’originale e manifesta relazioni coerenti con variabili correlate all’organizzazione del lavoro, come il sostegno sociale (col quale si correla positivamente), lo stress da lavoro e il malessere psico-fisico dei lavoratori (con i quali si correla in senso negativo). Il WOAQ si conferma quindi, per l’autore, uno strumento utile per la valutazione dell’organizzazione del lavoro.
    • Il questionario M_DOQ10 (Majer_D’Amato Organizational Questionnaire_10), è composto da 70 item su scala Likert a 5 punti e misura 10 dimensioni centrali dei fenomeni organizzativi: comunicazione, autonomia, coerenza, chiarezza dei ruoli, coinvolgimento nel lavoro, equità, relazioni e comunicazioni con i superiori, innovatività, dinamismo. Il questionario viene elaborato per via informatica mediante un programma dedicato. Il questionario indaga le caratteristiche dell’organizzazione aziendale e si è rivelato, più propriamente, un valido strumento di misura del clima organizzativo.

Tangredi et al., (2007) hanno condotto uno studio, allo scopo di sperimentare e validare un criterio per l’identificazione delle cause dello stress lavoro correlato, mettendo a punto un modello di valutazione del rischio, basato sul raffronto della rilevazione delle caratteristiche dell’organizzazione del lavoro, effettuata attraverso un questionario somministrato al responsabile e, la rilevazione della percezione soggettiva attraverso un questionario specifico somministrato al gruppo degli esposti. Il modello di valutazione del rischio, oggetto del presente studio, è stato sperimentato in un campione composto 268 lavoratori di 13 Amministrazioni Comunali appartenenti a categorie note per il rischio stress appartenenti a 23 strutture organizzative omogenee (agenti di polizia locale ed educatrici di asilo nido).

Il modello di valutazione del rischio sperimentato è basato sulla identificazione di “aree chiave” (possibili fonti di pericolo) nella organizzazione del lavoro, rilevate attraverso la somministrazione di un’intervista semistrutturata per la rilevazione degli elementi caratterizzanti l ’organizzazione del lavoro, al responsabile dell’organizzazione dell’attività lavorativa, accompagnata dalla verifica della relativa documentazione (procedure, mansionario, schede di autovalutazione,…) presente presso il luogo di lavoro. Le criticità rilevate nell’organizzazione del lavoro (es. poca chiarezza nelle mansioni, assenza di procedure operative e dell’autocontrollo sull’attività svolta, scarsa possibilità di chiarimenti da parte dell’organizzazione, …) sono, secondo il modello proposto, riconducibili alle cosiddette “aree chiave” (possibili fonti di pericolo per stress) per la determinazione dei gradi di probabilità di rischio.

La valutazione del rischio è stata completata con la rilevazione della percezione soggettiva del clima organizzativo nel gruppo degli esposti, attraverso la somministrazione del questionario MDOQ_10 (Majer_D’Amato Organizational Questionnaire_10). I fattori dell’organizzazione indagati con i due strumenti di rilevazione (fase 1: intervista e MDOQ_10) sono gli stessi: team, comunicazione, coerenza, valutazione della soddisfazione del lavoratore, valutazione della soddisfazione dell’azienda, carichi di lavoro, orari di lavoro, retribuzione e carriera, mansioni e procedure, autonomia, responsabilità, innovatività, formazione. Pertanto,il questionario MDOQ_10, complessivamente analizzato nel gruppo, è stato integrato nel modello di valutazione, con le rispettive variabili appaiate per analogia ai fattori caratterizzanti l’organizzazione del lavoro e riconducibili alle quattro aree chiave individuate (relazioni con il lavoro, vita lavorativa, processi di gestione, cambiamento).

Così come per gli aspetti dell’organizzazione del lavoro rilevati con l’intervista al responsabile, anche per gli aspetti della percezione del clima organizzativo da parte del gruppo degli esposti, le criticità emerse sono state considerate come campi di interventi correttivi specifici della realtà lavorativa presa in esame.

La valutazione del rischio (fase 2) è stata parallelamente integrata da un’indagine epidemiologica (fase 3) sugli effetti che il clima organizzativo può avere determinato sui lavoratori (intesi come vissuto personale di condizioni stressogene), attraverso la somministrazione di:

    • un questionario per la valutazione dello stress occupazionale (OSI) che, come abbiamo osservatosopra, indaga i fattori intrinseci al lavoro. Gli elementi di disagio vissuto sono considerati possibili indicatori di criticità organizzativa.
    • un questionario per la raccolta dei disturbi somatiformi (stress correlabili. L’indagine epidemiologica dei disturbi somatiformi costituisce un’utile integrazione al monitoraggio dello stato di benessere psico-fisico nel gruppo degli esposti.

In questa fase di indagine la Valutazione del rischio stress è stata caratterizzata dall’attività integrata del medico competente, della psicologa e del tecnico della prevenzione.

Per entrambe le categorie l’analisi delle aree chiave ha portato a risultati complessivamente concordanti, anche a conferma della corrispondenza dei fattori organizzativi presi in esame dai due strumenti di rilevazione utilizzati (intervista e questionario MDOQ_10).

Lo studio ha evidenziato come, sia pur a fronte di organizzazioni lavorative strutturate e di una percezione generalmente positiva del clima organizzativo, nei due gruppi emerga un vissuto di tensione relativamente ad alcuni aspetti dell’attività lavorativa (“relazioni con altre persone” e “ruolo manageriale” per le educatrici e “carriera e riuscita e “clima e struttura organizzativa” per gli agenti di polizia locale).

Gli autori con presente studio hanno inteso promuovere l’utilità di un modello integrato nella valutazione dei rischi che prevede la valutazione dell’organizzazione e valutazione della percezione del singolo.

Inoltre, i risultati hanno evidenziato che una valutazione integrata permette di rilevare più facilmente “aree di criticità”, anche quando apparentemente l’organizzazione è ben strutturata; o viceversa rilevare una buona percezione del clima organizzativo da parte dei lavoratori anche quando dall’analisi dell’organizzazione (intervista al responsabile) emergono invece criticità.

Gli autori ritengono che il metodo utilizzato abbia raggiunto gli obiettivi prefissati rivelandosi un buon modello da proporre ai soggetti coinvolti nella prevenzione e tutela del benessere psicofisico dei lavoratori, soddisfacendo esigenze di rilevazione sia oggettiva ché soggettiva.

Sottolineano, inoltre, l’utilità dell’approccio multidisciplinare (tecnico, medico, psicologo) sia nella fase di impostazione degli strumenti di studio, sia nelle fasi di valutazione e adozione dei provvedimenti, oltre che per un migliore controllo dello stato di salute dei lavoratori.

Concludendo gli autori auspicano per la valutazione dei fattori di rischio spico-sociali e dello stress lavoro correlato, nella pratica, l’uso di metodi integrati ed un approccio multidisciplinare.

Nella rassegna proposta da Magnavita (2008) non viene incluso un questionario che merita di essere citato:

    • Il questionario multidimensionale della salute organizzativa MOHQ inserito invece nella tabella proposta da Tabanelli et al. (2008). Il questionario consente di definire “lo stato di salute” dell’organizzazione e di individuare le aree sulle quali intervenire per promuovere migliori condizioni di lavoro. Si basa sul costrutto di “salute organizzativa” definita come “l’insieme dei nuclei culturali e delle pratiche organizzative che animano la convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando il benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative”  (Avallone e Paplomatas, 2005). Come si può desumere dalla definizione l’oggetto di misurazione diventa la salute dell’organizzazione e dell’intera comunità lavorativa. L’obiettivo, infatti, nell’impiego di questo strumento è quello di desumere, attraverso l’analisi della relazione indivio-contesto, elementi di salute organizzativa piuttosto ché individuale.

Rispetto a molti altri strumenti presi in esame l’MOHQ dedica poca attenzione a variabili di tipo individuale, riservando un’unica scala, quella dei disturbi psicosomatici, tesa a cogliere le conseguenze sulla salute dell’individuo. Il questionario si costituisce di nove parti, ognuna della quali indaga diverse dimensioni:

    1. dati socio anagrafici
    1. costituita da otto item per valutare il “confort dell’ambiente di lavoro” (es. temperatura, silenziosità) percepito dai lavoratori
    1. costituita da quaranta item volti ad indagare dieci differenti dimensioni della salute organizzativa (es. chiarezza degli obiettivi, valorizzazione delle competenze, relazione interpersonali collaborative, fattori di stress, equità organizzativa ecc..)
    1. costituita da una scala composta da nove item valuta la “sicurezza del lavoro”
    1. costituita da scala composta da dieci item valuta le caratteristiche del lavoro e la “tollerabilità dei compiti assegnati”
    1. composta da dieci item relativi agli “indicatori positivi” (es. fiducia nel management) e quattordici item relativi ad “indicatori negativi” (es. insofferenza nell’andare al lavoro) per la valutazione delle sensazioni vissute nell’ambiente di lavoro
    1. composta da nove item relativi ad una sola scala quella dei disturbi psicosomatici
    1. costituita da una scala di nove item per indagare “l’apertura all’innovazione”
    1. costituita da un elenco di suggerimenti migliorativi.

Gli item sono formulati sotto forma di affermazioni sulle quali i soggetti esprimono il loro parere circa la frequenza, da mai a spesso, su scala Likert, con cui la situazione descritta nella frase si verifica all’interno della propria organizzazione.

Questo questionario è stato utilizzato all’interno di un ampia ricerca condotta, fra il 2002 ed il 2003, nella pubblica amministrazione (otto comuni e due ministeri e l’Inpdap) ed è stato somministrato ad oltre tremila soggetti. I risultati hanno mostrato, in sintesi, delle differenze nelle percezioni del campione indagato fra addetti comunali e ministeriali. L’organizzazione “comunale” si è configurata come un ambiente tendenzialmente positivo dal punto di vista della salute organizzativa indicando come dimensioni di criticità e possibile miglioramento l’area dell’equità organizzativa e la percezione di “sovraccarico lavorativo” che conduce spesso alla percezione da parte degli addetti di stress lavorativo. L’organizzazione “ministeriale” invece ha presentato una percezione globale di salute organizzativa critica anche se, rispetto all’organizzazione comunale, le percezioni degli intervistati rispetto alle dimensioni di tollerabilità dei compiti e di percezione di stress si sono rivelate tendenzialmente positive. Il basso livello di stress percepito dagli addetti ministeriali potrebbe essere messo in relazione e spiegato dal profilo dei compiti descritto dagli stessi come eccessivamente monotoni e noiosi a causa della rigidità di norme e procedure, questo però non sembra compensare lo scarso senso di coinvolgimento emotivo e cognitivo nel proprio lavoro ed il basso livello di salute organizzativa che tali caratteristiche dei compiti contribuiscono a determinare. Rispetto all’intero campione la soddisfazione per le relazioni personali costruite sul lavoro e vissute come fonte di supporto sembrano costituire il maggior collante organizzativo (Avallone e Paplomatas, 2005).

Come si può evincere da questi dati il questionario consente l’esame dell’insieme dei processi e delle pratiche organizzative che incidono sul benessere della comunità lavorativa. Nel modello di valutazione proposto dal MOHQ, infatti, l’attenzione è principalmente all’organizzazione, ai processi ed alle relazioni che contribuiscono alla sua definizione ed il rischio è connesso al tipo di convivenza che si realizza all’interno dell’organizzazione stessa.

LA VALUTAZIONE DELLO STRESS LAVORO CORRELATO: PROSPETTIVE DI INTERVENTO A PARTIRE DAL DECRETO LEGISLATIVO DEL 9 APRILE 2008, N°81 – © Serena Molari

 

Articolo 8 – Lo stress lavoro correlato: Prospettive di intervento – Gestione e Valutazione dello stress: Strumenti per la misur

Articolo 8 – Lo stress lavoro correlato: Prospettive di intervento – Gestione e Valutazione dello stress: Strumenti per la misurazione

 

Questionari per la valutazione del rischio dello stress lavoro correlato

Tabanelli et al., (2008) hanno condotto un’interessante analisi sistematica della letteratura e di internet allo scopo di identificare e descrivere i principali questionari e gli strumenti di osservazione, a disposizione a livello internazionale, per la misurazione e la valutazione dei fattori psico-sociali correlati al lavoro (con/senza altri elementi di stress per il lavoro). Gli autori hanno identificato un totale di 33 strumenti di cui, 26 questionari e 7 di osservazione, che possono essere applicati ad un’ampia gamma di scenari professionali, sia a livello individuale, di gruppo o a livello organizzativo. La preponderanza (quasi tre volte) dei questionari è determinata dalla loro convenienza economica paragonata con i molto più costosi e lunghi nel tempo strumenti di osservazione, che generalmente richiedono la gestione di esperti (Schaufeli e Kompier 2001, citati in Tabanelli et al., 2008). Come abbiamo potuto osservare nel paragrafo precedente un limite intrinseco dei questionari auto-riferiti è che forniscono misurazioni “soggettive”, rappresentando le percezioni dello stress occupazionale dei singoli lavoratori rispetto alle determinazioni “oggettive” ottenute dall’uso di approcci di osservazione, inclusi i dati di archivio (per es. abbandono per malattia, misurazioni della prestazione, incidenti) e misurazioni biologiche (di adrenalina, valori di cortisone, ecc.). Gli strumenti individuati sono i seguenti:

Tabella 6: Sommario e descrizione dei questionari

Fonte: Tabanelli et al., (2008)

Rispetto all’ampia gamma degli strumenti disponibili, riassunta nella tabella sopra riportata, in una recente pubblicazione Magnavita (2008) ha effettuato una revisione degli strumenti più comunemente usati in Italia per la capitolo quarto 9 valutazione dei rischi psicosociali in ambito lavorativo.

Sulla base dei diversi modelli di riferimento e dell’oggetto della valutazione del rischio dello stress lavoro correlato, l’autore propone di distinguere gli strumenti come segue:

    1. questionari rivolti all’identificazione delle sorgenti di stress da lavoro e alla valutazione dell’organizzazione del lavoro;
    1. questionari che indagano la percezione individuale dello stress;
    1. questionari per la valutazione dei fattori moderatori;
    1. strumenti per la misurazione degli effetti dello stress.

E’ conveniente partire dalla suddivisione proposta da questo autore e, attraverso un ulteriore integrazione, supportata anche da dati empirici, tentare di giungere a definire un quadro ristretto, rispetto agli strumenti internazionali disponibili, di strumenti validi ed applicabili nel contesto nazionale.

LA VALUTAZIONE DELLO STRESS LAVORO CORRELATO: PROSPETTIVE DI INTERVENTO A PARTIRE DAL DECRETO LEGISLATIVO DEL 9 APRILE 2008, N°81 – © Serena Molari

 

 

Articolo 7 – Lo stress lavoro correlato: Prospettive di intervento – Gestione e Valutazione dello stress: La Misurazione

Articolo 7 – Lo stress lavoro correlato: Prospettive di intervento – Gestione e Valutazione dello stress: La Misurazione

 

La misura dello stress lavoro correlato e dei fattori di rischio psico-sociali, come abbiamo potuto osservare nel paragrafo precedente, costituisce un momento di fondamentale importanza ai fini della prevenzione e protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori e della promozione del benessere sul lavoro.

Tale misura, però, presenta non poche difficoltà di ordine pratico.

Molte sono le ricerche e i modelli, come illustrato nel secondo capitolo, che sono stati elaborati per giungere a delineare l’insieme degli indicatori più adeguati ed efficaci per svolgere un’analisi ed un monitoraggio dell’organizzazione del lavoro in grado di far emergere i rischi potenziali ed al contempo suggerire in quali aree e con quali strumenti ed azioni intervenire.

A questi studi risalgono i più recenti programmi di intervento che, rivolgono maggiore attenzione alle caratteristiche del contesto di lavoro oltre che a dimensioni strettamente individuali e soggettive.

La Commissione Europea (1999) ha definito lo stress lavorativo: “un insieme di reazioni emotive, cognitive, comportamentali e fisiologiche ad aspetti avversi e nocivi del contenuto, dell’ambiente e dell’organizzazione del lavoro. E uno stato caratterizzato da livelli elevati di eccitazione ed ansia, spesso accompagnati da senso di inadeguatezza.”, considera da un lato, le caratteristiche dell’ambiente di lavoro, quelli che vengono definiti stressors ambientali o fonti di stress (contenuto del lavoro,

organizzazione ed ambiente) e dall’altro, la valutazione soggettiva di tali stressors quale mediatore delle reazioni psicofisiche individuali.

La definizione condivisa dall’UE è in accordo con l’approccio psicologico ed in particolare con i modelli transazionali nella concettualizzazione dello stress lavoro correlato.

Nell’ambito di tale approccio, come illustrato nel secondo capito, lo stress viene definito come uno stato psicologico che

riflette ed è parte di un processo più vasto di interazione tra la persona ed il proprio ambiente di lavoro.

Coerentemente con gli aspetti determinanti di questo approccio, valutazioni e reazioni soggettive da un lato e variabili di tipo organizzativo e psicosociali dall’altro, la logica degli interventi, che si riflette sia nella fase di rilevazione sia nella fase di realizzazione ed implementazione dell’intervento, si concretizza nell’individuazione del “target di riferimento” dando origine  sostanzialmente, come proposto da Avallone e Paplomatas (2005), a tre livelli di interventi:

A livello individuale: gli interventi mirano al potenziamento delle risorse individuali al fine di migliorare le strategie di fronteggiamento (coping) dello stress, attraverso attività di counseling, terapie cognitive, tecniche di rilassamento e di time management. A questo livello coincide quello che viene definito anche intervento di terzo livello che si configura, più che come strategia propriamente preventiva, come strategia riparativa.

A livello di interfaccia individuo-organizzazione: gli interventi si propongono di migliorare l’adattamento personaambiente e le relazioni nel contesto lavorativo, si riferiscono ed incidono su aspetti quali relazioni tra i colleghi, carico di lavoro, grado di partecipazione e livello di autonomia lavorativa. A questo livello coincide quello che viene definito anche intervento di secondo livello.

A livello organizzativo: gli interventi sono rivolti all’individuazione dei fattori lavorativi che causano stress e si concretizzano nella definizione di cambiamenti della struttura e delle pratiche organizzative, dei fattori fisici ed ambientali. Vanno ricondotti a questo livello gli interventi di job design, di ristrutturazione delle condizioni di lavoro e dell’organizzazione del lavoro nonché le politiche di gestione delle risorse, la formazione e lo sviluppo organizzativo. A questo livello coincide quello che viene definito anche intervento di primo livello, quello che maggiormente risponde ad una strategia più propriamente preventiva (Avallone e Paplomatas, 2005).

Figura 7: Ambiti di intervento

Fonte: Avallone, Paplomatas, 2005

Come si evince dalla figura riportata, che schematizza il modello degli interventi sullo stress nelle organizzazioni, nonostante venga attribuito un ruolo specifico alle caratteristiche di contesto lavorativo come “fonti di stress” viene contestualmente messo in evidenza il ruolo significativo e rilevante degli elementi soggettivi ed individuali “la valutazione cognitiva soggettiva degli stimoli stressogeni e le strategie individuali di coping”.

Questi elementi occupano un ampio spazio anche rispetto ai risultati attesi dall’intervento come “lo stato di salute e le performance individuali”.

E’ importante osservare che il processo di interazione persona – ambiente da origine ad una sequenza di rapporti: tra ambiente di lavoro oggettivo e percezioni del lavoratore; tra percezioni ed esperienza di stress; tra esperienza di stress, cambiamenti di comportamento e di funzione fisiologica e salute. Questa sequenza fornisce una base di misurazione in cui le percezioni e cognizioni individuali sono critiche e, le diverse misure ricavabili soggettive ed oggettive non possono essere combinate in modo facile o giustificabile in un singolo indice di stress (Cox e Griffiths, 1995).

Cox e Griffiths sostengono che, poiché i dati più facilmente reperibili sui rischi psicosociali ed organizzativi del lavoro sono generalmente dati soggettivi, la misurazione dello stato di stress dovrebbe essere basata innanzitutto sulle misure di auto-riferimento o self-report, come i questionari, che si focalizzano sul processo di valutazione e sull’esperienza emotiva di stress (Cox e Griffiths, 1995). Nel caso dello stress, infatti, entrano in gioco due variabili estremamente soggettive, che rendono la valutazione del pericolo, del rischio e soprattutto del danno ad esso associato estremamente complessa. Le due variabili soggettive sono la valutazione degli eventi, e la suscettibilità individuale allo stress.

Secondo gli autori le misure correlate alla valutazione dovrebbero inoltre considerare le percezioni dei lavoratori rispetto: alle richieste del lavoro, alla loro capacità di adattarsi a queste richieste, ai loro bisogni, alla loro soddisfazione lavorativa, al controllo che esercitano sul lavoro ed al supporto che ricevono in relazione al lavoro.

Dewe e Cooper (2007) in una recente rassegna hanno suggerito che la misurazione delle domande richiede più enfasi, per

catturare la natura degli elementi che causano stress, incorporando caratteristiche di misurazione come per esempio  frequenza, intensità, durata, rilevanza e significato (Dewe, 1991, Lazarus, 1999 citati in Dewe e Cooper, 2007), il livello di specificità dell’occupazione (Beehr, 1995; Sulsky & Smith, 2005 citati in Dewe e Cooper, 2007) ed il rapporto cumulativo all’interno e tra elementi che causano stress (Dewe & Brook, 2000 citati in Dewe e Cooper, 2007). La misurazione di questi elementi consente una migliore differenziazione ed identificazione delle fasi di sviluppo dello stress tra elementi di crisi iniziali, cronici ed acuti (Jones & Bright, 2001; Kahn, 2002 citati in Dewe e Cooper, 2007). Inoltre, tali misurazioni devono essere usate in modo da permettere le interazioni tra percezioni, come richiesta con controllo (Karasek, 1979; Warr, 1992) o richiesta e controllo con supporto (Cox, 1985; Karasek e Theorell, 1990; Payne e Fletcher, 1983 citati in Cox e Griffiths, 1996). Deve essere considerata inoltre l’importanza per il lavoratore di adattarsi a particolari combinazioni ed espressioni di queste caratteristiche del lavoro (Sells, 1970; Cox, 1978 citati in Cox e Griffiths, 1996).

Malgrado la loro ovvia centralità ed importanza, le misure soggettive (self-report measures) di valutazione e l’esperienza

emotiva di stress, da sole, non sono sufficienti. La loro validità è stata in letteratura messa in discussione soprattutto in relazione al costrutto “dell’affettività negativa” (NA). L’affettività negativa può essere definita come “un tratto generale della personalità, più propriamente temperamento, che riflette le differenze individuali nell’emotività negativa e nel concetto di sé e si esprime in stati d’animo quali l’ansia, la depressione e l’ostilità.

Tali temperamenti si contrappongono a quelli estroversi (affettività positiva; PA) ossia a quelli che esprimono stati d’animo positivi quali entusiasmo, gioia, energia, fiducia, entrambi facenti parte del modello dei 5 fattori della personalità (Watson e Clark, 1992, citati in Brief e Weiss, 2002).

E’ stato dimostrato che l’affettività negativa, vista come tratto di personalità avente una certa stabilità, riduce la possibilità di percepire l’esperienza lavorativa come soddisfacente. Warr (1996) ha effettuato un bilancio di diverse ricerche empiriche, che misuravano l’affettività negativa, con l’utilizzo di questionari e ha riconosciuto come effettivamente sia più frequentemente correlata all’insoddisfazione lavorativa in relazione ad aspetti intrinseci del lavoro (Warr, 1996 citato in Sarchielli, 2003).

Brief e Weiss (2002), ritengono ragionevole pensare che i temperamenti influenzino la soddisfazione professionale sia attraverso stati d’animo al lavoro sia attraverso le interpretazioni delle circostanze lavorative, riconoscendo così che stati d’animo ed interpretazioni non sono indipendenti.

L’affettività negativa influirebbe non solo sulla percezione che i lavoratori dipendenti hanno del loro ambiente di lavoro, ma anche sulla loro valutazione in relazione al proprio stato di salute psicologico o di benessere, diventando così una variabile che potrebbe spiegare una quantità notevole di correlazioni tra i rischi e la percezione dei risultati.

Sulla base di tali evidenze una stima che si basa esclusivamente su misure di auto-riferimento rappresenta una prova molto debole e deve essere integrata con dati ottenuti da altri ambiti.

Tale integrazione può essere ottenuta applicando la “triangolazione” delle prove. Il concetto di triangolazione nella misurazione è correlato alla strategia di fissare una particolare posizione o di trovarla esaminandola da almeno tre punti di vista diversi. Il grado di accordo che si ottiene tra questi diversi punti di vista fornisce alcune indicazioni in merito all’affidabilità dei dati, e/o, a seconda delle misurazioni applicate, alla loro validità concomitante.

Allo scopo di ottenere risultati attendibili quindi è necessario che un potenziale rischio di natura psico-sociale o organizzativo sia individuato mediante il riferimento ad almeno tre diversi tipi di prove.

Ciò si può ottenere considerando prove correlate a:

    1. gli antecedenti oggettivi e soggettivi dell’esperienza di stress
    1. l’auto-riferimento dello stato di stress e
    1. i vari cambiamenti nel comportamento, nella fisiologia e nello stato di salute che potrebbero essere correlati agli antecedenti

L’applicazione di questa strategia richiederebbe inoltre prove tratte dai tre campi con

    1. un’indagine dell’ambiente di lavoro (inclusi gli aspetti sia fisici che psicosociali) che può includere dati di archivio (assenze per malattie, livelli di turn-over, numero di incidenti ecc..) ed osservazioni,
    1. un’indagine delle percezioni e delle reazioni dei lavoratori al lavoro attraverso l’utilizzo di questionari auto-riferiti e (3) la misurazione del comportamento dei lavoratori rispetto al lavoro ed al loro status fisico e di salute attraverso l’impiego ad esempio di misurazioni biologiche (Cox e Griffiths, 1995).

Bayley e Bhagat (1987) hanno proposto un approccio a metodo multiplo per la misurazione dello stress, in linea con il concetto di triangolazione, favorendo la possibilità di bilanciare la prova dall’auto-rapporto. Hanno individuato alcune misure definendole non invadenti e non reattive, quali: dati di archivio (come quelli sull’assenteismo), registrazioni private (come diari) ed osservazioni e registrazioni non intrusive. Gli autori hanno sottolineato che le misure reattive spesso cambiano la natura reale del comportamento o delle altre risposte che vengono determinate (Bayley e Bhagat, 1987 citati in Cox e Griffits, 1995).

E’ importante considerare che ciò che viene misurato è un processo: “antecedenti – percezione ed esperienza (e fattori di moderazione) – risultati correlati ed effetti”. Ciò può essere semplificato concettualmente a “rischi sul lavorostress – dolore”. La schematizzazione del processo sottolinea sia la complessità della misurazione, quando approcciata scientificamente, sia l’inadeguatezza di applicare misurazioni singole dello stress (comunque definito).

In letteratura viene sempre e comunque ribadito che l’uso di qualsiasi misurazione deve sempre essere supportato dai dati correlati alla sua affidabilità e validità ed alla sua adeguatezza e correttezza rispetto alla situazione in cui viene impiegata (Dane, 1990 citato in Cox e Griffits, 1995).

Dewe e Cooper (2007) sostengono che mentre è importante catturare le caratteristiche e le qualità degli eventi stessi, quando si vuole capire l’adattamento, il significato di un elemento che apporta stress non può essere compreso senza considerare anche i significati individuali dati a tali eventi e come questi eventi sono valutati. Daniels, Harris e Brinner (2004) credono che comprendere come gli individui interpretano e di conseguenza “rappresentano” il loro ambiente di lavoro, può essere una strada promettente per chiarire il “rapporto tra lavoro e affezioni negative” (Daniels, Harris e Briner, 2004).

Viene inoltre sostenuto che, come gli individui valutano gli elementi che creano stress sul lavoro non ha ancora ricevuto l’attenzione che merita da parte dei ricercatori dello stress sul lavoro, malgrado il fatto che l’adattamento e le strategie di fronteggiamento siano significativamente dipendenti dalla valutazione (Lazarus, 1999 citato in Folkman & Moskowitz, 2004).

Tuttavia, ci sono stati pochi tentativi sistematici (Dewe & Ng, 1999; Lowe & Bennett, 2003 citati in Dewe e Cooper, 2007) di esplorare quanto questi elementi che causano stress sul lavoro siano stati valutati. Questo non perché i modelli dello stress sul lavoro non abbiano incorporato la nozione di valutazione degli elementi che causano stress nel loro contesto investigativo (Burke, 2002; Cooper et al., 2001 citati in Dewe e Cooper, 2007; Daniels, Harris & Briner, 2004), ma verosimilmente più perché la valutazione è il cuore del dibattito “se gli elementi che causano stress possano essere misurati oggettivamente o soggettivamente” (Schaubroeck, 1999).

Due elementi, non mutualmente esclusivi, catturano l’essenza del dibattito che circonda gli elementi che causano stress e la misurazione della valutazione. Il primo si focalizza sulla natura intra–individuale della valutazione: se si accetta che lo stress ha essenzialmente luogo a livello individuale, i ricercatori degli elementi che causano stress sul lavoro hanno una maggiore responsabilità nell’identificare gli elementi comuni alle percezioni ed alle esperienze della maggioranza degli addetti (Brief & Gorge, 1991; Harris, 1991 citati in Dewe e Cooper, 2007). Focalizzandosi sulle valutazioni anziché sulla natura oggettiva degli elementi che causano stress sul lavoro viene limitata la possibilità di generalizzare qualsiasi scoperta, oltre a ridurre la rilevanza della scoperta per la gestione pratica (Schaubroeck, 1999). Il secondo elemento sostiene che è la misurazione oggettiva degli elementi che causano stress, piuttosto che la loro valutazione, a rappresentare la grande promessa per l’intervento (Schaubroeck, 1999), fornendo risposte, procedure e linee guida per il modo in cui il lavoro può essere ridisegnato e la cultura organizzativa può essere sviluppata per ridurre l’esaurimento.

All’interno di tutti questi argomenti si riconosce che la ricerca sullo stress sul lavoro ha enfatizzato i fattori situazionali a spese dei processi individuali come la valutazione (Harris, 1991 citato in Dewe e Cooper, 2007) e che la ricerca invece può essere fatta avanzare riflettendo sul ruolo della valutazione (Schaubroek, 1999). Tuttavia, valutazione ed adattamento sono strettamente legati (Lazarus, 1999 citato in Folkman & Moskowitz, 2004) e in un ambiente di lavoro non è “semplicemente importante” ma “essenziale” misurare la valutazione, se si vuole meglio comprendere il processo dello stress (Perrewe & Zellars, 1999). Non farlo equivarrebbe ad ignorare una delle variabili che potrebbe dare più spiegazioni nel processo di adattamento (Dewe, 2001 Dewe e Cooper, 2007).

LA VALUTAZIONE DELLO STRESS LAVORO CORRELATO: PROSPETTIVE DI INTERVENTO A PARTIRE DAL DECRETO LEGISLATIVO DEL 9 APRILE 2008, N°81 – © Serena Molari

 

Articolo 6 – Lo stress lavoro correlato: Prospettive di intervento – Gestione e Valutazione dello stress: Linee guida

Articolo 6 – Lo stress lavoro correlato: Prospettive di intervento – Gestione e Valutazione dello stress: Linee guida

 

 

Alla luce della rilevanza assunta dallo stress lavoro correlato quale rischio reale e di impatto crescente per la salute e la sicurezza sul lavoro e, dell’evoluzione dello scenario legislativo che definisce una piena responsabilità in carico al datore di lavoro nei confronti del benessere dei lavoratori, nasce la necessità di affrontare il tema della gestione e della valutazione dello stress occupazionale e dei fattori di rischio psicosociali, all’interno dell’Unione Europea.

La Commissione Europea ha finanziato un progetto di ricerca “PRIMA-EF – The European Framework for psychosocial risk management at work” allo scopo di fornire una cornice entro cui promuovere una politica ed una prassi condivisa fra i paesi membri dell’UE.

Al progetto partecipa e collabora il Dipartimento di Medicina del Lavoro dell’ISPESL.

Il modello europeo per la gestione dei rischi psicosociali sul lavoro e dello stress lavoro-correlato, promosso dal progetto, può essere utilizzato come punto di riferimento per lo sviluppo di importanti linee di condotta, efficaci piani di azione e di intervento atti a prevenire lo stress da lavoro, violenze, molestie e mobbing, da parte di imprese, esperti, organizzazioni dei lavoratori, sindacati e politici.

1. Programma quadro europeo: linee guida

La logica del modello parte dall’assunto che la gestione e la valutazione del rischio psico-sociale implica cinque elementi principali:

    1. Identificazione dei pericoli e delle persone a rischio con particolare focalizzazione dichiarata su una definita popolazione di lavoratori, su un posto di lavoro o un gruppo di attività
    1. Valutazione dei rischi per capire la natura del problema e le cause sottostanti
    1. Progettazione ed implementazione di azioni volte a rimuovere o a ridurre i rischi (soluzioni)
    1. Monitoraggio e valutazione dell’efficacia di queste azioni e
    1. Attiva ed attenta gestione dei processi (Leka S., Cox T., Zwetsloot G., 2008:http://primaef. ispesl.it/)

Tali elementi sembrano ricondurre alle fasi (Individuazione dei pericoli; Valutazione dei rischi associati; Attuazione di strategie di controllo adeguate; Monitoraggio dell’efficacia delle strategie di controllo; Ri-valutazione del rischio; Analisi delle esigenze di informazione e formazione dei lavoratori dipendenti esposti al rischio) proposte dalla Commissione Europea del 1996 mediante la “Direttiva quadro del Consiglio 89/391/CEE” come strategia d’intervento per la gestione dei rischi fisici definita “Ciclo di Controllo”.

Cox e Griffiths sostenevano già nel 1995 che questo “processo sistematico attraverso il quale i pericoli vengono identificati, i rischi vengono analizzati e gestiti ed i lavoratori vengono protetti” potesse essere adattato anche alla valutazione dei rischi psico-sociali, allo scopo di “stabilire un’associazione tra i pericoli e le conseguenze per la salute e di valutare il rischio per la salute a seguito dell’esposizione ad un pericolo” nonché al fine di realizzare delle valutazioni dei rischi che possano poi condurre ad interventi efficaci (Cox e Griffiths, 1995).

La valutazione del rischio è un elemento centrale nel processo di gestione dello stesso: è stata definita dalla CE come “un’analisi sistematica del lavoro svolto per valutare quale può essere la causa di lesione o danno, se il pericolo può essere eliminato, e, in caso negativo, quali sono o quali possono essere le misure di prevenzione o protezione nell’ambito del controllo dei rischi” (Commissione Europea, 1996).

La valutazione del rischio fornisce informazioni sulla natura e sulla gravità del problema, i pericoli psicosociali ed il modo con cui possono incidere sulla salute dei lavoratori ad essi esposti e su quella delle loro organizzazioni (in relazione a temi quali assenteismo, impegno verso l’organizzazione, soddisfazione dei lavoratori, intenzione di licenziarsi e produttività).

Una valutazione del rischio ben realizzata non solo identifica le criticità nell’ambiente lavorativo, ma identifica anche gli aspetti positivi che potrebbero essere favoriti e implementati. Lo scopo della valutazione del rischio è quello di informare, guidare e sostenere la conseguente riduzione del rischio stesso: non è un obiettivo fine a se stesso.

La valutazione del rischio deve:

    • essere basata su dati raccolti con strumenti quali indagini, discussioni individuali o di gruppo o con metodi osservativi
    • prendere in considerazione diversi aspetti e non ignorare il contesto più ampio, come le caratteristiche del settore occupazionale o socio-economico e le differenze culturali dei vari stati membri
    • riconoscere ed utilizzare la conoscenza e l’esperienza dei lavoratori in merito al loro lavoro
    • trattare le informazioni a livello di gruppo (non come insieme di punti di vista individuali sul lavoro) e verificare il consenso presente nei giudizi degli esperti (interni o esterni) sulle condizioni lavorative (Leka S., Cox T., 2008: http://prima-ef.ispesl.it/)

Un esempio applicativo del processo di valutazione del rischio che sembra rispecchiare i criteri del modello proposto e le attuali linee guida è stato utilizzato in una pubblicazione di For srl in collaborazione con la Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Milano, già nel 2004, come dallo schema riportato nella figura sottostante.

Figura 6: Processo di valutazione del rischio

Fonte: For s.r.l.

Nel progetto PRIMA-EF viene promosso un modello integrato per la misurazione ed il monitoraggio dei rischi psicosociali che si basa sull’identificazione di indicatori di esposizione ed effetti. Per la misura degli indicatori in questo ambito sono disponibili diverse metodologie. Gli indicatori sono traducibili in domande o checklist a risposta multipla, trasmesse verbalmente o in forma scritta, o mediante un normale questionario, un’indagine via web o internet, o una checklist. Tra le metodologie più usate vi sono le interviste tramite posta, usando un questionario stampato, interviste telefoniche o una checklist. Grazie allo sviluppo tecnologico, sono sempre più impiegate indagini via web o internet. Queste indagini possono attrarre diverse tipologie di intervistati, ciò può costituire un problema quando la rappresentatività del campione è importante e questa è la sola metodologia impiegata. L’impiego di registri può essere un altro importante modo per raccogliere informazioni su alcuni indicatori. Sulla base dell’inventario di metodologie disponibili per il monitoraggio in generale ed in particolare per i rischi psico-sociali, si può concludere che la metodologia appropriata per il monitoraggio è fortemente dipendente dall’obiettivo, dal contesto e dal tema specifico dello studio. Le grandi organizzazioni possono beneficiare di questionari e ricerche via web, mentre le checklist possono essere più idonee alle PMI.

Viene individuata però una carenza nella revisione degli indicatori disponibili negli attuali strumenti di monitoraggio sulla qualità del lavoro e, più specificamente, sui rischi psicosociali sul lavoro. In diversi strumenti di monitoraggio sono già disponibili indicatori di esposizione e di rischio, come pure indicatori degli effetti, ma mancano indicatori sulle azioni preventive e sugli interventi.Cox et al. (2003) sostengono che “il miglior modo per scoprire se gli addetti hanno dei problemi sul lavoro e perché, è semplicemente chiederglielo”.

Il modello ribadisce l’importanza di comprendere i principali fattori causali attraverso un processo gestionale continuo basato sulla partecipazione e collaborazione di tutti i protagonisti e su una strategia di soluzione dei problemi sistematica che si focalizza sulle evidenze e sulla pratica della realtà della vita organizzativa.

Viene consigliato il controllo delle pratiche e del supporto esistenti: prima di passare alla pianificazione razionale dell’azione, è necessario analizzare se e quali misure sono state adottate all’interno dell’organizzazione e sono attualmente in atto nei confronti dei pericoli psicosociali e dei loro effetti sull’individuo o sull’organizzazione.

Questa analisi richiede un controllo (revisione, analisi e valutazione critica) delle prassi di gestione esistenti e del supporto a favore dei lavoratori. Le informazioni dedotte dal controllo, accanto a quelle tratte dalla valutazione del rischio, determinano l’avanzamento del processo di attuazione. Per sviluppare un piano d’azione efficace alla riduzione del rischio è indispensabile partire dall’analisi e dalla discussione dei dati esistenti.

Sviluppare un piano d’azione significa prendere decisioni in merito a: quale sia stato l’obiettivo, come e da chi è stato realizzato, chi altro necessiti di essere coinvolto, quali debbano essere i tempi di intervento, quali risorse occorrano, quali siano i benefici attesi (salute e profitto) e come possano essere misurati, e, infine, come il piano d’azione sarà valutato. Gli interventi per la riduzione dei rischi devono dare priorità alla modificazione dei fattori di rischio psico-sociale alla fonte, focalizzandosi sull’organizzazione o sui gruppi al suo interno. Le misure dirette al lavoratore possono essere  complementari ad altre azioni, e sono un supporto importante per quei lavoratori che stanno già soffrendo gli effetti negativi dell’esposizione ai fattori di rischio.

Un passo cruciale per la riduzione dei rischi è l’implementazione delle misure e degli interventi individuati. L’avanzamento del piano d’azione deve essere sistematicamente monitorato, registrato e discusso per identificare eventuali correzioni da apportare, come pure deve essere prevista una sua valutazione. Per il processo di implementazione e per aumentarne la possibilità di successo, cioè una reale riduzione del rischio, è necessaria la padronanza della materia e la partecipazione della dirigenza e dei lavoratori.

L’approccio alla gestione del rischio sostiene la prevenzione dello stress correlato al lavoro attraverso interventi organizzativi, focalizzati su una migliore progettazione e gestione del lavoro e dei suoi contenuti sociali ed organizzativi. In base a questo approccio l’organizzazione è vista come il “generatore” di rischio per la salute, correlato allo stress (Mackay et al., 2004).

Dalla letteratura scientifica sono stati identificati tre principali tipi di interventi per la gestione dello stress lavoro-correlato e sono generalmente definiti: prevenzione primaria, secondaria e terziaria. Gli approcci per la prevenzione primaria mirano a combattere lo stress da lavoro cambiando elementi nel modo in cui il lavoro è organizzato e gestito. Gli approcci per la prevenzione secondaria mirano a combattere lo stress da lavoro sviluppando le capacità individuali di gestione dello stress mediante formazione specifica. Gli approcci per la prevenzione terziaria mirano a ridurre l’impatto dello stress da lavoro sulla salute dei lavoratori sviluppando appropriati sistemi di riabilitazione e di “rientro al lavoro” ed aumentando i provvedimenti in materia di salute occupazionale.

Tradizionalmente, le iniziative di prevenzione e di gestione dello stress si sono focalizzate esclusivamente su un solo tipo di intervento. Nel progetto invece viene favorita una strategia di intervento globale che integri i tre interventi. Per avere successo nella prevenzione e nella gestione dello stress da lavoro, le strategie di intervento devono comprendere elementi di tutti e tre i livelli: prevenzione primaria, secondaria e terziaria.

Inoltre, devono affrontare specificatamente le cause dello stress da lavoro alla radice (prevenzione primaria), fornire formazione ai dirigenti ed ai lavoratori in merito alla gestione dello stress da lavoro per ridurne l’impatto (prevenzione secondaria), e, per coloro che abbiano avuto problemi di salute, a causa di stress da lavoro, fornire risorse per gestire e ridurne gli effetti (prevenzione terziaria).

Nel progetto vengono infine individuati alcuni punti indispensabili affinché l’intervento abbia successo:

    • Il contenuto dell’intervento (elementi chiave dell’obiettivo, strumenti ed implementazione) deve derivare da pratiche basate sull’evidenza e su una solida teoria scientifica.
    • I rischi psicosociali per la salute dei lavoratori ed il loro benessere nell’ambiente lavorativo devono essere identificati tramite un’appropriata valutazione del rischio.
    • Le componenti e gli strumenti degli interventi devono essere adattati e adeguati ad un determinato settore lavorativo e devono andare incontro ai bisogni della specifica organizzazione.
    • L’intervento deve essere progettato per essere implementato sistematicamente, e correlato gradualmente con scopi, obiettivi e una strategia di implementazione dell’intervento chiaramente definita ed evidenziata.
    • E’ essenziale aumentare la consapevolezza e le conoscenze dei dirigenti e dei lavoratori sulle conseguenze dello stress da lavoro.
    • Devono essere sviluppate le conoscenze, le competenze e le abilità per una continua prevenzione e gestione del rischio psico-sociale sul posto di lavoro, mediante una formazione appropriata dei dirigenti e dei lavoratori.
    • Gli obiettivi e l’importanza globale dell’intervento devono essere compresi con chiarezza e concordati tra i dirigenti e i lavoratori.
    • Deve essere determinato il supporto globale e l’impegno dell’organizzazione (es. allocazione delle risorse) e la partecipazione attiva della dirigenza durante l’intervento nella sua progettazione, realizzazione e valutazione.
    • I lavoratori devono partecipare attivamente ed essere consultati nello sviluppo della strategia di intervento.
    • Nel processo di intervento, deve essere sviluppata una comunicazione continua ed attiva tra tutti gli stakeholders (es. lavoratori, dirigenti, medici del lavoro e/o altri esperti di salute occupazionale e sindacati).

Considerando che il mondo reale delle organizzazioni e la vita organizzativa sono complessi ed in continua evoluzione, dove i rapporti possono sfidare le spiegazioni in termini di semplici rapporti causali e lineari e, dove spesso sono i risultati non misurabili ad essere importanti, viene sottolineata la necessità di adeguare l’approccio ad ogni specifico contesto organizzativo (Black, 1996; Guastello, 1993; Karanika, 2006; Nielsen, Randall & Albertsen, 2007, citati in Cox et al., 2007).

Cox et al. (2007), sostengono che la questione più importante sia che i dati raccolti, in fase di analisi, e le soluzioni scelte siano adeguati allo scopo da raggiungere.

Gli autori inoltre suggeriscono la necessità di valutazioni più adeguate e sistematiche degli interventi organizzativi. Propongono di superare i tradizionali metodi della ricerca scientifica evidenziandone i limiti nel contesto del mondo reale e di concepire il “contesto” in un modo più ampio ed eclettico, dal punto di vista scientifico per la valutazione degli interventi, che rifletta la “realtà della vita organizzativa”.

A tale scopo promuovono una più ampia visione di valutazione basata su cinque principi.

Il principio più importante è correlato al fatto che i progetti di ricerca devono essere adatti al loro scopo ed i dati devono essere accettabili nel contesto di esso. Il focus è infatti “il contesto specifico”. Gli autori sostengono che, nel contesto degli interventi a livello organizzativo, una soluzione dei problemi “basata sulla prova” sviluppata attraverso la ricerca per trattare importanti problemi che sono validi sia a livello teorico che pratico è assunta come impegno, da parte di tutti gli studiosi di psicologia applicata (es: Cox et al., 2000; Kompier, 2004 citato in Cox et al., 2007; Mackay et al., 2004).

Il secondo principio è il bisogno di essere innovativi nello sviluppo dei progetti di ricerca che sono adatti allo scopo. Il terzo principio è la necessità di prestare attenzione ai processi di intervento così come ai risultati. Il quarto principio è una volontà di usare dati qualitativi e quantitativi e di valutare la possibilità di sviluppare nuovi modelli di spiegazione, nonché di testare a fondo quelli esistenti. Il quinto ed ultimo principio è la volontà di usare una molteplicità di metodi e misurazioni, da una varietà di discipline: “la scienza di valutazione deve essere interdisciplinare”. Seguendo Herriot (1984), gli

scopi diversi per la ricerca possono essere gestiti a vari livelli (come la natura e l’eziologia della questione di ricerca, la scelta della metodologia ed il risultato desiderato) e, non ultimo, in termini di interazione tra scopo e metodologia. Nel caso dello scopo accademico, sono spesso forti fattori quali, l’adesione dei ricercatori alla loro disciplina ed i loro interessi teorici e metodologici a dare formaalla questione della ricerca e al modo in cui vi si risponde. Per la soluzione dei problemi nel mondo reale, tuttavia, le questioni della ricerca sono guidate dalla loro importanza sociale, ed i metodi sono determinati dalla natura del problema e dalla sua possibile soluzione (Herriot 1984, citato in Cox et al., 2007). Entrambi però devono aprirsi alle influenze innovative di altre discipline. Questo è il livello di “fare la differenza” nella ricerca e, spesso, ciò porta ad un approccio veramente interdisciplinare. Il punto importante qui è che diversi scopi di ricerca possono richiedere diversi metodi di ricerca, e questa scelta del metodo dovrebbe essere determinata dal suo essere adatto allo scopo.

Gli autori auspicano che questo studio promuoverà un efficace valutazione degli interventi a livello organizzativo per lo stress correlato al lavoro.

Nel progetto, al fine di valutare l’efficacia e la sostenibilità dell’intervento, vengono indicati i seguenti punti:

    • Deve essere sviluppata una strategia di valutazione, chiaramente collegata agli scopi e agli obiettivi delineati ed ai problemi identificati.
    • Per la valutazione dell’intervento devono essere applicati diversi metodi (es. indagini, interviste e discussioni di gruppo); i metodi impiegati dipendonodalla dimensione e dalla disponibilità di risorse dell’azienda.
    • Deve essere valutato sistematicamente e in tempi diversi l’impatto e l’efficacia globale dell’intervento stesso sul benessere dei lavoratori e sul risultato organizzativo (es. costi-efficacia, produttività, assenteismo), sia subito dopo sia a lungo termine.
    • Deve essere valutata sistematicamente la qualità e l’efficacia del processo di realizzazione dell’intervento.
    • Deve essere valutato l’impatto dell’intervento stesso su gruppi differenti all’interno dell’organizzazione (es. per posto di lavoro, per dipartimento, per genere) per identificare o, alternativamente, affrontare qualsiasi altro effetto dell’intervento.

Il modello suggerisce, inoltre, alle organizzazioni di utilizzare la valutazione anche come base per la condivisione (discussione e comunicazione) delle acquisizioni che possono essere utili per la gestione futura del rischio, ma anche per la ri-progettazione (job redesign) dell’organizzazione del lavoro e del posto di lavoro, come suggerito da Karasek (1979), come parte di un normale processo di sviluppo organizzativo. E’ essenziale e deve essere adottato dalle aziende, un orientamento a lungo termine. Le lezioni apprese devono essere discusse e, se necessario, ridefinite nelle riunioni di lavoro e come parte del processo di dialogo sociale all’interno dell’azienda. Esse devono essere comunicate nel modo più ampio possibile.

Infine, devono essere usate come input per il successivo “ciclo” del processo di gestione del rischio psico-sociale.

Un ultimo elemento, ma certamente di non minore importanza, da considerare è la “cultura organizzativa”.

La cultura organizzativa è uno dei fattori chiave nel determinare quanto un’organizzazione avrà successo nella gestione dello stress occupazionale.

WeicK (1997) sosteneva che “ogni aspetto dell’organizzazione risulta carico di significati simbolici che si riflettono sul mondo dei valori profondi, personali, ma soprattutto collettivi”.

Conseguentemente la cultura organizzativa riguarda anche come i problemi vengono riconosciuti, affrontati e risolti. Gli addetti, i manager ed i rappresentanti sindacali devono quindi essere coscienti della cultura di un’organizzazione, ed esplorarla in relazione alla gestione dello stress sul lavoro. Se necessario, questeparti si devono impegnare nelle attività di cambiamento della cultura organizzativa, come un importante aspetto del miglioramento della gestione dello stress sul lavoro (Cox et al., 2003).

Oggi le organizzazioni che si distinguono per l’eccellenza nel campo della salute e della sicurezza le considerano un “valore aziendale” a fondamento della cultura dell’organizzazione (Krout, 2000 citato in Avallone e Paplomatas, 2005).

 

LA VALUTAZIONE DELLO STRESS LAVORO CORRELATO: PROSPETTIVE DI INTERVENTO A PARTIRE DAL DECRETO LEGISLATIVO DEL 9 APRILE 2008, N°81 – © Serena Molari