burnout e insegnamento
Burnout ed insegnamento
“Gli insegnanti in burnout possono manifestare verso i propri allievi atteggiamenti di indifferenza e cinismo, che possono palesarsi con l’uso di etichette offensive, atteggiamenti freddi e distaccati, distanza fisica e psicologica dagli allievi, disagio psicologico.” (Maslach, 1982)
Burnout e patologia psichiatrica negli insegnanti
I dati raccolti in Italia dal Distretto Sanitario di Milano dal gennaio del 1992 al dicembre del 2003, in relazione alla valutazione dell’idoneità al lavoro di molteplici dipendenti pubblici (operai, operatori sanitari, insegnanti e impiegati), hanno riportato che il rischio da parte degli insegnanti di andare incontro a disturbi psichiatrici è da 2 a 3 volte superiore a quello di operatori sanitari, impiegati e cosiddetti colletti blu (Lodolo D’Oria et al.,2004). Da una rivisitazione della letteratura sono stati riconosciuti oramai almeno 40 fattori legati al burnout (Nagy et al., 1992). Secondo Marck (1990) gli stessi sono riconducibili a tre categorie:
- fattori sociali e personali del soggetto: includono le caratteristiche individuali (età, sesso, personalità, stile cognitivo, religione, tolleranza, aspettative professionali, suscettibilità, background culturale, tempra, tenacia, arrendevolezza, resistenza, livello socio-economico, stile di vita, situazione familiare, eventi luttuosi etc.)
- fattori relazionali: relativi ai rapporti interpersonali con studenti e loro familiari, affollamento delle classi, direzione scolastica, competitività coi colleghi
- fattori oggettivi professionali: riguardano l’organizzazione scolastica e le condizioni di lavoro (carico di lavoro, precariato, riforme scolastiche, carico di lavoro, attrezzature, ubicazione della scuola in zona urbana o rurale, risorse didattiche, attrezzature, programma da svolgere, organizzazione degli orari di lezione, funzioni obiettivo, chiarezza dei regolamenti di funzionamento, flussi di comunicazione interna, frequenza delle riunioni, percorso di carriera, reporting/feedback inefficace etc.).
A ciò si aggiungono: l’avvento dell’era informatica e di una società multiculturale e multietnica, l’inserimento dei portatori handicap nelle classi, la delega dei genitori all’educazione dei figli, l’introduzione della valutazione dei docenti d parte di genitori e studenti,la maggior intransigenza dell’utenza, la svalutazione sociale del lavoro in se stesso a favore del successo e del guadagno economico (notoriamente bassi per gli insegnanti), l’abolizione delle cosiddette baby-pensioni (Cherniss, 1980). I risultati ottenuti in diversi paesi sugli insegnanti, come quelli ottenuti dalla ricerca di Chan (1995) e dalla ricerca di Manthei (1988) e in altre helping professions permettono di riferire che il burnout, a differenza dello stress che riguarda la sfera individuale, è un fenomeno fondamentalmente psicosociale di portata internazionale, per il quale sono stati riconosciuti fattori di rischio personali, relazionali e ambientali sui cui intervenire (Boccalon, 2001). Si tratta di una sindrome complessa, multidimensionale che merita di essere attentamente considerata per la rilevanza sociale, in quanto implica dei costi elevati per tutti i soggetti coinvolti nella gestione, erogazione e fruizione dei servizi (operatori che pagano in termini di salute e qualità di vita, utenti che trovano un servizio qualitativamente insoddisfacente, comunità che vede lievitare i costi in termini di assenza dal lavoro e assistenza sociosanitaria). Sono auspicabili iniziative di supporto per lo sviluppo di interventi correttivi in fase di prevenzione primaria, secondaria e per attività curativa, agendo sulle dimensioni personale, interpersonale, organizzativa, socio-politica e micro ambientale (Cox e Parson 1994).
Un’ultima considerazione tira in ballo il ruolo dei sindacati presenti in uno studio inglese condotto su 4.072 insegnanti; essi possono e devono giocare un importante ruolo in merito all’integrità psicofisica del lavoratore (Brown, 1992).
Il burnout degli insegnanti è comunque un tema di significato internazionale da almeno vent’anni come dimostrano gli studi avviati in Gran Bretagna da Capel e collaboratori (1987), ad Hong Kong da parte del gruppo di ricerca di Chan (1995), in Canada da St-Arnaud e colleghi (2000), in Norvegia da Mykletun insieme al suo gruppo di ricerca (1999), a Malta da Borg e collaboratori (1993) ed in Australia da Mark (1990). Sul tema sono stati anche condotti studi comparativi tra sistemi scolastici di differenti paesi come Italia e Francia (Predabissi et al., 1991), Zelanda e Australia (Manthei, 1988).
Rimane però ancora l’esplorazione di un approccio standardizzato al trattamento terapeutico. A questo proposito Farber (2000) ha individuato:
- i livelli di condizionamento dell’individuo (personale, professionale/ organizzativo e ambientale)
- le maggiori fonti di stress per gli insegnanti (es: classi numerose, indisciplina degli studenti, eccessivo carico di lavoro, disorganizzazione)
- il profilo personale del professionista più a rischio di burnout (età sotto i 40 anni, suscettibile ai condizionamenti esterni, idealista, introverso, docente di medie o superiori, con ridotta hardiness, Type A behaviour)
- l’humus più favorevole all’attecchimento del burnout (aree urbane, zone disagiate con scarsi servizi sociali, classi numerose, strutture fatiscenti, attrezzature insufficienti/inadeguate, gestione burocratica anziché manageriale).
Sempre Farber (2000) propone ai fini di un approccio al trattamento terapeutico individualizzato una differenziazione del burnout in tre sottocategorie:
- burnout classico (o frenetico), che si verifica quando il soggetto di fronte allo stress reagisce accrescendo a dismisura la propria attività lavorativa fino all’esaurimento psicofisico;
- burnout da sottostimolazione, dovuto alla insoddisfazione per la monotonia e la ripetitività del lavoro, non più ritenuto dall’individuo all’altezza di offrire stimoli e motivazioni sufficienti;
- burnout da scarsa gratificazione, che scaturisce da un lavoro ritenuto troppo stressante rispetto al riconoscimento sociale che comporta. La differenza col burnout classico risiede nella reazione dell’individuo che riduce il proprio ritmo lavorativo col preciso fine di prevenire il sopraggiungere dell’esaurimento (Farber, 2000).
In attesa di un intervento socio-istituzionale sull’ambiente di lavoro e sull’organizzazione, l’Autore (Faber, 2000) asserisce che il progetto terapeutico sull’insegnante debba essere rigorosamente personalizzato (tailored ossia “cucito addosso” come se fosse un vestito), prevedendo un intervento psicoterapeutico, differenziato a seconda del sottotipo di burnout per perseguire quattro obiettivi:
- mettere in evidenza gli aspetti positivi del lavoro e non concentrarsi solo su quelli negativi;
- coltivare interessi al di fuori dal lavoro;
- non centrare l’attenzione solo sui problemi professionali;
- diminuire la componente onirico-idealista rispetto al proprio lavoro, ridimensionando le proprie aspettative e riconducendole a un piano più attinente alla realtà (Farber, 2000).
Lodolo D’Oria e collaboratori (2014) pongono una riflessione sui fattori personali. Il loro articolo (Lodolo D’Oria et al., 2014) asserisce così: «[…] occorre fare una riflessione sui cosiddetti “fattori personali” che, per la loro importanza, hanno sicuramente contribuito, in maggiore o minor misura, a determinare la patologia. […] La situazione rilevata dallo studio Getsemani, in decisa controtendenza rispetto ai luoghi comuni sugli insegnanti, assai diffusi tra l’opinione pubblica (lavorano solo mezza giornata, dispongono di lunghissimi periodi di vacanza e si lamentano senza motivo), nonché ai dati proposti nel 2001 dalla Commissione Europea Occupazione e Affari Sociali (la professione docente è quella a minor rischio di stress), vede la categoria dei docenti particolarmente esposta al rischio di sviluppare patologie psichiatriche, nonostante il CCNL, a scopo cautelativo, preveda nell’ambito dell’orario di lavoro “un massimo di 18 ore settimanali d’insegnamento per la scuola secondaria, 22 per quella elementare, 25 per quella materna, tutte comunque distribuite in non meno di cinque giornate settimanali”. Ai fattori usuranti intrinseci dell’insegnamento, si aggiungono quelli socio-culturali già enunciati nell’analisi introduttiva: l’avvento di una società multiculturale e multietnica, la delega dei genitori lavoratori per l’educazione dei figli, l’inserimento dei portatori di handicap nelle classi, la maggior intransigenza dell’utenza, il misbehaviour di alcuni studenti (il termine anglosassone appare meno offensivo rispetto alla traduzione italiana “maleducazione”, “diseducazione”, “cattivo contegno”, “mal comportamento”), l’introduzione della valutazione dei docenti da parte di genitori e studenti, la diminuzione delle risorse istituzionali, la svalutazione sociale del lavoro in se stesso a favore del successo e del guadagno economico (notoriamente bassi per gli insegnanti), l’abolizione delle cosiddette baby-pensioni, l’avvento dell’era informatica, la gestione manageriale del lavoro, il passaggio dall’insegnamento individuale a quello in équipe, la protratta situazione di precariato, la competitività tra colleghi, la mobilità, le continue riforme scolastiche (annunciate o realizzate). Di fronte a questo scenario il supporto dato ai docenti è praticamente immutato negli anni, se si escludono i rari corsi di aggiornamento professionale e talune situazioni in ambienti protetti. Ma se una volta era possibile ritirarsi precocemente dal servizio, oggi l’unica via di fuga dalla sindrome del burnout risiede nel trattamento di inabilità per motivi di salute. Su questo punto potrebbero essere eccepite alcune questioni, sostenendo che l’esorbitante numero di domande di accertamenti di inabilità al lavoro presentate dalla categoria degli insegnanti rispetto agli altri dipendenti pubblici, sia dovuto al fatto che questa prassi rappresenti la “soluzione burocratica” a una situazione altrimenti senza sbocchi. L’obiezione non trova però riscontro nei giudizi formulati dal Collegio Medico competente, che solo in pochi casi ha constatato l’inconsistenza del quadro clinico dell’interessato decretando l’idoneità al lavoro a conclusione dell’accertamento medico. Più in generale si potrebbe invero affermare che i casi psichiatrici (ma ciò vale per tutte le categorie professionali analizzate) sono verosimilmente sottostimati, in quanto la negazione/vergogna della patologia da parte del soggetto gioca un inequivocabile ruolo. Numerosi sono infatti i casi di pazienti per i quali il Collegio medico ha richiesto un approfondimento diagnostico in ambito psichiatrico. Ma proprio a fronte del sospetto diagnostico sulla sussistenza di un’infermità di natura psichica, l’interessato in alcuni casi ha rifiutato di sottoporsi a visita, non ripresentandosi poi alla visita collegiale conclusiva. Il Collegio Medico in questi casi ha potuto di conseguenza unicamente procedere all’archiviazione della pratica per decorrenza dei termini, senza poter assumere un provvedimento finale. Con riferimento alle richieste di accertamento d’idoneità al lavoro effettuate dalla scuola di appartenenza a carico di docenti, per i quali sussiste il sospetto diagnostico di infermità di natura psichica, vale la pena segnalare un’altra dinamica frequente. Le richieste di accertamento sono spesso avviate in seguito a segnalazioni/contestazioni da parte di studenti, loro genitori, colleghi oppure da indagini ispettive del Provveditorato agli Studi competente o addirittura da denunce/esposti all’autorità giudiziaria. Nella quasi totalità dei casi l’amministrazione e tutto l’ambiente scolastico (direzione, colleghi, studenti, famiglie) tendono a isolare il “diverso” in un processo che è tanto “fisiologico” (esattamente sovrapponibile a quello immunitario di rigetto di un corpo estraneo da parte dell’organismo) quanto perverso (in quanto tende a spingere la persona in uno stato d’isolamento che può determinare il viraggio da una situazione di burnout a una franca patologia psichiatrica). Questa sorta di “processo di allontanamento” assume l’aspetto di “mobbing atipico” con tre peculiarità: il coinvolgimento di tutta la struttura nell’azione di attacco alla persona in difficoltà (quindi non solo il datore di lavoro), una partecipazione dell’utenza esterna all’ azione di attacco l’incisività dell’azione di attacco direttamente proporzionale alla gravità della patologia manifestata (che poi corrisponde al livello di disadattamento dell’individuo nel rapporto con l’ambiente circostante). Di converso vedremo più avanti come il rimedio a una siffatta situazione passi unicamente attraverso la consapevolezza di ciascun attore (direzione, colleghi, studenti, famiglie), di possedere un potenziale ruolo proattivo nel processo di terapia e guarigione del soggetto disadattato. Altra questione importante riguarda la prevalenza di soggetti di sesso femminile nel corpo docente (99.54 % di donne nella scuola materna, 95.18% nella elementare, 74.78% nella media inferiore, 58.59% nella media superiore secondo i dati del Ministero dell’Istruzione – Anno Scolastico 2001/02). La stessa non sembra influire sulla prevalenza delle patologie psichiatriche in quanto non si riscontrano differenze tra i sessi. Analogo discorso vale per le diverse appartenenze dei docenti alle classi d’insegnamento (materne, elementari, medie, superiori) per le quali si riscontrano dati sovrapponibili. L’età media degli insegnanti risulta di 49.4 anni mentre per quelli con problemi psichiatrici è di 48.6. Il dato assume particolare significato se letto alla luce delle recenti rilevazioni ministeriali (Ministero dell’Istruzione – Anno Scolastico 2001/02) che registrano un’età media di 47,13 anni per il corpo docente, con 49,31 anni per i docenti delle scuole medie inferiori, 47,83 per quelli delle medie superiori, 45,30 per quelli delle elementari e 45,99 per quelli delle materne. L’analisi effettuata dunque sembrerebbe escludere come elementi di confondimento sia l’età che il sesso, facendo ricadere per intero l’esito dei risultati dello studio sull’attività professionale di docente.
Che il numero di ore d’insegnamento (docenza frontale propriamente detta) possa essere tra i maggiori imputati del logoramento psicofisico del docente, è ipotizzabile anche partendo dalla considerazione che, nella casistica esaminata, sono pressoché assenti professori universitari affetti da patologie psichiatriche (si osserva un solo caso relativo a un ricercatore universitario), pur riconoscendo che l’INPDAP rappresenta la loro cassa pensioni solo a far capo dall’1.1.96. È infatti noto il basso numero di ore d’insegnamento al quale gli stessi sono tenuti a fronte del tempo da dedicare a ricerca, studio e attività collaterali all’insegnamento. Ma in stretta relazione col tempo trascorso a insegnare è indispensabile prendere in considerazione anche la qualità dello stesso. Infatti lo stesso numero di ore di lezione pesa sul docente in modo differente, a seconda dell’interesse/attenzione suscitati nel discente. Necessita dunque uno studio apposito per verificare la correlazione causale tra ore d’insegnamento, loro qualità e sindrome del burnout. Va infine ricordato che il livello culturale e la condizione socio-economica dei giovani che si iscrivono all’università tende a far calare drasticamente quei fenomeni di misbehaviour tipici dell’età nella scuola dell’obbligo. Sul fattore qualità incide certamente la carente preparazione socio-psico-pedagogica degli insegnanti a inizio carriera. […] Occupandosi di dipendenti dell’Amministrazione Pubblica, lo studio Getsemani non fornisce indicazioni sulla prevalenza delle patologie psichiatriche nei docenti delle scuole private. Tuttavia a fronte delle considerazioni sul numero di ore d’insegnamento effettuate, e per il fatto che molti insegnanti cominciano la carriera nella scuola privata, concludendola di fatto in quella pubblica (da molti considerata come punto d’arrivo), risulterebbe difficile oltreché improduttiva, una valutazione distinta a seconda del settore di provenienza dell’interessato. Conviene piuttosto intervenire a supporto del docente fin dall’inizio della sua carriera professionale, prescindendo dalla natura della scuola, in quanto il sistema privato costituisce un vero e proprio vivaio d’insegnanti dal quale attinge il sistema pubblico. Comportarsi diversamente equivarrebbe a negare l’attuale impostazione dell’ordinamento scolastico italiano che si avvale della complementarietà dei settori pubblico privato e dello scambio di personale. Una trattazione a parte merita il particolare rilievo sociale del problema. La portata internazionale della questione, come mostrato nell’introduzione, è inequivocabile e si estende anche agli aspetti socio-economici poiché la stessa, come abbiamo già detto, influisce su costi, produttività ed efficienza del sistema scolastico. La riforma delle pensioni, pur operando nel senso del risanamento economico, ha indubbiamente contribuito a slatentizzare una situazione sommersa sottraendo una via di fuga agli insegnanti oggi costretti a lavorare a oltranza fino ai 60 anni (donne) e 65 anni (uomini). Il ritiro anticipato dal lavoro su base spontanea ha verosimilmente contribuito, fino a pochi anni fa, a mantenere entro certi limiti l’alto tasso di incidenza di patologie psichiatriche, rendendo meno evidente la punta dell’iceberg che oggi rivela la situazione nella sua temibile essenza. È inoltre ragionevole prevedere, nel futuro, un aumento delle istanze di accertamento di inabilità derivante da causa di servizio al fine di ottenere il trattamento pensionistico privilegiato. Si considerino poi a parte le implicazioni di alcune recenti disposizioni, che pongono in capo all’amministrazione di appartenenza l’attivazione d’ufficio della pratica, qualora il dipendente riporti lesioni per certa o presunta ragione di servizio o abbia contratto infermità nell’esporsi per obbligo di servizio a cause morbigene e dette infermità siano tali da poter divenire causa d’invalidità o di altra menomazione dell’integrità fisica, psichica o sensoriale (art. 3 D.P.R. 29 ottobre 2001, n. 461). Per ciò che concerne la variabile relativa al numero degli anni d’insegnamento, non sono state effettuate rilevazioni. Nondimeno, un eventuale studio epidemiologico in tal senso potrebbe indagare questa variabile che oggi trova un indice “indiretto” nell’età media della popolazione oggetto di studio (49.4 anni per la popolazione insegnante in generale e 48.6 anni per gli insegnanti affetti da patologie di tipo psichiatrico). Il campione preso in esame proviene da quelle che sono denominate dagli anglosassoni “urban area”, mentre la situazione nelle “rural area” è, secondo alcuni autori tra cui Nagy (1992), meno a rischio. Anche in questo caso potrebbe essere opportuno un approfondimento che preveda anche l’ulteriore segmentazione tra scuole dell’area urbana. Infatti, il misbehaviour degli studenti è più frequente negli istituti della periferia, dove le condizioni socio-economiche sono più basse, rispetto a quelli che afferiscono alle aree del centro.» (Lodolo D’Oria et al., 2014)
In seguito, nell’articolo (Lodolo D’Oria et al., 2014) vengono riportate anche delle prospettive e ipotesi d’intervento, sulla base dei risultati ottenuti. «A fronte della complessità del problema (che ad ogni buon conto ricordiamo essere internazionale) non è possibile sperare in un’unica, rapida e semplice soluzione. L’approccio alla questione, una volta riconosciutane pienamente la fondatezza e la rilevanza sociale (stupiscono, in proposito, le rare e deboli “reazioni” di fronte ai risultati degli studi internazionali menzionati nell’introduzione), non può che avvenire per gradi e con approccio multidimensionale (cioè politico, sociale, sanitario ed economico). Per gradi perché i risultati di questo studio richiedono un ampio dibattito, che veda la società nelle sue articolazioni (istituzioni, parti sociali, amministrazione scolastica, associazioni di categoria, di studenti, di famiglie, sanitarie etc.) adoperarsi per approfondire gli aspetti lasciati necessariamente inevasi. Multidimensionale perché, come vedremo più avanti, l’approccio a una sindrome complessa non può che prevedere interventi di diversa natura, su più fattori e a differenti livelli. Inoltre nessuna delle parti citate può cedere all’illusione di possedere formule o bacchette magiche pretendendo così di dare risposta a più incognite con una sola equazione. Di fronte ai numerosi lavori prodotti sulla materia, sia in Italia che all’estero, emerge prepotente il contrasto tra la serietà del problema e la totale assenza di una volontà propositiva mirante alla risoluzione dello stesso. Si ha l’impressione che sia preferibile ignorare il burnout degli insegnanti come una verità scomoda e destabilizzante (il che è facilmente comprensibile a tutti) ricorrendo al tipico comportamento dello struzzo.
[…] La situazione ha dunque permesso anche in Italia l’accrescimento silenzioso dell’iceberg, la cui punta, evidenziata dalla presente ricerca in modo del tutto occasionale (oggetto dello studio erano infatti tutti i dipendenti pubblici e non gli insegnanti solamente), è destinata ad aumentare di volume grazie al costante abbassamento della linea di galleggiamento dello stesso. L’analogia con l’iceberg appare particolarmente appropriata se azzardiamo l’ipotesi che la base dello stesso è costituita dai casi di burnout, mentre la parte emersa rappresenta le infermità psichiche conseguenti.» (Lodolo D’oria et al., 2014). Vengono di seguito ipotizzati alcuni punti d’intervento nei diversi settori offrendo elementi per un dibattito.
© Il Burnout negli insegnanti – Federica Sapienza