Articolo 4 – Lo stress lavoro correlato: Prospettive di intervento – principali teorie
Approccio Tecnico
In questo primo approccio lo stress sul lavoro viene concepito come una caratteristica avversa oppure dannosa dell’ambiente di lavoro, pertanto come una caratteristica di uno stimolo dell’ambiente che viene considerato dall’individuo in termini di carico, livello di richieste o di elementi minacciosi o che possono arrecare danno (Cox, 1990; Cox & Mackay, 1981; Fletcher, 1988 citati in Cox et al., 2000).
Approccio Fisiologico,
Questo approccio trova le sue origini nella concettualizzazione di Selye (1975) che ha definito lo stress come “sindrome generale di adattamento” (SGA). Lo stress viene concepito come “una risposta generale aspecifica a qualsiasi richiesta proveniente capitolo secondo dall’ambiente”. In definitiva è uno “stato fisiologico normale” finalizzato all’adattamento dell’individuo all’ambiente (Selye, 1975, citato in Favretto, 1994). L’autore (1950, 1956) ha inoltre sostenuto che la reazione fisiologica si componesse di tre fasi, una fase iniziale di allarme (attivazione midollare surrenale-simpatica) seguita da una fase di resistenza (attivazione corticale surrenalica) correlata alla durata dello stato di stress che, in alcuni casi, dava luogo ad una fase finale di esaurimento (riattivazione terminale del sistema midollare surrenale-simpatico). Si ritiene che il manifestarsi ripetuto, intenso o prolungato di questa reazione fisiologica determini un indebolimento del corpo e contribuisca a quelle che Selye (1956) ha definito le “malattie di adattamento” (Selye, 1956 citato in Cox et al., 2000).
Approccio Psicologico
Lo sviluppo di questo approccio ha rappresentato, in parte, un tentativo per superare le critiche mosse alle impostazioni precedenti. La prima si riferisce al fatto che sia il modello tecnico che quello fisiologico non forniscono un’adeguata spiegazione dei dati empirici esistenti. La seconda critica riguarda il fatto che entrambi i modelli sono concettualmente datati, poiché vengono collocati all’interno di un modello stimolo-reazione relativamente semplice e tengono in scarsa considerazione le differenze individuali di natura psicologica ed i processi percettivi e cognitivi che li possono avvalorare (Sutherland & Cooper, 1990; Cox, 1993 citati in Cox et al., 2000).
Pertanto questi modelli considerano la persona come “passiva” nella traduzione delle caratteristiche dello stimolo dell’ambiente in risposte di natura fisiologica e psicologica. Soprattutto, questi modelli ignorano le interazioni tra la persona ed i diversi ambienti che costituiscono una parte fondamentale delle impostazioni fondate su sistemi nel campo della biologia,della psicologia e delle scienze comportamentali. In particolare ignorano i contesti psicosociali ed organizzativi per lo stress occupazionale. E’ proprio su quest’ultimo punto che l’approccio psicologico pone le sue fondamenta. Lo stress viene definito in termini di interazione dinamica tra la persona e l’ambiente di lavoro. Questo terzo approccio per la definizione e lo studio dello stress presta invece una particolare attenzione ai fattori ambientali e, in particolare, ai contesti organizzativi e psicosociali dello stress correlato al lavoro. Lo stress viene indotto dall’esistenza di interazioni problematiche tra la persona e l’ambiente, oppure viene misurato in termini di processi cognitivi e reazioni emotive che sono alla base di tali interazioni. Attualmente, esiste un consenso sempre maggiore nei confronti di questo tipo di approccio per la definizione dello stress. Le impostazioni psicologiche, infatti, risultano in linea con la definizione di stress quale “stato psicologico negativo, con componenti emotive e cognitive, e sugli effetti sulla salute sia dei singoli lavoratori dipendenti che delle loro organizzazioni” data dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (International Labour Organization, ILO 1986) e con la definizione di benessere proposta dall’Organizzazione Mondiale della la Sanità (1986):
-
- “Benessere è uno stato mentale dinamico caratterizzato da un’adeguata armonia tra capacità, esigenze e aspettative di un individuo, ed esigenze e opportunità ambientali”.
Queste impostazioni sono altresì in accordo con la letteratura in via di sviluppo in materia di valutazione dei rischi individuali (Cox e Griffiths, 1996). Queste concordanze e sovrapposizioni stanno ad indicare una coerenza sempre maggiore nel modo attuale di pensare in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
Al fine di sintetizzare il processo di stress, in accordo con l’approccio psicologico, sono stati proposti vari modelli descrittivi. Il più importante è quello di Cooper (Cooper, 1986) come viene illustrato nella figura 1 sotto riportata. Il modello di Cooper si concentra sulla natura e tipologia dello stress correlato al lavoro e sui riscontri sia individuali che organizzativi. Secondo l’autore numerosi sono i fattori fisici ambientali identificabili quali “fonti di stress” che possono incidere negativamente sui lavoratori e sull’organizzazione.
Nell’analizzare i loro possibili “effetti” è necessario tener conto dell’importanza e della significatività della “reattività soggettiva” di ciascun individuo. Pertanto risposte fisiologiche e/o comportamentali allo stress sono collegate alla situazione, ma anche ad alcune caratteristiche di personalità dell’individuo. Parte del processo di stress è rappresentato dai rapporti tra l’ambiente di lavoro oggettivo e le percezioni sul lavoro del lavoratore dipendente, tra tali percezioni e l’esperienza di stress, nonché tra tale esperienza ed i cambiamenti nel comportamento, nella funzione fisiologica e nella salute.
Le strategie di fronteggiamento o adattamento (coping) rappresentano una componente importante di questo processo, Cooper et al., (2001) sostengono che la sequenza di stress è rappresentata dal concetto di “adattamento” e lo stress ha luogo quando c’è un mal-adattamento o uno squilibrio tra la persona e l’ambiente in termini di richieste e di risorse per soddisfarle. L’idea di “mal-adattamento” è importante perché i ricercatori dovrebbero prestare più attenzione alla sua natura ed in particolare ai concetti coinvolti, piuttosto che semplicemente identificare quelle componenti strutturali che vi partecipano. Gli autori sostengono che “l’adattamento è significativamente dipendente dalla valutazione ed è il processo di valutazione che lega la persona all’ambiente”. (Cooper et al., 2001 citati in Dewe e Cooper, 2007)
E’ possibile individuare, rispetto all’impostazione psicologica due varianti, che dominano la teoria contemporanea sullo stress:
quella interazionale e quella transazionale. La prima si concentra sulle caratteristiche strutturali dell’interazione tra l’individuo e il proprio ambiente di lavoro, mentre la seconda presta una maggiore attenzione ai meccanismi psicologici che rafforzano tale interazione. I modelli transazionali riguardano principalmente la valutazione cognitiva ed il coping (strategie di fronteggiamento). Per certi versi costituiscono uno sviluppo dei modelli interazionali e sono ampiamente in accordo con gli stessi ((Cox et al., 2000).
Teorie Interazionali
Tra le diverse teorie proposte all’interno di quelle ascrivibili alle teorie internazionali le due più accreditate sono: quella di Karasek (1979) teoria “Demand-Control” (DC Model) e quella di French et al. (1982) Person-Environment Fit (P-E Fit.)
Entrambi i modelli si basano sulla definizione proposta da McGrath (1976) della discrepanza o sbilanciamento tra la persona e
l’ambiente. Lo stress, secondo l’autore, insorge quando la richiesta è eccessiva rispetto alle capacità e alle risorse possedute dalla persona per fronteggiarla e l’individuo a causa di tale discrepanza o sbilanciamento percepisce la situazione come minacciosa (McGrath, 1976, citato in Dewe e Cooper, 2007).
Modello Richiesta-Controllo (Demand-Control Model)
Nel 1979 Robert A. Karasek pubblicò il suo primo studio sullo stress lavorativo percepito. Il suo modello originale suggerisce che la relazione tra elevata domanda lavorativa (job demand, JD) e bassa libertà decisionale (decision latitude, DL) definiscono una condizione di “job strain o perceived job stress“ (stress lavorativo percepito), in grado di spiegare i livelli di stress cronico e l’incremento del rischio cardiovascolare.
Le due principali dimensioni lavorative (domanda vs. controllo) sono considerate variabili indipendenti e poste su assi ortogonali. La job demand si riferisce all’impegno lavorativo richiesto:
-
- carico di lavoro,
-
- i ritmi di lavoro,
-
- la coerenza delle richieste.
La decision latitude è definita da due componenti: la skill discretion e la decision authority: la prima individua condizioni connotate dalla possibilità di imparare cose nuove, dal grado di ripetitività dei compiti e dall’opportunità di valorizzare le proprie competenze; la seconda identifica fondamentalmente il livello di controllo dell’individuo sulla programmazione ed organizzazione del lavoro (Karasek, 1979). Le combinazioni tra l’alta o bassa domanda e l’alto o basso controllo danno luogo a 4 diversi tipi di esperienze psicosociali di lavoro:
-
- Lavori ad alto strain (high strain): ad un alto livello di domanda corrisponde un basso livello di controllo. Sono queilavori che creano al lavoratore un alta tensione psicologica la quale si può manifestare in sintomi di ansietà, depressione, esaurimento e vari disturbi psicosomatici.
-
- Lavori attivi (active): ad un altro grado di controllo e discrezionalità da parte dell’individuo sulla propria attività corrisponde un elevato grado di domanda psicologica. Questo tipodi contesto lavorativo è caratterizzato da un elevato grado di apprendimento, dalla possibilità di esprimere le proprie capacità ed attitudini e da elevata responsabilità.
-
- Lavori a bassa domanda e alto controllo (low strain): ad una domanda psicologica poco pressante corrisponde un alto controllo.Rappresentano situazioni lavorative ottimali, in cui l’individuo può gestire in autonomia la sua attività lavorativa. I lavoratori che appartengono a questa tipologia sono spesso soddisfatti della loro professione. Secondo Karasek sono quei lavori che non procurano nessun problema di tensione psicologica agli individui ed essendo piuttosto rilassanti tendono a proteggere il lavoratore dal rischio di effetti psicofisici.
-
- Lavori passivi (passive): ad una bassa domanda corrisponde un altrettanto basso controllo. Si identificano in questa tipologia quei lavori le cui mansioni non incentivano le capacità individuali per i quali si registrano marcati livelli di insoddisfazione. Secondo l’autore questi lavori non creano stress o tensione psicologica, ma disincentivano l’apprendimento e di conseguenza favoriscono l’impoverimento delle abilità lavorative.
Oltre a consentire un’analisi sistemica e simultanea delle due variabili considerate fondamentali nella genesi dello stress, forte anche delle ottime proprietà psicometriche dello strumento d’indagine che ne deriva (Levi, 2000), il modello di Karasek introduce un altro elemento innovativo: la possibilità di predire da un lato le conseguenze negative sulla salute dei lavoratori derivanti dall’esposizione a condizioni di job strain, dall’altro i vantaggi in termini di messa in atto di comportamenti organizzativi positivi (motivazione verso l’apprendimento organizzativo e l’innovazione) a seguito di una progettazione delle condizioni lavorative nella modalità Active (Karasek et al., 1998). Il JCD model è infatti fortemente applicativo, proprio perché finalizzato alla messa in atto di interventi job re-design (ri-progettazione) dei compiti lavorativi (Levi, 2000 citato in Mastrangelo et al., 2008).
Recentemente è stato pubblicato uno studio che ha testato e confermato le ipotesi che sono il cuore di questo modello: richieste elevate sul lavoro (carico di lavoro) in combinazione con scarso controllo sul lavoro (autonomia) aumentano lo stress acuto (non soddisfazione sul lavoro, ipotesi di stress acuto), mentre richieste elevate sul lavoro in combinazione con alto controllo sul lavoro aumentano apprendimento e sviluppo nel lavoro (qui: apprendimento di nuove abilità; ipotesi di apprendimento).
Il modello di Karasek è stato utilizzato anche in un recente studio condotto in Italia con l’obiettivo di sperimentare un modello di monitoraggio, da riproporre per un’indagine mirata su scala europea, che permettesse di fornire un quadro complessivo delle condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori. Tale ricerca è stata condotta in una regione italiana, il Veneto, scelta come regione-pilota. Anche in questo caso, come per lo studio precedentemente illustrato, i risultati hanno confermato la validità del modello e la sua efficacia applicativa. Inoltre i risultati hanno mostrato che la frequenza di coloro che hanno espresso un elevato stress da lavoro (high strain) è pari al 27% dell’intero campione di riferimento, 2.174 lavoratori. Il rischio di stress da lavoro è maggiore nelle donne rispetto agli uomini. Tali risultati sembrano in linea con quelli mostrati dall’indagine europea, come descritto nel primo capitolo (Mastrangelo et al., 2008).
Il modello proposto da Karasek è stato approfondito da J.V. Johnson e collaboratori fra gli Anni ’80 e ‘90. Sostanzialmente è stata aggiunta una terza dimensione: la work place social support o social network, dando origine ad un nuovo modello “Domanda-Controllo-Supporto” (Johnson et al., 1988). La dimensione “supporto sociale” si riferisce a tutti i livelli di interazione sociale utili disponibili sul lavoro da parte di colleghi e superiori. Sembra che il “supporto sociale” svolga un ruolo fondamentale nella gestione dello stress correlato al lavoro. Viene utilizzato come “moderatore” in relazione a eventuali effetti nocivi sulla salute di richieste psicologiche eccessive (Theorell, 1997 citato in Cox et al., 2000).
In accordo con questo modello il più elevato rischio di malattie cardiovascolari è stato rilevato, da Johnson et al., (1988, 1989),
nei gruppi connotati da una elevata domanda lavorativa (JD), da una bassa possibilità decisionale (DL) e da un basso supporto sociale (SS) da parte di colleghi e capi. In particolare la presenza di “altri amichevoli” sul lavoro sarebbe elemento positivo per il benessere psicologico dei lavoratori.
Nel 1985 Karasek ha definito la versione base del Job Content Questionnaire (JCQ) su 49 items, che si mantiene tuttora valida. Il modello e il questionario di Karasek sono stati applicati soprattutto nello studio delle patologie cardiovascolari. Sono stati pubblicati numerosi studi, per lo più scandinavi e nord-americani, la maggior parte dei quali ha evidenziato una correlazione positiva tra job strain e malattie cardiovascolari o fattori di rischio cardiovascolare (Mastrangelo et al., 2008).
Baldasseroni et al., (2003) riportano i limiti principali di questo modello:
-
- appare difficile concettualizzare e rendere misurabile il concetto di “job control” che sembra riferirsi a diversi, ma non ben definiti aspetti che hanno a che fare con l’autonomia;non è sempre chiaro cosa Karasek intenda con i termini interactions e joint effects di richieste lavorative e ampiezza di decisione: la discussione va avanti, ma non è stata ancora determinata l’esatta formulazione matematica dell’interazione;
il modello sembra troppo semplice, perché il controllo non è l’unica risorsa disponibile per fronteggiare le richieste dell’ambiente; per esempio anche il supporto sociale collegato al lavoro può funzionare da moderatore delle richieste lavorative ambientali. In particolare, come già osservato, la presenza di “altri amichevoli” sul lavoro sarebbe elemento positivo per il benessere psicologico dei lavoratori: vi è testimonianza in letteratura del fatto che il supporto sociale protegge dallo sviluppo di disturbi psicologici, agendo contro stressors e avversità, promuove il benessere ed è terapeutico per chi ha già sviluppato sintomi di qualche genere (Wichert et al., 2000).
- appare difficile concettualizzare e rendere misurabile il concetto di “job control” che sembra riferirsi a diversi, ma non ben definiti aspetti che hanno a che fare con l’autonomia;non è sempre chiaro cosa Karasek intenda con i termini interactions e joint effects di richieste lavorative e ampiezza di decisione: la discussione va avanti, ma non è stata ancora determinata l’esatta formulazione matematica dell’interazione;
Adattamento Persona-Ambiente (Person-Environment Fit)
Questo modello di French, Caplan e Van Harrison (1982) è stato sviluppato da un gruppo di psicologi sociali e del lavoro dell’Institute for Social Research dell’ Università del Michigan, e si inscrive nella teoria del campo psicologico di derivazione “lewiniana” in cui il comportamento umano è funzione degli aspetti personali ed ambientali. Infatti, per comprendere e descrivere il fenomeno stress, si tiene conto non solo delle abilità, aspettative, motivazioni o rappresentazioni sociali della persona (P), ma anche dei fattori e delle variabili connessi all’ambiente lavorativo (E).
Gli autori hanno elaborato una teoria dello stress correlato al lavoro che si basa sostanzialmente sul concetto “dell’adattamento” Persona-Ambiente.
Sono stati individuati due aspetti fondamentali dell’adattamento:
-
- Il livello in cui gli atteggiamenti e le capacità di un lavoratore dipendente soddisfano le richieste del lavoro.La misura in cui l’ambiente di lavoro soddisfa le esigenze dei lavoratori, ed in particolare, la misura in cui si incoraggia e si permette all’individuo di utilizzare le proprie conoscenze e capacità nell’organizzazione del lavoro.
Franch et al. (1974) hanno concluso che la mancanza di adattamento ad uno o entrambi gli aspetti può dar luogo a situazioni di stress e che si possono anche verificare delle ripercussioni sulla salute (French et al., 1974 citati in Faretto, 1997).
Il modello di French, Caplan e Van Harrison ha il merito di equilibrare la valutazione personale e soggettiva degli eventi stressanti con le dimensioni organizzative e le caratteristiche oggettive (competenze, attitudini, abilità professionali) delle risorse umane.
Il modello P/E analizza infatti, i fenomeni secondo due punti di vista: soggettivo ed ambientale.
Dal punto di vista del lavoratore viene studiata la relazione esistente tra i bisogni, le aspettative della persona e la possibilità che l’organizzazione ha di soddisfarli. Dal punto di vista dell’organizzazione vengono analizzate le capacità che ha il lavoratore di far fronte alle richieste lavorative. Il modello opera quindi una distinzione tra la valutazione soggettiva dell’individuo nei riguardi dell’ambiente in cui è inserito e della propria immagine lavorativa, rispetto alla valutazione oggettiva delle caratteristiche intrinseche al lavoro ed alla persona stessa. Il modello ipotizza lo sviluppo di strain (inteso come manifestazione a breve termine di stress a livello fisiologico, psicologico e/o comportamentale), quando c’è discrepanza, ossia mancanza di adattamento, tra le richieste dell’ambiente lavorativo e le abilità della persona a rispondervi. Lo strain sarà più elevato se c’è prevalenza delle richieste sulle capacità o discrepanza tra le aspettative della persona e le risorse ambientali disponibili per soddisfarle. Le richieste ambientali includono il carico di lavoro e la complessità del lavoro. Le aspettative includono il guadagno, la partecipazione e coinvolgimento, e l’utilizzazione delle abilità.
Nell’ambito del modello, quindi, “Person” fa riferimento alla relazione tra bisogni, aspettative e possibilità di soddisfarli; “Environment” alla capacità del lavoratore di far fronte alle richieste lavorative.
La trasformazione del modello in un metodo di ricerca implica l’individuazione di dimensioni da misurare e di relazioni tra le dimensioni.
Le dimensioni più importanti sono:
-
- caratteristiche dell’ambiente lavorativo: tipo di organizzazione, compiti o mansioni attribuite al singolo, regole e metodi di lavoro.
-
- caratteristiche della risorsa: competenza e professionalità, attitudini,
-
- valutazione soggettiva delle richieste oggettive dell’ambiente, influenzata da stati emozionali, motivazionali ecc.
-
- valutazione soggettiva delle doti personali: valutazione di abilità, competenza, valore personale, cioè autopercezione delle potenzialità (Baldasseroni et al., 2003)
Teorie Transazionali
I modelli transazionali, come anticipato precedentemente, si occupano principalmente dei meccanismi psicologici alla base dell’interazione tra la persona e l’ambiente di riferimento. Tali meccanismi si riferiscono alla valutazione cognitiva ed alle strategie di fronteggiamento.
Modello Squilibrio sforzo-ricompensa (Effort-Reward Imbalance)
Johannes Siegrist (1996) ha elaborato un modello alternativo di stress, basato sulla discrepanza tra l’impegno profuso nel lavoro e le ricompense, materiali e immateriali, che da esso si ottengono. In altre parole, in base a tale modello, lo stress sul lavoro è conseguenza dell’elevato sforzo realizzato in contrapposizione ad una ricompensa limitata. Si riconoscono due fonti di sforzo: una estrinseca, le richieste di lavoro, ed una intrinseca, la motivazione del singolo lavoratore in una situazione impegnativa. Esistono tre livelli di compenso importanti: le gratificazioni economiche, la ricompensa socioemotiva ed il controllo della posizione (vale a dire le prospettive di carriera e l’insicurezza del lavoro).
L’esperienza di stress cronico può essere conseguentemente definita come uno squilibrio tra gli elevati costi sostenuti e gli esigui guadagni ottenuti. Questo modello mostra e riconosce l’importanza delle percezioni di giustizia organizzativa. C’è un crescente riconoscimento che le percezioni degli addetti in merito a correttezza, equità e giusto trattamento sono importanti atteggiamenti del lavoro che possono influenzare una vasta gamma di risultati. Le meta-analisi hanno sostenuto il legame tra percezioni di giustizia organizzativa e risultati come soddisfazione sul lavoro, impegno organizzativo, valutazione dell’autorità, comportamenti di cittadinanza organizzativa, comportamenti contro produttivi sul lavoro, ritiro e prestazione (Cohen-Charash & Spector, 2001).
Modello Transazionale di Cox e Mackay
Cox (1978), nella definizione di questo modello, parte dal presupposto che lo stress abbia origine nella relazione tra la persona ed il suo ambiente e che sia fondamentalmente un fenomeno individuale. Secondo l’autore esiste una grande variazione individuale non solo nell’esperienza dello stress, ma anche nella risposta allo stress. Inoltre, sottolinea l’importanza, spesso sottovalutata, del contesto sociale, nella valutazione dell’esperienza dello stress (Cox, 1978 citato in Favretto, 1994).
Nell’elaborazione iniziale del modello, messo a punto insieme a Mackay C., Cox acquisisce e fa proprie molte delle idee proposte da Lazarus (1966). Secondo Lazarus lo stress si manifesta quando ci sono richieste che mettono alla prova o superano le risorse di adattamento della persona. Inoltre sostiene che lo stress non dipende unicamente dalla presenza di stressors nell’ambiente esterno ma, anche dalla vulnerabilità costituzionale della persona e dall’adeguatezza dei suoi meccanismi di difesa. Nello sviluppare la sua concezione dello stress l’autore pone particolare attenzione sulla “valutazione della situazione da parte dell’individuo”. La valutazione rappresenta, infatti, il processo cognitivo estimativo che attribuisce alle transazioni tra la persona e l’ambiente il loro significato.
Lazarus identifica due tipi di valutazione. Descrive la prima come valutazione primaria: ha luogo quando l’individuo da significato agli eventi, e valuta l’importanza di un evento in termini di dolore, minaccia o sfida. Tuttavia, la valutazione primaria non è, di per sé, sufficiente a decidere il significato di un evento. La seconda, valutazione secondaria: definisce ulteriormente il significato di cosa sta succedendo e identifica eventuali strategie di coping.
Ignorare il processo di valutazione, comprometterebbe significativamente la possibilità di comprendere l’effetto e la capacità di intervenire (Lazarus, 1966 citato in Folkman & Moskowitz, 2004).
Nel presentare il modello Cox e Mackay suggeriscono che sia più adeguato descrivere lo stress come un “sistema complesso e dinamico di transizioni tra la persona ed il suo ambiente” (Favretto, 1994). Pertanto, in base a questo modello, gli autori, considerano la condizione di stress come la “rappresentazione interiore di transazioni particolari e problematiche tra la persona e l’ambiente in cui opera” e lo definiscono come uno “stato psicologico negativo riguardante aspetti sia cognitivi che emotivi” (Cox & Mackay, 1981 citati in Cox et al., 2000).
L’elaborazione di queste concettualizzazioni ha condotto Cox (1978) ha descrivere lo stress come un processo sistematico sulla base di un modello composto da cinque fasi:
-
- La prima fase: è costituita dalle fonti ambientali delle richieste;
-
- La seconda fase: di fatto, coincide con una valutazione primaria e si riferisce alla percezione che la persona ha di queste richieste in relazione alla propria capacità di farvi fronte.
-
- Terza fase: è rappresentata dai cambiamenti fisiologici, emotivi e psicologici e comportamentali associati al riconoscimento di uno stato di stress e, che comprendono il coping; La quarta fase: è legata alle conseguenze del coping;
-
- La quinta fase: è il feedback che si verifica in relazione a tutte le altre fasi del modello (Cox, 1978 citato in Cox et al., 2000).
In conformità alle teorie di Lazarus & Folkman (1986) lo stress viene descritto come lo stato psicologico che si verifica in
presenza di uno squilibrio individuale significativo oppure di una mancanza di adattamento tra ciò che una persona prova, in
relazione alle richieste che gli sono state fatte e la capacità che ritiene di possedere per far fronte a tali richieste (Lazarus & Folkman, 1986 citati in Folkman & Moskowitz, 2004).
LA VALUTAZIONE DELLO STRESS LAVORO CORRELATO: PROSPETTIVE DI INTERVENTO A PARTIRE DAL DECRETO LEGISLATIVO DEL 9 APRILE 2008, N°81 – © Serena Molari