Altruismo: Differenze individuali
Altruismo: Differenze individuali
Indubbiamente, il contesto e la presentazione dello stimolo hanno un ruolo fondamentale nell’influenzare il benefattore. Eppure come si può spiegare che persone diverse reagiscano in modi diversi agli stessi stimoli? I ricercatori hanno cominciato ad indagare solo di recente le differenze individuali nell’elaborazione delle informazioni. Ad esempio, Peters, Västijfal, Slovic, Mertz, Mazzocco e Dickert (2006) hanno mostrato che le abilità di calcolo possono influenzare le prestazioni in un compito di giudizio e decisione. In particolare sembrerebbe che quando gli attori decisionali che possiedono basse abilità logico-matematiche affrontano un compito che richiede una stima di probabilità siano più propensi a ricorrere al sistema esperienziale rispetto a coloro che invece possiedono maggiori abilità in quest’ambito. Infatti, Peters et al. (2006) hanno mostrato questi ultimi sono significativamente più attratti dalla possibilità di puntare su una scommessa che consente solo la vincita di 9$ ed in alternativa nulla rispetto ad una che consente di vincere la stessa somma ma anche di perdere 5c. Sembrerebbe dunque che ad alte capacità numeriche corrisponda anche una minore necessità di ricorrere alle informazioni affettive che il confronto con la piccola perdita renderebbe invece maggiormente reperibili. Dickert (2008) ha dimostrato che questi dati possono essere generalizzati anche alle decisioni relative alle donazioni in beneficenza. Per esempio, le persone più abili ad interpretare dati numerici sono anche quelle meno soggette dall’effetto della vittima identificabile. In un esperimento simile a quello di Small et al. (2007), alcuni partecipanti leggevano la storia di Rokia mentre altri quella di un bambino africano anonimo. Queste due condizioni erano a loro volta suddivise in due ulteriori gruppi. Infatti per alcuni la storia di questa bambina Africana era provvista di statistiche, per altri invece si trattava di una semplice narrazione di grande impatto emotivo. Venivano misurate le abilità numeriche di tutti i partecipanti e i sentimenti che provavano riguardo la vittima e la sua situazione. Come ipotizzato da Dickert (2008) i partecipanti con basse abilità logico-matematiche erano anche quelli più sensibili al format di presentazione degli stimoli mentre quelli più abili coi numeri non sembravano particolarmente influenzati dall’identificabilità della vittima. Inoltre, questi ultimi provavano un minore grado di empatia e preoccupazione nei confronti di Rokia ma nonostante ciò erano più propensi a donare rispetto agli altri. Questo dato è particolarmente interessante perché avvalora l’idea che persone con elevate abilità logico-matematiche siano meno propense ad usare gli affetti come informazioni di quanto non siano invece le altre persone. Inoltre, nello studio di Dickert (2008) la decisione di donare alla vittima non identificata correlava maggiormente con sentimenti focalizzati verso se stessi, come il regret anticipato legato alle conseguenze negative che sarebbero potute derivare dal fatto di non dare nessun contributo o il fatto di sentirsi meglio in seguito alla donazione, mentre la propensione a donare alla vittima identificata, era maggiormente legata a sentimenti etero-centrati quali la preoccupazione e l’empatia nei confronti di Rokia. Questi risultati sono stati confermati da Dickert, Sagara e Slovic (2011) che hanno mostrato una versione di Kogut et al. (2005a), dove però, prima del compito, i partecipanti venivano indotti tramite priming ad un elaborazione delle informazioni differente. In una condizione i partecipanti dovevano eseguire alcune equazioni algebriche prima del compito mentre in un altra dovevano descrivere come si sentivano in relazione ad alcune immagini. C’era anche una condizione di controllo dove i partecipanti non affrontavano alcuna manipolazione del loro modo di processare le informazioni. I risultati hanno mostrato che gli affetti auto-centrati che dunque dovrebbero essere anche quelli più legati alla regolazione del proprio umore erano quelli più legati alla decisione vera e propria di donare, mentre quelli più etero-centrati erano quelli più coinvolti nella decisione riguardante l’ammontare del contributo da donare. Dickert et al. (2011) hanno anche mostrato che le persone sono più propense ad usare le reazioni affettive quando il loro sistema analitico è sovraccaricato. In un esperimento i partecipanti dovevano leggere una stringa di lettere e impararla a memoria. In una condizione la stringa comprendeva 10 lettere, in un altra invece solo 2. I risultati hanno mostrato che persone la cui memoria di lavoro era sovraccaricata tendevano a ricorrere maggiormente agli affetti quando dovevano decideredi dare un contributo in beneficenza. Questi risultai sembrerebbero supportare l’idea che le persone ricorrano maggiormente agli affetti per far fronte ai limiti delle proprie risorse cognitive.
Oltre alle abilità logico-matematiche però ci potrebbero anche essere altri fattori individuali che possono influenzare il comportamento di beneficenza. Cameron e Payne (2011) hanno suggerito che uno di questi possa essere la regolazione delle emozioni. In particolare secondo questi ricercatori è possibile che le persone siano più prudenti quando devono decidere di aiutare un gruppo di persone rispetto a quando devono decidere di aiutarne una sola perché molte vittime insieme potenzialmente potrebbero elicitare una reazione emotiva che potrebbe rivelarsi difficile da controllare in un secondo tempo a fronte di costi troppo alti da sostenere. Dunque è possibile che le persone usino la regolazione delle emozioni a scopo difensivo e che questo meccanismo sia il vero responsabile di fenomeni come il psychophysiological numbing o l’identifiable victim effect. In un esperimento alcuni partecipanti leggevano la storia di bambino oppure di otto bambini originari del Darfur. Queste due condizioni comprendevano a loro volta altre due condizioni: una dove dovevano solo valutare i sentimenti che provavano verso la vittima (le vittime) ed un’altra dove avrebbero dovuto anche dire quanti soldi sarebbero stati disponibili a donare. I partecipanti prima dell’inizio della procedura prendevano coscienza del fatto che gli sarebbe stato chiesto oppure no quanto erano (ipoteticamente) disposti a donare. Quando i partecipanti si aspettavano che gli potesse essere chiesto aiuto erano più propensi a fare un offerta significativamente maggiore per la vittima singola . Questi risultati sono coerenti con quanto mostrato in altri studi (Jenni et al. 1997; Kogut et al. 2005a; 2005b). Tuttavia, quando i partecipanti non avevano ragioni di sospettare che gli venisse chiesto aiuto erano significativamente più propensi a fare una donazione alle otto vittime. Sembrerebbe, dunque, che le persone di fronte all’aspettativa di dover aiutare siano a portate a moderare le emozioni che potrebbero comportare per loro costi eccessivi. Se così fosse, le persone più abili a regolare le proprie emozioni dovrebbero essere anche quelle più vulnerabili all’identifiable victim effect. Cameron e Payne (2011) hanno effettuato un secondo studio che teneva solo conto della condizione in cui i partecipanti dovevano donare. Inoltre, ai partecipanti veniva chiesto anche di segnare le emozioni che provavano man mano che queste venivano elicitate dagli stimoli. In particolare, veniva usata la Difficulties Emotion Regulation Scale (DERS; Gratz e Roemer, 2004), una scala per la regolazione delle emozioni. I risultati hanno mostrato che le persone più abili a regolare le emozioni erano anche quelle più inclini ad aiutare una vittima singola piuttosto che un gruppo di otto. Dunque, sembrerebbe che le persone quando fanno beneficenza operino in un conflitto tra valori morali ed obiettivi egoistici. Per esempio, un benefattore, da un lato, dovrebbe sentire la necessità di aiutare il maggior numero possibile di persone, dall’altro, dovrebbe sentire la necessità di risparmiare tempo e denaro. Tuttavia, di fronte alla decisione di aiutare una o più persone dovrebbero essere elicitate prima le emozioni ai nostri principi morali e solo in un secondo tempo quelle legate ai costi da sostenere per mettere in atto il comportamento altruista. E’ in questa situazione di conflitto dunque che la nostra abilità di regolare le emozioni si rivela cruciale per la nostra decisione di dare supporto ad una causa di carità.
In linea con queste premesse, Rubaltelli ed Agnoli (2012) hanno dimostrato che le diverse strategie di regolazione dell’emozione giocano un ruolo fondamentale quando si tratta di decidere di fare una donazione. In uno studio i partecipanti dovevano immaginare di dover scegliere se fare una donazione di 150 Euro ad una sola donna oppure fare una donazione di 450 Euro per tre donne. In linea con quanto trovato in altri studi (Jenni et al. 1997; Kogut et al. 2005a; 2005b) , anche in questo caso i partecipanti preferivano fare una donazione in beneficenza alla vittima presentata da sola. Tuttavia se ai partecipanti veniva offerta una terza alternativa che proponeva di aiutare due donne donando 500 Euro erano più propensi a scegliere di aiutare le tre donne del secondo programma. Questo effetto si chiama attraction effect, effetto attrazione, e mostra che i partecipanti appartenenti a questa seconda condizione percepivano la situazione come meno conflittuale rispetto a quelli che invece appartenevano alla condizione che non contemplava l’aggiunta di una terza alternativa. Dunque, i partecipanti quando devono decidere se contribuire ad un programma con una sola vittima oppure con tre vittime dovrebbero ricorrere ad una maggiore regolazione delle emozioni per risolvere il conflitto che si origina tra la loro motivazione di aiutare più persone e risparmiare beni materiali quali tempo e denaro. Rubaltelli e Agnoli (2012) in un secondo esperimento che replicava il primo chiedevano ai partecipanti anche di compilare un questionario sulla regolazione delle emozioni (Emotion Regulation Questionnaire; Gross e John, 2003). I dati di questo secondo esperimento hanno mostrato che tra i partecipanti cui erano presentate due opzioni coloro che sceglievano di fare una donazione alle 3 donne usavano delle strategie di regolazione delle emozioni differenti rispetto a coloro che ne sceglievano solo una. Infatti mentre questi ultimi usavano la soppressione (Gross, 1998), una strategia che consiste nella, per l’appunto, soppressione dell’emozione, i secondi utilizzavano il reappraisal (Lazarus,1991), ovvero una strategia che consiste in una rivalutazione dello stimolo prima che l’emozione sia elicitata. Il reappraisal è dunque una strategia focalizzata sull’antecedente quindi richiede uno sforzo minore della soppressione che invece è una strategia focalizzata sulla risposta. In aggiunta, la soppressione per la sua natura non è efficace nella riduzione degli effetti negativi e quindi questi tenderebbero ad accumularsi. Rubaltelli e Agnoli (2012) hanno proposto che siano proprio questi sentimenti negativi accumulatisi in seguito alla soppressione dell’emozione a far si che le persone donino di meno. Al contrario, coloro che nella stessa situazione ricorrono al reappraisal per regolare l’emozione dovrebbero essere più abili anche ad anticipare la reazione negativa derivante dai costi della beneficenza avrebbero e di conseguenza avere meno difficoltà a seguire le loro intuizioni morali.
Il ruolo giocato dalle emozioni indotte dal contesto gioca un ruolo indubbiamente importante nell’influenzarci nella decisione di donare tempo o denaro (più spesso entrambi) per una causa di beneficenza. Tuttavia, sembrerebbe che il modo in cui noi stessi regoliamo queste emozioni possa giocare un ruolo ancora più fondamentale in queste situazioni. Ma la regolazione delle emozioni potrebbe essere solo la punta dell’iceberg di un costrutto più ampio: l’intelligenza emotiva.
Intelligenza emotiva e altruismo: effetto di ripetuti successi ed insuccessi nel comportamento d’aiuto – © Andrea Righi