Le teorie psicologiche del bisogno
Le teorie psicologiche del bisogno
Si ritiene a questo punto importante fornire alcuni contributi che, pur allargando la prospettiva di analisi dal punto di vista disciplinare, consentono di delineare un quadro più completo del fenomeno motivazionale all’interno dell’ottica da cui si è partiti, quella del marketing interno. Verranno pertanto passate in rassegna le più importanti teorie psicologiche utilizzate classicamente dal marketing per comprendere le motivazioni di fenomeni come l’acquisto, il consumo, la preferenza, etc. La loro trattazione servirà a capire, con i dovuti adattamenti, quali sono gli elementi che caratterizzano le motivazioni del cliente interno verso il prodotto “azienda”, o verso il “consumo” di lavoro. Le teorie psicologiche centrate sulla soddisfazione dei bisogni colgono in parte questi aspetti.
Si deve alle Teorie pulsionali e a quelle psico-analitiche di Freud l’aver individuato nei processi di regolazione emozionale, tipici dell’uomo, la spiegazione della motivazione umana. A questo fine viene fatta una importante distinzione fra motivazioni (o bisogni) consce e motivazioni inconsce. Secondo Freud, infatti, ogni comportamento è motivato, anche se il soggetto non ne è sempre consapevole. La teoria freudiana, inoltre, individua nella ricerca dell’equilibrio delle energie pulsionali il motore primo dell’agire umano. Ogni soggetto, quindi, entrando in contatto con l’ambiente, percepisce, attraverso delle pulsioni, dei bisogni istintivi di tipo biologico (ovvero il famoso stato dell’ IO), che spesso non possono essere soddisfatti in modo socialmente accettabile. Esiste invece un modello etico di comportamento mediamente accettato (che Freud chiama ID), per cui il soggetto ricerca mezzi più sottili per ottenere il soddisfacimento sperato, reprimendo in parte l’istinto originario, ciò che però è causa di tensioni interiori e frustrazioni. In definitiva Freud insegna che non sempre l’individuo é in grado di identificare quali siano le reali motivazioni che lo spingono a percepire un certo bisogno e ad agire conseguentemente per la sua soddisfazione, essendo infatti le azioni la risultante di un comportamento complesso, ossia di un’elaborazione interiore derivante dal bilanciamento di istinti primordiali e socialmente accettabili (SUPER-IO). È questo un elemento di collegamento con la teoria di McClelland, in cui la motivazione alla riuscita risultava dall’incontro di un bisogno di potere e un bisogno di aderenza al contesto sociale. A livello manageriale, quindi, il problema che bisogna porsi non è tanto quello di capire il perché di certi comportamenti del lavoratore. E’ necessario invece essere coscienti che qualora si cerca di orientare il lavoratore verso determinati comportamenti o modi di essere, affinché ciò avvenga, si devono fornire delle “razionalizzazioni” socialmente o eticamente accettabili, in termini di comportamenti, per raggiungere i fini richiesti. Potrebbe così non essere molto efficace convincere un lavoratore a fare dello straordinario, promettendo una maggiore tolleranza ad esempio sull’orario di entrata, se egli è inserito in un contesto in cui si rispettano rigorosamente gli orari di lavoro, la puntualità è un valore molto forte e chi fa dello straordinario viene tacciato come “servilista”. Oppure, facendo leva su un presunto bisogno di realizzazione, promettere un nuovo ruolo con maggiori responsabilità, in un’altra filiale dell’azienda, se questo viene socialmente ritenuto un sorta di “allontanamento” dal centro di comando.
La teoria freudiana fornisce uno schema di massima per comprendere le modalità di interazione tra il soggetto e l’ambiente sociale in cui è inserito. Le motivazioni primarie che Freud considera sono molto limitate, essendo semplicemente di natura pulsionale, dando una visione molto riduttiva dell’attitudine cosciente-razionale dell’individuo e del suo riconosciuto bisogno di “autoporsi”. Altri orientamenti di matrice Cognitivista permettono invece di analizzare i meccanismi individuali di partecipazione attiva alla costruzione della realtà e quindi anche dell’esperienza lavorativa. Pertanto una visione di questo tipo prende anche il nome di Costruttivismo. Tali orientamenti esaltano la componente consapevole della motivazione umana, avendo come oggetto di studio i meccanismi interni di regolazione che presiedono alla ricerca, all’elaborazione ed alla generazione di informazioni e significati utili al raggiungimento di determinati scopi (cioè la cognizione) e alla soddisfazione di bisogni.
Fra le teorie che abbracciano questi intendimenti spiccano innanzitutto le Teorie del Risveglio, più note come Arousal theory. Queste teorie ritengono infatti che la motivazione è sostenuta non solo da un bisogno di mantenere una situazione di quiete, ma anche da un bisogno di romperla e di ripristinarla nuovamente. Diversamente dalle teorie pulsionali, secondo le teorie dell’arousal il cervello non è fisiologicamente inerte e la sua attività naturale consiste in un processo di motivazione autogenerata. La motivazione è vista come un’energia che origina da un conflitto e viene liberata nel momento in cui il conflitto viene risolto, ossia quando gli obiettivi vengono raggiunti. La demotivazione è invece intesa come la risoluzione del conflitto, uno stato di distensione e rilassatezza del sistema, cosa che non può durare mai troppo tempo. Ogni volta che viene soddisfatto un obiettivo si crea un altro conflitto che pone di nuovo in tensione il sistema e conduce al desiderio di liberare l’energia e di eseguire l’azione, quindi alla motivazione. In definitiva, i comportamenti motivati sono generati da una rottura dell’equilibrio omeostatico, che permette di raggiungere i livelli di attivazione ottimali per innescare gli schemi di azione, favorendo buoneprestazioni comportamentali e la soddisfazione dei bisogni. Le teorie dell’arousal hanno sottolineato come il benessere individuale, unico motore delle motivazioni, proviene allo stesso modo da due fonti: il piacere inerente alla riduzione delle tensioni e orientato al confort, ed il piacere provocato dagli stimoli che combattono la noia grazie a fattori (antiomeostatici) quali la novità, il cambiamento, l’incertezza, il rischio etc. In ambito manageriale questi concetti possono avere una duplice chiave di lettura. Innanzitutto dalle teorie dell’arousal discende che la mansione di un lavoratore, affinché fornisca un livello di motivazione adeguato, ovvero non troppo destabilizzante, deve avere entrambe le caratteristiche: il confort e la novità. In secondo luogo le modalità di incentivazione e i sistemi retributivi devono tenere conto di ambedue i bisogni. Lo stipendio, per esempio, dovrebbe prevedere una base costante, per soddisfare il bisogno di confort del lavoratore, ed una base variabile, correlata alle performance, per soddisfare il bisogno di rischio .
Altre teorie costruttiviste, focalizzate invece su come le caratteristiche della personalità influenzano i processi motivazionali, sono le teorie della Gestalt (letteralmente “forma”) che partono dall’assunto secondo cui l’essere umano va inteso come un sistema aperto nei confronti del suo ambiente. La strutturazione della personalità è quindi funzione di fattori individuali (lo “spazio vitale”) e ambientali (“la zona di frontiera”). Il maggiore rappresentante di questa corrente fu Lewin con la sua Teoria del Campo Psicologico. L’ambiente psicologico va pertanto distinto da quello reale perché corrisponde alla rappresentazione soggettiva che l’individuo ha degli eventi esterni. Il concetto di “campo” è il costrutto fondamentale. Per campo si intende tutto ciò che è presente nel soggetto in un dato momento e che ne determina l’azione, il sentire, il conoscere, il modo di pensare e di utilizzare la passata esperienza. Il campo si costruisce dinamicamente attraverso un sistema di “valenze”, cioè di forze di attrazione e repulsione, il cui segno e la cui intensità dipendono direttamente dallo stato dei bisogni di un certo individuo ad un momento dato. L’incidenza dei bisogni sulla condotta va analizzata nella varietà di situazioni dell’ambiente psicologico, attraverso un principio di contemporaneità secondo il quale ogni comportamento, e ogni mutamento nel campo psicologico, dipendono solo dalla configurazione del campo in quel dato momento.
In definitiva, Lewin dà origine ad un nuovo modello esplicativo della motivazione umana, facendola derivare dallo stato di tensione interna e di rappresentazione mentale che spinge verso la realizzazione di un proposito (approccio fenomenologico). Egli, cioè, si focalizza sulle strutture di comportamento e di pensiero risultanti dall’interiorizzazione progressiva delle azioni, di cui però il soggetto stesso non facilmente prende coscienza. Essendo quindi difficile risalire al campo psicologico di un lavoratore, non se ne potrà dedurne il comportamento, e, viceversa, dall’osservazione del comportamento non sarà agevole dedurre l’insieme delle proprietà del campo. Da queste considerazioni risulta chiaro il limite applicativo delle teorie della Gestalt, che comunque conserva la sua validità in alcuni ambiti. Oltre al diffuso impiego che ne è stato fatto nella comunicazione pubblicitaria, hanno infatti introdotto una visione del lavoratore come uno “stratega motivato” il quale sceglie di volta in volta una gamma di strategie cognitive (configurazioni) a sua disposizione, che meglio risponde ai suoi scopi dettati da motivazioni e necessità .
Su altre problematiche di natura percettiva si inserisce l’analisi che della motivazione fa la Teoria della Dissonanza Cognitiva. Questa teoria fu sviluppata da Festinger, il quale asserisce che quando esiste una discrepanza fra le credenze e le azioni di un soggetto, questi agirà per risolvere i conflitti che possono derivare da tali discrepanze . Ciò avviene tramite un processo di “astrazione selettiva” da parte del soggetto, una sorta di cancellazione di parti dell’esperienza per focalizzare l’attenzione su ciò che sembra confermare il suo modello del mondo. A questo segue un processo di “inferenza arbitraria”, cioè una conclusione totalmente soggettiva, un presupposto, un postulato che viene dato per scontato e che può servire a mantenere la coerenza con sé stessi eliminando in tal modo il disagio. Ad esempio, un inaspettato risultato positivo, a fronte di una radicata convinzione di non riuscire, invece di produrre uno stato di benessere, può provocare disfunzioni percettive al lavoratore e ridurre la sua motivazione, poiché sente che “i conti non tornano” e pertanto vive, paradossalmente, una situazione di disagio. In altre parole la motivazione dipende anche dal bisogno di coerenza rilevabile nella maggior parte dei soggetti. Se un soggetto, ad esempio, investe molte energie sul lavoro, ma il suo impegno non viene adeguatamente valorizzato, nasconderà sicuramente delle intenzioni di cambiamento latenti finalizzate a mantenere il suo approccio “professionale” al lavoro. Mediterà di andar via o si impegnerà in progetti che, seppur meno coinvolgenti, non gli faranno correre il rischio di ritenere vano il suo sforzo. Allo stesso modo, se si propone ad un soggetto un ruolo che non lo soddisfa o che ritiene dequalificante, potrebbe stranamente svolgerlo al meglio ed essere motivato ad apprendere il più possibile, soprattutto in modo autonomo, così da evitare i colleghi (anche per un semplice suggerimento), per non correre il rischio di dover parlare del suo lavoro e confrontarsi, deprimendo così, tuttavia, le sue capacità relazionali. L’implicazione della teoria di Festinger è che qualora sia possibile creare un appropriato ammontare di disequilibrio, questo porterà a cambiamenti nei modelli di pensiero dell’individuo, che a loro volta porteranno all’azione e a modifiche comportamentali. Spesso, infatti, può essere utile cercare delle aree di conflitto nel soggetto al fine di creare uno stato di “ansia” o di necessità di soluzione. Per far ciò bisogna far emergere nel soggetto che non aderisce al comportamento richiesto, quella dissonanza che si instaura tra la sua scelta e le possibili utilità che egli, non effettuando la scelta proposta, ha rifiutato. Va da sé che deve trattarsi di un comportamento non problematico, ovvero non deve violare nessun principio o valore della persona, e inoltre bisogna fornirgli dei meccanismi per eliminare la dissonanza in modo definitivo, una volta attivato il comportamento.
Un altro bisogno psicologicamente determinante ai fini della motivazione, è quello di individuare la causa che controlla il destino del soggetto: il locus of control. Questo concetto, elaborato da Rotter , è una dimensione della personalità che riguarda l’attribuzione al sé o meno di risultati ed effetti del proprio agire, la percezione di auto efficacia derivante dal percepirsi come persona capace di scegliere e mettere in atto, di fronte a certe situazioni, i comportamenti più adeguati tra quelli disponibili. Dal punto di vista attribuzionale, il locus of control ha effetti su quella dimensione della motivazione che precedentemente è stata definita come “tendenza al successo”. Caratteristica della tendenza al successo è infatti l’attribuzione del successo all’impegno e alle buone capacità personali (cause personali), e dell’insuccesso a un impegno insufficiente o inadeguato. Rotter, integrando la sua teoria con quella attribuzionista di Weiner, sviluppa la metafora dell’ ”uomo pedina” (vittima di cause sovrastanti e caratterizzato da locus of control esterno) e quella dell’ ”uomo agente” (che assume su di sé anche avvenimenti non riconducibili alla sua sfera di responsabilità e caratterizzato da un locus of control interno). Tra questi due poli si rilevano infiniti gradi intermedi. Nell’attribuire le determinanti del successo o dell’insuccesso, il lavoratore solitamente distingue fra cause interne ed esterne, stabili o instabili, controllabili o non. È quindi una dimensione fondamentale, una volta compreso come agisce nel lavoratore, per orientare in modo corretto le azioni tese allo sviluppo della motivazione. Ad esempio, elevati gradi di formalizzazione dovuti a un forte controllo interno e all’impiego di regole, direttive, procedure, ordini di servizio, possono essere molto frustranti per lavoratori con un forte locus of control interno. Questi, infatti, hanno una maggiore indipendenza, capacità di adattamento e di gestire lo stress, mostrano la necessità di partecipare alle decisioni e controllare l’ambiente esterno. Il risultato sarebbe pertanto una reazione di ostilità che culminerebbe probabilmente nell’abbandono dell’organizzazione. Viceversa, coloro che hanno un forte locus of control esterno, possono invece reagire negativamente nei confronti di un’eccessiva destrutturazione e mancanza di guida, in presenza di delega sugli obiettivi, attività per progetto e azioni tese al coinvolgimento organizzativo. Possono quindi porre resistenza ai tentativi di arricchimento della mansione e aumento dell’autonomia decisionale.
© Analisi dei processi di motivazione nella gestione delle risorse umane – Davide Barbagallo