Modelli Teorici di Riferimento dello Stress sul Lavoro
Modelli Teorici di Riferimento dello Stress sul Lavoro
Negli anni ‘70 si assiste ad un proliferare di ricerche relative allo stress che considerano, in particolare, non solo gli stressors di origine biologica, com’era stato per la maggior parte delle ricerche antecedenti a quegli anni, ma anche e soprattutto il contesto sociale dell’uomo, riconoscendovi uno dei contesti maggiormente in grado di attivare delle risposte di stress.
La psicologia del lavoro si è costantemente confrontata con i temi relativi alla qualità della vita nelle organizzazioni e all’efficienza organizzativa.
L’oggettività economica dell’aspetto che concerne l’efficienza, si è però scontrato con la soggettività psicologica degli studi sulla qualità della vita nell’organizzazione (Favretto, 1994).
La contrapposizione può essere riassunta, nella realtà delle organizzazioni produttive, come il contrasto esistente tra oggettività dei fenomeni tecnico–economici e soggettività dei processi umani.
Nel tempo diversi approcci teorici si sono occupati di dare una definizione al fenomeno stress in rapporto alla dimensione lavorativa. Questi possono essere raggruppati in tre fondamentali macrocategorie: approccio tecnico, fisiologico e psicologico.
Il tipo di approccio che viene adottato ne cambia il punto di vista dal quale partire e, conseguentemente, le modalità di un eventuale intervento.
L’approccio tecnico pone l’attenzione sulle caratteristiche degli stimoli esterni che provengono dall’ambiente e considera lo stress proprio come la caratteristica dello stimolo stesso. Ciò è ben leggibile nell’affermazione di Symonds, (1947, in ISPELS, 2002) “lo stress è ciò che accade all’uomo, non ciò che accade in lui”, che si riferisce espressamente più ad un insieme di cause che di sintomi.
L’approccio fisiologico, invece, focalizza l’attenzione sulla risposta fisiologica che avviene come conseguenza a stimoli ritenuti avversi o dannosi, quando ci si sente da essi minacciati. Si concentra quindi su quei cambiamenti non specifici che avvengono nel sistema biologico anche come conseguenza dell’attivazione di due sistemi neuroendocrini. Da questo punto di vista, sebbene uno dei massimi esponenti di questo approccio sia Selye, è interessante il contributo di Scheuch (in ISPELS, 2002) che definisce lo stress come una “reazione ad uno stato omeostatico disturbato”. Sempre secondo tale approccio, la reazione si svolge in più fasi progressive (allarme, resistenza ed esaurimento) e, quando è ripetuta, intensa e prolungata può portare alle così dette “malattie da adattamento” (concetto apparentemente paradossale ma che sta ed evidenziare come la “scelta” di un vantaggio a breve termine possa condurre ad uno svantaggio a lungo termine), Selye (1955).
Le critiche che sono state maggiormente apportate a tali approcci riguardano la loro non empiricità ed il fatto che non tengono conto delle differenze individuali di natura psicologica e dei processi cognitivi e percettivi.
Da tali critiche nasce l’approccio psicologico (fra i tre il più recente) che considera lo stress come il risultato dell’interazione dinamica tra individuo e ambiente. Due sono i filoni principali di tale approccio: quello Interazionale, che si concentra maggiormente sulle caratteristiche strutturali della suddetta interazione (Individuo-Ambiente), e quello Transazionale, che riguarda invece i meccanismi che stanno alla base di tale interazione.
Sono stati sviluppati diversi modelli teorici, facenti capo ai due approcci, per spiegare in maniera più esaustiva come l’interazione individuo-ambiente producesse degli effetti interessanti nella direzione della qualità della vita lavorativa.
Tra i modelli “interazionali”, il più applicato è quello di Karasek (1979) che basa il suo costrutto su due “doppie” variabili: domanda (alta e bassa), intesa come carico di lavoro e controllo (alto e basso), inteso come “possibilità/autonomia decisionale” e “skill discretion” (ampiezza delle abilità richieste). Secondo il modello di Karasek, queste due variabili (domanda e controllo) danno vita a quattro possibili “situazioni” che possono risultare più o meno stressanti per la persona (ad esempio, la combinazione “alta domanda-basso controllo” che risulta ad alto strain potenziale, mentre la combinazione opposta “alto controllo-bassa domanda” è classificata a basso strain). Tale modello è stato poi ampliato da Johnson (1989), che inserisce la variabile “supporto” (inteso in ambito lavorativo, sia tra colleghi che tra subalterni e superiori) in modo da poter fare da “cuscinetto” fra le altre due. Altro modello interazionale è quello di French (P-E Fit) (1982) che vede lo stress come interazione tra variabili ambientali e caratteristiche rilevanti per la persona. Secondo l’autore, quando la “domanda” è proporzionata alla capacità di risposta, questa sarà adeguata ed armoniosa (in questo caso si parla di “eustress”); in caso contrario, avremo una risposta inadeguatae disadattiva (in questo caso si parla di “distress”). Nei modelli “transazionali”, invece, lo stress è uno stato psicologico negativo riguardante aspetti sia emotivi che cognitivi che stanno alla base delle rappresentazioni interiori della persona. E’ infatti il significato che l’individuo attribuisce alla situazione vissuta e la conseguente valutazione, attraverso diversi gradi di consapevolezza, che faranno la differenza nella risposta che sarà più o meno adattiva.
I modelli transazionali, lasciano intravedere una più diretta relazione tra stress e capacità di coping, nel senso che fanno meglio vedere come l’effetto finale chiamato, appunto, “stress”Ossia sia determinato da:
1) la percezione soggettiva della richiesta,
2) la consapevolezza della situazione e delle proprie capacità di fronteggiamento,
3) le risposte conseguenti.
Tra questi, il modello di Cox e quello di Siegrist (modello ERI, sforzo-ricompensa) (1978) sono i più conosciuti, ed è quest’ultimo ad evidenziare come la motivazione individuale (indicata come fonte di sforzo “intrinseca” in contrapposizione alle richieste del lavoro che ne rappresentano quella “estrinseca”) giochi un ruolo di primo piano nella percezione finale della situazione, e quindi, dello stress percepito. Ovvero, maggiore sarà la motivazione, minore lo stress percepito e vice versa. Nel modello di Cox, invece, è interessante l’importanza che egli da al ruolo della domanda percepita, cioè il modo in cui ogni individuo percepisce la richiesta ambientale. L’insorgenza dello stress, secondo Cox, si verifica quando c’è uno squilibrio, definito imbalance, tra domanda percepita e percezione delle proprie capacità di reagire a essa.
È importante sottolineare che l’imbalance non è tra domanda e capacità, ma tra domanda percepita e capacità percepita. Con questo gli autori vogliono evidenziare (con un forte riferimento alle teorie di Lazarus) quanto sia importante per l’individuo la valutazione cognitiva (cognitive appraisal) della potenziale fonte di stress e della sua capacità di farvi fronte. Ovviamente un modello che considera centrale il ruolo della valutazione cognitiva non può prescindere dal mettere in gioco un ulteriore elemento, cioè che la valutazione cognitiva si basa su una grande varietà di componenti che fanno capo alle differenze individuali. Tali differenze, sono state per lungo tempo attribuite a fattori non modificabili dalla persona (genetica, personalità, ecc.) e per questo motivo tenute in secondo piano. Ma nei nuovi modelli e costrutti della più moderna Positive Psychology viene affermata sempre più copiosamente la possibilità di sviluppare alcune abilità che hanno una diretta relazione con le capacità di coping, quando queste risultino essere non presenti. Tali abilità (cognitive ed emotive), infatti, possono essere sviluppate, quando non presenti, o allenate e migliorate quando già presenti ma non in forma sufficiente a garantire una condizione di benessere psicologico.
Ciò introduce l’importante concetto di trainability (possibilità di una capacità di essere allenata) che approfondiremo nei prossimi articoli insieme ad un approfondimento sulla Psicologia Positiva connessa allo stress e al coping.
Bibliografia
- Cox T. (1987). Stress, coping and problem solving. In Work & Stress,
- Favretto, G. (1994). Lo stress nelle organizzazioni. Il Mulino, Bologna
- French, J., Caplan, R., e Harrison, V. (1982). The Mechanisms of Job Stress and Strain.Chichester, Wiley.
- ISPESL (2002). Lo stress in ambiente di lavoro. Linee guida per i datori di lavoro. ISPESL Roma
- Karasek, R.A. (1979). Job demands, job latitude, and mental strain: Implications for job redesign. Adm Sci Q
- Selye, H., (1955). La sindrome di adattamento. Istituto sieroterapico milanese S. Belfanti, Milano
- Siegrist, J., Starke, D., Chandola, T., Godin, I., Marmot, M., Niedhammer, I., e Peter, R. (2004). The measurement of Effort-Reward Imbalance at work: European comparisons. Social Science & Medicine
© Stress e Soggettività – Francesco De Paola